La peste dei poveri
A 20 anni dalla scoperta del virus, con l'Hiv si può convivere. Ma soltanto nei Paesi ricchi. In Africa i contagiati sono 25 milioni. E i farmaci costano troppo. Chi se li può permettere, invece, non sempre li prende. di Liliana di Donato e Matteo Gamba |
MILANO
-
Oggi
con
l’Aids
si
va
a
scuola,
si
va
al
lavoro,
si
possono
perfino
fare
programmi
per
il
futuro.
Con
l’aiuto
dei
farmaci
si
può
sperare
anche
di
vivere
altri
venti
o
trent’anni.
Soltanto
nel
Nord
del
mondo,
però,
nei
Paesi
più
ricchi
che
possono
permettersi
medicine
e
ricerca.
In
Africa
no.
Qui
l’Aids
continua
a
regnare,
mietendo
più
vittime
della
famosa
“peste
nera”
del
XIV
secolo.
Perché
l’Hiv,
a
vent’anni
dalla
sua
scoperta
(il
5
giugno
1981,
su
cinque
omosessuali
di
Atlanta,
negli
Stati
Uniti),
si
è
trasformato,
proprio
come
è
capace
di
fare
continuamente
nel
corpo
umano,
rendendo
la
vita
impossibile
ad
anticorpi
e
ricercatori.
Da
morbo
“dei
gay
e
dei
drogati”,
a
“peste
del
Millennio”
capace
di
colpire
e
uccidere
tutti
senza
distinzioni,
Rock
Hudson
come
Rudolf
Nureyev,
oggi
è
diventato
la
“malattia
dei
poveri
del
mondo”,
di
quei
Paesi
che
non
possono
permettersi
le
nuove
cure
antiretrovirali,
che
dal
1996
hanno
iniziato
a
far
diminuire
costantemente
il
numero
dei
morti.
Che
comunque
anche
l’anno
scorso
hanno
toccato
quota
tre
milioni:
come
se
Roma
scomparisse
d’improvviso,
falcidiata
tutta
da
un
unico
virus.
Un continente che scompare. Bastano due dati: su 36 milioni di persone che hanno l’Hiv, 25 milioni sono africani (l’8,8% della popolazione maggiorenne, contro lo 0,24% dei Paesi europei). Dei morti per Aids, poi, il 95% viene dai Paesi in via di sviluppo. Si tratta, ovviamente di medie, i picchi di contagio sono da brivido: nello Stato del Botswana, confinante con il Sudafrica, il 35,8% degli adulti è sieropositivo. |
Il
virus,
del
resto,
si
è
diffuso
per
la
prima
volta
proprio
in
Africa,
dunque
l’epidemia
ha
avuto
più
tempo
per
diffondersi
e
diventare
più
virulenta.
Un
dato
che,
anche
con
l’aggiunta
dello
storico
ritardo
dei
Paesi
africani
nella
campagna
di
prevenzione
e
informazione,
non
basta
però
a
spiegare
la
strage
continua,
Nell’Africa
subsahariana,
dove
l’Aids
è
la
prima
causa
di
morte
(la
quarta
nel
mondo),
i
nuovi
farmaci,
capaci
di
innalzare
l’aspettativa
di
vita
di
5
volte,
non
sono
mai
arrivati.
Perchè?
Semplicemente
perché
costano
troppo:
15
milioni
per
ogni
malato,
quando
uno
Stato
di
questa
parte
del
mondo
può
al
massimo
permettersi
cifre
che
vanno
nell’ordine
delle
poche
migliaia
di
lire
per
paziente.
E
la
tragedia
che
si
riversa
soprattutto
sui
più
piccoli:
su
5
milioni
di
bambini
ammalati,
3
milioni
e
800
mila
vivono
nell’Africa
subsahariana.
Con
i
nuovi
farmaci
la
trasmissione
madre-neonato
verrebbe
ridotta
al
10%
dei
casi.
Portarli
alle
madri
africane
era
la
preghiera
continua
del
piccolo
Nkosi,
il
bambino
sudafricano
di
12
anni,
diventato
simbolo
della
lotta
all’Aids,
che
interveniva
con
la
sua
voce
flebile
a
tutti
i
principali
congressi
del
mondo.
Venerdì
l’Hiv
l’ha
spenta.
L’Aids non è morto. La malattia comunque non è stata sconfitta nemmeno nel ricco Nord. Non esiste una cura: i farmaci antiretrovirali, pur eccezionali nel prolungare e migliorare la vita delle persone infette, non hanno mai fatto guarire nessuno. |
Anche
per
un
vaccino
si
dovranno
aspettare
almeno
10
anni.
Se
i
morti
poi
in
America
e
in
Europa
diminuiscono
costantemente
(in
Italia,
dove
ci
sono
16
mila
sieropositivi,
nel
2000
i
decessi
sono
stati
800
contro
i
circa
4000
del
1996),
i
contagi
sono
invece
stabili
e
viaggiano
al
ritmo
di
1000
al
minuto,
5
milioni
in
un
anno.
