La vendetta dei Mujahiddin
Così l'Alleanza bracca i Taliban sulle montagne della capitale
KABUL
—
Si
dispiegano
sul
terreno
con
flemma,
pregustano
la
preda.
Un
carro
armato
sale
sulla
destra
verso
un
canalone,
vomitando
fumo
azzurro.
Sulla
sinistra
una
pattuglia
di
armate
parte
lentamente,
allo
scoperto,
sul
pendio
senza
ripari.
In
mezzo,
ai
margini
di
un
villaggio
sulla
strada
per
Kandahar,
quattro
carri
armati,
numerosi
camion
e
altri
cingolati
carichi
di
uomini
aspettano
sotto
il
sole
l'ora
del
massacro.
A
tre
chilometri,
oltre
la
prima
linea
di
collina,
ci
sono
600
Taliban
con
12
carri
armati
intrappolati
durante
la
fuga
dalla
capitale.
Una
sacca
minore
rispetto
a
quelle
di
Kandahar
e
Kunduz,
le
roccaforti
chiuse
nella
tenaglia
alleata.
«Eccoli»,
dice
il
comandante
Del
Hagha,
guardando
dal
cannocchiale
del
fucile
di
precisione.
E
nel
mirino
vedi
tre
figure
nere
sul
crinale,
accanto
a
un
cannone
anticarro.
Gli
uomini
dell'Alleanza
del
nord
non
hanno
fretta.
Prima
di
attaccare,
attendono
che
il
Grande
Fratello
arrivi
dal
cielo
per
il
trattamento
preventivo.
Maidanshar,
30
chilometri
a
ovest
di
Kabul.
la
fase
finale,
la
più
crudele,
della
caccia
all'uomo.
L'Islam
proibisce
il
suicidio,
ma
raccontano
che
anche
lassù
i
Taliban
in
trappola
comincino
a
togliersi
la
vita
per
non
cadere
nelle
mani
di
questi
tagiki
che
li
odiano
e
li
passerebbero
a
fil
di
spada.
«Ci
muoveremo
con
umanità»,
dicono
i
capi
degli
assedianti,
ma
se
chiedi
a
questi
soldati
cosa
preferiscano,
se
trattare
o
combattere,
ti
dicono
senza
esitare:
«Combattere».
Eppure
non
è
un
assalto
il
loro.
un
pogrom,
un
regolamento
di
conti
razziale,
alla
faccia
della
fratellanza
islamica.
Chi
c'è
lassù,
chiedi.
E
loro
elencano
un
numero
di
etnie.
Pashtun,
uighuri
(etnia
cinese
di
credo
musulmano),
uzbechi.
E
i
ceceni,
i
più
temuti
di
tutti.
E
poi
gli
arabi,
odiatissimi.
A
Kabul
ne
hanno
massacrati
una
cinquantina
negli
ultimi
giorni.
Li
trovano
nei
giardini,
con
la
testa
spaccata,
talvolta
con
i
testicoli
strappati,
con
i
bambini
che
ci
sputano
sopra
e
infilano
loro
in
bocca
per
sfregio
sigarette
accese.
Il
capo
dei
mille
uomini
del
nord
si
chiama
Haji
Sher
Allam,
e
va
alla
mattanza
come
un
contadino
va
a
arare
il
suo
campo,
o
come
un
sacerdote
si
appresta
a
officiare
la
messa.
Settant'anni,
tostato
dal
sole,
un'imponente
barba
bianca
e
un
vestito
bianco
da
mullah,
il
comandante
parla
con
mitezza,
lento,
a
bassa
voce,
quasi
a
comunicarti
l'assoluta
normalità
della
guerra
nelle
terre
d'Oriente.
Qui
i
guerrieri
non
ostentano
la
lunatica
aggressività
dei
guerrieri
balcanici.
Racconta:
«Quando
avremo
2mila
uomini
intimeremo
la
resa.
Se
accetteranno,
non
attaccheremo.
Ma
sia
chiaro,
noi
vogliamo
combattere.
Soprattutto
non
vogliamo
che
questi
passino
le
montagne
per
raggiungere
Kandahar».
I
Taliban
in
collina
sono
comandati
da
due
fratelli,
Golam
e
Mussah
Mohammed,
e
si
sono
asserragliati
accanto
a
un
villaggio
di
nome
Dari
Maidan.
«Gli
americani
—
racconta
il
comandante
—
hanno
già
in
mano
le
mappe
per
distinguere
le
case
dei
civili
dalle
postazioni
militari».
E
mentre
parla,
già
un
B52
solca
il
cielo
sopra
Kabul,
diretto
a
Kunduz.
Lascia
una
scia
bianca
regolare
nell'aria
di
montagna.
Zmaraj
ha
24
anni
e
un
figlio,
viene
dal
nord,
e
combatte
con
l'Alleanza
per
8
dollari
al
mese.
Dormicchia
su
un
camion
blindato
dall'antenna
decorata
di
fiori
augurali.
Preferisci
la
resa
del
nemico
o
lo
scontro?
«Lo
scontro»,
risponde
senza
esitare.
Ti
basta
la
tua
paga?
