AMAZZONIA O MORTE!
Le
assurde situazioni di degrado in Amazzonia ed i piccoli interventi di facciata
in periodo elettorale
Rivive in Brasile il mito della grande frontiera: un territorio immenso,
senza legge e denso di pericoli, da conquistare ad ogni prezzo. In viaggio
attraverso le ferite di una terra sacrificata inseguendo miraggi di ricchezza.
Asfalto elettorale
Una delle prime cose che colpisce i visitatori appena giunti nelle zone fra i
tropici e l’equatore è il colore rosso vivo del suolo, ricco di ferro e
silicio, che permea di sé il paesaggio e lo rende inconfondibile. È proprio
questa terra rossa che erompe dalle buche disseminate sulle strade del Brasile
settentrionale, spargendosi sull’asfalto come sangue che sgorga da una ferita.
La gente di qui lo chiama asfalto elettorale, un sottile strato di civiltà
industriale che viene spalmato sulle piste all’epoca delle elezioni e che è
destinato a logorarsi molto rapidamente sotto le violente piogge equatoriali e
sotto il peso enorme dei grandi camion carichi di legname sottratto alla
foresta.
I crateri sanguinanti segnalano il primo stadio di degrado della strada, facendo
sì che la destra e la sinistra della carreggiata scompaiano per fare posto al
"si passi dove si può". Lo stadio successivo è il progressivo
sbriciolarsi dell’asfalto, sino a che la strada torna ad essere una lunga
striscia rossa tra il verde delle piantagioni, una pista butterata di crateri e
pronta a trasformarsi in rovinoso torrente al sopraggiungere delle piogge.
Da una di queste piste dissestate parte il nostro viaggio. In compagnia di un
tecnico agricolo e di un Índio Tembé che partecipano ad un progetto Mani Tese
nella zona di Capitão Poço, ci imbarchiamo su un fuoristrada alla volta del
Pará meridionale, verso le riserve indigene e verso il confine con la foresta
amazzonica.
Paragominas
Avanzando verso l’interno del paese, prendiamo la rodovia Belém-Brasília e
lentamente ci avviciniamo a Paragominas. La città alcuni anni addietro era un
grande polo di sviluppo. Qui si installarono i madeireiros, i trafficanti di
legname, da qui partì ai tempi della dittatura lo sfruttamento commerciale
dell'Amazzonia Orientale. Oggi non esiste più un solo lembo di foresta in tutta
la regione. È uno spettacolo desolante che stringe il cuore.
Senza la protezione della coltre vegetale, il sottile e povero suolo amazzonico
viene dilavato dalle piogge violente e in breve non produce altro che sterile
sterpaglia. Il sole picchia direttamente sul terreno durante il giorno e
arroventa il clima. Vecchi veicoli scassati arrancano in nuvole di polvere rossa
sulle piste piene di buche.
La foresta è sparita, non ci sono più alberi da abbattere, la miseria prende
il sopravvento su questa gente che aveva sperato di partecipare al grande
banchetto ingordo servito a spese della natura, e si ritrova adesso perduta al
centro di un territorio desertificato contendendosi le ultime briciole di
ricchezza: il carbone di legna.
Gli ultimi forni
Passata l'epoca della deforestazione selvaggia per quanto riguarda Paragominas,
una nuova triste immagine di questa città è entrata nell'immaginario
collettivo brasiliano. È la coltre cinerea di fumo che nasconde il cielo. È il
lavoro forzato di adulti e bambini nei forni per produrre carbone con quel che
resta della legna, gli alberi più giovani, i resti della lavorazione delle
segherie. I forni si susseguono verso l'interno, nascosti nel loro stesso fumo,
appena visibili dalla strada, e sono come termitai roventi, brulicanti di
fatica. Un'indagine del 1993 evidenziò che in quattro mesi a Paragominas erano
morti 126 bambini con meno di tre mesi di età, di cui l'80% per intossicazione
da polveri uscite dalle 96 segherie e per la fuliggine provocata dalle centinaia
di forni per il carbone.
Ora anche questa fase sta terminando, la legna si esaurisce, l'industria
siderurgica legata al più grande progetto di distruzione ambientale del Brasile
dopo la Transamazzonica, il Programma Grande Carajás, deve andare altrove a
cercare il combustibile per le sue fornaci. Qui rimangono gli ultimi forni
accesi, le malattie respiratorie, la miseria di una città e di un intero
territorio lasciato da parte, tagliato fuori dalla frontiera della foresta che
corre avanti ogni giorno più veloce.
