I paradossi della Lega
Bossi
che
abbraccia
e
bacia
il
"mafioso
di
Arcore
"
e
il
"fascista"
Fini.
Berlusconi
che,
rievocando
i
suggerimenti
della
mamma
in
puro
dialetto
lombardo,
cerca
il
suggello
definitivo
per
un'alleanza
definita
"invincibile".
Fini
che
riceve
fischi
ma
anche
molti
applausi
parlando
delle
virtù
della
"gens
italica".
Ministri
leghisti
che
celebrano
ed
esaltano
i
risultati
della
propria
azione
nel
governo
di
centrodestra.
Una
base
che
esprime
malumori
e
insofferenze,
ma
poi
segue
fedele
e
entusiasta
la
via
tracciata
dal
suo
leader.
Queste
le
immagini
e
le
suggestioni
più
dense
di
emozioni
e
significati
che
restano
nella
memoria
dopo
il
quarto
congresso
del
partito
di
Umberto
Bossi.
Insieme
a
molti
interrogativi.
La
Lega
al
governo
è
radicalmente
cambiata
rispetto
a
quella
che
ha
destabilizzato
l'Italia
settentrionale
negli
anni
novanta?
E,
soprattutto,
come
si
può
spiegare
in
modo
non
banale
il
paradosso
di
un
partito
che
mentre
annuncia
la
realizzazione
ormai
prossima
dei
suoi
obiettivi
storici,
fatica
a
fronteggiare
una
profonda
crisi
di
rappresentanza?
Contro
l'opinione
diffusa
fra
i
commentatori,
credo
sia
sostanzialmente
corretta
l'insistenza
di
Bossi
sulla
continuità
della
politica
attuale
della
Lega
rispetto
al
progetto
originario.
La
domanda
di
autonomia
rispetto
ai
poteri
centrali,
l'antipolitica,
l'etnocentrismo
-
che
hanno
formato
l'identità
profonda
del
partito
-
sono
stati
sempre
riconfermati,
con
riformulazioni
via
via
aggiornate.
La
domanda
di
autonomia
riguardava
prima
la
Lombardia,
e
le
altre
regioni
del
nord.
Poi
la
Padania,
e
la
sua
indipendenza.
E
ora
si
estende
all'Italia,
di
fronte
all'Europa.
L'etnocentrismo
prima
espresso
contro
i
meridionali,
poi
contro
gli
immigrati
extracomunitari,
prende
oggi
forme
più
vicine
al
razzismo
con
le
campagne
per
la
promozione
della
natalità
italica.
L'antipolitica
alle
origini
si
esprimeva
nella
protesta
populista
contro
Roma
e
il
ceto
politico
italiano.
Ora
si
indirizza
contro
i
burocrati
di
Bruxelles
e
i
banchieri
di
Francoforte.
E
contro
i
"comunisti",
assunti
come
rappresentanti
dell'intollerabile
ingerenza
della
politica
nella
vita
dei
popoli.
Il
partito
di
Bossi
può
mantenere
una
coerenza
con
l'identità
originaria
finché
riesce
a
proporre
un
combinazione
convincente
di
queste
tre
componenti
per
mobilitare
simpatizzanti
ed
elettori.
La
crisi
di
rappresentanza
e
di
radicamento
sociale
della
Lega
non
dipende
d'altra
parte
dalla
partecipazione
al
governo
Berlusconi.
La
crisi
ha
ragioni
più
profonde
ed
ha
preceduto
la
nuova
alleanza
con
il
centrodestra.
La
Lega
era
cresciuta
nella
prima
metà
degli
anni
novanta
come
il
principale
imprenditore
politico
della
questione
settentrionale,
fino
a
diventare
nel
1996
il
partito
più
votato
dell'Italia
settentrionale.
L'isolamento
politico
e
le
difficoltà
di
ottenere
una
realizzazione
concreta,
anche
se
parziale,
dei
propri
obiettivi
indebolirono
il
Carroccio,
che
vide
dimezzare
i
propri
voti
nelle
elezioni
europee
del
1999.
