Relazione di Bertinotti

 

LA SVOLTA A SINISTRA

Due grandi correnti attraversano il mondo del nostro tempo, due onde lunghe destinate a segnare il futuro dell'umanità, del lavoro e della vita. Esse vanno in direzioni opposte. L'una è una corrente fredda, parla il linguaggio della competitività, del primato del mercato e delle merci, dell'economia, del dominio e della guerra. L'altra è una corrente calda che parla le lingue dei popoli, di un altro mondo possibile, della critica dell'economia e della pace. Il nostro destino individuale e collettivo dipende da quale delle due prevarrà. La globalizzazione capitalistica ha cambiato marcia e passo ed è sempre più attraversata dalle crisi che essa stessa genera e alimenta. Al neoliberismo si affianca la guerra, cosicché ora essa cammina, instabilmente, su queste due gambe. Ma proprio contro il neoliberismo e la guerra è nato ed è cresciuto nel mondo un movimento inedito e straordinario. Il popolo di Seattle è diventato il movimento dei movimenti, in esso e accanto ad esso sono cresciute lotte, resistenze, opposizioni, nuove esperienze sociali e con esso ha preso corpo una critica diffusa e diversificata a questa globalizzazione. Le due correnti si contrastano come tendenze, entrano in conflitti significativi, ma la prima continua ad essere dominante e la seconda, quella delle contestazione e della critica, non riesce ancora a bloccarla e metterla in crisi e a produrre alternative di società su larga scala, cioè ad invertire la tendenza generale. Qui nasce il problema politico che ci stiamo ponendo. Ce lo poniamo e acutamente, perché vediamo in questa realtà il ripresentarsi di una grande occasione per la trasformazione della società, ma anche un rischio grave, quello che la globalizzazione capitalistica dia corpo alle sue vocazioni distruttive. E' il problema della costruzione, in rapporto con lo sviluppo del movimento, di un nuovo progetto politico capace di vivere già nel tempo proposto dallo scontro in atto e capace di guadagnare già lo spazio, l'Europa e il mondo, necessario per vincere la sfida. E' il problema di come costruire la potenza critica e la massa critica capaci di restituire efficacia alla politica dell'alternativa e della trasformazione. Il progetto politico nasce dalla nostra critica classista alla globalizzazione capitalistica e dall'esperienza del movimento. Esso si propone di costruire nella società, in Italia e in Europa, un' alternativa di modello sociale e di democrazia, che può diventare anche alternativa di governo, fondata sulla duplice discriminante del no alla guerra e alle politiche neo-liberiste. E, contestualmente, si propone di rifondare la politica, dopo che essa è stata devastata dall'omologazione e dal pensiero unico del mercato, a partire dalla ripresa della sua ambizione più alta, quella di cambiare la società esistente, di trasformare la società capitalistica. La crisi della politica non è infatti solo la somma delle tante ragioni contingenti e nazionali; essa è più di fondo e deriva dall'abbandono proprio dell'idea di rivoluzione. Aveva ragione Franco Rodano, nel lontano 1969, a dire che "l'idea di rivoluzione è necessaria e discriminante per il discorso politico" e a vedere come il discorso non fondato sul concetto di rivoluzione non possa essere sufficientemente distinto e autonomo e tenda quindi ad essere riassorbito in tematiche di diversa natura. E ciò che è accaduto in questi ultimi 20 anni. Perciò il ritorno a Marx, per la rinascita della politica. Sulla sua tomba Engels ricordava agli amici come Marx non fosse essenzialmente un economista o un filosofo, ma fosse anche tale, in quanto era soprattutto un rivoluzionario. Se la sua è, com'è, la massima formulazione storica dell'idea di rivoluzione, si tratta di ritornarvi per andare oltre, cogliendo le nuove contraddizioni del capitalismo di oggi, incontrando le nuove soggettività e i nuovi pensieri critici, per collocarsi, con una teoria e una pratica critica adeguata, sul terreno della contemporaneità. Non ci ha mosso, in questa ricerca, un'istanza astratta, ci ha condotto qui la nostra esperienza. Siamo tornati a riflettere sul processo rivoluzionario, fuori da ogni tentazione giacobina e lontani da ogni suggestione crollista, perché ne vediamo la necessità guardando alla crisi di civiltà che questa modernizzazione capitalistica produce e ne vediamo la possibilità alla luce della rinascita di un movimento che pretende un diverso futuro. Il provocatorio incipit del documento con quale abbiamo effettuato il, per noi importantissimo, confronto con amici e compagni esterni al PRC ma interessati al nostro discorso, prima del congresso, ha questo senso, indica un campo di ricerca e di lotte sovraordinatore di tutta la nostra politica, quello di tornare ad indagare la categoria della rivoluzione e il processo rivoluzionario. Solo così si capisce la svolta di questo congresso, il coraggio anche rischioso dell'innovazione, la durezza, anche dolorosa delle rotture. Le compiamo perché sono necessarie per riprendere il cammino, per delineare,al contrario di tutti i revisionismi degli ultimi 20 anni, una riforma della politica che configuri un'uscita da sinistra dalla sconfitta del '900 e dalla crisi del movimento operaio e che torni ad assegnare al movimento e, in esso, ai comunisti un compito storico, la creazione di un nuovo movimento operaio. La crisi su scala mondiale del centro-sinistra, cioè dell'ultimo tentativo riformistico, seppure non casualmente già così interno ai dettati della globalizzazione capitalistica, dice quanto siano vane e fuorvianti le ricerche di una prospettiva per la sinistra legata ai problemi dello sbocco politico a breve e alla ricerca della geometria delle alleanze in funzione dell'alternanza. La nostra è un scelta del tutto diversa, è la scelta della ricostruzione del primato della politica, dell'opzione politica; è la scelta della fuoriuscita dalla sua subalternità. I suoi due capisaldi, tra loro connessi, sono una radicale collocazione del PRC a sinistra e la attualizzazione della lotta sociale e politica per la trasformazione della società capitalistica. Il rapporto con il movimento ne è il fondamento principale. Vorremo contribuire a aprire un nuovo capitolo nella storia della lotta tra le classi, della lotta per la liberazione delle donne e degli uomini dallo sfruttamento e dall'alienazione. Avevamo cominciato questo congresso dicendo:
"E' possibile che nel mondo si stiano determinando le condizioni per un nuovo inizio di un processo rivoluzionario, cioè per l'assunzione consapevole del più alto compito immaginabile per la politica, il superamento dell'ordine esistente, il superamento della società capitalistica.
E' possibile riprendere a lavorare, pur pienamente consapevoli della sproporzione tra le nostre forze e il compito, insieme ad altri, in tutto il mondo, attorno alla questione della transizione: un altro mondo è possibile. E' possibile che la nascita dei popoli di Seattle, del "movimento dei movimenti" che costituisce l'evento del nostro tempo, il primo movimento dopo il Novecento, segni, invece che la morte, la nascita di un nuovo movimento operaio. E' possibile, ed è questa la nostra principale sfida". Aggiungiamo ora: è possibile, ma non solo non è detto che accada, ma è molto difficile. E ciò da la misura della nostra sfida.

LA GLOBALIZZAZIONE CAPITALISTICA

Abbiamo interpretato la globalizzazione capitalistica, fin dal suo avvio, come una rivoluzione capitalistica restauratrice. Oggi essa ha dato vita ad una nuova fase rispetto a quella del suo stato nascente, oggi siamo di fronte alla globalizzazione del tempo della crisi. Gli apologeti, quelli che avevano interpretato la globalizzazione come l'avvento del regno della libertà e delle opportunità sono ridicolizzati dai fatti. Chi credeva che attraverso nuovi ordinamenti si potesse ricavarne dei progressi non riesce più neppure a costruirne la previsione. Per gli uni e per gli altri è lo smacco. Lo sviluppo della globalizzazione rivela la sua natura classista e la sua intima, intrinseca contraddizione tra la sua prometeica, gigantesca capacità di innovazione tecnico-scientifica e la sua attitudine alla regressione sociale e civile. Per la prima volta nel tempo moderno l'innovazione e il progresso sociale si dissociano, questa innovazione dell'ultimo capitalismo conosciuto pretende di cancellare persino la nozione di progresso sociale. Modernizzazione versus modernità; questa modernizzazione capitalistica si erge contro le istanze più significative della modernità e cerca di abbatterle ad una ad una, mossa da una incompatibilità di fondo. Le promesse si riducono a ideologie, come falsa coscienza, e sono falsificate dalla realtà. Avevano promesso lo sviluppo ininterrotto, e le crisi economiche dominano la scena. Il disastro dell'Argentina è un atto di accusa drammatico e implacabile contro la ricetta neoliberista, ma non è il solo, scampoli di Argentina stanno sparsi in tutto il mondo, anche sotto i nostri occhi. Avevano promesso la scienza del futuro, in nome della quale hanno varcato limiti millenari nel rapporto tra la civiltà e la natura, e stanno generando mostruosità, come alchimisti senza intelligenza, come apprendisti stregoni senza la cultura dell'antico. Abbiamo conosciuto la mucca pazza e abbiamo capito che non era la mucca ad essere pazza, bensì questo capitalismo ad essere impazzito. Avevano promesso un mondo unificato, a loro modo, cioè passivamente, pacificato dalla globalizzazione capitalistica e integrato in ciò che chiamano occidente. Fingevano di non sapere che non c'è pace senza giustizia. Lo spaventoso allargamento delle ingiustizie, l'aggravarsi del divario tra ricchi e poveri, e l'offesa sistematicamente portata dal mondo degli attuali vincitori a tutti gli altri mondi, ci ha dato la guerra e il terrorismo. La guerra è entrata a far parte del panorama di questo mondo. E' la guerra della globalizzazione, guerra infinita e indefinita, agita dai potenti del mondo e dal potente dei potenti a suo insindacabile giudizio e sua insindacabile motivazione, in realtà fattore costituente del nuovo ordine, o disordine, mondiale. Guerra, insieme, scelta dai dominanti e promossa dalla strutturale contraddizione tra, da un lato, la instabilità permanente generata dalla globalizzazione e dai suoi effetti e, dall'altro, la stabilità delle relazioni economiche ed istituzionali che la stessa globalizzazione pretende in nome della produzione e dal commercio mondiale. La guerra infinita, la guerra della globalizzazione è dunque l'altra faccia di un dominio del capitale che si vuole pervasivo e totalizzante in una nuova frontiera della mercificazione dei rapporti umani. Un ulteriore processo di mercificazione dei rapporti umani è sospinto in avanti da una rivoluzione capitalistica che pretende di ridurre i lavoratori, la natura e la persona a pure variabili dipendenti dall'accumulazione. C'è qui la radice totalitaria di questa modernizzazione. Essa risiede proprio nel tentativo di cancellare tutto ciò che non stà dentro il rapporto di produzione e di dominio, tutto ciò che, in qualche misura resta o si pone come esterno ad esso.Vorrebbe essere la cancellazione di ciò che il filosofo potrebbe chiamare il residuo, cioè ciò che non è sussunto nel modo di produzione capitalistico e la cancellazione di ciò che potrebbe chiamare "il tempo che resta", cioè la prospettiva conoscibile del superamento della società capitalistica. Ma proprio questo estremismo del capitale e l'impossibilità del lavoratore ad essere ridotto a pura forza-lavoro, determina la crisi del nostro tempo, una crisi aperta a esiti diversi, persino contrapposti, "socialismo o barbarie" . Il balzo nella scienza e nella comunicazione costituiscono, a loro volta, moltiplicatori esponenziali della posta in gioco. Basti pensare al fatto che, per la prima volta, la produzione sfonda il muro dello sfruttamento della materia vivente, e che, con la rivoluzione genetica, la manipolazione e il controllo dei meccanismi che presiedono alla vita sono a portata del potere e del mercato. Una gigantesca rivoluzione scientifica. Riconosco che è fondamentale, ai fini della determinazione della nostra politica e persino ai fini di stabilire chi siamo, definire in che rapporto stia il cambiamento realizzato dalla globalizzazione con l'esistenza o meno di un modo di produzione capitalistico e, in esso, come si proponga la questione del lavoro. Sulla prima questione non potevamo essere più radicali: cambia tutto, salvo l'essenziale, anzi ci si potrebbe spingere sino al punto di dire che cambia tutto al fine di dilatare, rafforzare, ingigantire l'essenziale, il motore definitorio dei rapporti sociali, politici, istituzionali, umani, cioè il modo di produzione capitalistico Perciò noi parliamo di una sua estremizzazione per realizzare la quale, il capitale si propone di liberarsi dal condizionamento storico che ha dovuto subire in una determinata fase del conflitto di classe (il compromesso sociale e democratico seguito alla vittoria contro il nazi-fascismo). L'indurimento dell'asse portante dell'intera organizzazione della società e la sua diffusione su scala mondiale si accompagna ad un terremoto: muta la composizione organica del capitale e il rapporto tra il capitale finanziario e produttivo; muta la composizione sociale di classe; mutano le istituzioni statuali e istituzionali e gli assetti geo-politici. Qual è la torsione a cui è sottoposto il lavoro? Come e perché è accaduto che ieri il conflitto di classe partendo, nel mondo e in ciascun paese, dai punti più alti dello sviluppo capitalistico tendeva a realizzare un allargamento delle conquiste a tutto il mondo del lavoro e oggi, al contrario, a partire dal punto dove la forza-lavoro viene pagata al suo più basso prezzo, il capitale tende a rimettere in discussione tutte quelle conquiste? Certo c'è, in questo, una responsabilità storica della sinistra moderata, in specie di quelle, e sono tante, che hanno governato, e della maggior parte dei sindacati. Ma anche a noi che abbiamo cercato di contrastare quella deriva ci viene posto un problema. Certo non è quello della presunta scomparsa del lavoro, una incredibile bufala che però ha fatto il giro del mondo, né quella del