«No,
ma
ho
un
pezzetto
di
terra».
Perché
combatti?
«Per
la
libertà».
Gli
americani
vi
hanno
aiutati?
«Sì,
certo.
Ma
avremmo
vinto
egualmente»
e
accarezza
il
lanciarazzi
multiplo
BM12,
rivolto
con
le
sue
12
larghe
bocche
verso
il
nemico.
Più
in
là,
sulle
lamiere
di
un
tank
T55,
dormono
altri
7
ragazzi
di
meno
di
vent'anni.
Sul
retro
del
carro,
legna
da
ardere
per
il
bivacco.
La
torretta
porta
il
ritratto
di
Massoud,
il
capo
dell'Alleanza
ucciso
tre
mesi
fa
dai
Taliban,
e
il
cannone
ha
annodato
in
cima
un
fascio
di
fili
luccicanti
di
colore
viola.
Lo
scontro
sarà
terribile,
quelli
lassù
hanno
una
paura
fottuta,
ma
questi
ragazzi
sul
carro
armato
aspettano
quasi
la
cosa
non
li
riguardasse,
pregustando
la
dolcezza
del
sangue.
Sono
figli
del
kalashnikov.
Qui
la
guerra
dura
da
23
anni
e
loro
non
conoscono
altro.
Non
c'è
altro
mestiere
per
loro
in
questo
posto
maledetto.
«Voglio
ammazzarli
perché
mi
hanno
ucciso
Massoud»,
dice
Abdul
Karim,
17
anni,
una
barba
nera
rada
e
un
fazzoletto
annodato
attorno
alla
testa.
«Inshallah,
attaccheremo.
E
se
moriremo,
andremo
lassù».
E
indica
il
cielo
sopra
le
colline
che
ripetono
i
colori
dell'Arizona.
Durante
il
Ramadan,
spiega,
le
porte
del
cielo
restano
aperte.
E
tutto
diventa
più
facile.
Ma
forse,
in
questo
adolescente
con
scarpe
da
ginnastica,
c'è
solo
il
sapore
di
una
vita
che
non
vale
più
nulla.
A
Kabul
la
gente
è
stanca
di
guerre
sante,
non
ne
può
più
dei
suoi
figli
che
vanno
a
morire,
di
vendette
e
pulizie
etniche.
Vuole
ricominciare,
ricostruire
la
città
distrutta,
tornare
alla
vita.
«Non
vogliamo
vivere
in
un
paese
dove
comanda
solo
chi
ha
un'arma»,
dice
Bashil,
45
anni,
un
tipo
allo
"Dersu
Uzala",
il
piccolo
uomo
delle
grandi
pianure
siberiane.
E
uno
dei
3
milioni
e
mezzo
di
mongoli
hazara
che
popolano
l'Afghanistan.
«Qui
non
c'è
più
lavoro,
non
c'è
più
denaro.
Vorremmo
essere
lasciati
in
pace.
Vorremmo
che
il
mondo
non
s'occupasse
più
di
noi».
E
attorno,
la
gente
si
stringe,
gente
mongola
come
lui,
migliaia
di
omini
rugosi
con
occhi
a
mandorla
che
a
Kabul
fanno
un'isola
a
sé,
sempre
schiacciata
da
tutti,
ora
dai
Taliban,
ora
dagli
uomini
del
nord.
Anche
il
colonnello
Hossain
Moradi,
è
mongolo.
Trentotto
anni,
barbetta
da
vietnamita,
comanda
la
polizia
nel
quartiere.
Dentro
la
sua
capannetta
diroccata
con
un
cannone
sul
tetto,
dice
che
la
trattative
per
il
nuovo
governo
sono
un'occasione
da
non
perdere,
vanno
assolutamente
incoraggiate:
«Vogliamo
davvero
la
libertà
e
un
buon
governo
per
tutto
il
popolo
afgano».
Vuol
dire
che
c'è
lo
sforzo
per
raccogliere
tutte
le
etnie
e
i
clan
attorno
allo
stesso
tavolo
e
cercare
un
compromesso.
«Per
questo
—
spiega
—
l'Alleanza
ha
lasciato
l'esercito
e
i
cannoni
fuori
da
Kabul.
Qui
la
nostra
unica
presenza
è
per
garantire
l'ordine
pubblico,
con
1200
uomini
appena.
Abbiamo
imparato
dagli
errori
del
passato».
Intanto,
a
Kabul
scende
con
la
sera
l'ora
delle
voci.
Radio
Afghanistan
trasmette
notizie
sulle
ultime
ore
di
Kandahar
e
di
Kunduz,
con
i
Taliban
che
non
cedono
e
l'Alleanza
che
picchia
sempre
più
duro.
Su
Osama
arrivano
storie
incontrollate.
Che
non
è
più
in
zona
dei
Taliban,
che
s'è
asserragliato
a
Maruf,
in
un
bunker
sui
monti
al
confine
pachistano
di
Quetta.
Poi,
si
sparge
la
voce
della
sua
cattura,
presso
Kandahar
assieme
al
mullah
Omar.
Kabul
aspetta,
i
cani
abbaiano,
gli
aerei
di
Bush
ricominciano
a
colpire.