Decadenza
Una lunga teoria di segherie in disuso e quasi abbandonate si apre ai bordi
della pista, relitti di un passato che non tornerà. Le stazioni di servizio
sono deserte e spesso prive di carburante, le churrascarias sono semivuote. Non
ci sono più abitazioni di fango e paglia, in questa regione, né mattoni: il
legno è onnipresente, un tempo era il materiale più economico e abbondante. Ma
adesso che non se ne trova più le case mostrano segni di decadenza, hanno
bisogno di riparazioni che non arriveranno.
Sulla strada polverosa catorci dalle gomme lisce, senza cofano, con una ghirba
agganciata al finestrino al posto del serbatoio perduto, ansimano stancamente
scaricando densi fumi neri. I convogli di grandi camion moderni carichi di
legname vengono da lontano e vanno lontano, non si fermano più a Paragominas.
Reflorestamento?
Procedendo verso l'interno, il panorama non cambia. Di quando in quando appaiono
dei boschi lungo la strada, ma sono boschi finti. Gli alberi sono tutti uguali,
piantati a intervalli regolari: mogano, eucalipto e paricá da trasformare in
fretta in raffinata mobilia per i Giapponesi e gli Americani. Si tratta dei
famosi progetti di reflorestamento, termine curioso per dei boschi artificiali,
ordinati e puliti. Nel groviglio della foresta, quella vera, in genere occorre
percorrere cento metri per incontrare due alberi della stessa specie.
A parte questi progetti di reflorestamento e qualche sporgenza collinosa mal
rasata, il resto del panorama è piatto. La rodovia attraversa piccoli municipi
isolati e sbiaditi nel sole, annunciati di lontano dalle spirali di fumo che si
levano dagli ultimi forni accesi, dove la legna si tramuta in carbone. Il
business si è spostato, la foresta è esaurita, ma rimane qualche arbusto di
capoeira (foresta degradata) per alimentare le cucine.
Latifondi e baixadas
Rallentiamo sui quebra-mola (enormi dossi artificiali) e scorgiamo bambini che
sguazzano nelle pozze formate da qualche torrente. Anche qui le case e le
baracche di legno hanno conosciuto tempi migliori. Queste povere colonie di
lavoratori sfruttati e infine lasciati da parte sono state costruite in baixadas
lungo la strada, sui terreni peggiori, e sono destinate ad essere sommerse ad
ogni stagione delle piogge. Le terre migliori, una volta spogliate, sono state
trasformate in pascoli desolatamente vuoti, e sono tutte latifondi di ricchi
fazendeiros che abitano molto lontano da qui, a Castanhal o a Belém.
A volte vediamo le grandi Chevrolet di qualcuno di questi signori onnipotenti
scivolare sicure, i vetri azzurrati e l'aria condizionata, sulla strada
dissestata, mentre noi non distinguiamo più i cigolii del nostro mezzo da
quelli delle nostre ossa. Quasi non si incontrano auto normali, fuori dagli
abitati, solo qualche fuoristrada e qualche autobus di linea, oltre
all'immancabile corteo di camion dei trafficanti.
Verso la fine del pomeriggio giungiamo a Dom Eliseu, ovvero il primo svincolo
dopo trecento chilometri. È quasi con sollievo che lasciamo la Belém - Brasília
e prendiamo la BR 222 per inoltrarci verso Marabá, la regione di Carajás e,
finalmente, la foresta.
Terra corrugata
Il panorama è mutato, la regione pre-amazzonica è definitivamente alle nostre
spalle, ma l'apparizione della foresta si fa attendere a lungo. La strada
prosegue senza fine in un curioso saliscendi. Sembra che la crosta terrestre sia
corrugata in una smorfia di dolore, dorsali di colline parallele come rughe su
una pelle ferita si rincorrono una dietro l'altra. La strada le supera
arrampicandosi, salendo e scendendo di continuo.