La
crisi
leghista
aveva
alla
base
la
divaricazione
crescente
delle
domande,
degli
interessi
e
dei
ceti
sociali
che
avevano
alimentato
la
questione
settentrionale.
I
piccoli
imprenditori
e
la
protesta
fiscale
trovavano
una
rappresentanza
più
affidabile
in
Forza
Italia.
Gli
operai
del
nord
che
avevano
cercato
un
nuova
rappresentanza
politica
nel
partito
di
Bossi,
apparivano
disorientati,
più
sensibili
alle
promesse
di
Berlusconi
o
in
bilico
fra
protesta
e
rassegnazione.
Le
domande
espresse
dai
nuovi
ceti
medi
(i
"ceti
medi
riflessivi"
di
cui
parla
Ginsborg)
ricercavano
altre
forme
di
rappresentanza
per
le
domande
di
partecipazione
democratica
e
tutela
della
legalità.
La
crisi
spingeva
Bossi
a
ricercare
una
nuova
alleanza
con
Berlusconi,
scambiando
il
sostegno
dei
voti
leghisti
per
garantire
la
vittoria
del
centrodestra,
con
impegni
precisi
sul
terreno
della
devolution
e
dell'immigrazione.
Il
declino
elettorale
leghista
però
non
si
arrestava.
Il
partito
perdeva
consensi
tra
gli
elettori
più
radicali,
che
votavano
per
le
piccole
formazioni
autonomiste
o
si
astenevano,
e
nelle
aree
più
moderate,
attratte
da
Forza
Italia.
La
Lega
è
oggi
troppo
debole
e
non
può
sperare
di
modificare
radicalmente
con
la
sua
iniziativa
il
quadro
politico
come
fece
nel
1994.
Bossi
ha
scelto
una
linea
di
lealtà
rispetto
alla
coalizione
di
governo.
E
d'altra
parte,
è
interesse
di
Berlusconi
mantenere
compatta
la
coalizione,
garantendo
un
spazio
e
un
certo
ruolo
alla
Lega,
e
favorendo
la
circolazione
e
la
contaminazione
delle
idee
e
degli
stili
di
azione
di
soggetti
politici
inizialmente
molto
differenziati.
Se
la
coalizione
di
centrodestra
che
governa
oggi
l'Italia
è
radicalmente
diversa
da
tutte
quelle
del
secondo
dopoguerra,
il
merito
(o
la
colpa,
a
seconda
dei
punti
di
vista)
è
però
soprattutto
dalla
Lega,
che
ha
saputo
politicizzare
e
dare
una
rappresentanza,
diretta
e
talvolta
brutale,
ad
umori,
tensioni,
egoismi,
paure
e
rancori
diffusi
nella
società.
Si
è
affermato
così
uno
stile
di
governo
di
tipo
populista
-
una
"politica
dell'antipolitica"
-
che
ignora
e
deride
le
mediazioni
che
in
passato
offrivano
le
culture
politiche
tradizionali
(democristiane,
comuniste,
socialiste
e,
in
senso
lato,
liberal-democratiche).
In
un
certo
senso,
si
può
dire
che
la
Lega
Nord
ha
vinto
perché
i
suoi
temi
sono
stati
assunti
anche
da
altri
attori
politici
e
negli
ultimi
anni
hanno
fortemente
condizionato
la
vita
politica
italiana.
Il
Carroccio
non
detiene
però
più
il
monopolio
sui
suoi
temi
tradizionali,
e
di
conseguenza
il
suo
spazio
elettorale
si
è
ristretto.
Si
arriva
così
al
paradosso
di
una
partito
che
rischia
la
dissoluzione
nel
momento
in
cui
i
suoi
obiettivi
si
avviano
alla
realizzazione,
e
le
sue
proposte,
il
suo
linguaggio
e
il
suo
stile
politico
assumono
un
peso
crescente
nella
coalizione
di
centrodestra.
La
Lega
cerca
perciò
di
ampliare
il
suo
spazio
politico
qualificandosi
come
la
componente
più
estrema,
intransigente
e
combattiva
della
coalizione,
soprattutto
sui
temi
dell'immigrazione,
della
lotta
alla
criminalità
e
dei
limiti
posti
all'integrazione
europea.