IL
REGIME
FASCISTA
SOTTO
L'ASPETTO
GIURIDICO
Dopo
l'allargamento
del
suffragio
universale
a
partire
dalle
elezioni
del
1919
e
dopo
il
fallimento
del
"coraggioso"
disegno
politico
pendolare
di
Giolitti,
in
Italia
venne
accettata
come
nuova
forza
politica
il
movimento
fascista,
che
si
presentò
come
restauratrice
dell'ordine
e
dello
Stato,
anche
se,
fin
dall'inizio,
fu
ostile
alla
tradizione
liberale.
Fu
soprattutto
la
borghesia
a
spingere
per
l'affermazione
del
fascismo
in
quanto
rappresentava
l'unico
mezzo
per
sconfiggere
l'affermazione
del
socialismo;
ma
ben
presto
anch'essa
dovette
inchinarsi
davanti
alla
forza
che
essa
stessa
aveva
sostenuto.
LO
SVUOTAMENTO
DELLO
STATUTO
ALBERTINO
Lo
Statuto
albertino,
la
costituzione
concessa
a
popolo
dal
re
del
Regno
Sardo-piemontese,
Carlo
Alberto
nel
1848,
rimase
formalmente
lo
Statuto
della
Monarchia
Italiana
fino
all'atto
di
nascita
della
Repubblica.
Di
fatto,
però,
durante
il
ventennio
del
governo
fascista,
venne
svuotato
sia
di
rilevanza
giuridica
che
di
significato
politico.
Infatti
il
fascismo
modificò
profondamente
l'organizzazione
dello
stato
liberale
e
come
prima
cosa
la
pluralità
di
partiti
venne
sostituita
da
un
regime
a
partito
unico,
il
PNF.
In
questo
modo
il
fascismo
si
poté
impadronire,
prima
dei
posti
di
comando
e,
successivamente,
dello
Stato.
In
pratica,
come
conseguenza
del
predominio
del
partito
sullo
Stato,
l'appartenenza
ad
esso
divenne
requisito
indispensabile
per
l'ammissione
agli
impieghi
pubblici,
per
cui
chi
ne
veniva
espulso
veniva
messo
al
bando
della
stessa
vita
pubblica.
Il
punto
di
partenza
di
tale
trasformazione,
cioè
l'abolizione
delle
garanzie
statutarie,
simulando
il
rispetto
dello
Statuto,
furono
le
leggi
del
1925-'26,
dette
"fascistissime",
ispirate
dal
giurista
Alfredo
Rocco,
con
le
quali
il
capo
del
Governo
fu
reso
responsabile
di
fronte
al
re
e
non
più
di
fronte
al
Parlamento;
quest'ultimo
non
aveva
più
il
potere
di
discutere
alcuna
legge
senza
il
preventivo
consenso
del
Governo,
che
divenne
solo
un
organo
di
collaborazione
del
Presidente
del
Consiglio.
Il
"processo
di
svuotamento"
dello
Statuto
venne
terminato
nel
1939,
quando
la
Camera
dei
Deputati
venne
sostituita
con
la
Camera
dei
Fasci
e
delle
Corporazioni,
che
come
tutti
gli
altri
organi
preesistenti
(re,
Governo
e
Magistratura),
venne
riempita
da
rappresentanti
fascisti.
L'unico
organo
che
invece
si
basava
sempre
su
principi
democratici,
fu
il
Gran
Consiglio
del
Fascismo,
maggiore
organo
collegiale
formato
da
maggiorenti
del
partito,
da
Ministri
e
da
altre
autorità
che
dovevano
pronunciarsi
obbligatoriamente
su
una
certa
serie
di
provvedimenti
legislativi
di
importanza
costituzionale,
trovando
l'approvazione
delle
Camere,
con
il
potere
però
di
bloccare
alcune
iniziative
legislative
che
avrebbero
compromesso
il
regime,
ed
infine
dovevano
prestare
opera
consultiva
allo
stesso
Capo
del
Governo,
nella
direzione
politica
della
Nazione
a
lui
affidata,
con
la
possibilità,
in
alcuni
casi,
di
opporvisi.
UNO
STATO
TOTALITARIO
In
seguito
a
tutte
queste
trasformazioni,
l'unico
organo
che
effettivamente
poteva
decidere
ed
attuare
la
linea
politica
divenne
il
capo
del
Governo
e
cioè
il
capo
del
fascismo.
