Le armi salvano gli USA

Come evitare la recessione? iniziando una guerra!

Un giro d'affari di quasi 800 miliardi di dollari l'anno. Destinato ad aumentare del 50%. E soccorrere così l'economia dei paesi ricchi. Dove la produzione è in calo da 13 mesi.

di Miriam Giovanzana

La prima conferma che l'industria degli armamenti avrebbe voltato pagina la si è avuta il 17 settembre, il giorno della riapertura della Borsa di New York: Wall Street non era mai stata chiusa così a lungo dalla crisi del 1929 e mentre gli assicurativi e i titoli delle compagnie aeree cominciavano a valere come carta straccia (Continental e Delta per esempio perdevano il 49 e il 44 per cento del loro valore) le azioni delle società del settore difesa sono schizzate verso l'alto. Bene in particolare le società fornitrici del Pentagono: Lockheed Martin (che produce tra gli altri gli aerei F-16) quel giorno ha guadagnato il 15 per cento; addirittura il 27 per cento Raytheon (elettronica per la difesa e missilistica) e, ancora, il 16 Northrop Grumman (aeronautica). All'appello dei 4 grandi fornitori del Pentagono manca solo Boeing (che alla riapertura perdeva il 18 per cento, ma, tra tutti, è il gruppo più fortemente duale civile/miliare).Sono loro che rappresentano oggi i magnifici quattro dell'industria bellica americana, dopo una serie di acquisizioni e fusioni tra le 21 società prima esistenti.

Torna la stagione d'oro

Dopo l'11 settembre quindi l'industria bellica rischia di tornare alla ribalta in tutto il mondo e di essere il volano di una ripresa della produzione e dell'economia occidentale che già prima degli attentati di New York e di Washington avevano dato pesanti segni di recessione. Anche Confindustria, in un documento sulle previsioni macroeconomiche e le tendenze dell'industria dopo gli attentati, scrive che "vi sarà verosimilmente un cospicuo aumento in tutti i paesi delle spese civili e militari, pubbliche e private, per la sicurezza delle persone, delle cose, dei sistemi informatici e di telecomunicazioni".

"Addio alla new economy, stiamo entrando nella war economy" scriveva già in settembre il Los Angeles Times. E qui torniamo ai 4 principali fornitori del Pentagono: oggi il 90% della produzione mondiale di armamenti è concentrato in 10 paesi e metà della produzione è localizzata negli Stati Uniti. E sono gli Usa ad avere sviluppato più di qualsiasi altro le tecnologie più sofisticate per i grandi sistemi d'arma. Chi produce e chi compra Non soltanto quindi gli Stati Uniti sono i grandi compratori in questo settore (il 37% delle spese militari mondiali), ma sono anche quelli che in questi anni hanno continuato a investire in ricerca e sviluppo di nuove armi. Si calcola che nel 2002 il bilancio della Difesa americana potrebbe arrivare al 5% del prodotto interno lordo come dieci anni fa (mentre nel 2000 era di circa il 3%). Tutto ciò potrebbe far invertire la tendenza dell'ultimo decennio per quel che riguarda la spesa militare mondiale che nel 2000 è stata di 798 miliardi di dollari e che si mantiene su questi livelli dalla fine della guerra fredda (era invece di 1.200 miliardi in dollari correnti nell'85).

Con Enduring freedom molto sembra destinato a cambiare anche perché il ruolo dell'economia di guerra può essere determinante oltre che nella lotta al terrorismo anche nella lotta alla recessione se si considera che la produzione industriale negli Stati Uniti è in calo da 13 mesi consecutivi. Il che potrebbe valere anche per l'Unione Europea che, con grandi difficoltà, ha però conosciuto gli stessi processi di fusione e accorpamento dell'industria bellica americana (un processo sostenuto e finanziato spesso dagli Stati). Sei i paesi più interessati da questi cambiamenti finalizzati a competere su un mercato sempre più globale: Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Spagna e Svezia. Ma per un'industria degli armamenti sempre più sofisticata c'è bisogno di un mercato globale, cioè di un mercato abbastanza grande per assorbire i costi di ricerca e sviluppo industriali. E questo è appunto lo scenario che apre Enduring freedom.

