Articolo 18. Chi deve cambiare?

La modifica dell'Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

E' davvero "lui" che deve essere modificato, o piuttosto la cultura economico-aziendale della classe imprenditoriale italiana?

Le riflessioni contenute in queste righe partono da alcuni dati di fatto inconfutabili, i quali vengono analizzati ed interpretati in modo del tutto personale, innanzitutto in chiave economica e successivamente anche in chiave politico-etico-sociale.

I dati di fatto di partenza sono questi:
1. L'attuale governo di centro-destra ha intenzione di modificare, in alcune ipotesi particolari ed in via sperimentale, l'art.18 dello Statuto dei Lavoratori che prevede la possibilità di licenziare un lavoratore dipendente solo per giusta causa e con giustificato motivo.
2. Nel mondo anglosassone c'è piena libertà di licenziare i dipendenti ogniqualvolta i vertici dell'azienda lo ritengono opportuno (per es. quando gli affari aziendali cominciano a non andare bene).
3. A parità di tasso d'inflazione, cioè del costo della vita, i lavoratori dei Paesi anglosassoni sono retribuiti meglio di quelli italiani.
4. Il modello imprenditoriale di gran lunga prevalente in Italia è quello dell'azienda a proprietà familiare, o comunque, di impresa dotata di un numero esiguo di proprietari che controllano e gestiscono l'azienda in modo accentrato. È molto raro, se non inesistente, il modello della public company, cioè dell'impresa con azionariato talmente frammentato da rendere impossibile un controllo unitario da parte di pochi soci, con la conseguenza che i veri "proprietari" dell'azienda sono i gestori, cioè i manager.
5. Il motivo della proposta di modifica dell'art.18 sta - a detta del governo - nell'esigenza di dare maggiore flessibilità al mercato del lavoro italiano, al fine di rendere più competitive le imprese nazionali proteggendole, in parte, dalle recessioni e dalle crisi macroeconomiche e settoriali.
6. L'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è costato al popolo italiano molti anni di lotte politico-sociali, nonché sacrifici in termini di vite umane.

Le prime considerazioni analitiche che mi vengono in mente sono per esempio il forte sospetto che la modifica dell'art.18, attualmente progettata solo per alcuni casi limitati, possa in breve tempo estendersi alla totalità dei rapporti di lavoro subordinato e diventare permanente.
Se così non fosse, non si capisce a che cosa serva l'attuale progetto, data l'esiguità dei casi a cui esso è applicabile. In parole povere, la competitività delle imprese italiane non aumenterebbe di certo se la "riforma" dell'art.18 rimanesse tale e quale come è presentata oggi.
Inoltre, se è chiaro che a seguito di crisi macroeconomiche o settoriali i licenziamenti dei lavoratori darebbero sollievo alle aziende, è altrettanto evidente che un grande sollievo ci sarebbe anche a seguito di licenziamenti effettuati senza nessuna crisi economica in atto, ma solo perché l'azienda è gestita male dai suoi manager e/o proprietari.
In sostanza, ritengo che la liberalizzazione dei licenziamenti potrebbe generare una catena infinita di abusi e di piccoli e grandi ricatti operati dai datori di lavoro a scapito dei dipendenti.
Il lavoratore dipendente non deve e non può pagare per le inefficienze o, peggio, per gli illeciti altrui, soprattutto quando "altrui" è pagato 50-100 volte in più del lavoratore.
Un'altra riflessione viene spontanea quando si paragona il mercato del lavoro italiano a quello dei Paesi anglosassoni, in particolare USA e Gran Bretagna.
Solitamente sentiamo i nostri Ministri dire che le economie di tali Paesi crescono più velocemente di quella italiana e che riescono a reagire meglio alle crisi internazionali soprattutto perché il mercato del lavoro è più flessibile in quanto prevede la "libertà di licenziare": come a dire che i licenziamenti rivestono una funzione propulsiva per gli equilibri finanziari delle imprese e per l'andamento delle economie nazionali.
Non vengono, però, sottolineati due piccoli particolari non proprio secondari: nei Paesi anglosassoni i lavoratori sono retribuiti mediamente meglio degli italiani (ad un maggiore rischio del posto di lavoro corrisponde una maggiore retribuzione) e, inoltre, in tali Paesi i lavoratori licenziati non hanno grandi difficoltà nel trovare una nuova occupazione poiché la domanda di forza lavoro da parte delle imprese è continuamente alimentata e sostenuta da uno sviluppo dell'economia sempre sufficientemente alto.
Cioè: nei Paesi anglosassoni non è la libertà di licenziamento a dare il via al circolo virtuoso che genera maggiore efficienza delle imprese e di conseguenza tassi di crescita dell'economia sempre positivi nel medio periodo; in realtà, lo sviluppo delle economie anglosassoni ha delle motivazioni ben più radicali, da ricercare nelle oculate gestioni aziendali, nell'innovazione tecnologica e nella limitazione degli sprechi, indipendentemente dalla gestione della flessibilità della forza lavoro.
La riflessione fondamentale, però, la dedico al modello di capitalismo esistente in Italia e, quindi, alla cultura imprenditoriale italiana.