In
Mussolini
vennero,
così
identificati,
lo
Stato
ed
il
Partito,
creando
una
vera
e
propria
dittatura
fascista.
Il
fascismo,
infatti,
voleva
arrivare
ad
instaurare
uno
stato
totalitario
in
cui,
tutti
i
principi
ed
i
diritti
liberali
venivano
sostituiti
da
doveri
e
le
libertà
dall'autorità
dello
Stato
che
entrava
così
nella
vita
di
ogni
giorno
dei
cittadini
dirigendola
e
uniformandola
ai
fini
dello
Stato
che
sostituì
la
morale
individuale
con
quella
statale
introducendo
sia
lo
Stato
etico
sia
il
conformismo.
Uno
stato
totalitario
comportava,
infatti,
un
completo
controllo
da
parte
dello
Stato
stesso
sulla
società
e
sugli
individui,
penetrando
sempre
più
negli
strati
sociali,
togliendo
ai
cittadini
ogni
aspetto
di
autonomia
e
proponendosi,
oltre
a
controllare
la
vita
politica,
anche
di
manipolare
e
trasformare,
attraverso
l'indottrinamento
ideologico,
la
stessa
coscienza
degli
individui.
Per
cercare
di
realizzare
questo,
il
fascismo
cercò
di
attuare
la
politica
del
corporativismo.
Il
corporativismo
Questa
politica
prevedeva
una
collaborazione
obbligata
tra
le
diverse
classi
sociali
seguendo
la
dottrina
della
divisione
della
società
e
della
loro
collaborazione
a
favore
dello
Stato,
titolare
del
superiore
interesse
alla
produzione
nazionale.
Con
questa
dottrina
il
regime
proponeva
il
superamento
dl
liberalismo,
che
poneva
al
centro
l'individuo,
sia
del
socialismo
marxista,
che
poneva
al
centro
la
lotta
di
classe.
Ora,
il
nuovo
centro
era
rappresentato
dallo
Stato
che
divenne
il
soggetto
economico
più
importante
che
si
avvaleva
di
strumenti
dell'economia
personificati
dai
singoli
cittadini.
Lo
Stato
creò
le
corporazioni
proprio
per
guidare
la
vita
produttiva
e
per
conciliare
e
superare
i
conflitti
sociali
che
potevano
sorgere
sopprimendo
ogni
libertà
politica
e
civile.
In
realtà
il
corporativismo
non
riuscì
mai
a
realizzarsi
a
pieno
in
quanto
non
fu
mai
un
reale
strumento
di
organizzazione
della
società,
i
cui
processi
fondamentali
ebbero
piuttosto
come
protagonisti
gli
enti,
i
centri
di
potere
e
tecnocrati
che
costituivano
quella
amministrazione
parastatale,
sempre
burocratizzata
e
scarsamente
efficiente,
che
il
regime
stesso
volle
creare,
incrementando
il
livello
generale
di
burocrazia
del
paese.
Il
sindacato
fascista
Sempre
in
nome
dell'interesse
nazionale
alla
produzione
vennero
portati
dei
cambiamenti
anche
sul
piano
del
lavoro,
come
per
esempio,
l'abolizione
delle
commissioni
interne
presenti
in
ogni
fabbrica,
cioè
rappresentanze
dei
lavoratori
sindacalizzati
e
dei
sindacati
liberi
(socialisti
e
cattolici)
in
favore
dei
sindacati
fascisti
(uno
dei
lavoratori
e
uno
dei
datori
di
lavoro
per
ogni
settore)
direttamente
controllati
dal
regime.
Dato
che
al
momento
della
loro
introduzione
non
riscossero
molto
successo,
il
fascismo
giunse
ad
un
accordo
tra
questi
e
la
CONFINDUSTRIA,
creando
la
Confederazione
nazionale
fascista
dell'industria.
Nel
1926
questo
accordo
fu
trasformato
in
legge
dando
efficacia
giuridica
ai
soli
contratti
di
lavoro
stipulati
dai
sindacati
fascisti.
In
più,
tutti
i
conflitti
del
lavoro
furono
sanati
da
un
nuovo
organo:
la
Magistratura
de
Lavoro,
con
la
quale
ogni
libertà
dialettica
e
sindacale
fu
soppressa.