Dai vip ai missili

Il che significa quindi che ci dobbiamo aspettare nuovi cambiamenti anche per l'industria degli armamenti italiana: l'Agusta, per esempio, (che in base al valore contrattuale delle esportazioni autorizzate dallo Stato è al primo posto tra le aziende italiane con 582 miliardi di lire nel 2000) ha ormai un fatturato che è costituito dal 50% da produzione civile (contro una media storica del 20%) e dal 50% di militare. Ma la gran parte della produzione di elicotteri (nel segmento di mercato degli elicotteri medi l'Agusta è leader mondiale) per usi civili può essere riconvertita con facilità per usi militari. Ed è chiaro che dopo 10 anni in cui il mercato ha chiesto modelli per i vip e per gli usi civili tutto ciò non è più vero in tempi di recessione e crisi economica. E i committenti più interessanti tornano ad essere gli eserciti. Qui vale la pena fare una piccola nota a margine: gli stessi processi di fusione e di accorpamento che hanno reso più "efficiente" l'industria bellica europea rendono oggi più difficile il controllo delle esportazioni e quindi dei flussi dei grandi sistemi d'arma nei confronti di Stati dittatoriali e, perché no?, di terrorismi vari. Se si vuole mantenere un controllo sul business delle armi è urgente ripensare anche questi strumenti.

Borse in altalena

Forse non sapremo mai se l'attacco alle Torri gemelle è stato preceduto da speculazioni di Borsa ad hoc da parte di Bin Laden o di qualcuno dei suoi (indagini sono in corso negli Stati Uniti e nell'Unione europea). Quel che è certo che gli attacchi terroristici hanno avuto come effetto quello di mettere a repentaglio l'economia così come oggi la conosciamo. Le Borse erano già in difficoltà prima dell'11 settembre: rispetto ai massimi raggiunti nei primi mesi del 2000 le perdite oscillavano tra il 30 e il 50 per cento un po' su tutti i mercati, soprattutto per quel che riguarda i titoli tecnologici. La discesa è incominciata nella seconda metà del 2000 ed è proseguita, con alti e bassi, per tutto il 2001 con perdite fino a fine agosto intorno al 10% per New York e al 20% per Milano. Dopo l'11 settembre c'è stato un crollo: 20% circa per entrambi. Dopo il 20 settembre è tornato un po' di ottimismo sui mercati e alla fine dell'anno le Borse avevano recuperato la situazione precedente l'11 settembre. Tutto come prima dunque? No affatto. Perché alcuni titoli hanno perso molto e altri hanno guadagnato. Male gli assicurativi, i titoli relativi alle compagnie aeree (e ai produttori), i titoli ciclici e tutto il settore del turismo. Bene invece i telefonici e i farmaceutici (la Bayer, produttrice del Cipro, l'antibiotico elettivo contro l'antrace, ha visto il titolo segnare addirittura una punta del più 44 per cento). Bene anche tutti i tecnologici legati all'industria della Difesa e della sicurezza.

Secondo la commissione Bilancio del Congresso Usa, il rafforzamento dei sistemi di sicurezza antiterrorismo potrebbe valere 1.500 miliardi di dollari. Una cifra enorme sulla quale si fa conto, tra l'altro, per uscire dalla recessione. Pesante l'intervento pubblico americano a sostegno dell'economia (e per un liberista convinto come l'attuale presidente americano non c'è male). Bush ha lanciato una manovra tra i 65 e i 75 miliardi di dollari ai quali vanno aggiunti i 40 miliardi già stanziati per la sola New York e i 15 miliardi a sostegno delle compagnie aeree. Ed è pronto un maxi taglio alle tasse da 60 miliardi di dollari.