Cinismo della propaganda: insieme alla distruzione, i lanci di cibo
La Bomba "umanitaria"
Un'operazione pericolosa ed inutile secondo le stesse organizzazioni internazionali di solidarietà.
La prima guerra del millennio utilizza, per la battaglia mediatica, espressioni già collaudate. Appena cominciano a fioccare le prime bombe, naturalmente "intelligenti", Bush assicura il mondo che di "guerra umanitaria" si tratta, mentre Rumsfeld aggiunge che le incursioni servono ad aprire un "corridoio umanitario" per portare cibo e medicine al popolo afghano. Fini strateghi hanno anche lasciato trapelare che, nella prima ondata di bombardamenti, ben due aerei portavano alimenti e medicine. Le portavano dove? Le paracadutavano fra i civili insieme alle bombe? L’alternanza "bomba-pacco dono" è davvero troppo crudele per essere vera. Ma che l’intento umanitario sia sincero Bush lo dimostra a suon di dollari, cifre impressionanti distribuite a larghe mani.
Malgrado in passato sia stata duramente criticata dalle agenzie umanitarie quella di paracadutare il cibo - si spera non durante il bombardamento - è una strategia pienamente rivendicata dal Pentagono per limitare i "danni collaterali" e indebolire il sostegno al governo dei talebani. Il lancio di cibo fa parte del pacchetto di 320 milionidi dollari annunciato da George Bush per le "povere anime" dell’Afghanistan e dà quindi la possibilità ai funzionari statunitensi e inglesi di respingere con sdegno il sospetto che stiano agendo per altri motivi che non siano quelli umanitari. Altri 195 milioni di dollari sono stati stanziati per fronteggiare il durissimo inverno ormai alle porte, che colpirà i più poveri, ovvero quelli costretti a rimanere sotto alle bombe e sotto al regime, senza alcuna fonte di sostentamento.
Raggiungere chi resta non è affatto semplice, ma il valore politico mediatico dei lanci di cibo è così forte che l’amministrazione Bush non ha intenzione di mettere in discussione le modalità dell’intervento. Oltre a indebolire il regime i lanci umanitari servono a stemperare i sentimenti anti-americani nel mondo arabo - e non solo quello - ma anche per conquistarsi l’appoggio delle Nazioni Unite, della Croce Rossa e di alcune organizzazioni non governative. Il pacchetto con la razione giornaliera rigorosamente politically correct, rispettosa cioè delle abitudini alimentari religiose, diventa così sostanziale.
Peccato però che siano molte le organizzazioni umanitarie che, da tempo, criticano questa modalità d’intervento. Perfino il Dipartimento del governo inglese responsabile per gli aiuti e quello, sempre governativo, per lo sviluppo internazionale, che dall’11 settembre hanno distribuito aiuti per 36 milioni di sterline, si sono sempre opposti al lanci di cibo. Una fonte inglese definisce questo tipo di distribuzione "casuale e pericolosa" e per questo viene in genere utilizzata solo come ultima risorsa. Del resto, anche se il cibo può sempre finire nelle mani del nemico, il valore propagandistico dell’operazione è incommensurabile.
Comunque, lanci a parte, dal punto di vista umanitario la guerra è ovviamente una catastrofe. Una volta partite le Nazioni Unite e le Ong, non resta nessuno a fornire assistenza, medicine, cibo e un minimo di protezione dallo strapotere dei militari. Senza considerare il rischio, ammesso dallo stesso Alto Commissario per i rifugiati, Ruud Lubbers, che vengano tagliati i fondi previsti per altri programmi di aiuti ai rifugiati sparsi nel mondo.