Il
lavoro,
quindi
divenne
un
obbligo
e
un
dovere
sociale
e
lo
sciopero
venne
classificato
come
un
delitto
punito
dal
codice
penale
perché
contrario
all'interesse
nazionale;
tutti
gli
interessi
privati
dovevano
essere
subordinati
agli
interessi
superiori
della
produzione.
I
patti
lateranensi
In
seguito
alla
"questione
romana"
sorta
nel
1870,
i
rapporti
tra
Stato
e
Chiesa
si
incrinarono
e
non
furono
mai
buoni.
Per
sanare
i
contrasti
sorti
ed
arrivare
ad
una
conciliazione
tra
i
due
organi,
che
avrebbe
permesso
ai
fascisti
di
acquistare
sempre
maggiori
consensi
anche
tra
i
cattolici
e
quindi
arrivare
ad
una
stabilità
politica,
Mussolini
decise
di
stipulare
con
il
cardinale
Guasparri,
i
cosiddetti
Patti
Lateranensi.
Questi
patti,
stipulati
l'11
febbraio
1929,
prevedevano
oltre
ad
un
trattato,
ad
una
convenzione
finanziaria,
anche
un
concordato
con
il
quale
la
Chiesa
e
lo
Stato
regolavano,
in
accordo,
i
problemi
di
interesse
comune.
Dal
punto
di
vista
politico,
con
questo
accordo
Mussolini
riuscì
ad
ottenere
sempre
più
consensi
tra
i
cattolici
stessi,
ma
dal
punto
di
vista
costituzionale,
il
Concordato
sancì
la
mancata
realizzazione,
da
parte
dello
Stato,
del
proprio
progetto
di
sovranità
assoluta
e
totalitarismo,
in
quanto
c'era
la
possibilità
che,
in
alcuni
casi
e
per
particolari
questioni,
opporsi
ad
esso
e
limitarne
il
potere
decisionale.
Il
nazionalismo
e
la
legislazione
razziale
Un
altro
principio
alla
base
dell'ideologia
fascista
fu
il
nazionalismo,
secondo
cui
l'Italia
doveva
essere
una
nazione
repressiva,
chiusa,
senza
rapporti
con
le
altre
nazioni,
che
doveva
solo
cercare
di
imporsi
su
di
esse
in
modo
da
sottometterle
e
controllarle
aumentando
la
propria
potenza.
Chiaramente
questo
ideale
portò
anche
ad
una
dura
repressione
che
sfociò
in
una
vera
e
propria
persecuzione
di
tutti
quei
cittadini,
appartenenti
soprattutto
alle
minoranze,
definiti
"antinazionali
e
traditori".
Proprio
in
questa
direzione
sono
da
rintracciare
le
leggi
razziali
contro
gli
ebrei
del
1938,
con
le
quali
l'Italia,
in
cui
non
esisteva
una
radicalizzata
tradizione
antisemita,
revocò
il
riconoscimento
legale
alle
comunità
israelite,
obbligò
gli
ebrei
a
denunciare
i
propri
beni
confiscandoglieli..
In
seguito
questi
provvedimenti
furono
resi
sempre
più
duri
da
appositi
decreti
con
i
quali
si
impediva
agli
stessi
ebrei
di
dimorare
nel
regno,
li
si
escludeva
dall'insegnamento
e
dalla
frequenza
nelle
scuole
statali
ed
in
quelle
legalmente
riconosciute,
facendoli
decadere
anche
dal
ruolo
di
membri
delle
Accademie,
degli
istituti
e
delle
associazioni
di
scienze,
lettere
ed
arti.
Le
successive
"Dichiarazioni
sulla
razza"
e
"Carta
sulla
razza"
emanate
dal
Gran
Consiglio
precludevano
agli
ebrei
lo
svolgimento
del
servizio
militare,
delle
attività
legate
alle
professioni
libere,
all'industria,
agli
enti
pubblici
e
privati.
Queste
decisioni,
che
salvarono
soltanto
alcuni
ufficiali
ebrei
vicini
alla
corte,
trovarono
l'appoggio
della
monarchia
ed
ebbero
conseguenze
ed
effetti
gravi,
anche
se
non
furono
devastanti
quanto
quelli
della
legislazione
razziale
nazista
del
1935,
a
cui
Mussolini
si
era
ispirato.