Una
malattia
che
dal
1981
a
oggi
ha
fatto
morire
21
milioni
di
persone
e
ne
ha
contagiati
60.
Soltanto
negli
Stati
Uniti,
con
440
mila
vittime,
l’Aids
ne
ha
uccise
di
più
della
prima
e
della
seconda
guerra
mondiale
messe
insieme.
Il
rischio,
vent’anni
dopo
la
scoperta
dei
primi
5
casi
di
Atlanta,
è,
però,
proprio
quello
di
dare
l’Hiv
già
come
sconfitto,
grazie
ai
farmaci.
Dopo
la
“grande
paura”
in
Occidente
si
vive
un
clima
di
maggiore
rilassatezza:
“Si
sopravvive”,
si
dice,
e
le
precauzioni
e
la
prevenzione
iniziano
a
diminuire.
Soprattutto
tra
i
giovani.
La
malattia
degli
anni
80,
del
reflusso,
che
ha
cambiato
e
“morigerato”
i
costumi
sessuali
(il
virus,
dopo
l’iniziale
epidemia
tra
i
tossicodipendenti
a
causa
dello
scambio
di
siringhe
infette,
si
trasmette
nell’80%
dei
casi
per
via
sessuale),
sembra
avere
concesso
una
pausa.
Chi
non
separa
la
prevenzione,
per
la
quale
è
più
che
sufficiente
l’uso
del
preservativo,
dalle
censure
dei
costumi
rischia
così
l’abbaglio
di
saltare
anche
le
più
semplici
regole
di
profilassi.
Senza
contare
che,
molto
spesso,
anche
chi
è
in
cura
non
segue
con
attenzione
la
terapia.
E
basta
saltare
qualche
compressa
per
renderla
del
tutto
ineffiace.
Non solo: anche per le case farmaceutiche non è più un affare. La Svezia, l’Olanda e la Gran Bretagna (nonostante il 2000 abbia segnato il record delle infezioni nel Regno Unito) hanno già iniziato a tagliare i fondi per la ricerca. Con l’inevitabile rischio di recrudescenza della malattia (previsto già dagli esperti) per i Paesi più sviluppati, dove i farmaci iniziano tra l’altro a dare anche qualche complicazione. |
Con
l’incubo
di
essere
abbandonati
a
se
stessi
per
quelli
“meno
sviluppati”,
che
da
sempre
non
rappresentano
un
grosso
affare
per
i
grandi
trust
delle
medicine
(vedi
il
caso
di
Big
Pharma,
e
la
lotta
che
il
Sudafrica
ha
dovuto
affrontare
soltanto
per
ottenere
soltanto
uno
“sconto”
sul
prezzo
delle
cure
anti-Aids).
Che
fare?
Innanzitutto
non
abbassare
la
guardia
su
prevenzione
e
informazione,
farsene,
anzi,
promotori
anche
dove
non
sono
mai
state
fatte
campagne
efficaci.
Cercando
di
diffondere
sempre
più
il
test
Elisa,
gratuito,
sulla
sieropositività,
visto
che
nella
metà
dei
casi
la
malattia
viene
ancora
scoperta
solo
al
comparire
dei
primi
sintomi
dell’Aids
conclamato,
quando
magari
in
10
anni
di
sieropositività
inconsapevole
sono
già
state
infettate
molte
altre
persone,
partner
compresi.
Con
le
differenze
del
caso:
se
in
Africa
il
canale
principale
della
diffusione
è
quello
dei
rapporti
eterosessuali,
in
Europa,
è
ancora
quello
iniziale:
i
rapporti
tra
uomini
e
lo
scambio
di
siringhe
tra
i
tossicodipendenti.
Ma,
come
spesso
accade,
la
questione
alla
fine
è
soprattutto
economica
e,
come
sempre,
è
nelle
mani
dei
Paesi
più
ricchi.
Servono
soldi
e
investimenti
immediati
soprattutto
in
Africa.
Se però i Paesi del Continente nero sono indubbiamente in ritardo, anche l’Onu non scherza. Il Consiglio di sicurezza ha affrontato per la prima volta il tema Aids nel 2000. |
Ad aprile il segretario Kofi Annan ha finalmente lanciato la sua proposta: creare un Fondo comune internazionale per la lotta al virus di almeno 7 milioni di dollari (circa 14 mila miliardi di lire), finanziato da tutti e gestito da manager. Tra il 25 e il 27 giugno, in una sessione speciale, al Palazzo di vetro di New York il progetto dovrebbe uscire dal limbo delle buone intenzioni. Ma, quando si parla di soldi, si sa, bisogna comunque bussare alla porta dei Grandi: decisivo, nel concreto degli investimenti (che dovranno essere molto ingenti se si vuole garantire davvero a tutte le persone del mondo l’accesso gratuito alle medicine anti-Aids), risulterà, quindi, il vertice degli otto Paesi più industrializzati di Genova del 20 luglio. Anche a questo potrebbe, o dovrebbe, servire un G8.