Dialogo al fioretto tra Roma e L'Avana
La domenica, la chiesa è piena e il portale rimane
aperto. "Io dico ciò che voglio nella mia chiesa, afferma il curato, ma so
che tutto è sorvegliato." Agli informatori dovrebbero fischiare le
orecchie quando i fedeli cantano: "Non è più felice chi ha il potere, o
l'ossessione di possedere". Lo sanno, i suoi parrocchiani, ciò che stanno
cantando? Il prete risponde con un sorriso. A Cuba, cattolici e comunisti si
tollerano a vicenda, ma restano diffidenti: non c'è entusiasmo, ma i calcoli
strategici di due istituzioni, la Chiesa e lo stato, ciascuna alla ricerca di
vantaggi attraverso il dialogo.
La rivoluzione cubana non ha mai chiaramente affermato un ateismo di principio;
ha piuttosto insistito sui motivi politici congiunturali della sua ostilità
verso la Chiesa cattolica: la prossimità tra l'istituzione ecclesiale e gli
oppositori della rivoluzione in particolare gli esiliati. Eppure vi è stato
ateismo. All'epoca della rivoluzione del 1959, il Partito comunista cubano (Pec)
si definiva ateo e proclamava l'inesistenza di Dio. "Noi non esigiamo
esattamente che ogni membro del partito sia ateo, spiegherà Fidel Castro nel
1985, in un lungo colloquio concesso a Frei Betto; la nostra non è una
posizione anti-religiosa. Ciò che esigiamo è un'adesione integrale e ferma al
marxismo-leninismo in tutti i suoi aspetti, non solo politico-programmatici ma
anche filosofici." Non c'è stata mai, come altrove,
"persecuzione" o "riduzione al silenzio", ma un
atteggiamento fatto di ostilità e di confronto, che incontestabilmente ha
indebolito la Chiesa cattolica, tanto da a farle perdere una parte del suo clero
e delle sue scuole, canale essenziale di diffusione dei suoi messaggi. Non
mancavano i cattolici che partecipavano con discrezione al culto, ma essere
cristiani rimaneva sospetto; i bambini che frequentavano il catechismo erano
penalizzati a scuola. I praticanti erano in maggioranza anti-comunisti, e di
conseguenza venivano definiti "controrivoluzionari". Il regime non
riconosceva la Chiesa come interlocutrice, dato che se lo avesse fatto avrebbe
ammesso un'istituzione autonoma. I soli rapporti accettati erano quelli con i
rappresentanti della Santa sede. A poco a poco, la Chiesa cubana risentì degli
effetti di eventi quali il Concilio Vaticano II, che apriva la Chiesa a un mondo
pluralista, o la Conferenza di MedellÆn (1968), in America latina, che
impegnava l'istituzione sulla via del cambiamento sociale. A Cuba, fin dal 1969
questi sviluppi trovarono espressione in una lettera pastorale, con la quale
l'episcopato prendeva le distanze dal radicalismo degli esiliati.
I dirigenti comunisti compresero il messaggio. Fidel Castro affermò
pubblicamente di non vedere alcuna contraddizione tra l'adesione alla
rivoluzione e la fede religiosa. Vi fu in seguito un suo lungo dialogo con il
teologo (della liberazione) brasiliano Frei Betto, reso pubblico in Fidel y la
Religion, un libro in forma di colloquio che ebbe larga diffusione e fu decisivo
per l'avvenire. Questa evoluzione era dovuta in parte al permanere di un fondo
religioso nella società, che sarebbe stato pericoloso continuare a reprimere;
ed è stata favorita, sia pure indirettamente, anche dalla partecipazione
cristiana alla rivoluzione sandinista in Nicaragua (e successivamente alla lotta
rivoluzionaria in Salvador). Ma si dovrà attendere il IV Congresso del Pec, nel
1991, perché la convinzione del Capo dello stato "scenda" fino alla
base per tradursi nell'abolizione di ogni discriminazione per motivi religiosi
nell'adesione al Partito.
Dal canto suo, nel 1986 la Chiesa cattolica ha organizzato l'incontro nazionale
ecclesiale cubano (Enec) il quale, pur ricordando che Cuba è una nazione
cristiana, ha preso atto della società cubana quale di fatto era, e non quale
la Chiesa l'avrebbe voluta; e nel suo documento finale è arrivato persino a
specificare "il contributo che il socialismo può dare alla fede": una
migliore coscienza della dimensione sociale del peccato, l'apprezzamento del
lavoro, la percezione delle esigenze di cambiamenti strutturali, una maggiore
solidarietà. Un linguaggio inimmaginabile vent'anni prima, e difficile da
comprendere per i cubani in esilio.