Dalla cima di ciascuna di quelle colline si apre un'ampia vallata spoglia di
vegetazione, un deserto di fazendas e di pascoli vuoti. Ogni tanto un viottolo
sterrato si diparte dall'asfalto della pista conducendo ad un ranch, insegne di
legno oscillanti al passaggio dei grandi camion recano nomi giapponesi,
italiani, stranieri. La desolazione è rotta dall'orizzonte serrato
nell'abbraccio della prossima collina. È un orizzonte vegetale, scuro di alberi
a perdita d'occhio. È finalmente la foresta che si avvicina? Stiamo forse
lasciando alle nostre spalle la rapace spoliazione, la triste miseria dei forni
del carbone?
La frontiera scomparsa
La strada intaglia il crinale della collina, si inserisce come una crudele
ferita tra altissime pareti rosse di terra franosa. E da vicino riconosciamo che
ciò che era parso foresta non è che il ricordo della vegetazione primaria, un
capoeirão in cui l'uomo ha già fatto scempio delle specie pregiate, degli
alberi più antichi e più belli. Infine il tunnel si apre verso una nuova
vallata luminosa e deserta, un'altra fazenda desolata, contornata da una fascia
d'alberi sempre più esile e lontana. Scendiamo a rotta di collo e sul ciglio
della strada scorgiamo una serie di piccole croci bianche sinistramente
conficcate nel terreno. Un autobus carico di passeggeri si è scontrato in
questo punto con un camion di madeireiros. Cinquanta morti. Andiamo oltre.
Dritta di fronte a noi, immancabile, dopo la lunga discesa nella luce,
un'ennesima collina ombrosa ci attende. Ma non è la foresta che ci viene
incontro, ormai lo abbiamo capito. È che i fazendeiros fingono di rispettare le
regole dell’IBAMA (Istituto per l'Ambiente), secondo cui la foresta dovrebbe
essere preservata e rispettata almeno sul 30% del latifondo. I fazendeiros
lasciano uno scampolo di vegetazione in cima alle colline, dove sarebbe meno
facile pascolare le bestie, come alibi per coprire la devastazione operata sul
resto del territorio e come riserva di legna per piccole riparazione o per
erigere staccionate. Così la pista serpeggia tra colline e vallate,
prospettando di continuo nuovi inganni di frontiera verde. La foresta è
scomparsa da questa regione, non c'è più.
Fuochi nella notte
Superiamo Rondon do Pará, città che ai tempi d'oro contava trenta segherie, e
poco alla volta il languido tramonto dell’Amazzonia Orientale ci sorprende con
i suoi colori di fiaba. Ma da lì a poco iniziano le preoccupazioni. L’oscurità
favorisce gli assalti lungo la strada. Ormai i camion dei trafficanti di legname
procedono soltanto in convogli, per proteggersi reciprocamente. A brevi
intervalli ci vengono incontro, e a volte da lontano riconosciamo luci più cupe
e tremolanti. Avvicinandoci, scopriamo che si tratta di lunghe lingue di fuoco.
I braccianti dei fazendeiros stanno ripulendo il terreno col metodo più spiccio
per preparare il pascolo. Il fumo invade la strada e la cancella.
La notte nasconde altre insidie. Non bastano i quebra-mola in agguato nel buio:
ora incontriamo alberi abbattuti sulla strada, perfino un camion ribaltato, con
tutto il carico di legna spalmato sull'asfalto. Ogni ostacolo ci fa pensare ad
un possibile assalto.
La notte non è fatta per viaggiare. Cerchiamo un posto riparato dove appendere
le amache. Lo troviamo in una stazione di servizio a Bom Jesus do Tocantins,
isolata e senza carburante, un posto tranquillo, che non dà nell’occhio.
L’indomani saremo a Marabá, e infine tra gli Índios.
Il ponte sul Tocantins
Marabá è formata da una città vecchia e da una nuova, divise dal maestoso Rio
Tocantins e collegate dal grande ponte ferroviario e stradale che collega la
regione al mare. Questo è il punto più stretto del fiume, e tuttavia la
visione è impressionante. Il ponte scavalca le acque da un'altezza di cinquanta
metri, ed è lungo quasi due chilometri e mezzo.
Ecco il ganglio dell'arteria vitale del Programma Grande Carajás, la strada
ferrata che trasferisce la ricchezza di tanti uomini sfruttati verso il porto di
São Luis, verso i mercati di esportazione. Una grande opera ingegneristica
realizzata a regola d'arte nel mezzo di un'area senza legge né diritti. Il 70%
della ghisa prodotta è destinato all'esportazione, soprattutto verso il
Giappone, e in secondo luogo verso l'Europa e gli Stati Uniti, mentre il prezzo
medio dagli anni settanta è caduto dai 130 $ ai 105 $ la tonnellata.