Al
contrario
la
Chiesa
di
Roma,
anche
se
non
pervenne
mai
ad
una
vera
e
propria
condanna,
come
quella
che
si
verificò
per
la
Germania,
prima
con
il
papa
Pio
XI,
poi
con
Pio
XII,
per
i
suoi
principi
e
per
la
sua
morale
si
oppose
a
queste
leggi,
intervenendo
più
volte
con
discorsi
ed
azioni
diplomatiche
presso
lo
stesso
Governo
fascista
per
manifestare
la
propria
condanna
di
qualsiasi
forma
di
razzismo,
incrinando
nuovamente
quei
rapporti
che
erano
stati
sanati
nel
1929
con
i
Patti
Lateranensi.
Il
nuovo
sistema
elettorale
Dal
punto
di
vista
strettamente
politico,
il
regime
modificò
il
sistema
elettorale
trasformando
il
sistema
proporzionale
presente
nel
1919
in
un
sistema,
del
1938,
in
cui
il
cittadino
poteva
solamente
dire
si
o
no
ad
una
lista
di
400
candidati
designati
dagli
organi
supremi
del
regime,
passando
attraverso
una
legge,
della
"legge
Acerbo"
(dal
nome
del
sottosegretario
che
la
redasse),
basata
sul
principio
maggioritario,
per
il
quale
alla
lista
che
otteneva
la
maggioranza
dei
voti
venivano
assegnati
i
due
terzi
dei
seggi.
Grazie
alle
violenze
e
ai
soprusi
compiuti
durante
il
periodo
elettorale,
il
fascismo
riuscì
ad
ottenere
dei
plebisciti
in
cui
il
Parlamento
con
esso
nominato,
non
assunse
alcun
valore
di
libera
espressione
democratica.
Con
la
nuova
legge
elettorale,
che
sembrava
avere
più
di
un
carattere
strettamente
referendario,
in
quanto
i
candidati
venivano
eletti
attraverso
un
"si"
od
un
"no",
ogni
libera
espressione
democratica
e
ogni
libertà
politica
vennero
abolite,
sintomo
di
un
sempre
maggiore
potere
assoluto
di
cui
Mussolini
si
impadroniva.
DALLA
CADUTA
DEL
FASCISMO
AI
PRINCIPI
COSTITUZIONALI
Con
la
caduta
del
fascismo,
avvenuta
il
25/7/1943,
si
aprì
una
nuova
fase
in
cui
le
cose
cambiarono.
Le
diverse
forze
politiche
antifasciste
che
fino
a
quel
momento
non
poterono
farsi
sentire,
riuscirono
ad
affacciarsi
sulla
scena
politica,
dando
una
mano
nella
fondazione
di
uno
Stato
Democratico,
che
trovò
la
propria
definizione
giuridica
nell'entrata
in
vigore
della
Costituzione
il
primo
gennaio
1948.
Questa
legge
fondamentale
dello
Stato
nacque
da
un
compromesso
costituzionale,
cioè
da
un
contratto
a
carattere
politico
in
cui
le
diverse
forze
rinunciarono
reciprocamente
a
qualcosa
per
arrivare
ad
un
accordo
finale.
La
Costituzione
fu
la
legge
che
ribaltò
i
principi
fascisti
in
favore
del
ritorno
ai
principi
liberali,
con
i
quali
in
particolare,
sono
stati
riconosciuti
sia
il
valore
della
persona
come
fine
e
valore
fondamentale
dello
Stato,
mettendo
quest'ultimo
al
servizio
dei
diritti
delle
persone,
sia
le
comunità
sociali
e
il
pluralismo
con
i
quali
è
stata
data
la
possibilità
alle
persone
di
unirsi
in
"comunità"
autonome
e
protette
dalla
Costituzione,
con
capacità
di
perseguire
i
propri
interessi
in
piena
libertà
armonizzandosi
però
nella
vita
nazionale.
In
particolare,
con
il
pluralismo
si
è
evitato
che
tutti
i
poteri
si
concentrassero
in
un'unica
organizzazione,
per
distribuirli
tra
un'organizzazione
principale
ed
altre
con
essa
coordinate,
ognuna
corrispondente
alle
diverse
comunità
di
cui
i
singoli
fanno
parte.
Con
il
compromesso
costituzionale,
ed
in
particolare
con
l'entrata
in
vigore,
qualche
anno
più
tarsi,
della
Costituzione,
si
è
passati,
dunque,
da
no
stato
totalitario,
in
cui
tutti
i
diritti
civili,
politici
ed
economici
erano
stati
soppressi,
ad
uno
stato
sociale,
cioè
una
stato
che
riconosce
i
diversi
gruppi
sociali
rispettando
sempre
il
compito
di
giustizia
e
ponendo
sempre
come
propria
la
finalità
di
realizzare
il
benessere
e
l'uguaglianza
sostanziale
dei
cittadini.