superamento del conflitto di classe che parla solo di un altro capitolo della storia del tradimento dei chierici. Abbiamo assistito, al contrario, alla crescita quantitativa del lavoro salariato nel mondo e persino nelle grandi aree industriali. In scala mondiale sono aumentati gli operai stessi. Negli Stati Uniti d'America si lavora più a lungo che in ogni altro paese del mondo, fatta eccezione per la Corea del Sud e la Repubblica Ceca. Secondo l'organizzazione internazionale del lavoro, nel 2000 negli USA si è lavorato in media, sul posto di lavoro, 1979 ore, cioè 36 ore più che 10 anni prima. Se guardiamo, con l'inchiesta come è sempre più necessario fare, alle varie forme in cui si viene componendo e ricomponendo il lavoro salariato, possiamo affermare, come abbiamo fatto, che non siamo affatto di fronte ad una società di fine lavoro bensì, al suo contrario, ad una società segnata da un lavoro senza fine. In essa il comando capitalistico si impone su tutto il lavoro impiegato nella produzione di valore e, dunque, il rapporto di classe si fonda più che mai sullo sfruttamento. Questo fa si che la lotta delle lavoratrici e dei lavoratori dentro e contro il capitale sia più che mai la componente insostituibile per mettere in discussione gli attuali rapporti sociali e l'ordinamento esistente. Essa si nutre del resto, qui ed ora, ormai da qualche tempo, di un reale disgelo sociale, di una ripresa del conflitto sociale e di lavoro assai significativi che è persino esplosa, qui in Italia, proprio in questi mesi. Non si può non vedere come vi abbia influito, oltrechè la rottura culturale e soggettiva operata dal movimento, l'emergere delle contraddizioni nel processo di globalizzazione, il suo generare crisi, crisi economiche, crisi nella coesione sociale, crisi che costituiscono una base oggettiva dell'antagonismo sociale. Qual' è allora il nuovo problema sociale che questa rivoluzione capitalistica restauratrice ci propone e come essa si manifesta nell'organizzazione del lavoro e nella sua composizione? Il problema consiste, in primo luogo, nel fatto che l'esplosione del lavoro dipendente dal capitale non lo rende più tendenzialmente omogeneo e concentrato ma, al contrario, frantumato, disgregato e diffuso fino ad essere disperso. E, in secondo luogo, essa si colloca in un processo che modifica il rapporto tra capitale e lavoro proprio nella direzione indicata da Marx in un celeberrimo passo dei Grundrisse. Scrive Marx: "in questa situazione modificata non è né il lavoro immediato, eseguito dall'uomo stesso, né il tempo che egli lavora, bensì l'appropriazione della sua forza produttiva generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale - in breve, lo sviluppo dell'individuo sociale che si presenta come il grande pilastro della produzione e della ricchezza. Il furto di tempo di lavoro altrui, sulla quale si basa la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile in confronto a questa nuova base creata dalla grande industria stessa".
L'incertezza e la precarietà diventano il carattere prevalente della nuova condizione sociale. La natura ambigua e duplice del lavoro nella società capitalistica compie, con la globalizzazione, un nuovo passo avanti, prende le forme molteplici del prolungamento del tempo di lavoro per alcuni e della sua assenza, fino alla disoccupazione, per altri; si fa dipendente come autonomo, ma sempre eterodiretto; si propone a tempo determinato o indeterminato, ma sempre più precario; diventa pervasivo, nella domanda continua e pressante a renderti flessibile e adattabile, ma non definisce più automaticamente un'appartenenza sociale. Dunque questo è il problema: il processo di unificazione dei lavoratori tradizionali e dei rapporti sociali sfruttati e alienati non è nelle cose, richiede un progetto politico, un intervento nella materialità delle condizioni e nelle soggettività. Ma, contemporaneamente, nessuna forza può farlo calare dall'esterno, ideologicamente. Allora bisogna intendere che, quando si parla della crescita del movimento dei movimenti, non si parla d'altro rispetto al conflitto di classe. Per noi si tratta della declinazione, su piani diversi, della medesima questione: della costruzione, cioè, di un nuovo movimento operaio. La connessione e l'unità di tutte le diverse soggettività critiche, la connessione tra quella di classe, quella di genere, quella ambientale e quella pacifista non deriva soltanto dalla necessità di far vivere una critica generale di società, ma risulta oggi necessaria nella stessa lotta sulle questioni brucianti del lavoro. Dal basso come dall'alto, nel conflitto sociale come in quello più generale bisogna sempre vedere le due tendenze all'opera. L'una è quella che la ristrutturazione capitalistica in corso determina a livello d'impresa, come nell'organizzazione della società, della scuola, della sanità, come nell'organizzazione dello stato, come nelle relazioni internazionali. Essa può sfociare in nuove realtà autoritarie, in nuove forme di oppressione e di dominio, in forme persino distruttive. L'altra tendenza è quella che vive allo stato potenziale, nel movimento e che, se non si vuol perdere l'occasione, va adesso organizzata anche in un progetto politico capace di dare forza e efficacia al conflitto in corso e di disegnare, in una prospettiva di più lunga durata, l'alternativa di società. La globalizzazione del tempo della crisi è caratterizzata dall'instabilità. L'instabilità ne è la conseguenza diretta ma è anche la manifestazione del carattere aperto della fase attuale, cioè del suo poter dare luogo ad esiti del tutto differenti tra loro. Se il lavoro e la condizione sociale definiscono la terra di questa contesa, la guerra ne definisce il cielo. Col procedere della globalizzazione capitalistica, col mutare delle fasi del suo sviluppo, gli Stati Uniti d'America vengono svolgendo un discorso e una politica di guerra. Su di essa e con essa vengono proposte un'idea delle relazioni internazionali, un assetto geopolitico del mondo, un rimodellamento dei rapporti tra gli stati e con l'economia. La sfida brutale e distruttiva del terrorismo viene assunta in questo quadro, come un gradino da scalare in un'escalation sottratta alle decisioni e al controllo di qualsiasi organismo internazionale dotato di qualche sovranità o rappresentanza. L'ONU è morta e con essa il disegno che l'aveva originata. Ma persino la NATO, che aveva aspirato al ruolo di monopolista mondiale della forza, è messa da parte e sostituita da un sistema di alleanze a geometria variabile di cui fermo è solo il fulcro, gli Stati Uniti d'America, e stabile è solo l'obiettivo strategico della piena realizzazione della globalizzazione capitalistica. E' a questo fine che viene combattuta una lotta senza quartiere sui terreni economico, ideologico e militare. Non sarà precisamente l'asse del male, come lo definisce Ignacio Ramonet, ma certo che il FMI, la Banca Mondiale e il WTO costituiscono un asse assai importante di questa lotta, dello stesso restringimento della democrazia e della crisi della sovranità nel mondo.
Non sarà precisamente come ha scritto l'International Heral Tribune che: "Gli Stati Uniti sono, in qualche modo, il primo stato proto-mondiale. Hanno la capacità di porsi alla testa di una visione moderna dell'impero universale, un impero spontaneo i cui membri si sottopongono volontariamente alla sua autorità". Non sarà compiutamente così, ma certo è che la globalizzazione ha eletto gli USA a nazione privilegiata, sia in nome della sua potenza militare, che in nome del suo modello sociale. Vorrei solo ricordare, per dire cos'è la flessibilità negli USA, che il tasso di povertà è più alto tra i lavoratori occupati in America che tra i disoccupati nei 5 paesi del Nord Europa. Nascono così i nuovi signori della guerra e i loro vassalli accumunati dalla accettazione della guerra ai fini di abbattere qualsiasi strozzatura negli scambi dell'economia globalizzata. Si costituisce così, con la violenza e il dolore, il nuovo assetto del mondo. Troppe sono le vittime, in primo luogo quelle umane, ma ce ne sono anche di rilevanti sul terreno della democrazia, della politica e della civiltà. Avanza una nuova barbarie. La guerra fa danni immensi e altri ne annuncia. Ancora devasta l'Afghanistan e già minaccia l'Iraq, mentre ogni paese, tranne gli USA, può essere eletto a stato canaglia e bombardato. Lo schema tende a riprodursi. La Palestina è il caso più drammatico. Sharon non vuole la pace, né la trattativa. Ha puntato a distruggere prima l'autorità palestinese, poi il popolo palestinese. Sentiamo tutta la vergogna di un'Europa incapace di portare la pace a Gerusalemme, culla della sua civiltà: incapace di portare la pace nel Mediterraneo, terra e mare di sua elezione. Va denunciata tutta la responsabilità dell'amministrazione Bush nel rifiuto di Israele di concepire il riconoscimento di ciò che è essenziale per la pace nella terra di Palestina: due stati per due popoli. Ma c'è di più. C'è che Sharon non avrebbe potuto bombardare sistematicamente i territori palestinesi senza la cornice della guerra. Dice Sharon: se tu in nome della lotta al terrorismo bombardi l'inerme popolazione dell'Afghanistan, allora anche io posso bombardare il popolo palestinese. Poco importa che di Bin Laden sembrano persino essersene scordati, conta di più ridurre la contesa a quella tra guerra e terrorismo, cancellando così i popoli, le resistenze, le istanze di liberazione. Questo è il pericolo, la minaccia. Ma non è detto che gli riesca. Le contraddizioni si fanno più forti e lo spazio per l'intervento della politica, delle lotte, del protagonismo e della soggettività cresce. Per questo inviamo da qui, insieme, al popolo palestinese e agli obiettori di coscienza militari dell'esercito di Israele che stanno rifiutando di continuare a fargli la guerra il nostro più fraterno saluto. La vostra è la nostra causa, la pace contro la guerra: un altro mondo è possibile. In questo saluto vorremmo fossero compresi tutti coloro che nel mondo resistono o si battono per una causa giusta, dalla Cuba dell'orgoglio di essere indipendenti, agli zapatisti che dal Chiapas tanto ci insegnano, ai combattenti della FARC in Colombia, a tutti coloro che non chinano la testa, alle donne che in tanta parte del mondo non rinunciano ad affermare la loro dignità nella differenza. Un altro mondo è possibile. E un altro mondo è necessario, necessario prima che si possano produrre rotture irreversibili. La specie e la natura sono minacciate. Le radici strutturali della crisi e dell'instabilità che affondano organicamente nella globalizzazione capitalistica, cioè nel capitalismo contemporaneo, fanno si che esse si riproducono al punto tale da accentuare acutamente il bisogno di un controllo globale e totalizzante sull'intero pianeta. Nella critica alla nostra ricerca, una ricerca che ritiene inadeguata la categoria classica di imperialismo per interpretare le forme di dominio del nuovo capitalismo, c'è, io credo, anche un fraintendimento. Noi non diciamo che oggi c'è minor dominio rispetto a quello che si esprimeva nella condizione imperialista. Dominio, violenza, crisi, oppressione segnano il nuovo capitalismo forse di più di quello precedente. La distanza tra dominanti e dominati si è accresciuta. Il divario tra i paesi ricchi e paesi poveri in un secolo è aumentato spaventosamente. Il rapporto tra le loro ricchezze passa da 3 a 1 agli inizi del secolo, a 30 a 1 dopo la prima guerra mondiale, fino a 80 a 1 dei nostri giorni. E se la guerra mieteva tristemente, ieri, vite umane prevalentemente tra i soldati, si pensi alla carneficina nelle trincee della prima guerra mondiale, oggi stermina civili, popolazioni intere. La mano invisibile del mercato si è fatta più ossessiva, cinica e persino cruenta. Dunque il problema che poniamo non è certo quello di allentare la critica al sistema di dominio, al contrario su di essa va affilato il rasoio della critica. Ciò di cui poniamo l'esigenza è di vedere bene la natura del nostro avversario, capire dove sta la sua forza e dove le sue contraddizioni e, soprattutto, quale sono le forze che lo possono contrastare e sconfiggere. Guardare al mondo della globalizzazione con le categorie del secolo che hanno visto nascere gli stati nazione e da essi, in contrasto con l'istanza di indipendenze e di sovranità che li ha generati, hanno visto scaturire il colonialismo, e per alcuni di loro l'imperialismo, può ritardare la comprensione di ciò che accade e di come si deve lottare oggi nel mondo. Guardare al mondo solo con gli occhiali che ci hanno consentito di leggerlo quando il mondo era diviso in due campi contrapposti, può produrre un effetto distorcente. Non c'è imperialismo senza aristocrazia operaia, diceva Lenin. Se l'analisi che facciamo della globalizzazione è giusta, il capitalismo moderno non può più, invece, praticare un tentativo di integrazione della classe operaia sulla base di alti salari e di larghe protezioni. I dati statistici, le inchieste, la nostra conoscenza della realtà non lasciano addito a dubbi. Sono proprio le conquiste dei lavoratori nei paesi a capitalismo avanzato ad essere messe in discussione. Addirittura, per la prima volta nella storia dello sviluppo industriale, una nuova generazione entra nel mercato del lavoro in condizioni peggiori a quella che l'aveva preceduta. Nel mondo del lavoro i figli stanno peggio dei padri. Ma cambia, rispetto al passato, non solo l'elemento distributivo, ma anche quello del controllo, del potere. Oggi assai più che il controllo di una potenza classicamente colonialistica o imperialista su un'area geografica definita, su un territorio, su determinati paesi e popoli, ai fini di realizzare una sistematica rapina, "lo stato rentier", lo stato usuraio di cui parla Lenin, oggi diventa decisivo il controllo dei flussi e delle risorse strategiche del mondo intero senza limiti e confini. Sotto, nella e sopra la terra, dalla materia inerte a quella vivente, dal petrolio, alle sementi, dall'acqua alle piante, agli animali, dai corpi al gene. Verso il '900 furono occupati dalle potenze coloniali i 9/10 dell'Africa: oggi l'Africa non è occupata, ma è sistematicamente sfruttata, rapinata, violentata da questo tipo di sviluppo.
