Tredici modi di dire Afghanistan
Ritratti
di
bambini,
donne
e
uomini,
fra
bombe,
fame
e
aiuti
minati.
Forse
ancora
vivi,
forse
già
morti
o
mutilati...
Se
non
sono
fuggiti,
se
non
sono
morti
(l'incontro
con
loro
risale
a
21
mesi
fa),
ecco
alcuni
dei
civili
afghani
che
forse
moriranno
di
bombe,
di
fame
o
di
mine.
Jamila,
di
Kandahar,
45
anni.
Maestra,
i
taleban
la
licenziarono
come
tutte
le
donne,
poi
trovò
lavoro
con
l'organizzazione
di
sminamento
Omar:
lezioni
alle
donne,
in
luogo
chiuso,
su
come
evitare
le
mine.
Nell'atrio
di
un
ospedale
parlava
a
mucchietti
di
stoffa
azzurri,
verdi,
beige,
sbiaditi
dall'uso:
donne
accoccolate.
Dalle
burqa
sbucavano
visi
e
occhi,
vivaci
ma
cauti,
pronti
a
ritirarsi
all'arrivo
di
una
barba,
pipistrelli
spaventati
dalla
luce.
Come
molti
afghani,
Jamila
scuoteva
la
testa
al
solo
sentire
la
parola
taleban.
Adesso,
le
donne
e
le
bambine
da
lei
addestrate
forse
dimenticheranno
le
lezioni:
correranno
a
prendere
il
pacco
dono
Usa
e
perderanno
arti,
occhi
o
vita
su
uno
dei
milioni
di
mine,
in
genere
made
in
Usa
o
Urss
(ma
anche
italiane).
Hanin,
10
anni,
pastorello
nomade.
Su
un
pendio
brullo
dalle
parti
del
villaggio
di
Auhorma,
provincia
di
Farah,
portava
in
giro
le
capre
nel
dicembre
1999.
Raccolse
chissà
perché
una
granata
inesplosa.
Quando
un
altro
pastore
lo
guidò
-
correndo
entrambi
-
sulla
strada
a
fermare
una
rara
auto,
la
mano
di
Hanin
era
una
poltiglia
triturata
da
cui
si
stavano
staccando
le
dita
rimaste.
Sudò
freddo
ma
non
pianse
per
tutta
la
strada
fino
all'ospedale
di
Herat.
"E'
fortunato",
disse
il
soccorritore,
"passavamo
di
lì;
e
poi
ha
perso
solo
la
mano".
Un
anonimo
bimbo
cantoniere.
Ce
ne
sono
tanti,
sulle
strade
sterrate
o
asfaltate
ma
piene
di
buche.
Per
ore
e
ore,
dai
bordi,
gettano
palate
di
polvere
e
pietrisco
sulle
buche,
cosi
che
le
auto
possano
passare
senza
rompere
le
sospensioni;
sperano
di
essere
remunerati
dagli
automobilisti.
I
piccoli
cantonieri
mangiano
polvere
per
ore;
ma
invano.
Quasi
nessuno
si
ferma
ad
allungare
loro
un
po'
di
afghani.
Le
buche
si
riformano
subito.
Syed
Karim,
della
provincia
di
Ghazni,
il
cui
re
nei
tempi
andati
arrivò
con
le
sue
conquiste
fin
vicino
a
Delhi.
Capo
sminatore
nella
zona
di
Herat
mantiene
un'aria
solidamente
tranquilla.
Fu
giovanissimo
mujaidin
durante
la
guerra
ai
russi.
A
chiedergli
se
nelle
madrasa,
le
uniche
scuole
sotto
i
taleban,
si
insegna
ai
bambini
anche
la
matematica
e
la
storia
e
il
resto,
rispondeva
con
aria
dura:
"No!
Solo
il
Corano,
nient'altro".
Syed
e
altri
sminatori
vivono
come
in
comunità
nell'ufficio-casa
dell'Ong
afghana
Omar.
All'occorrenza,
Syed
preparava
il
tappeto-tavolo
per
la
cena.
Nafisa,
di
Herat,
25
anni,
infermiera.
Una
Ong
internazionale
se
n'è
andata
e
ha
lasciato
la
clinica
materno-infantile
in
mano
ai
locali,
con
pochi
fondi
ma
molta
volontà.
Tutte
donne
i
dottori
e
le
infermiere,
uomini
i
custodi,
che
stanno
al
loro
posto.
Nafisa
non
vedeva
speranze
per
le
giovani
donne
afghane:
"Forse,
quando
questa
bimba
di
cinque
anni
sarà
grande,
forse...".