Basandosi
su
questo
compromesso,
la
Costituzione
è
stata
fondata
su
alcuni
principi
fondamentali
come:
·
DEMOCRAZIA
COMPETITIVA:
secondo
cui
la
sovranità
appartiene
al
popolo
ed
in
particolare
il
potere
politico
deriva
da
una
libera
competizione
tra
tutte
le
componenti
sociali.
In
questo
modo
tutte
le
decisioni
riguardanti
la
collettività
vengono
prese
come
con
il
consenso
degli
appartenenti
alla
comunità
sociale,
nel
cui
ambito
devono
operare
tenendo
conto
delle
aspirazioni
e
dei
progetti
dei
diretti
interessati.
L'unico
limite
per
il
potere
del
popolo
è
che
questo
va
esercitato
nei
limiti
e
nelle
forme
previste
dalla
Costituzione,
derivanti
per
esempio
dalla
rigidità
della
stessa
e
dalla
giustizia
costituzionale.
·
LIBERTA'
DEI
SINGOLI:
è
il
presupposto
della
democrazia
che
si
rifà
al
"pluralismo
ideologico",
secondo
cui
ogni
cittadino
può
essere
se
stesso
e
differenziarsi
dagli
altri.
I
tipici
diritti
di
libertà
sono
quelli
riguardanti
l'aspetto
fisico
(libertà
personale)
e
spirituale
dell'uomo
(libertà
di
coscienza,
fede,
ecc.)
riconosciuti
in
modo
assoluto,
e
quelli
inerenti
l'aspetto
materiale
(libertà
economiche
di
proprietà
privata
e
di
iniziativa
economica)
riconosciute
solo
se
subordinate
all'interesse
generale.
La
Costituzione
però,
oltre
che
riconoscere
dei
diritti,
impone
ai
cittadini
di
adempiere
ai
"doveri
inderogabili
di
solidarietà
politica,
economica
e
sociale",
che
si
riferiscono
al
dovere
che,
per
esempio,
ogni
singolo
cittadino
ha
di
istruirsi
per
sviluppare
la
propria
personalità
sia
per
se
stesso
sia
per
potersi
rendere
utile
alla
società;
di
svolgere,
secondo
le
proprie
possibilità
e
scelte,
un'attività
o
funzione
che
per
concorrere
al
progresso
materiale
e
spirituale
della
società;
di
essere
fedeli
alla
Repubblica
e
di
osservare
la
Costituzione.
·
GIUSTIZIA:
principio
secondo
il
quale
lo
Stato
attraverso
apposite
norme
cerca
di
ridurre
le
differenze
economico
-
sociali
tra
le
diverse
categorie
dei
cittadini
per
permettere
a
tutti
di
usare
nella
stessa
misura
i
propri
diritti
e
di
vivere
una
vita
quantomeno
dignitosa.
Questo
principio
si
collega
a
quello
di
uguaglianza
formale
e
sostanziale.
·
UGUAGLIANZA
FORMALE
E
SOSTANZIALE:
la
prima
riconosce
che
la
legge
è
uguale
per
tutti
e
quindi
sono
vietati
i
trattamenti
di
favore
o
di
sfavore
da
parte
della
stessa
pubblica
amministrazione
che,
come
un
giudice
durante
un
processo,
deve
essere
indipendente
e
neutrale.
Oggi,
infatti,
sono
vietate
tutte
le
discriminazioni
legate
al
sesso,
alla
razza,
alla
lingua,
alla
religione,
alle
opinioni
politiche
e
alle
condizioni
personali
e
sociali
in
cui
il
cittadino
vive;
questo
principio
rovescia
chiaramente
la
volontà,
propria
del
fascismo,
di
discriminare
e
di
eliminare
fisicamente
una
minoranza,
come
quella
ebraica.
L'uguaglianza
sostanziale,
rifacendosi
all'idea
di
Stato
sociale,
prevede
che
le
situazioni
uguali
devono
essere
trattate
in
modo
uguale
e
quelle
diverse
in
modo
diverso,
in
modo
da
poter
correggere
le
disuguaglianze
i
fatto
derivanti
dalle
ingiustizie
del
passato
e
cause
naturali.