Ieri si produsse una lotta così intensa, da riempire il mondo di guerre, per la ripartizione del mondo: oggi si riempie il mondo di guerre, una guerra indefinita e infinita per metterlo tutto a disposizione della globalizzazione capitalistica. E per farlo si costituisce una rete di vecchie e nuovi poteri statuali e non statali, che, di fatto, governa il mondo, esercitando una inedita forma di dominio. Non vedo la contraddizione nell'indicare questo assetto capitalistico del mondo come insieme, unipolare e oligarchico. Le due definizioni parlano di due aspetti diversi e complementari.
E' un mondo unipolare perché il nuovo capitalismo è sorto del crollo del sistema dei paesi dell'Est e si è pressoché unificato sotto la mondializzazione del mercato e dei capitali. Il suo assetto di potere è oligarchico perché il comando politico è esercitato da un concerto di stati sotto la direzione americana e da un sistema di istituzioni legittimate solo dal loro essere funzioni richieste dalla globalizzazione, dal FMI, alla Banca mondiale, al WTO, variabili gli uni e le altre in funzione degli obiettivi strategici emergenti. Si tratta di una sistematica demolizione della democrazia e della sovranità e degli ordinamenti costituzionali forti. Gli stati non scompaiono, ma subiscono un trasferimento di potere, una trasformazione regressiva del loro ruolo. In Europa la lotta di classe e la sfida generata dall'esistenza del campo socialista li aveva fatti protagonisti della creazione dello stato sociale e di una democrazia allargata che si poggiava sulla crescita del potere contrattuale dei lavoratori. Oggi la sconfitta del movimento operaio, i processi di omologazione politica che hanno investito la più parte delle sue organizzazioni, il crollo dell'Est e la globalizzazione assegnano allo stato un ruolo non marginale ma interno alla demolizione dello spazio pubblico e del compromesso democratico. Il suo ruolo è stato rovesciato. Restano, certamente, nel mondo e in Europa punti di resistenza e in ogni caso la dimensione statuale e istituzionale nazionale o sovranazionale resta terreno di conflitto e di iniziativa politica. Ma non si può, oggi, pensare che la globalizzazione capitalistica possa essere sconfitta da un conflitto interstatuale, magari promosso dalla Russia o dalla Cina, esse stesse attraversate, seppure assai diversamente, da questo stesso processo. Non si può pensare che si resista alla potenza della globalizzazione opponendole la ricostruzione della perduta autonomia dello stato-nazione. Né si può pensare di contestare la globalizzazione capitalistica rianimando la democrazia rappresentativa che abbiamo vissuto nei diversi e singoli paesi nella fase precedente. Quella storia non ritorna, ma, per fortuna, un'altra storia è già cominciata. La globalizzazione capitalistica mette in evidenza le sue crisi e le sue contraddizioni. Alcune già mostrano la possibilità, di fronte ad esse, che si affermi una lotta e un esito progressivo. Altre sembrano dar luogo a scontri distruttivi di civiltà, tanto da veder rinascere conflitti etnici o religiosi in diverse parti del mondo. Ma soprattutto, la globalizzazione ha visto nascere già il suo antagonista, almeno allo stato potenziale: un movimento che muove dalle contestazioni dei suoi effetti, ma che si riconosce reciprocamente nei diversi fronti di lotta e nel filo che dipana una critica più generale. Essa è costruita su due discriminanti di fondo, il no alla guerra e il no alle politiche neoliberiste. Essa riscopre, attraverso l'esperienza sociale e la partecipazione, le nuove ragioni della democrazia diretta. Solo se sapremo leggere per quella che è la nuova realtà di dominio e se sapremo interpretare, dall'interno, il suo nuovo potenziale antagonista, potremmo proporci di contribuire alla rinascita della politica e della democrazia, ed imporre la pace contro la guerra. Anche l'Europa è a questa prova. Oggi essa è un'area economica integrata e una moneta unica. Non è un soggetto geopolitico autonomo, vive al suo interno un pesante deficit democratico, non ha un modello sociale da proporre. Ha inseguito il modello sociale nord-americano, rischia di diventare una provincia degli USA. Eppure da molte parti del mondo si guarda ad essa con speranza. Eppure le lavoratrici e i lavoratori di tutti i suoi paesi, i giovani, le donne portatori e portatrici di domande ricche di civiltà non possono che considerare l'Europa come il luogo dove si potrebbe tentare un'altra strada. Se essa sapesse guardare alla storia della sua cultura dei cristianesimi, degli illuminismi, dei marxismi, come alle culture che si affacciano sul mediterraneo a partire dall'Islam; se essa sapesse guardare alla straordinaria storia della lotta delle classi subalterne, se persino sapesse guardare a ciò che, seppure contraddittoriamente, è entrato, dopo la vittoria contro il nazi-fascismo, nel suo modello sociale di diverso da quello nord-americano, scoprirebbe, lei, Europa, di dover essere interlocutore del movimento no-global per diventare parte della costruzione di un altro mondo possibile. Mi pare questo, in ogni caso, un terreno di lavoro irrinviabile per la sinistra di alternativa in Europa e per l'intero movimento. La prossima costituzione qui in Italia, in autunno, del forum sociale europeo credo possa costituire un'accelerazione potente di questo nuovo terreno di lotta. Per tutte le forze della sinistra di alternativa, a partire da quelle che compiono l'importante esperienza del GUE, e per il nostro partito in particolare, credo sia ormai matura l'idea di dar vita ad una soggettività politica europea di sinistra che faccia del rapporto con il movimento e con la ricostruzione del conflitto di classe l'asse fondativo di un progetto politico per un'altra Europa, per un'Europa con una missione di pace e di cooperazione tra nord e sud del mondo, per l'Europa dell'alternativa alle politiche neoliberiste.

LA CENTRALITA' DEL MOVIMENTO

Il movimento dei movimenti ha raggiunto in Italia uno sviluppo originale un'ampiezza e una consistenza particolare. Esso ha segnato di sé una nuova fase socialmente, culturalmente, politicamente. Si colloca dentro un fenomeno mondiale, i popoli di Seattle, ma cresce diffondendosi nel territorio in grazie al suo pluralismo interno e al reciproco riconoscimento di esperienze diverse considerate compatibili con l'ispirazione di fondo del movimento, caratterizzato dalla contestazione di questa globalizzazione e segnatamente dall'opposizione alla guerra e alle politiche neo-liberiste. Su queste basi si è affermato un movimento che si è configurato come il primo movimento dopo il '900. Non abbiamo l'attitudine a vantare nostri meriti, né a dar vita a qualche forma di patriottismo di partito. Eppure questo merito va rivendicato perché non riguarda il nostro passato bensì il futuro, cioè la nostra svolta politica e culturale. Ci abbiamo preso. Ci abbiamo preso quando in solitudine, abbiamo intravisto il disgelo sociale, la ripresa del conflitto. Ci abbiamo preso quando, prima di Genova, abbiamo visto le novità della fase, nella nascita del movimento che, impropriamente, veniva chiamato no-global. Possiamo chiederci se l'averci preso, quando in molti anche vicino a noi e tra noi dubitavano, non sia la conferma sul campo della validità delle categorie di analisi più generali sulla natura della globalizzazione capitalistica e sulle nuove contraddizioni che abbiamo cercato di portare avanti in questi anni? Su questa intuizione siamo cresciuti. E con il partito è cresciuta Liberazione, il nostro giornale, che con il suo lavoro originale, svolto in condizioni difficilissime, è andato guadagnando un'attenzione particolare. Di questo davvero lo ringraziamo. Noi tutti siamo cresciuti.
In ogni caso è stato importante sia per il movimento che per il partito la scelta che abbiamo compiuto, anche innovando con la tradizione da cui veniamo, di collocarci nel movimento come parte tra le parti, contribuendo insieme agli altri, e a pari titolo, alla sua crescita, dicendo la nostra, ma accettando e praticando la risultante unitaria comunemente assunta e abbandonando ogni propensione avanguardistica. Non ci interessa l'egemonia del partito sul movimento, ci interessa contribuire all'egemonia del movimento nella società. Un movimento che intanto ha già vinto la prova della durata e quella della estensione. Non era scontato, né facile. Poteva cadere, ha incontrato sulla sua strada ostacoli su cui poteva infrangersi. Ci hanno provato. Continuo ad essere convinto che a Genova la repressione non sia stata attivata solo per il comportamento di alcuni dirigenti delle forze dell'ordine e neppure soltanto perché al governo ci sono forze di destra, resto convinto che quella repressione così sistematica e così violenta sia stata scelta a livello internazionale con l'obiettivo di disintegrare il movimento. Poteva esserlo, e se non lo è stato, se la spirale repressione, violenza repressione è stata disinnescata, lo si deve proprio ad una delle caratteristiche di fondo di questo movimento, al suo carattere pacifico e non violento che ha spiazzato l'avversario, battendo nuove e diverse strade. E così è stato ancora quando il movimento non si è fatto schiacciare dalla tenaglia terrorismo-guerra, scattata con la sciagurata forza distruttiva dell'11 settembre a New York e con la sciagurata scelta distruttiva della guerra degli USA e dei loro alleati in Afghanistan.
