Le
donne
di
Kabul
MARINA FORTI - INVIATA A PESHAWAR DEL MANIFESTO
Fakria
Assad
è
una
giornalista
di
Kabul
tv.
O
meglio,
lo
era:
perché
quando
i
Taleban
hanno
preso
la
capitale
afghana,
nel
1996,
rovesciando
il
regime
di
Burhanuddin
Rabbani,
hanno
messo
fine
anche
alla
tv
-
e
per
quanto
riguarda
le
donne
anche
a
ogni
spazio
di
vita
pubblica.
Vale
la
pena
ricordare
quel
momento,
ora
che
Kabul
"è
caduta".
Dal
'97
Fakria
vive
a
Peshawar,
come
gran
parte
dell'intellighenzia
e
della
minuscola
classe
media
afghana
urbana
e
istruita,
almeno
quella
che
non
ha
avuto
la
possibilità
di
emigrare:
migliaia
sono
andati
in
Pakistan,
dopo
l'avvento
dei
Taleban,
perché
le
loro
figlie
potessero
almeno
andare
a
scuola.
La
incontro
in
un
minuscolo
ufficio
dall'aspetto
dimesso
nella
parte
più
affollata
e
polverosa
di
University
Town,
due
stanzette
da
cui
conduce
l'attività
di
una
minuscola
associazione
per
i
diritti
umani
in
Afghanistan
-
soprattutto
attività
culturali
con
le
donne.
Siamo
qui
per
parlare
dei
profughi
e
della
guerra,
ma
quando
nomina
Kabul
tv
riemerge
un
ricordo
sepolto.
Nel
1996,
mesi
prima
che
i
Taliban
prendessero
Kabul,
era
circolato
un
appello
firmato
da
un
gruppo
di
giornaliste
della
radio
e
tv
afghana.
Denunciavano
la
progressiva
chiusura
degli
spazi
per
le
donne
nell'informazione.
Fakria,
scopro,
era
tra
le
firmatarie
di
quell'appello
e
ora
le
si
illumina
il
viso:
"Te
lo
ricordi?
C'era
un
clima
terribile
a
Kabul.
Il
presidente
Rabbani
cercava
compromessi
politici
per
rafforzare
il
suo
governo,
e
noi
siamo
state
un
prezzo
del
compromesso.
Ricordo
benissimo
quando
ha
tirato
dentro
quel
Abdul
Rasul
Sayyaf
(leader
pashtun,
fondatore
di
un
partito
di
credo
wahabita,
cioè
dell'islam
più
conservatore
diffuso
in
Arabia
Saudita,
ndr).
La
prima
cosa
che
fece,
entrato
nel
governo,
fu
mandare
una
circolare
per
dire
che
giornaliste
e
annunciatrici
in
video
dovevano
avere
il
viso
coperto
fin
sul
naso,
esclusi
solo
gli
occhi,
e
dovevano
coprire
bene
i
polsi.
I
programmi
condotti
da
donne
erano
cancellati.
Quattro
mesi
dopo
un
nuovo
editto:
le
donne
dovevano
lasciare
radio
e
tv".
Ancor
prima
dei
Taleban,
dunque,
le
donne
erano
state
epurate
dai
media
dagli
stessi
mujaheddin
che
ora
sono
le
colonne
dell'Alleanza
del
Nord,
sostenuta
dall'occidente,
e
che
hanno
preso
Kabul.
Questa
signora
ben
pettinata
e
con
un
po'
di
rossetto,
elegante
in
un
abito
di
seta
bruna,
rappresenta
dunque
quel
40%
delle
donne
di
Kabul
che
lavorava
-
giornaliste,
insegnanti
impiegate
-
sia
nei
regimi
filosovietici
che
nei
successivi,
turbolenti
regimi
dei
mujaheddin.
Perso
il
lavoro
a
Kabul
tv,
Fakria
Assad
si
è
trasferita
a
Mazar-i-Sharif,
la
città
del
nord
allora
controllata
dal
generale
Dostum
(anche
lui
oggi
è
nell'Alleanza
del
Nord).
"Un
collega
mi
aveva
offerto
di
lavorare
alla
radio,
redarre
e
leggere
le
news
del
mattino.
Giorno
per
giorno
annunciavo
l'avanzata
dei
Taleban
e
il
conflitto
tra
le
fazioni
che
nel
frattempo
si
contendevano
la
regione.
La
tensione
era
molto
alta.
La
radio
aveva
anche
problemi
finanziari.
E
poi
le
fazioni
facevano
pressioni
su
di
noi:
ricordo
che
il
comandante
Ahmad
Shah
Massud
un
giorno
fece
appello
agli
altri
comandanti
a
'rispettare
i
giornalisti'.
Ma
intanto
era
un
lavoro,
potevo
mandare
i
figli
a
scuola...".
Poi
è
cominciata
la
tragedia,
dice
Fakria.
Era
la
fine
del
'96,
inizio
del
'97.
