Faccetta nero-iprite
L'Etiopia accusa l'Italia di "grave reticenza sui depositi di armi chimiche" lasciate dall'esercito italiano durante l'occupazione coloniale fascista. La Farnesina smentisce ma offre "piena collaborazione" E. GIO.

U n fantasma riemerge dal passato. A metà degli anni trenta, quando l'Italia sbarcò da conquistatrice nel Corno d'Africa, utilizzò gas all'iprite per vincere la guerra contro l'Etiopia. Il governo italiano ci mise oltre sessant'anni ad ammetterlo. Un'ammissione tardiva che arrivò grazie al coraggio di alcuni storici e alle rivelazioni sui famosi telegrammi, con cui i generali delle armate dell'Impero scrivevano a Mussolini con quali ottimi risultati avevano utilizzato le armi chimiche.
Dall'ammissione di quella realtà negata per anni si passa però adesso a una scomoda verità attuale e che riguarda l'infelice eredità dell'epoca fascista: secondo Addis Abeba infatti, l'Italia nasconderebbe la verità sui depositi di armi chimiche ancora presenti sul suolo etiopico. Roma - dicono in Etiopia - avrebbe infranto le norme internazionali rifiutandosi di rivelare la dislocazione dei depositi segreti costruiti durante l'occupazione fascista. Un comunicato del dipartimento governativo per la promozione della Convenzione sulle armi chimiche (citato dall'agenzia Reuters) afferma che, proprio in base a questo trattato, "l'Italia ha la responsabilità di informare le autorità internazionali competenti sui luoghi nei quali sono sepolte le armi e di disinnescarle per poi eliminarle". Ma, secondo Addis Abeba, tutti gli sforzi da parte etiopica di convincere l'Italia sarebbero risultati vani. La settimana scorsa, operai impegnati nell'ampliamento di una scuola ad Amba-Alagi nel Tigrai, avrebbero scoperto - secondo alcuni organi di stampa - 775 proiettili di cannone, 249 caricatori, 327 granate e altro materiale bellico italiano; i lavori sarebbero però stati sospesi per il timore che si potesse trattare di armi chimiche.
La Farnesina - sentita direttamente da il manifesto - nega la reticenza sulle informazioni per l'eventuale localizzazione di depositi di armi chimiche risalenti al periodo '35-'36 e il ministero degli Esteri precisa di aver già risposto all'Etiopia che "sulla base delle informazioni fornite dal Ministero della Difesa non risulta che al termine della guerra fossero stati lasciati nel paese depositi di tali armi". In quell'occasione "furono fornite alla parte etiopica indicazioni circa le localizzazioni dei depositi evacuati alla fine della guerra". La Farnesina precisa inoltre di essersi sempre "resa disponibile a fornire ogni utile assistenza per la verifica di eventuali rinvenimenti di proiettili di artiglieria o bombe rimasti inesplosi, dei quali possa essere sospettata la natura di arma chimica, nonché per la loro successiva distruzione". Inoltre l'Italia si dice pronta a "inviare una missione tecnica per le opportune ricognizioni e l'eventuale distruzione di quanto rinvenuto".
La vicenda riporta a galla una vicenda su cui si pensava fosse stata scritta l'ultima parola. Ma, come spiega nell'intervista a lato lo storico Angelo Del Boca (fu lui a pubblicare sul Giorno negli anni '60 i primi telegrammi di Mussolini), il problema della fine di quel materiale è tuttora un punto interrogativo.
La stampa etiopica sostiene che, in qualche modo, l'Italia sia stata reticente per una faccenda di soldi: un costo di 100-150 milioni di dollari da sborsare per rimuovere e far sparire la scomoda eredità di quell'avventura. Sostiene inoltre, incorrendo in un errore (forse dovuto a un refuso) che l'Italia avrebbe trasportato in Corno d'Africa 80mila tonnellate di armi chimiche, il che non corrisponde a verità. Tra iprite ed arsine vennero inviate, tra Eritrea e Somalia, 700 tonnellate iniziali cui se ne aggiunsero altre 50 tonnellate. Ma non tutte furono utilizzate e al 30 ottobre del 1939 risultavano stoccate in A.O. dall'aeronautica militare del Duce 2775 bombe c500t, le più micidiali. Portavano un carico o di 500 chili di iprite ciascuna.