Dalla tenaglia il movimento è uscito col duplice rifiuto della guerra e del terrorismo e con l'assunzione del tema della pace come centrale nella costruzione di un altro mondo possibile. Il movimento si è esteso, ha guadagnato nuovi territori, ha contagiato altri soggetti. Dalla Perugia-Assisi è arrivato a Roma nella manifestazione contro la guerra degli USA, ha incontrato le occupazioni e le lotte degli studenti contro la privatizzazione del sapere della scuola, ha camminato accanto e insieme ai migranti indicando un terreno di unità decisivo per il futuro della lotta nei nostri paesi, ha incontrato il riemergere di lotte ambientaliste e per la salute, in fabbrica e del territorio. Ha incontrato la crescita del conflitto sociale. La FIOM, il più grande sindacato industriale del paese, che sta nel forum sociale, di fronte al contratto separato, trova il coraggio di due scioperi generali di categoria, la partecipazione dei lavoratori è più grande che in quelle unitarie. I sindacati di base, che stanno nel forum sociale, dopo importanti lotte di categoria, si pensi alla scuola, proclamano uno sciopero in tutte le categorie e portano a Roma più di centomila persone. La CGIL, il più grande sindacato italiano, di fronte alla sfida del governo e della Confindustria proclama finalmente, ma il fatto è di importanza straordinaria, lo sciopero generale e organizza la gigantesca manifestazione del 23 marzo al Circo Massimo a Roma. La manifestazione è un evento, grande, straordinario e nuovo.
Posso dire, senza sminuire il valore della scelta delle diverse organizzazioni sindacali e l'impegno diretto di tutte le lavoratrici e lavoratori che hanno scioperato, che tutto questo non ci sarebbe stato in questi termini, in questa entità e in questa intensità senza il movimento? Posso dire che anche lo sciopero generale è figlio del movimento, che non ci sarebbe stato senza la sua crescita? Ma questo movimento che è durato e si è esteso di che natura è? La domanda non è oziosa e dalla risposta che diamo a questo interrogativo dipende, lo riconosco, la nostra stessa proposta politica. La nostra risposta è che si tratta di un movimento mondiale, che porta il segno dei movimenti di lungo periodo cioè quello di esprimere i bisogni, le ansie e i bisogni di una nuova generazione che vive criticando la modernizzazione in cui è immersa. La volevano, questa generazione, integrare e disintegrare proprio in questa modernizzazione capitalistica e invece se la sono trovata nelle strade che conducono da Seattle a Porto Alegre, nelle contestazioni nelle scuole, e nei luoghi di lavoro e sui territori, se la sono trovata nelle numerose esperienze sociali extramercantili, di volontariato, di associazionismo, di comunità liberamente scelte.
Non è un movimento esplicitamente anticapitalistico. O, almeno, non lo è ancora. Può diventarlo e noi lavoreremo per questo. C'è infatti già in esso un anticapitalismo allo stato potenziale e latente. Esso si manifesta nell'approccio del movimento ai grandi problemi del mondo, dalla guerra, alla fame, alle malattie, all'ambiente, come a quelli locali. I suoi obiettivi sono contro la filosofia della globalizzazione che esso definisce neoliberista, e se non giunge univocamente a rintracciarne le cause nel modo di produzione capitalistico certo le sa vedere nel modello sociale e nel sistema di potere che la globalizzazione costruisce. Porto Alegre lo ha messo in luce con grande forza, nell'incontro di un popolo in formazione che già attraversa il mondo con la radicalità di realtà sociali e politiche latino-americane come quella dei Sem Terra e della CUT, il sindacato brasiliano. Per capire cos'è Porto Alegre basta chiedersi cosa avremmo risposto a chi qualche anno fa ci avesse interrogato sulla possibilità di un incontro di queste dimensioni in una qualsiasi parte del mondo senza che a convocarla fosse una centrale internazionale partitica o sindacale o religiosa. Invece è stato e sarà possibile. E' necessario ora proporsi di passare da Porto Alegre all'organizzazione dell'opposizione sociale in Europa e in Italia. L'incontro di Barcellona e la piattaforma lì varata dai governi e dall'Unione europea, sono in rotta di collisione con le istanze del movimento. La manifestazione a Barcellona del movimento indica le risorse per combatterla. Il governo Berlusconi, forte anche di quella complicità e di quella cornice, tenta in Italia uno sfondamento. La sua base di partenza, del tutto coerente con quella di governi europei, è il Libro bianco.

LA NATURA DEL GOVERNO DELLE DESTRE

La comprensione del carattere del governo Berlusconi e del blocco sociale che lo sostiene è fondamentale per contrastarlo e dare efficacia all'azione di opposizione. La discussione va fatta a fondo. A partire dalla domanda su cosa sia oggi l'Italia. Credo abbia ragione quell'autorevole compagno che sostiene che l'Italia sia un caso, ma non un'anomalia. Girano anche per l'Europa democratica come in Italia, analisi che, malgrado la radicalità di giudizio, credo risultino fuorvianti. Cos'è il governo Berlusconi? Il ritorno del vecchio fascismo, il riemergere di un vizio antico e profondo dell'Italia che si riveste di nuovo, o è l'affermarsi aggressivo e spregiudicato di un nuovo capitalismo? La tendenza neo-autoritaria che si manifesta in una sorta di democrazia autoritaria o nello svuotamento della democrazia fino a ridurla a un vuoto simulacro nasce con Berlusconi, e con lui morirebbe, oppure il governo delle destre in Italia è un caso, una specificità, certo, ma di una tendenza più generale che investe i paesi capitalisti nell'era della globalizzazione? Ancora, questa tendenza è una novità assoluta, il portato dell'avvento delle destre, o questo avvento si propone un'accelerazione, un salto ma prende forza da una tendenza che covava da un ben più lungo periodo? E, infine, questa involuzione neo-autoritaria riguarda solo la natura dei rapporti tra i diversi poteri statuali, le forme di organizzazione e di occupazione dello spazio pubblico, il pluralismo politico e istituzionale, cioè la questione importantissima dell'autonomia della magistratura, della radio-televisione, dei conflitti di interesse o esse sono strettamente connesse al primato del mercato e dell'impresa nella società, alla desertificazione dei diritti dei lavoratori , delle popolazioni e dei soggetti, alla devastazione dello spazio pubblico? La nostra critica, non già all'interessante fenomeno di partecipazione, ma alle elites culturali che le hanno guidate nei girotondi, non nasce da un'istanza di separazione, ma, al contrario, dalla ricerca di un chiarimento che consenta l'unità dei movimenti. In discussione c'è il rapporto tra le destre italiane e la modernizzazione capitalistica e il rapporto tra il governo Berlusconi e quello precedente, dove risieda la discontinuità e dove la continuità. No, questa non è la riedizione del vecchio fascismo contro cui la Resistenza, la pagina più alta scritta nella formazione della nostra nazione e l'antifascismo hanno vinto la storica e drammatica contesa. Resistenza e antifascismo che vorremmo, nel prossimo 25 aprile, rivissuti come base di una grande religione civile capace di parlare ancora alle nuove generazioni. Ma ciò che abbiamo di fronte è il nuovo capitalismo che impasta liberismo e xenofobia, privatizzazioni e populismo e che, essendo indifferente alla democrazia, la corrode e la riduce a un simulacro. Sentite le parole di Josè Saramago: " Tutti sappiamo che, per una specie di automatismo verbale e mentale che non ci permette di vedere la cruda verità dei fatti, continuiamo a parlare della democrazia come se si trattasse di qualche cosa di vivo ed operante, quando di lei non resta altro che un insieme di formule ritualizzate, innocui passi e gesti di una specie di messa laica."
E' questo il quadro in cui la tela può sempre essere spezzata, in un qualsiasi punto e in molti punti. Non si può rispondere a questi strappi chiedendo di fare come in America, perché proprio quello è il modello negativo; lì il regime di alternanza esclude il 50% degli elettori dal voto e in specie i neri e i poveri; lì, se non sei detentore di grandi ricchezze, non puoi neppure candidarti a Presidente; lì la irresistibile ascesa, come il suo crollo, di un gigante dell'economia come l'ENRON parla di giganteschi conflitti di interessi irrisolti.
La tendenza neo-autoritarie sono un realtà. Berlusconi le cavalca e ci mette del suo ma bisogna saper bene , a maggior ragione, ora, quel che un dirigente lucido e appassionato del movimento operaio come Lelio Basso sapeva già nel 1958: "La <democrazia> -scriveva Basso- non è affatto una tendenza spontanea dell'evoluzione capitalistica, ma al contrario è il risultato dello sforzo delle classi subalterne per inserirsi nell'esercizio del potere: per parte sua la classe dominante ha delle tendenze spontanee che sono in netta antitesi con lo sviluppo della democrazia, e che, specialmente nel periodo dei monopoli, diventano delle tendenze integralmente totalitarie". Da ciò bisogna saperne trarre una scelta di azione politica. Vale ancora oggi quella indicata allora: "Una politica di mera <difesa repubblicana>, è destinata alla sconfitta: solo allargando continuamente il terreno della democrazia, accrescendo continuamente la partecipazione effettiva e cosciente delle masse, si può difendere realmente le conquiste già realizzate, perché da parte avversa non si allenta mai lo sforzo o di rovesciare le conquiste democratiche o perlomeno di esautorarle, trasferendo il potere effettivo fuori da ogni possibilità di controllo". Anche rispetto al rapporto tra continuità e discontinuità del governo Berlusconi con quelli di centro-sinistra il problema va risolto, se si vuol dare, alla piattaforma democratica, forza e incisività. Il governo Berlusconi tenta su molti terreni uno sfondamento, ma da dove trae la sua forza, solo dalla sua azione d'urto? Io invece penso che è come se Berlusconi prendesse velocità e forza per tentare gli " a fondo" dello scivolo che ha preparato il centro-sinistra. La droga del maggioritario, lo svuotamento delle assemblee elettive a favore degli esecutivi, l'accettazione della personalizzazione della politica, il presidenzialismo strisciante, il federalismo privatizzante, lo strappo alle regole in nome di interessi di parte (come nella vicenda delle liste civetta), la corsa all'occupazione e alla lottizzazione degli apparati, il favoreggiamento di cordate amiche, diciamo la dura verità, non sono nate dopo la sconfitta del centro-sinistra, semmai ne sono state la concausa. O no? Per non parlare di quel grande veicolo di democrazia e di passivizzazione che è il sistema delle comunicazioni di massa, il sistema radio-televisivo, su cui è giusto temere oggi l'affiancamento alla flotta Mediaset ma di cui non si può sfuggire all'indagine critica su quanto e per quanto tempo si sia omologata alla TV commerciale e al pensiero unico e come, anche nel tempo del centro-sinistra, abbia fatto da coro al governo fino a partecipare a forme di linciaggio verso il dissenso e la critica, come ci è capitato di subire direttamente quando rompemmo con il governo Prodi. Bisogna vedere bene da dove e da quando venga la tendenza a tenere fuori dall'informazione la critica, l'esperienza concreta di vita e di lavoro, le lotte. Se vuoi impedire a Berlusconi lo sfondamento, devi rompere con tutta questa storia. Quel che voglio dire è che per combattere Berlusconi dobbiamo evitare un atteggiamento che pure ha grandi precedenti nella cultura italiana. Sembra a volte tornare l'errore di Benedetto Croce sul fascismo, l'idea della parentesi che si apre e si chiude, come una malattia, nella storia del paese. Sembra, a sentire molti, che se si togliesse Berlusconi, l'Italia sarebbe un paese vivibile, come dicono, un paese normale. Non intendono che è proprio la normalità del nuovo capitalismo che corrode la democrazia, che apre la porta alla crisi della coesione sociale e che è per quella porta aperta che passa Berlusconi, come estremizzazione di quella già intollerabile normalità. Per questo egli può scrivere, pensate un po', proprio sul lavoro, un documento comune con Blair, a dire quanto poco valgano ormai le vecchie etichette politiche e a dire per quali vie passi il processo di americanizzazione in Europa. Perciò democrazia e modello sociale sono due facce della stessa medaglia. Lo sono nell'offensiva delle destre, lo sono nei processi di fondo della società, lo devono diventare nella ricostruzione dell'alternativa. Le leggi vengono varate dalle destre per modificare a fondo la costituzione materiale del paese e per preparare una radicale revisione liberista anche della sua costituzione formale. Anche nel simbolico esse lavorano a disegnare un modello sociale radicalmente classista. Le loro leggi dicono chi e come deve essere libero e chi, al contrario, e cosa deve essere controllato, messo sotto controllo. Mai si è era visto in Italia un disegno di società così duramente classista. Lo impediva non solo la presenza di un movimento operaio e di sinistra particolarmente forte, ma anche l'influenza sulle istituzioni della cultura del cattolicesimo democratico. Non c'è bisogno di nessun sforzo di interpretazione; le destre fanno quello che dicono, Basta guardare alla produzione legislativa fatta o annunciata dal governo per averne l'impressionante conferma. La logica di classe viene dispiegata senza alcun ritegno, La legge sulle rogatorie, quella sul falso in bilancio, l'incredibile detassazione di ogni tipo di eredità, anche la più imponente, e delle donazioni (che suggerisce una sorta di fuoriuscita dal mondo moderno), la mancata soluzione del conflitto di interessi sono l'espressione di una linea precisa, anche se quasi incredibile per quanto è netta la sua rottura persino con la fase precedente dello stesso sviluppo capitalistico e con l'intera costruzione dello stato moderno, per quanto borghese. Queste leggi riconoscono la libertà assoluta, cioè l'arbitrio della ricchezza, della grande proprietà, degli affari. Essi vengono messi dalla legge fuori e sopra la legge stessa. Alla ricchezza tutto è consentito, permesso, garantito. Il fine di accrescersi, di accrescere la ricchezza, giustifica ogni mezzo. Ma se essa viene liberata da ogni controllo, il controllo, all'opposto, si abbatte sulla società al fine di evitare che essa si possa organizzare per affermare, contro il potere costituito, e contro questa organizzazione sociale, i suoi bisogni. La legge impedisce, preclude e abbatte storici diritti. C'è un filo preciso, duro, che lega la legge Fini-Bossi, sull'immigrazione, alla messa in discussione dell'art.18 sui licenziamenti. E' l'idea di dividere, di impedire le unificazioni sociali, di privare i soggetti dei diritti che consentono loro di esprimersi socialmente con l'azione collettiva, che è il fondamento della democrazia moderna. L'economia del paese ha bisogno del lavoro degli immigrati, ma ad essi vengono negati i diritti di cittadinanza. Al fondo c'è la stratificazione dello sfruttamento e la tendenza a trascinare verso il basso, a partire dagli immigrati, l'insieme delle tutele, delle garanzie, del salario, della possibilità di reagire all'oppressione e all'ingiustizia, La messa un discussione della difesa dal licenziamento ingiustificato (ricordate l'insulto al lavoratore del licenziamento ad nutum?) non ha solo, e ce l'ha, un valore simbolico; esso sposterebbe drammaticamente il rapporto tra le classi, abbatterebbe difese e argini di resistenza. Già c'è, nella nostra società, una ricatto immanente che agisce contro i lavoratori, quello della perdita del posto di lavoro (dice niente Gela?), quello di sentenze che calpestano diritti e dignità dei lavoratori (dice niente il cloruro di vinile, Porto Marghera?), quello iscritto fisiologicamente in tutti i contratti atipici che hanno incorporato fin dall'inizio il diritto del padrone a licenziare (dice niente la lotta disperata delle ragazze e dei ragazzi cacciati dalla Fiat a Mirafiori?). Nella costituzione materiale delle relazioni sindacali, dei rapporti sociali in Italia, l'abbattimento dell'art.18 sarebbe un monumento eretto al controllo del padrone sul lavoratore. Alla libertà degli affari, in alto, corrisponde, in basso, un controllo occhiuto e ricattatorio che ha di mira, il cuore della contesa, il lavoro, la prestazione lavorativa, la vita di lavoro.