Non incontrerai altre ferrovie per duemila chilometri in qualsiasi direzione. Il
ponte di Marabá è palesemente pensato per la ferrovia. L'asfalto è un
complemento, una doppia striscia che corre ai margini dei binari, entro pareti
di cemento, in contromano rispetto al normale senso di marcia grazie ad un
fantasioso sistema di rampe di accesso. Sospesi nel vuoto, i veicoli devono
attraversare un corridoio stretto e senza vie di fuga, luogo ideale per assalti
ai viaggiatori. I due militari isolati alle estremità lontane del ponte non
potrebbero intervenire in caso di necessità.
Sacrificio sull'altare del Carajás La gente del posto ricorda bene cosa
accadde sul ponte di Marabá all'epoca della rivolta dei garimpeiros (cercatori
d'oro) del Carajás. Espulsi dalle aree metallifere, il cui diritto di
sfruttamento era stato monopolizzato dalle multinazionali del settore, circa
centocinquanta di questi derelitti sul lastrico e senza più nulla da perdere
avevano occupato il ponte nel 1991 bloccando il transito dei treni carichi di
minerale. Da entrambe le estremità, la polizia militare caricò.
Nel racconto popolare, i garimpeiros cercarono scampo gettandosi nelle acque
limacciose del grande fiume. Nessuno fece ritorno. Centocinquanta corpi senza
vita trasportati dalla corrente verso l'estuario del Rio delle Amazzoni. Il
notiziario televisivo, all'epoca, parlò di quattro morti e della riapertura del
maestoso ponte ferroviario sul Tocantins.
Índios
Lasciata Marabá, procediamo vero la riserva degli Índios Mbya Guarani, nel
territorio di Jacundá, sulla PA 150. Giunti in questa regione di malaria
endemica dopo molti anni di peregrinazioni, gli Índios sono stati duramente
colpiti dalla malattia, che ne ha paralizzato le attività negli ultimi due
anni. Solo ora si stanno riprendendo, grazie a una pausa dell’epidemia e
grazie al progetto di allevamento di vacche da latte sostenuto da Mani Tese. Ma
ancora sono isolati perché il municipio non cura le strade, e le loro capanne
sono rifugi precari.
Più bellicosi e fieri sono invece gli Índios insediati nelle zone ancora
scarsamente esplorate della foresta. Negli stessi giorni del nostro viaggio,
veniamo a sapere che le comunità indigene del Rio Xingu, seicento chilometri più
ad ovest, hanno fatto prigionieri una dozzina di appassionati di pesca sportiva
arrivati da São Paulo, che incautamente erano penetrati nel territorio della
riserva. Gli Índios, stanchi di aspettare che le promesse del governo si
tramutino in realtà, minacciano di uccidere tutti gli ostaggi se le loro terre
non verranno demarcate.
"Greenpeace = miséria"
Episodi come questo si ripetono con allarmante frequenza, ma non bisogna credere
che gli Índios lottino semplicemente per la difesa della natura. È tristemente
noto quanto sia facile pescare, abbattere alberi o catturare animali selvatici
in barba alla legge, purché si paghi una misera mancia agli Índios o agli
ispettori dell’IBAMA.
Qui tutti devono sopravvivere: lo sfruttamento indiscriminato delle risorse
naturali è la fonte di guadagno più facile e rapida per una gran parte della
popolazione povera, a sua volta astutamente usata dai trafficanti.
Fino a quando noi cittadini del mondo ricco non inizieremo a pensare a quale sia
l’origine del legname con cui sono prodotti i mobili che acquistiamo, per fare
un esempio, questa spirale di sfruttamento e distruzione non sarà fermata.
Sarebbe troppo facile ed errato colpevolizzare le popolazioni locali, costrette
a difendersi dalla fame piuttosto che a difendere il loro territorio. Per questo
non ci scandalizziamo, una volta tornati a Belém, nel leggere su grandi
manifesti campeggianti nel centro della città: "Greenpeace = miséria / a
Amazônia é nossa!"
GRANDE CARAJÁS: SVILUPPO O DISTRUZIONE?