Hagi
e
Kadigia,
di
Herat.
Lui
ex
scrittore
di
racconti
sui
giornali
afghani,
diventato
piccolo
commerciante
al
bazar;
lei
ex
insegnante
a
casa
a
istruire
privatamente
le
figlie
di
sei
e
sette
anni.
Le
scuole
a
domicilio
(come
quelle
organizzate
dal
movimento
di
donne
Rawa)
sono
l'unico
modo
per
far
crescere
una
generazione
non
analfabeta.
Hulan
Faruk,
11
anni,
provincia
di
Herat.
Dotato
di
gamba
artificiale,
essendo
uno
dei
400.000
afghani
in
qualche
modo
feriti
dalle
mine.
Tre
anni
prima
raccoglieva
sterpaglie
combustibili
con
i
due
fratellini,
uno
dei
quali
trovò
qualcosa:
all'improvviso
ci
fu
uno
scoppio.
Loro
morirono,
Hulan
fu
salvato
dai
contadini
accorsi.
Un
anno
dopo
morì
il
padre,
così
lui
a
otto
anni
diventò
ciabattino.
A
dargli
dei
biscotti
non
osava
mangiarli.
Alcuni
suoi
amici
raccoglievano
ordigni
non
esplosi:
pericolosissimo,
ma
la
rudimentale
fonderia
lì
vicino
pagava
"bene"
la
ferraglia.
Alia,
21
anni,
di
Kabul.
Ex
studentessa:
all'arrivo
dei
taleban
si
stava
iscrivendo
all'università,
che
fu
allora
interdetta
alle
donne.
Abitava
in
uno
dei
pochi
quartieri
non
azzerati
di
Kabul,
un
vero
lusso.
Dentro
la
casa
di
sua
cugina,
i
burqa
erano
appesi
vicino
all'uscio,
indicate
da
moglie
e
marito
mentre
parlano
della
sciagura
talebana.
Non
lontano,
là
fuori,
mentre
scende
il
rosso
del
tramonto,
donne
sotto
il
burqa
chiedono
l'elemosina
in
silenzio.
Tahirè,
di
Kartah,
villaggio
occidentale.
Otto
figli,
è
tornata
a
coltivare,
ricostruendo
la
casa
di
terra,
dopo
un
lungo
periodo
trascorso
in
Iran
come
rifugiata.
Nel
suo
cortile,
si
mostrava
senza
burqa
anche
di
fronte
agli
uomini!
Ahmed
Zei,
di
Kabul,
un
gigante
tranquillo
di
39
anni.
Mentre
usciva
dal
corso
di
chimica
industriale
a
Kabul,
i
sovietici
entravano
in
Afghanistan.
La
sua
famiglia
fuggì
dalla
guerra;
lui
si
laureò
in
Scienze
politiche
in
Pakistan.
Poi
diventò
sminatore.
Diceva:
"Dobbiamo
pulire
ancora
almeno
300
milioni
di
metri
quadri:
potremmo
farcela
in
tre
anni".
Ma
i
fondi
non
ci
sono.
I
4mila
sminatori
afghani
sono
quasi
disoccupati.
Ashrafi
Docente
universitario
di
pedagogia
a
Kabul
fino
al
1992.
Poi,
via
i
russi
e
via
Najbullah,
i
mujaidin
presero
il
potere
ma
presto,
combattendosi
l'uno
l'altro,
distrussero
Kabul,
l'università
e
la
casa
di
Ashrafi,
che
salvò
solo
la
vita.
Dopo
un
periodo
in
Pakistan,
si
è
di
recente
riciclato
come
factotum
per
le
Ong
straniere.
Nostalgico
del
pre-1992,
per
lui
"forse
gli
Usa
hanno
aiutato
i
taleban
perché
fa
loro
gioco
mostrare
un'immagine
orrenda
dell'Islam".
Amava
indicare
le
macerie
dove
sorgevano
un
teatro
o
una
stazione
di
filobus,
una
scuola
o
un
cinema;
e
la
sua
casa;
e
le
donne
fantasma
elemosinanti
all'angolo
delle
macerie.
Noor
Mahamed,
di
Kabul.
La
dignità
fatta
persona
e
una
splendida
faccia
di
anziano
afghano
sotto
il
turbante.
Gestiva
il
Green
Hotel
prima
dell'occupazione
russa,
quando
"Kabul
era
bella
come
Parigi"
e
piena
di
turisti.
Non
esiste
più
da
un
pezzo
il
Green
Hotel.
Noor
campava
lavorando
come
cuoco
in
un
ufficio.