Ad esso si affianca, per chi sta ancora più in basso e al fine di concentrare l'attacco sul lavoro, ciò che chiamano il liberismo compassionevole, un soldo elargito dal potere, a sua discrezione, a chi è ormai ridotto a non aver più alcun potere, al fine di lenire una malattia che è proprio quella politica neoliberista ad alimentare giorno per giorno. Dà 10 e toglie 100, come nel caso delle pensioni. Anche se questo non ci esonera da una nostra controffensiva. Per esempio per dare a tutte e a tutti i pensionati sotto il milione e senza più sottrarglielo con le tasse, il giusto aumento.
In mezzo, nell'organizzazione della società, la linea delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni, di cui non sarà mai a sufficienza denunciata la storica responsabilità del centro-sinistra di averle avviate, fino a giungere allo scandaloso finanziamento della scuola privata. In ogni caso, ora questa linea demolisce lo spazio pubblico, pregiudica un intervento attivo dello stato nell'economia, erode drasticamente lo stato sociale. Dicono: è il mercato, bellezza. E' la legge della giungla, rispondiamo. E perciò ci ribelliamo. Perciò non ci stiamo, perciò ci proponiamo un salto di qualità nell'opposizione al governo Berlusconi.
Nella lotta sociale esso sta già intervenendo: la straordinaria manifestazione del 23 marzo e lo sciopero generale proclamato da CGIL, CISL e UIL e autonomamente dai sindacati di base, ne sono il coronamento. Dobbiamo saperlo fare più complessivamente. Per capire da dove partire bisogna intanto capire perché il governo Berlusconi ha scelto questa via, la via dello scontro frontale. Non era scontato. Poteva scegliere il modello Aznar, sostanzialmente la stessa linea ma attraverso la ricerca di un'intesa con il sindacato, almeno con chi tra i sindacati fosse disponibile a farlo, pagando a questo fine il prezzo di un qualche rallentamento e di un qualche compromesso che tuttavia non alterasse la linea di fondo, quella della flessibilità del lavoro. Quello del Libro bianco. A questa linea lo spingevano (e lo spingono) alcuni settori sindacali e anche alcuni importanti settori padronali poco propensi a veder scossa la pace sociale. Credo che il governo sia stato effettivamente diviso tra queste due vie e, persino, per un periodo, incerto su quale prendere. E' un'incertezza che può tornare, ma la scelta della via dello scontro frontale ha una sua ragione immediata. La Confindustria di D'Amato fa della messa in discussione dell'art.18 un suo cavallo di battaglia e Berlusconi ha scelto, in primo luogo, di non incrinare il suo rapporto con l'azionista di maggioranza del governo. Ma c'è di più, una scelta così onerosa e avventurosa si spiega solo se ne sopporta una di valore strategico, una scelta di fondo. E allora è il thacherismo, cioè l'idea di trapiantare in Italia un modello di rapporti sociali e di relazioni sindacali che passa, insieme, per l'attacco ai diritti dei lavoratori e per la demolizione del sindacato così come esso è. Ma questa scelta potrebbe rivelarsi un azzardo persino per il governo delle destre, e diventare avventurista. L'Italia mette in luce una capacità di mobilitazione senza pari, rivela quanto profonda in questa terra sia l'onda lunga della partecipazione, del protagonismo delle masse. Da questa precipitazione neo-liberista e da questa straordinaria reazione di classe e di popolo può nascere la possibilità di invertire la lunga tendenza di questi lunghi ultimi anni, può nascere la possibilità finalmente di vincere una battaglia. Berlusconi può perdere sull'art.18 e noi possiamo contribuire ad aprire un processo sociale e politico altrimenti impensabile. Per tanto tempo siamo andati, insieme alle parti più vive del sindacato, ponendo l'esigenza fondamentale dello sciopero generale e accompagnando col nostro impegno le lotte che andavano in questa direzione, da quelle della FIOM a quelle dei sindacati di base. Ora giungiamo a questo appuntamento e su di esso dobbiamo investire a fondo, senza reticenze. A cominciare dal costruire insieme il 16 aprile, come è stato efficacemente detto, lo sciopero generalizzato, sociale di cittadinanza. E tuttavia un pericolo dobbiamo saperlo vedere, se vogliamo poterlo sventare. Quel pericolo ha una memoria, l'84. Quello scontro non fu perso, fu sostanzialmente abbandonato, dopo una forte grande resistenza organizzata dalla CGIL contro l'attacco del governo alla scala mobile e al potere contrattuale, cosicché lo stesso referendum fu logorato e minato. Fu proprio il rientro del sindacato a negoziare il non negoziabile che lo condusse fino ad accettare progressivamente la cancellazione di quella grande conquista egualitaria e di potere che era la scala mobile. La manifestazione del 23 marzo getta le condizioni perché questo rischio possa essere evitato. In essa confluiscono i movimenti di questi mesi e ne fanno la ricostituzione del mondo del lavoro persino al di là dei suoi confini sociologici, del mondo del lavoro come senso di sé, come coscienza di sé. Una cosa diversa dal pur straordinario moto difensivo, estremo perché ultimo di un intero ciclo di lotte operaie, dell'84 e diverso pure dall'enorme contestazione politica di massa dell'94 contro il taglio alle pensioni del governo Berlusconi. Oggi il popolo di classe del Circo Massimo porta evidenti i segni ricchi e creativi della crescita del movimento no-global e parla di un possibile futuro. La CGIL sembra consapevole della non negoziabilità dell'art.18. Ma la partita è pur sempre difficilissima. Cosa c'è dopo lo sciopero generale, e prima e insieme? Tocca anche a noi dare una risposta

LA COSTRUZIONE DELL'ALTERNATIVA

Nasce da questi interrogativi la nostra proposta di una convergenza tra le opposizioni per offrire, in tutta autonomia, una sponda politica al conflitto sociale, per portare lo scontro nelle istituzioni, contro il governo, al livello del conflitto sociale. Essa non ha alcuna curvatura politicista, non pone il problema dell'alleanza politica con il centro-sinistra, risponde a tutt'altra logica, punta a tutt'altro percorso e a ben altri esiti politici. Essa interviene nell'immediatezza. Coglie il bisogno politico di massa che ha attraversato tutto il 23 marzo, coglie la domanda di massa di unità e risponde con una proposta di unità d'azione delle opposizioni. L'obiettivo è chiaro: vincere questa battaglia. La proposta è chiara, propone una forma di lotta radicale in parlamento, l'ostruzionismo, e una iniziativa forte e innovativa nella società, un pacchetto forte e concentrato di referendum. Essa è però stata interpretata da qualcuno come chissà quale nuovo capitolo dell'infinita storia del figliol prodigo o, meno incredibilmente, e più maliziosamente, come una sorta di maxi-emendamento al documento congressuale. Si potrebbe lasciare semplicemente la smentita ai fatti se non fosse che la prima mostra una pressoché totale incomprensione della nostra linea politica e, ancor di più, della innovazione che proviamo ad introdurre nella cultura politica con la nostra pratica e nel suo rapporto con il movimento. Mentre la seconda rivela un'idea della linea, a cui sono assai lontano, un'idea autarchica della linea politica come di un'autosufficienza che vale in sé, in attesa che siano i fatti ad aderire ad essa. Al contrario, io penso che, dichiarata la meta e indicata la traiettoria, essa vada costantemente ricostruita, rispetto ai mutamenti che intercorrono, per poter incidere sul corso degli avvenimenti. In questo caso, poi, tutto è molto semplice: nella situazione si determina una grande novità, ad esso si corrisponde con un'iniziativa politica nuova. Se no, francamente, la politica può andare a casa.