Secondo la Coalizione umanitaria internazionale per l’Afghanistan ci sono circa sette milioni e mezzo di persone che rischiano di non sopravvivere all’inverno. La Coalizione dispone di un fondo di 600 milioni di dollari, donati dal vari governi che ne fanno parte, per sviluppare più rapidamente possibile una strategia che consenta di portare gli aiuti a queste persone. Naturalmente la strategia dipende in larghissima misura dalla natura e dalla scala dell’azione militare lanciata dagli anglo-americani. Si tratta di una vera e propria corsa contro il tempo, come aveva dichiarato Kenzo Oshima, il sotto-segretario delle Nazioni Unite per gli affari umanitari "Abbiamo
appena sette settimane per rifornire di cibo e di medicine la popolazione a rischio, prima che l’inverno determini una catastrofe umanitaria senza precedenti".
Visto che, evidentemente, la guerra "umanitaria" non poteva aspettare, ora l’obiettivo è quello di evitare che un’ulteriore ondata di profughi vada a riversarsi nei paesi confinanti, come Iran e Pakistan, che già ospitano circa 4 milioni di rifugiati. Inutile dire che, fino a questo momento, la comunità internazionale se ne è interessata ben poco. Il Pakistan, infatti, ha sottolineato che, per ben vent’anni, ha dovuto occuparsi di tre milioni di profughi con una donazione di appena 8 dollari a persona ogni anno.
Ma operare all’interno dell’Afghanistan - lanci propagandistici a parte - è tutt’altro che facile. Il World Food Program, ovvero il Programma per la distribuzione del cibo delle Nazioni Unite, aveva difficoltà a raggiungere i suoi obiettivi già prima della crisi. Ogni mese i camion del Wfp riuscivano a consegnare appena 30 mila tonnellate di aiuti umanitari contro i 58 mila considerati necessari. Altre associazioni umanitarie hanno espresso forti preoccupazioni sul fatto che l’azione militare, più che creare fantomatici ‘corridoi umanitari", finisca con il bloccare del tutto le operazioni di aiuti.
«Chi ha un po’ di soldi scappa. I poveri stanno vendendo tutto per comprare un po’ di cibo. I talebani si sono ritirati nei loro villaggi e a Kabul sono cominciati i saccheggi».A parlare è Obaid Ulah, un commerciante di stoffe che mercoledì scorso è riuscito a raggiungere il Panjshir. Bisogna ricordare infatti che, per quanto sotto alle telecamere i profughi possano sembrare miseri, sono loro i più fortunati. Per mettersi in viaggio, anche a piedi, bisogna disporre di viveri e del denaro necessario a corrompere i militari dei posti di blocco. Inoltre bisogna essere relativamente sani e, quindi, avere alle spalle almeno qualche mese di alimentazione decente. Eppure basta dare un’occhiata ai campi per rendersi conto di quanto la situazione sia drammatica già in tempi normali, figuriamoci con l’estendersi della crisi.
E’ proprio la paura della reazione a catena e dell’esplosione del fondamentalismo nei campi profughi che aveva spinto il Pakistan a ipotizzare un rimpatrio forzato. Ed è già stata un’impresa considerevole per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (l’Unhcr) convincere sia il Pakistan che l’Iran a desistere. Resta il fatto che ci si aspetta l'arrivo di almeno un altro milione e mezzo di persone che, per ammissione degli stessi funzionari, non si sa bene come gestire.
Nella sua corsa contro il tempo l’Unhcr ha disposto l’installazione di altri campi egli operatori stanno lavorando a pieno ritmo per dotarli di acqua e di sistemi sanitari. I primi due, che dovrebbero essere pronti in dieci giorni, sono situati nella provincia vicina al confine del Nord Ovest e potranno accogliere 60 mila persone. Gli altri 18 campi previsti richiederanno più tempo per diventare operativi e, con un accoglienza di 200 mila persone, sono destinati a lasciare fuori buona parte della marea umana prospettata dalle Nazioni Unite. Del resto lo stesso Alto commissario l’aveva detto a chiare lettere, appena una settimana fa: l’unico modo di ridurre al minimo il flusso di profughi è quello di evitare una risposta sproporzionata agli attacchi terroristici di New York e Washington. A quanto pare nessuno gli ha dato ascolto.
Sabina Morandi
da "Liberazione "