In sintesi: nel nostro Paese la pressoché totalità delle imprese ha carattere familiare, ossia è di proprietà di una famiglia o di un singolo individuo, ed è gestita dai membri stessi della famiglia o dal singolo individuo (a volte con l'ausilio di manager professionisti esterni alla famiglia ed alla proprietà).
Partendo da un tale dato di fatto, che evidenzia chiaramente lo strettissimo legame che viene a crearsi tra l'imprenditore-fondatore-capofamiglia e la sua azienda, a mio parere, possono verificarsi 4 situazioni diverse:
1. imprenditore ricco - azienda ricca;
2. imprenditore povero - azienda povera;
3. imprenditore povero - azienda ricca;
4. imprenditore ricco - azienda povera.
L'ipotesi 1 è quella ideale, chiaramente la migliore in assoluto, non molto frequente in pratica e appannaggio di poche aziende di grandi dimensioni.
L'ipotesi 2 rappresenta, di fatto, il fallimento dell'attività imprenditoriale esercitata.
L'ipotesi 3, a mio parere, è puramente astratta; non esiste nella pratica.
L'ipotesi 4, invece, è quella ampiamente più diffusa in Italia, all'interno del suo vastissimo tessuto di piccole e medie imprese.

I proprietari/gestori delle imprese italiane a carattere familiare, praticamente la totalità delle aziende del nostro Paese, riescono, nonostante l'esistenza di regole votate alla correttezza ed alla trasparenza della gestione, ad attuare a proprio piacimento politiche di prelievo occulto dei redditi generati dall'azienda in modo tale da creare una commistione rovinosa tra patrimonio e reddito personale e patrimonio e reddito dell'impresa.
Da questa situazione nasce il modello dell'imprenditore ricco con impresa povera: automobili, immobili, spese di rappresentanza fittizie, stipendi miliardari sono soltanto alcuni degli esempi più lampanti di beni ad uso personale dell'imprenditore che vengono imputati come costi aziendali.
La conseguenza di questa prassi generalizzata è la riduzione dell'efficienza dell'impresa, la generazione di risultati economici negativi o poco brillanti, la creazione di un circolo vizioso e distorsivo che, portato all'estremo, potrà avere ripercussioni negative sull'occupazione e sull'economia.
A mio parere sono questi gli elementi su cui bisogna agire per rendere più competitive le imprese italiane a livello internazionale e per garantire loro un reale salto di qualità: la limitazione degli sprechi, il rispetto di regole di trasparenza gestionale (che peraltro già esistono), l'eliminazione delle commistioni tra patrimoni personali e aziendali, gli investimenti in tecnologia (ricerca e sviluppo), il reclutamento di personale capace e preparato.
Non è possibile raggiungere questi obiettivi per mezzo del dirigismo Statale, ossia impiantando ulteriori sistemi di norme comportamentali e di controllo, e neppure per mezzo di misure inefficaci ed insensate come la modifica dell'art.18 dello Statuto dei Lavoratori, ma solo tramite un cambiamento radicale della cultura manageriale dell'imprenditoria italiana.
La realtà italiana, oggi, è che le imprese sono degli strumenti utilizzati non per creare occupazione, sviluppo e benessere collettivo, ma soltanto sviluppo e benessere individuale (con le dovute eccezioni), attraverso la formazione di serbatoi occulti di denaro da cui pochi individui attingono.
In parole povere, se si vuole cambiare sostanzialmente, bisogna agire sugli imprenditori e sulla loro mentalità, e non sui lavoratori, i quali sono già sottoposti a misure di flessibilità e precarietà non indifferenti.
Quest'ultimo punto merita un ulteriore approfondimento.
Io credo che la Cassa Integrazione Guadagni, i contratti a tempo determinato, i contratti part-time, i contratti di Formazione e Lavoro, gli stage, il lavoro interinale, i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, rappresentino già degli elementi di flessibilità notevole per il mercato del lavoro italiano.
A ben guardare, infatti, con l'esistenza di tutte queste (ed altre) misure di flessibilità, che vengono sfruttate pienamente dalle nostre imprese, il costo del lavoro per un'azienda italiana non può più essere considerato propriamente "fisso" e, quindi, può essere relativamente modulato anche in funzione della congiuntura economica.
Certamente siamo molto lontani dal sistema anglosassone che permette di licenziare liberamente il personale, ma ciò, a mio parere, va visto positivamente anche dal punto di vista della equilibrata gestione delle singole aziende.
Infatti, avere in bilancio una rilevante voce di costo "fissa" o "semi-fissa" come è il costo del lavoro, rappresenta uno stimolo in più per i manager a perseguire l'efficienza operativa limitando gli sprechi e gli investimenti errati.