Tutt'altro capitolo, seppure sempre interno a ciò che possiamo definire unità d'azione, è quello sulle prossime elezioni amministrative di primavera. Un appuntamento politico importante ma non perché rappresenterebbe un test del governo Berlusconi o, al contrario, dello stato salute del centro-sinistra o persino di misura della nostra crescita di consenso. No, è importante perché di grande peso è la questione del governo locale stretto tra le politiche restrittive del governo centrale e la crescita di una domanda di qualità e di pubblico che nasce nei territori e nelle città. Porto Alegre ha visto anche vivere un confronto su questi temi, noi ci stavamo come al Forum Sociale, ma li sono venuti anche esponenti di vari riformismi, sindaci di diverse città. Per noi quel che si dice a Porto Alegre, vale a Genova come a Reggio Calabria. Il bilancio partecipativo non è un modello astratto, ma è un'idea generale di governo della città, del territorio, fondato sulla partecipazione popolare e sulla necessità di rivitalizzare una democrazia rappresentativa indebolita e depotenziata dall'alto (il governo centrale) e dal suo interno (la marginalizzazione delle assemblee elettive) attraverso un'iniezione forte di democrazia diretta. Così la questione del programma prende nuovo corpo. I problemi delle periferie, della scuola, della sanità, dei trasporti, dell'assistenza e della vivibilità incontrano quello di come tornare alla capacità di disegnare il profilo futuro di una città nel suo sviluppo, nell'urbanistica, nella cultura della vita. Vedete quanto i temi del movimento investano ormai anche le elezioni amministrative, anche il governo locale. Una ragione in più, per noi, per essere protagonisti della ricerca di una unità delle forze democratiche ed aperte, qualificata da questo nuovo slancio, non solo per impedire alle destre di allargare alla periferia il governo liberista, cosa certo utile, ma, soprattutto, per portare negli enti locali il vento dei movimenti che attraversano il paese. Ci stiamo riuscendo in moltissime situazioni. E' importantissimo che la campagna elettorale delle alleanze in cui stiamo esprimano la ripresa di partecipazione che vive il paese, che sappiano valorizzare e collegarsi al conflitto sociale, che sappiamo dare spazi e voce al movimento. In ogni caso è questo quello che farà il PRC. Ma una campagna elettorale non deve essere considerata altro rispetto al lavoro politico del partito. E' più in generale che dobbiamo saper cogliere per intero il segno dei tempi.
Ho già detto quanto pensi che la manifestazione del 23 marzo sia essa stessa attraversata dal segno dei tempi. Diversa da quella dell'84 come da quella del'94, essa è attraversata visibilmente dalla crescita dei movimenti, Ciò non riduce l'importanza della scelta della CGIL, né la sua rappresentanza, essa dice di una dimensione più ampia di quella sindacale e persino di quella tradizionale della politica, una dimensione che potremmo chiamare meta-politica, una dimensione che vive nel rapporto tra lo specifico, l'opposizione alla liquidazione dell'art.18, e il generale, una rinascente idea condivisa di giustizia, di democrazia e di partecipazione. E' come se il 23 marzo al Circo Massimo un movimento allo stato nascente sia tornato a dar corpo e visibilità ad un mondo del lavoro non solo sociologicamente definibile nel lavoro dipendente ma come costituzione di una nuova coscienza di sé. La lotta di classe riemerge quale protagonista. Perciò la lezione appresa dal movimento dei movimenti è chiamata ad un'altra applicazione. Sarebbe insensato tentare una qualsiasi strumentalizzazione di questo conflitto sociale, così come sarebbe delittuoso chiamarlo ad un qualche collateralismo con le diverse ipotesi politiche. Abbiamo imparato dal movimento a contribuire, dall'interno, al suo sviluppo. Vogliamo contribuire, dall'interno, a portare alla vittoria la lotta delle lavoratrici e dei lavoratori contro una legge che vuole la libertà di licenziare. Questa volta, dopo tanto tempo, si può vincere e si deve vincere. Berlusconi può essere sconfitto. C'è anche il rischio di rifare, in tutt'altre condizioni, come l'84; esso, tuttavia, può essere scongiurato. Ma qui occorre anche la messa in campo della nostra autonomia di partito e dell'autonomia delle forze antagoniste. Credo, cioè, che, partendo dall'interno del movimento di lotta sociale, bisogna andare oltre, lavorare alla costruzione di una piattaforma alternativa, di ricomposizione unitaria di tutti i movimenti, e in primo luogo tra il conflitto sociale e il movimento dei movimenti. L'obiettivo di estendere a tutte e a tutti, anche a coloro che ne sono esclusi, la tutela dell'art.18 potrebbe esserne un primo passo. Perciò guardiamo con interesse e condivisione l'impegno di quanti si propongono di dar vita ad un referendum per conquistare l'obiettivo. Il mutamento della composizione del lavoro, l'enorme dilatazione della precarietà e dei contratti atipici, la frantumazione del mondo del lavoro propongono con forza l'esigenza di obiettivi unificanti. Questo potrebbe essere un primo passo. Una convergenza delle opposizioni su un punto così significativo per la rottura con le politiche neo-liberiste e così significativo di un idea più generale di costruzione di diritti e di poteri dei lavoratori sarebbe, davvero, un grande segnale di risveglio. Si potrebbe, allora, accompagnare lo sviluppo delle lotte sociali, con una forte e concentrata stagione referendaria che cammini sulle due gambe fondamentali nello scontro con le politiche delle destre, la riconquista di aspetti importanti dello stato di diritto, dalla legge sulle rogatorie al conflitto di interesse, e la conquista di diritti agibili per le popolazioni lavorative e per le istanze ambientaliste.
Basta però riflettere sulle ragioni per cui una proposta così forte che colma un vuoto, che supera una debolezza nella lotta in difesa dell'art.18 non è ancora decollata per individuare un problema politico e per doversi proporre di cercare la soluzione . Se la manifestazione del 23 marzo ha messo in evidenza tutta la sua forza, il punto debole riguarda, con ogni evidenza, il fatto che la tutela contro i licenziamenti ingiustificati tocca solo una parte del mondo del lavoro e che quell'altra, quella senza protezione, è venuta crescendo con il decentramento dell'apparato produttivo, mentre la sua tutela complessiva, quella sociale e contrattuale, è ancora diminuita. Ma per colmare questo vuoto bisogna uscire proprio da quella logica della compatibilità, da quell'accettazione del primato della competitività e del mercato e dunque rompere con quel punto di vista dell'impresa che è stata dominante in tutto il ciclo degli ultimi anni, nella sinistra moderata come nel sindacato confederale. Noi come sempre nei momenti alti del conflitto sociale investiamo su di esso e su chi nè protagonista. Da qui la sottolineatura dell'importanza della scelta della CGIL, come dello sciopero generale promosso dalle confederazione per il 16 aprile, altra tappa cruciale di questa mobilitazione. Ma ciò non ci fa dimenticare che la CGIL, anche nel suo ultimo congresso , che pure sceglie il no alla guerra e lo sciopero generale, resta, sul terreno fondamentale degli obiettivi rivendicativi e delle politiche contrattuali, dentro una logica continuista con una stagione del tutto perdente e gravemente dannosa per i lavoratori e per il movimento, quella della concertazione. Oggi abbattuta da destra quella politica, c'è il problema ineludibile di una nuova piattaforma sociale sugli orari, sui salari, sulla prestazione lavorativa e gli assetti dei diritti e dei poteri. E' in questa battaglia politica che può affermarsi una sinistra sindacale capace di porre l'obiettivo strategico di un nuovo sindacalismo confederale autonomo, democratico e di classe e di porlo con efficacia dentro il nuovo ciclo di lotte. Si affaccia per questa stessa via il tema più generale dell'autonomia delle forze antagoniste. Esso richiede una capacità di essere declinato in una nuova connessione tra sociale, economico e politico, in una terra dove i vecchi.confini sono travolti. E allora anche l'autonomia delle forze anticapitaliste, antagoniste, comuniste deve assumere una nuova frontiera che attraversa i movimenti, che si rapporta diversamente a movimenti tra loro diversi, che va dall'internità al movimento no-global al rapporto dialettico con le lotte sindacali, che lavora alla loro ricomposizione mettendo al centro la ricerca di unità tra le classe operaia tradizionale, le nuove collocazioni di lavoro e tutte le soggettività critiche. L'obiettivo strategico è ambizioso ma chiaro: la nascita di un nuovo movimento operaio. Il Prc vi può contribuire da subito, battendo la via impervia ma indispensabile del nesso tra immediatezza e prospettiva, tra presente e futuro. La costruzione di una piattaforma alternativa ne è un momento qualificante.
Per noi, per le forze di sinistra di alternativa, per il movimento si delinea un compito ambizioso. Si tratta di partire dalla straordinaria crescita dei movimenti, per far nascere e vivere un vero programma di alternativa. Ci abbiamo provato in tutti questi anni, con grandi difficoltà, a volte riuscendo a far emergere una questione, le pensioni, le 35 ore, il salario sociale, ma quasi sempre dall'alto, utilizzando una particolare congiuntura politica, o attraverso delle convergenze, importanti ma limitate, con aree di sindacalismo militante o in realtà particolari. Oggi possiamo compiere il salto. L'idea di fondo resta quella della conquista dal basso, dal conflitto, del vincolo interno, cioè un'insieme di conquiste, sulla base delle quali e con le quali costruire una svolta nella politica economica e sociale dello stato a livello nazionale ed europeo. Ma quel che cambia può essere decisivo per la sua sorte; cambia, infatti, la fase e cresce sulla scena il movimento e sul suo allargamento rinasce il conflitto sociale. E' l'ora della costruzione di un'inversione di tendenza. Penso che dobbiamo aprire una campagna, prolungata e articolata, sul salario europeo. A moneta unica, salario europeo. Va riaperta in grande, in Italia e in Europa, la questione distributiva. Sia in termini di uno spostamento a favore di salari e basse pensioni, sia nei termini della costruzione di un nuovo ciclo delle politiche salariali, ai fini di concorrere, insieme alla conquista di nuovi diritti, alla riunificazione delle diverse condizioni di lavoro, dagli stabili ai precari, dai lavori autonomi di ultima generazione ai disoccupati. Il salario sociale per chi è senza lavoro e il salario minimo intercategoriale per tutti coloro che, nelle più diverse forme, lavorano sono pezzi della risposta a questo problema.
E così sui temi della vecchia e nuova prestazione lavorativa può rinascere una nuova critica dell'organizzazione e del mercato del lavoro, che sottolineata drammaticamente da Porto Marghera a Gela, già riprende, in parecchie esperienze un discorso, quello dei Maccaccaro e degli Oddone, che sembrava purtroppo lontano. Ma allora perché non riprendere con la più giovane generazione e con le donne un'iniziativa sugli orari di lavoro e sui tempi della vita? L'esperienza ATTAC per la raccolta delle firme su una legge di iniziativa popolare sulla Tobin-tax e sulla costruzione di una rete di rapporti nel paese ci dice quante e diverse potrebbero diventare le forme e le organizzazioni delle soggettività in progetti per obiettivi. Ci dice come una proposta di legge possa diventare il veicolo di un discorso più ampio, di crescita della coscienza e della mobilitazione sulle ingiustizie del mondo, di critica alla presunta scientificità dell'economia e, perché no?, la base di una necessaria contestazione della controriforma fiscale (ridurre le tasse ai ricchi e aumentarle ai poveri) a cui il governo si appresta. Abbiamo detto, intuendo nell'essenziale il passaggio, da Porto Alegre all'opposizione sociale in Italia. Ma oggi noi vediamo meglio i nessi e gli allargamenti che la crescita stessa dei movimenti ci propone. Giustizia e democrazia si tengono nella testa dei nuovi protagonisti. Cresce una nuova condivisione dell'esigenza di uno spazio pubblico: uno spazio pubblico da ricostruire strappandolo alla privatizzazione. Se guardi a questo tema dal Sud, dal Mezzogiorno, non puoi non considerarlo decisivo. Il Sud spazzato dai venti del neo-liberismo intreccia economia legale e criminale, degrada interi territori mentre ne eleva altri però a prezzi sociali e civili spaventosi. Su questa via, per il Sud, c'è solo l'approdo delle gabbie, gabbie salariali, gabbie di diritti, gabbie di vivere civile. Al contrario, la sua collocazione nel Mediterraneo e le sue risorse culturali, ambientali, umane candiderebbero il Mezzogiorno a luogo di vocazione per un altro sviluppo possibile, uno sviluppo di alta qualità. Ma per imboccare questa strada ci vuole un progetto e un intervento pubblico inediti. Già, lo spazio pubblico. Già le esperienze delle lotte degli insegnanti e la ricchissima esperienza delle occupazioni delle scuole contro la legge Moratti avevano posto un problema. Per mille rivoli lo stesso si è affermato nella sanità, contro la malasanità e le molte privatizzazioni. Ma, se guardi più al fondo della stessa questione della RAI-TV, incontri un problema analogo, quello di liberare degli spazi pubblici dove far vivere e costruire lo spirito della Repubblica, contro gli spiriti selvaggi del mercato. All'inizio del secolo la scuola, oggi ancora la scuola e, insieme ad essa, le comunicazioni di massa, sono state e sono diventate il territorio di una grande sfida che ha per posta la coscienza della nazione e la formazione del cittadino. Bisogna bucare il muro della tranquillizzante richiesta di pluralismo nella formazione e nell'informazione pubblica, per arrivare al problema della produzione culturale, alla costruzione della conoscenza e della coscienza pubblica. Certo che ci vuole il pluralismo, anche quello partitico. Ma bisogna salire più in alto. Ci vuole un pluralismo forte, quello che sa assumere le discriminanti della guerra e del neo-liberismo. Ma bisogna salire più in alto ancora, cioè tornare alla critica della realtà, alla critica della mercificazione dei rapporti umani. Bisogna ripartire da una critica dell'esperienza alla mistificazione e dalla critica alla costruzione delle culture separate e alienate e alienanti. E' stata scritta un'intera biblioteca sul tema. Ma io preferisco far ricorso ad una critica alla cultura alta, formalizzata e mistificante che viene da un'esperienza povera ma straordinaria di tanti anni fa, che mi piacerebbe l'intero movimento muovesse sistematicamente contro l'intero sistema della formazione e dell'informazione. Da lettere a una professoressa "A lei le rombano sotto le finestre mille motori al giorno. Non sa chi sono né dove vanno. Io so leggere i suoni di questa valle per chilometri intorno. Questo motore lontano è Nevio, che va alla stazione un po' in ritardo. Vuole che le dica tutto su centinaia di creature, decine di famiglie, parentele, legami? Lei se parla con un operaio sbaglia tutto: le parole, il tono, gli scherzi. Io so la cosa che pensa mentre ne dice un'altra. Questa è la cultura che avrebbero voluto avere i poeti che lei ama. Nove decimi del mondo l'hanno e nessuno è riuscito a scriverla, dipingerla, firmarla. Siate umili almeno".