I
Taleban
assediavano
le
truppe
di
Dostum,
"combattevano
villaggio
per
villaggio,
strada
per
strada,
una
carneficina.
Ormai
erano
sempre
più
vicino
a
Mazar-i-Sharif.
Per
la
prima
volta
ho
visto
cadaveri
squartati
per
le
strade,
e
uomini
armati
che
non
parlavano
pashto
né
dari
(la
variante
del
farsi
parlata
in
ampie
zone
dell'Afghanistan,
ndr).
I
morti
erano
centinaia,
da
entrambe
le
parti.
E
poi
c'era
il
conflitto
tra
Dostum
e
Massud,
che
infine
diede
ai
Taliban
un'ottima
occasione
per
l'attacco
finale.
Una
mattina,
andando
come
al
solito
alla
radio,
vidi
le
strade
piene
di
miliziani
col
turbante.
Arrivata
in
ufficio
alle
8,
mi
dissero
di
lasciar
perdere
le
notizie
e
scappare,
i
Taleban
stavano
entrando
in
città
e
noi
tutti
eravamo
in
pericolo".
Mazar-i-Sharif
era
la
prima
città
del
nord
che
cadeva
in
mano
al
movimento
guidato
da
Mullah
Omar
-
che
del
resto
si
presentava
come
la
forza
che
pacificava
il
paese
insanguinato
da
guerre
di
fazione,
violenze,
stupri,
rapimenti.
"I
Taleban
pacificavano
il
paese
con
due
strumenti,
altrettanto
convincenti.
Uno
era
l'appello
al
Corano,
con
cui
imponevano
ai
poveri
afghani
analfabeti
quella
che
loro
consideravano
la
legge
divina.
L'altro
erano
i
soldi:
hanno
letteralmente
comprato
la
fedeltà
dei
capi
tribali.
Ho
visto
decine
di
comandanti
mujaheddin
cambiare
copricapo,
mettere
il
turbante
e
diventare
all'improvviso
Taleb...
Poi
i
Taleban
riscuotevano:
i
notabili
pagavano
per
avere
un
posto
di
capo
dell'amministrazione
o
comandante
di
polizia".
Le
milizie
Taleban
cominciarono
a
"ripulire"
la
città.
"Una
sera
si
presentarono
a
casa
mia,
Cercavano
quella
che
aveva
lavorato
alla
tv,
dissero
-
stavano
cercando
tutti,
direttori
e
giornalisti.
Sono
entrati,
mi
hanno
schiaffeggiato,
hanno
spaccato
tv,
video,
cassette.
Urlavano
di
seguirli
dal
comandante.
Se
ne
sono
andati
solo
quando
gli
ho
dato
dei
soldi,
tutti
quelli
che
avevo
in
casa,
promettendo
di
tornare.
Quella
notte
siamo
scappati
verso
Bhalk,
ancora
fuori
dal
controllo
dei
Taleban.
Ma
avanzavano.
Ci
nascondemmo
di
nuovo
in
città,
finché
mio
fratello
mi
ha
portato
a
Kabul:
là
seppi
che
mio
marito
era
stato
arrestato
a
Mazar,
e
che
io
ero
stata
condannata
a
morte
in
contumacia
dall'Alta
corte
islamica
istituita
dai
Taleban
per
essermi
mostrata
alla
tv".
Fauzia
è
fuggita
a
Peshawar,
dove
è
nata
la
bimba
che
ora
gioca
ridendo
col
foulard
della
madre:
"erano
due
gemelli,
ma
sai,
quella
fuga
è
stata
un
po'
dura.
E'
rimasta
lei".
Non
si
sente
tranquilla,
dice,
"i
Taleban
sono
anche
qui".
"Spesso
mi
sono
chiesta
perché
le
organizzazioni
internazionali
dei
giornalisti
non
hanno
detto
nulla
su
di
noi.
In
fondo
io
sono
condanata
a
morte
solo
per
aver
fatto
il
mio
lavoro...".
E
questa
guerra?
"Non
pensare
che
io
difenda
i
Taleban.
Ma
fa
impressione
vedere
le
nazioni
occidentali
campioni
dei
'diritti
umani'
lanciare
bombe
su
un
paese
così
povero
e
stremato
come
l'Afghanistan.
Ora
vediamo
arrivare
questa
povera
gente,
profughi,
e
per
loro
non
ci
sono
campi
né
assistenza,
acqua
potabile,
cure,
cibo".
Mostra
le
schede
di
circa
200
persone,
alcune
con
foto
e
firma,
altre
con
solo
l'impronta
di
un
pollice:
"Ho
visto
uomini
adulti
piangere
in
silenzio
quando
gli
abbiamo
detto
che
l'Unhcr
non
può
registrarli".
Tornare
a
Kabul
ora?
Ride,
triste:
"Inshallah.
Ti
inviteremo
alla
televisione.
Ma
non
avverrà
presto".