Un altro tipo di considerazione che ritengo fondamentale riguarda la sfera politico-sociale.
Lo Statuto dei Lavoratori è il risultato di anni di lotte e battaglie, anche cruente, che hanno profondamente segnato tutta la società civile italiana; più esattamente, non solo hanno segnato la società civile, ma l'hanno anche convinta.
Una dimostrazione di questa piena convinzione sulle finalità della lotta sociale l'abbiamo avuta recentemente, a distanza di molti anni, quando il popolo italiano in un referendum ha votato contro l'abrogazione dell'art.18.
Credo che sia inutile filosofeggiare sulla differenza che intercorre tra "abrogazione" di una norma e "modifica di una norma in alcuni casi particolari", dato che, come ho già detto, l'intento palese del Governo è quello di arrivare gradualmente ad una abolizione.
La domanda che mi viene spontanea a questo punto è: assodata l'enorme valenza etica e sociale dell'art.18, perché gli attuali governanti sono disposti a sostenere il peso morale di essere gli artefici iniziatori di un tale colpo di spugna?
Forse se ne infischiano di questa valenza etico-sociale?
Se fosse così, dovrebbero però ricordarsi che la volontà popolare manifestata in proposito va in senso opposto e che il loro incarico governativo ha ragione di esistere fin quando è legittimato dalla volontà del popolo.
Forse sono davvero convinti che i benefìci per l'economia e per la collettività sarebbero elevati?
Se fosse così, dovrebbero almeno considerare che c'è una illustre schiera di economisti che la pensano in modo diverso.
Personalmente ho il forte sospetto che il nostro Governo se ne infischi di tutto "il sociale" che c'è dietro lo Statuto dei Lavoratori e, di conseguenza, se ne infischi dell'opinione dei cittadini.
Non solo: ho il sospetto che sbandierare questa riforma come strumento fondamentale per migliorare la competitività delle imprese italiane e per incrementare il livello di benessere del Paese, nasconda in realtà il solo desiderio di tutelare gli interessi della classe imprenditoriale e dei "soliti noti" del capitalismo italiano, a scapito della collettività (in questo caso rappresentata dai lavoratori).

Concludo con una domanda (sincera) rivolta sia ai sostenitori di questo Governo che agli oppositori: viste le due principali personalità coinvolte in questo progetto di riforma, siamo proprio sicuri di voler affidare una materia così delicata nelle mani di uno che fino a ieri strepitava per dividere la Padania dalla Terronia, e di un altro che attualmente fa di mestiere l'imprenditore, cioè il datore di lavoro, e che fino all'altro ieri faceva gli spot pubblicitari dello Stock '84?

Francesco Spinosa