Ecco noi dovremmo pretendere l'umiltà dell'istituzione scolastica come di quella della comunicazione pubblica, la RAI-TV, per farvi entrare l'esperienza delle donne e degli uomini e con essa la critica ad ogni assetto sociale e di potere che la opprime. Come si vede la costruzione di un programma di alternativa non è roba da ufficio studi, è un processo aperto in cui noi possiamo fare la nostra parte, di proposta, di tessitura di relazioni tra soggetti diversi, di partecipazione diretta dell'organizzazione delle lotte. Anche se un lavoro di ricerca programmatica viene fortemente sollecitato. Per questo pensiamo di dar vita ad una sorta di fondazione aperta all'impegno di ricercatori e di studiosi che, utilizzando appieno tutta l'esperienza e le relazioni accumulati dal nostro comitato scientifico, possa compiere il passo avanti che ci viene sollecitato anche dai rapporti che sono cresciuti in particolare in Europa, ma non solo in Europa, con altri luoghi di ricerca interessati allo stesso impegno. Abbiamo detto: da Porto Alegre all'opposizione sociale, e ora aggiungiamo, alla costruzione dell'alternativa. La proposta che abbiamo avanzato, e che da questo congresso rilanciamo con senso acuto di una stringente necessità, è quella dell'apertura di una fase costituente in Italia per la sinistra di alternativa. Non la cerchiamo come la proiezione del movimento, la cui autonomia, il cui pluralismo, la cui articolazione e diversità e la cui forma originale di politicizzazione sono da noi considerate componenti decisive della sua storia e del suo futuro. Al rovescio è la sinistra di alternativa che deve nascere assumendo il rapporto col movimento, a partire dalla discriminante contro la guerra e contro il neo-liberismo, come fondativi della propria soggettività politica costituendosi, in un processo aperto e plurale, nella fisionomia e anche nella forma organizzata. Noi comunisti vorremmo parteciparvi con altri che comunisti non sono, noi partito con altri che partito non sono e non vogliono diventarlo oppure che lo vogliono ma ancora non lo hanno, in un riconoscimento reciproco delle differenze e in una comune condivisione di un progetto politico. La sinistra di alternativa, e noi con essa, può uscire dalla minorità e diventare protagonista della vita pubblica del paese. E' una prospettiva che ha incontrato, fino ad ora, sulla sua strada incomprensioni e difficoltà. Ma a noi pare rilanciata da una duplice esigenza, da un lato l'esigenza di uscire dalla crisi della politica, cosa che non può avvenire spontaneamente, e dall'altro lato, da una crescita di movimento e dall'accentuazione dello scontro sociale e politico. A questo proposta, se ne può opporre, ed anzi è stata opposta, un'altra assai diversa, io penso dal segno politico pressocchè rovesciato, quella della ricostruzione di una sinistra larga per una nuova alleanza coi moderati. Francamente non mi par altro che la ricerca di equilibri più avanzati dentro il centro-sinistra. Ma, al di là della difficoltà a capire la natura di una sinistra così indicata e da dove e come essa dovrebbe nascere, è la proposta strategica che non convince affatto. Il centro-sinistra è morto perché è fallita la proposta politica su cui è nato e vissuto, non solo in Italia ma nel mondo. L'idea di temperare il neo-liberismo in un mondo così levigato dalla tecnica da far evaporare la politica si è schiantata sugli scogli della guerra e delle crisi ed è stata del tutto spiantata dal movimento di contestazione di questa globalizzazione, globalizzazione che il centro-sinistra pretendeva di governare più efficacemente delle destre. E' proprio la consumazione di questa ipotesi che fa perdere al centro-sinistra anche la primitiva capacità di competizione con le destre e che, al fine, lo riduce alla sconfitta. L'alternanza si rivela, così concepita, perdente. Dagli USA all'Italia, dall'Austria al Portogallo alla Danimarca così accade e non è che la sanzione di un fallimento strategico. Perciò non ha alcun senso proporre, attraverso una qualsivoglia alchimia di nuove formazioni politiche, la creazione di equilibri più avanzati di un nuovo centro-sinistra. Il vizio è all'origine, nella sua morfologia moderata. Non si può pensare, senza rientrare nella crisi della politica, ad una alleanza politica tra chi vota per la guerra e chi vi si oppone, tra chi è per politiche neo-liberiste e chi pensa ad una vera e propria alternativa ad essa. Non si può, prima ancora che per ragioni riguardanti il governo del paese, per una ragione decisiva per l'uscita dalla crisi e per la rifondazione della politica, quella di un rapporto diretto e creativo, pur nella diversità di alcune funzioni e nell'autonomia dei diversi soggetti, tra il movimento e la ricostruzione di una sinistra politica, capace di restituire un senso profondo alla partecipazione, al prendere parte fino a fare delle masse, nelle forme sempre mutevoli della loro organizzazione, il protagonista della loro storia. Questo approccio non cancella il tema delle alleanze politiche, ma lo coniuga diversamente da come esso è concepito nel regime dell'alternanza. Cioè dalla ricerca di un'intesa qualsiasi pur di competere per il governo. C'è dunque un campo delle alleanze tra forze anche assai diverse, antagoniste o no, anticapitaliste o riformiste, laiche o ispirate a valori religiosi. Ma esso deve essere ordinato da un'ispirazione alta anche eticamente e da un respiro realmente riformatore. SI possono costruire alleanze politiche tra forze diversamente avverse, ma tuttavia avverse alla guerra; si possono costruire alleanze politiche tra forze il cui rifiuto del nocciolo duro del neo-liberismo dia luogo a diverse linee di ricerche per nuove politiche economiche e sociali, comprese quelle dell'idea di dar vita ad un nuovo compromesso sociale e democratico, ma esso deve essere realmente progressivo, teso cioè a valorizzare il lavoro, l'ambiente, l'associazione, l'individuo, contro il predominio del mercato. Un confronto politico e programmatico alto ha bisogno, per dispiegarsi, di abbattere molte prigioni. Ma una andrebbe fatta cadere subito. Perché non mettere in discussione fin d'ora il sistema elettorale maggioritario, perché non riaprire la strada ad un sistema elettorale, quello proporzionale, anche per rilanciare la competizione tra i partiti nella ricerca del consenso su progetti politici comprensibili ed identificabili? C'è chi, meritoriamente, l'ha fatto avanzando una proposta di legge sul modello tedesco al Senato. Potrebbe diventare uno snodo assai importante. Quel che va liberato è un vero confronto programmatico per l'alternativa.
E', in fondo, l'idea della sinistra plurale. Un'idea che non abbiamo abbandonato. Ma essa non si persegue inseguendo una problematica scomposizione e ricomposizione delle forze in campo, priva per altro di qualsiasi attrattiva, quanto, piuttosto, costruendo a sinistra, qui si, una forte capacità di attrazione, immettendovi una nuova energia. Oggi qui c'è il Prc, noi pensiamo che sia una presenza indispensabile anche nel futuro. Non vorremmo, però, esercitarla da soli. Vorremmo farlo con altri, e insieme ad altri, Vorremmo produrre un fatto nuovo, figlio della nuova stagione, una soggettività ricca e composita della sinistra di alternativa. La realtà politica del Paese è investita da un vero e proprio terremoto. E' difficile che possa arrivare lontano così come è. E' probabile che il campo del centro sinistra ne venga investito e sconvolto. Per incidere positivamente in questa crisi, che è già cominciata, ciò che non va fatto è lasciarsi trascinare a fare da sponda a lotte politiche importanti ma interne ad esso. Ciò che va fatto, invece, è costruire un polo della sinistra alternativa; una soggettività politica fondata su un rapporto centrale con il movimento e per questa via capace di diventare protagonista della vita pubblica del Paese. Persino chi pensa all'alternanza, fuori dallo schema perdente del centro sinistra, dovrebbe guardare alla sinistra di alternativa come ad una "chance". In ogni caso, per noi, è l'asse della nostra proposta politica.

LA RIFONDAZIONE DEL PARTITO

Il partito è sottoposto ad una sollecitazione formidabile. Ciò che fino ad ieri non era possibile, ora lo diventa. La resistenza è finita, un nuovo ciclo della politica è cominciato. Un'opportunità si dispiega di fronte a noi, ma è anche, forse, una sfida estrema. L'opportunità è grande ed è proprio quella della rifondazione per ricominciare, dopo la sconfitta e di fronte alla nascita del primo movimento dopo il novecento, il discorso sulla trasformazione della società capitalista, sul comunismo e sul partito. Ma dura è anche la sfida. Se questa occasione non venisse colta, non la questione della trasformazione, che resterebbe aperta comunque, ma la possibilità che essa risulti segnata dall'eredità della storia dei comunisti e del movimento operaio del novecento sarebbe compromessa. E lo stesso movimento potrebbe prendere vie diverse e anche lontane dalle sue promesse più impegnative. E' l'ora dunque di cambiare noi stessi per contribuire a cambiare il mondo. Davvero, compagne e compagni, se non ora quando? Vorrei dirlo con particolare intensità a chi ha dei dubbi e chi teme di perdersi. Questo nostro partito ha vinto la lotta per la sopravvivenza, per l'esistenza. Lo deve, in primo luogo, senza alcuna retorica, alle compagne e ai compagni che hanno resistito, convinti che una grande idea non muoia, anche quando sembrava ai più che tutto fosse perso, dopo il crollo dell'est, dopo lo scioglimento del Pci, dopo che la vulgata borghese voleva che il capitalismo fosse l'ultima tappa dell'umanità e che il conflitto di classe fosse scomparso. Queste donne e uomini che hanno resistito sono oggi premiati, non solo da un riconoscimento morale, ma dal veder nascere un movimento che ha dato loro ragione, tanto da affermare che un altro mondo è possibile. Quella resistenza ha preso mille forme che però sono state tenute insieme da una comunità, il partito. Non si dirà mai abbastanza quanto vi abbia concorso proprio il lavoro politico che più fa comunità, quello delle feste di Liberazione, delle manifestazioni, delle organizzazioni di un incontro, di una cena sociale. Grazie a questo lavoro politico siamo qui. E grazie al coraggio di innovazione, che se pure in maniera non compiuta, a strappi abbiamo realizzato. Due di questi rivestono per la nostra traiettoria un carattere propriamente rifondativo. L'una è la rottura con il governo Prodi. C'è stato in quell'occasione, in primo luogo, la precisa percezione che il centro-sinistra, dopo l'ingresso in Europa e di fronte a un bivio, stesse abbandonando ogni ipotesi riformatrice, per scegliere il corso moderato e neoliberale che l'avrebbe perduto.