Situate sulle terre che un tempo erano appartenute agli Índios Carajás,
duecento chilometri a sud di Marabá, nello stato del Pará, le miniere di ferro
propagandate negli anni ’80 dal governo militare come nuovo polo di sviluppo
per il Brasile si sono presto trasformate in una bomba ecologica e in un moderno
girone infernale per nuovi lavoratori schiavi.
Oltre a questo, gli altiforni per la produzione di ghisa necessitano di molto
combustibile, e la presenza della foresta e di una popolazione di piccoli
contadini ha risolto, nei conti delle imprese, sia il problema della materia
prima che quello della mano d'opera. Per il territorio e chi lo abita, però,
questo si è tradotto in una gigantesca tragedia che è arrivata fino ad Açailândia,
Imperatriz e Santa Luzia in Maranhão, Marabá, Rondon e Paragominas in Pará.
Un'area vasta come l'intera Italia.
Questa regione era abitata da piccole comunità di contadini insediatisi lì da
molte generazioni. Coltivavano riso, mais e fagioli d'inverno, manioca d'estate.
Mantenevano i boschi da cui ricavavano di che costruire abitazioni e semplice
mobilia, oltre a un centinaio di specie medicinali, nutrimento e legna da
ardere. Sulle terre comuni praticavano piccolo allevamento di buoi, galline e
maiali. Non esistevano recinzioni. Poi il governo decise di sviluppare la
regione ed attirò le imprese dal sud del paese e dall'estero.
Alla metà degli anni ’80, sulla scorta del Programma Grande Carajás,
arrivano la MARGUSA, società produttrice di ferro-ghisa, e la MARFLORA, il suo
braccio forestale. La MARFLORA, nata per rifornire di carbone di legna gli
altiforni dell'impresa sorella, presenta alle autorità il suo piano di gestione
forestale sostenuta per lo sfruttamento ecocompatibile delle risorse naturali.
Il piano prevede l'utilizzo di legna proveniente da alberi già caduti e dalla
pulizia del bosco, il taglio di alberi fino ad un certo diametro di tronco, il
rispetto di una ventina di specie protette, e infine grandi opere di
riforestazione. Il tutto su un'area di quarantamila ettari.
Ma ben presto la MARFLORA comincia a fare incetta di terra nel Maranhão
orientale, corrompe numerosi funzionari pubblici e si fa confezionare falsi
certificati di proprietà o di "possesso giustificato", di fronte ai
quali gli organi di controllo sono tacitati o convinti a non indagare. L'impresa
giunge così ad appropriarsi di più di centomila ettari di terra.
Il secondo passo è assicurarsi la mano d'opera. Grandi promesse e buoni
stipendi iniziali convincono i contadini ad abbandonare i propri campi per
lavorare ai forni del padrone, abbattere i propri boschi per farne carbone
vegetale. In breve diventano dipendenti dalla nuova attività.
Ecco allora che i salari diminuiscono drammaticamente, legna e carbone prodotti
sono pesati fraudolentemente dall'impresa e pagati sempre di meno. Nel frattempo
i costi di manutenzione dei forni ricadono sui lavoratori, i quali finiscono con
l'indebitarsi e si trasformano in schiavi della MARFLORA. Accanto agli adulti,
al lavoro tra le batterie di forni compaiono bambini sempre più giovani. Il
calore e la fuliggine bruciano i polmoni di questa povera gente. Quando qualcuno
inizia a ribellarsi, compaiono i pistoleiros dell'impresa a ristabilire
l'ordine.
Quando ogni albero è stato abbattuto, la MARFLORA si sposta altrove e inizia a
piantare boschi artificiali destinati al macello tra i forni, i famosi piani di
reflorestamento. I carbonai possono tornare a fare i contadini, adesso, ma non
hanno più i boschi che li sostentavano. Quattro anni di moderno sviluppo hanno
rovinato il territorio più dell'arretrata agricoltura di quattro generazioni di
contadini.
Sul viale antistante il terminal rodoviario di Belém, capitale del Pará, si
erge il monumento a ricordo dei diciannove contadini del Movimento Sem Terra
caduti a Eldorado dos Carajás sotto i colpi dei militari. Eldorado è un
monumento a tutti coloro che subiscono le conseguenze di un modello di sviluppo
ingiusto e insostenibile. La lotta dei movimenti popolari, delle pastorali
sociali e delle ONG è un esempio concreto da seguire per continuare a sperare
nel futuro.