Ma c'è stata anche la percezione di una crisi della politica che veniva consumando i suoi attori e la convinzione che bisognasse spostare, per l'immediatezza e per la prospettiva, il baricentro della politica dal rapporto tra le forze organizzate, dal terreno istituzionale e statuale alla centralità delle forze sociali, della soggettività , delle lotte nella società. L'altra è stata la scelta di stare, così come ci siamo stati, nel movimento dei movimenti, rompendo anche con una eredità della nostra tradizione, per farci parte di esso, per partecipare alla sua crescita. Genova, insomma. Non è un caso che questo sia stato il vero fatto costitutivo dei giovani comunisti, protagonisti reali al pari delle componenti sociali e associative più vive, della fondazione e della crescita del movimento e oggi, perciò e meritatamente, parte importante dell'universo giovanile del paese. La stessa scelta della disobbedienza dice di questa capacità di interpretare, anche nel simbolico, passaggi assai importanti. Lo stesso vale per la presenza nei giorni di Pasqua in Palestina, sull'esempio delle Donne in nero. Insomma, quella dei giovani comunisti è diventata una pratica che aiuta il rinnovamento del partito. Sia dalla realtà che dall'interno dell'esperienza nostra viene quindi una domanda, convergente, di innovazione, per poter compiere il balzo in avanti. In ogni tornante importante, per un'organizzazione politica, si pone il tema del rapporto tra continuità e rinnovamento. Riconosco che molte volte esso è stato risolto nella nostra storia, e anche da noi, con la formula del rinnovamento nella continuità. Oggi non è più sufficiente; oggi l'accento va posto sull'innovazione e sull'apertura del partito al movimento, alla società. Il partito ha avuto, con Gramsci, l'ambizione di divenire intellettuale collettivo. Ma oggi, che abbiamo dovuto capire che la coscienza non la si porta dall'esterno al movimento, e oggi che il movimento ripropone la questione di quale modello sociale vogliamo costruire, oggi quell'ambizione dove essere rinnovata e persino accresciuta. E' l'intero movimento che deve considerarsi e diventare, per noi, l'intellettuale collettivo, il luogo e il laboratorio di una socializzazione dei saperi, delle conoscenze e delle esperienze, una rete di relazioni dove apprendere e insegnare, dove costruire dei segmenti di un nuovo mondo e contestare il vecchio e crescere in percorsi di liberazione collettiva ed individuale, di classe e di genere, di donne e di uomini, E il partito dentro come pesce nell'acqua. Un partito che, per parte sua, discute, elabora, lotta e fa società. Fare società, costruire socialità, produrre culture e sapere critico, mettere in rete esperienze di lotta e di saper fare non è un optional, non è il campo del volontariato invece che della militanza. E tanta parte del nostro progetto O si fa o si perde. Non è certo la prima volta che si pone l'urgenza di una discontinuità nelll'organizzazione politica. Non voglio citarvi, per dare il senso della svolta, una di quelle conosciute in Europa e nel movimento socialista e comunista. Vorrei citarvi il caso di un soggetto sociale che non sempre ha goduto, tra noi, di buona fama, ma che pure è stato capace, in alcuni momenti, di imprese straordinarie. Lo faccio proprio per dire che si può. Si può e si deve quando la storia lo suggerisce e il movimento cambia i comportamenti individuali e collettivi creando delle occasioni. E' il 1937 negli USA, dopo parecchie occupazioni di fabbrica, la General Motors capitola di fronte agli occupanti. Daniel Guerin descrive così il cambiamento nell'organizzazione: " Il sindacato divenne il centro di vita di tutti quegli esseri umani a lungo umiliati e frustati. Non più solamente un freddo ufficio di affari, incaricato di trattare questioni salariali, come l'AFL (che era il vecchio sindacato di mestiere), ma una casa, una scuola, un luogo di divertimento e di gioia. I lavoratori americani, che la società capitalistica aveva reso individualisti, egoisti, cinici, <duri>, scoprirono all'improvviso un tesoro sconosciuto: la solidarietà. Era un mondo nuovo, una nuova esistenza che cominciava. Le donne, due volte sfruttate, come operaie e come donne, furono due volte liberate."
Quando si potrà scrivere così di noi, allora l'innovazione e l'apertura si saranno compiute. Per farlo c'è bisogno di innovare la nostra cultura politica. Sento qui tante resistenze che non mi persuadono. Vedo un paradosso, si difende la continuità in nome e nascondendosi dietro a grandi della nostra storia che tali sono diventati perché hanno saputo rompere lo schema che avevano ereditato. Ci si appella a un nome, ad un lascito, piuttosto che al suo insegnamento. Lenin è molto celebrato ma bisognerebbe ricordare che fu proprio lui il protagonista di quella che Gramsci chiamò una rivoluzione contro il Capitale, perché Marx aveva previsto la rivoluzione nei punti alti dello sviluppo capitalistico e invece l'Ottobre avviene contraddicendolo, in un paese tra i più arretrati. Vive quella lezione della nostra storia che ci aiuta a conoscere e a trasformare, è morta quella che ostacola la conoscenza e la trasformazione. Ci si ricorda, giustamente, che siamo nani seduti sulle spalle di giganti. Ma si omette di dire che se i giganti, e noi con loro, hanno perso, la ragione bisogna scovarla non solo nell'avversario ma anche in noi. La storia si fa anche con i se, altrimenti vorrebbe dire che non poteva accadere che quel che è accaduto. Ma questo è solo un cattivo determinismo. Dai nostri errori e dalle sconfitte si può imparare e si deve farlo, in particolare, quando di rimette in moto la storia, proprio come storia del conflitto tra le classi. Anche i nani, allora, possono concorrere al cambiamento alla condizione di non essere conservatori, di non starsene cioè, seduti tranquilli, ma inerti, su quelle grandi spalle. Provare e riprovare, incitava Gramsci e lo faceva dopo una sconfitta drammatica e in solitudine nel carcere fascista, riflettendo sui temi della rivoluzione in Occidente. Dovremmo provare a farlo anche noi, fruendo della nostra libertà di azione e dentro il movimento che nasce. Sta in questo approccio politico, io credo, la ragione del dissenso rispettoso ma radicale dalla posizione che il congresso ha confermato essere quella della minoranza del partito. Un dissenso strategico e di proposta politica. Critico questa posizione soprattutto per una fissità ideologica che, secondo me, ci estranerebbe, nella sostanza, dai processi e persino dalla grande contesa in corso. Su un terreno tutt'affatto diverso debbo dire che sono venuto facendomi la convinzione che tra gli stessi emendamenti del documento di maggioranza sia venuto dipanandosi un filo che si propone come resistenza all'innovazione radicale e di sinistra che credo necessaria al partito. Sono stato tra i compagni che hanno voluto un congresso aperto; aperto tra i documenti contrapposti e aperto ai dissensi nella stessa maggioranza, Non vedo ragioni per pentirsene. Il Prc per la prima volta nella sua esistenza lo fa con questa apertura che, naturalmente è anche conflitto, sofferenza, disagio. Nel conflitto esce spesso anche ciò che non vorremmo, escono anche cose assai sgradevoli, ma esso è vita. Si è potuto discutere tra noi, e persino litigare, sull'identità, questione tra le più brucianti per i comunisti, lo abbiamo fatto senza evocare lo spettro della scissione. E' un passo avanti. E' un'altro passo sulla strada della Rifondazione che abbiamo fatto, tutti insieme con il dibattito di questo congresso. Ma il dibattito serve a chiarire le posizioni. Per parte mia ho visto, attraverso il corredo offerto dalla rivista l'Ernesto che, legittimamente, ha sostenuto un pacchetto di emendamenti come l'espressione di una determinata posizione politica e ho visto, nella più parte degli intervenuti che l'hanno sviluppata, una critica sempre più aperta alla linea del documento integrale che, invece, sostengo con forza. Ho visto allora, dicevo, profilarsi una scelta politica che non condivido perché a me appare complessivamente come un freno all'innovazione in nome di una storia, quella da cui veniamo, assunta acriticamente come unitaria, quando non lo è affatto. Vedo questa posizione come l'attenuazione della radicalità della svolta, della svolta a sinistra che proponiamo. Un'attenuazione, una riduzione, un freno che io credo la condannerebbe all'impotenza. Radicalità e apertura, invece, sono, io credo, la scelta politica che proponiamo con nettezza, proprio per cogliere l'opportunità iscritta nel momento storico che viviamo. Ripropongo la questione: se non ora quando? Sono convinto che questa nostra svolta, per ciò che ha potuto anticipare, ha già avuto più di una conferma. Senza di essa, badate, non saremmo passati così per Genova. Con essa possiamo tentare adesso l'impresa del nostro futuro. Per costruirlo c'è bisogno di tutte e di tutti le compagne e i compagni, del corpo intero del partito, della sua gente e anche di chi ci guarda con interesse. Soprattutto c'è bisogno di tutte le culture, le tendenze, le storie che vivono nel partito e avremmo bisogno di tante altre che stanno fuori e che pure non accettano l'ordine delle cose esistenti. Tutto ciò dovrà vivere anche nei gruppi dirigenti, in una loro composizione plurale e aperta a nuove esperienze e alla crescita, come dirigente, di una nuova generazione. Nulla ci è più estraneo che l'idea dei gruppi dirigenti omogenei, un'idea militare che va sconfitta culturalmente e praticamente. In questo congresso abbiamo discusso di tutto e della nostra stessa storia . L'abbiamo fatto non in una conferenza ideologica, che pure sarebbe bene ripensare, non in un dibattito chiuso tra addetti ai lavori, ma nei circoli, tra gli iscritti al partito senza pretendere titoli ed esami che non fossero la propria vicenda, politica e culturale, individuale e collettiva. Qualcuno ci ha detto, ma perché proprio ora i conti così duri e profondi con lo stalinismo? Perché da Livorno avete proseguito questo impegno, questo scavo? Perché quando si resiste è l'avversario a fissare il campo dello scontro e le gerarchie dei problemi, dunque in quel tempo qualche omissione è comprensibile. Ma quando si riaffaccia la possibilità di riprovarci, quando matura la possibilità e la necessità di rifondare la politica a partire dal movimento e contemporaneamente di riacciuffarla proprio al suo punto più alto, quello della trasformazione della società, allora non puoi portarti il piombo nelle ali, devi dimostrare la tua possibilità di fare l'una e l'altra cosa per chi sei, per come sei, per la cultura che porti, per l'idea di società che proponi. Il movimento dei movimenti, il nuovo mondo possibile, per noi il socialismo, si ergono contro questa modernizzazione capitalista in nome di un processo di liberazione delle donne e degli uomini. Il nostro comunismo può parlare lo stesso linguaggio se si libera di un rovesciamento drammatico intervenuto nella nostra storia. Se si libera del fardello di oppressione che ci portiamo dietro. Di quella storia compagne e compagni che l'hanno vissuta, lontano dal suo epicentro, e dentro una storica originalità come quella italiana, portano diversamente i segni, ma tutti con la nobiltà di chi ha combattuto una causa grande che qui ha costruito la Repubblica democratica. Ma tutto questo non ci può abbagliare . Lo stalinismo è incompatibile col comunismo. La critica di una parte della nostra storia, lo sradicamento dal nostro codice di ogni forma di autoritarismo, di sostituzione del potere dei rappresentanti alla liberazione delle donne e degli uomini, la contestazione dell' autonomia della politica dalla vita, dal lavoro e dalla società è parte non di uno scontro sugli anni '30 in Oriente, ma sugli anni 2000 nel mondo. Due uomini della liberazione, un leader latino americano del movimento e un grande intellettuale del '900 europeo hanno scritto sul rapporto tra passato e futuro due cose che vorrei prendessimo in consegna. Scrive Walter Bemjamin: "C'è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede, una sola catastrofe, che accumula senza tregue rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al celo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta."
Frei Betto ci parla della bussola con cui affrontare questa tempesta, ci dice quale deve essere il nuovo mondo possibile: " Proponiamo -ha scritto Frei Betto- di definire questa società con un termine che riassume, da circa due secoli, le aspirazioni dell'umanità a un nuovo modo di vivere, più libero, più ugualitario, più democratico e più solidale. Un termine che -come tutti gli altri ("libertà", "democrazia", ecc.)- è stato manipolato da interessi profondamente antipopolari e autoritari, ma che non per questo ha perduto il suo valore originario ed autentico: socialismo."
Vale anche per noi. Anche per noi il futuro si chiama socialismo.