Distensione ma non intesa Indubbiamente, la diaspora non è stata in grado di
comprendere che il dialogo può essere un mezzo di lotta contro la rivoluzione.
Oltre alle opzioni esplicite dell'Enec, l'evoluzione che le aveva precedute ha
convinto in effetti i cattolici della possibilità di giocare un ruolo sociale
inedito. La Chiesa cattolica è divenuta così un'istituzione ineludibile,
strutturata in tutto il paese: l'unica capace di rivaleggiare con lo stato.
In seguito al quarto Congresso del Partito comunista, nel 1991, e alle modifiche
costituzionali del 1992, i rapporti migliorano, e soprattutto le Chiese, sia
cattolica che protestante, ritrovano uno spazio sociale e riacquistano vigore.
Le attività religiose autorizzate in pubblico registrano una grande affluenza,
sebbene non sia sempre facile distinguere tra le varie motivazioni spirituali,
materiali e politiche. Ma distensione non significa intesa. Una lettera
pastorale del 1993 "El amor, todo lo espera",
suscita in particolare la collera delle autorità. Da un lato, i vescovi vi
descrivono in maniera molto diretta "il carattere esclusivo e onnipresente
dell'ideologia ufficiale, (...) accentratrice e globalizzante", "il
controllo eccessivo da parte degli organi della sicurezza dello stato",
"il gran numero di detenuti", "il deterioramento del clima
morale".
Al tempo stesso, l'episcopato condanna l'embargo contro Cuba, che "con il
pretesto di punire il governo contribuisce ad aggravare le difficoltà della
popolazione". Ma rifiuta di vedere in esso la causa di tutti i mali.
Infine, i vescovi fanno appello al dialogo con tutte le componenti della società
cubana, compresi anche gli esiliati. Ricordando la ripartizione dei ruoli tra
istanze politiche e religiose, l'episcopato cubano propone la Chiesa come luogo
e agente di questa riconciliazione, ponendo così, molto clericalmente, la
propria istituzione su un piano di parità e di concorrenza con la rivoluzione.
Secondo il sociologo della religione Aurelio Tejada, questo messaggio contiene
un appello alla "mobilitazione della società civile, in una prospettiva
diversa da quella offerta dal sistema politico". E interpreta l'evoluzione
nei seguenti termini: nel 1986 vi è stato un adattamento al progetto
socialista, mentre nel 1993 si arriva a "ridefinire un disegno
alternativo" a questo progetto. Globalmente, i nuovi rapporti tra la Chiesa
cattolica e il regime cubano danno origine a rivalità sul terreno sociale.
L'una e l'altro hanno le proprie strategie, ma sanno di non avere interesse allo
scontro frontale. Dopo la settimana sociale cattolica del novembre 1994, la
Chiesa "è l'istituzione più forte dopo il partito, e si comporta come un
potere a fronte di un altro potere. E la recente nomina a cardinale di Mons.
Ortega rischia di accentuare questa tendenza", dichiara un gesuita. La sua
analisi è confermata dalla costituzione di un "pilastro" cattolico
nella società, con la creazione di un'Unione della stampa, di un movimento di
universitari cattolici e di una commissione "Giustizia e Pace".
A questa prospettiva nettamente istituzionale si accompagna una riflessione
molto interessante sulla nozione di società civile e sull'apporto di
quest'ultima alla democrazia. La Chiesa afferma la necessità di corpi
intermedi, che esprimano le preoccupazioni della popolazione, e sottolinea che i
diritti individuali sono importanti quanto quelli sociali. Dal suo punto di
vista, il dialogo con lo stato non riguarda tanto il diritto dei cattolici di
iscriversi al Partito comunista, quanto la trasformazione della società cubana.
La prevista visita di Giovanni Paolo II, nel gennaio 1998, si iscrive in questa
dinamica, e si è resa possibile perché sia l'episcopato cubano e la Santa sede
che i dirigenti dell'Avana sono interessati alla sua realizzazione.
Innanzitutto, i vescovi cubani, che non cessano di affermare l'obiettivo
puramente pastorale del viaggio del papa. Giovanni Paolo II, insistono, favorirà
la riconciliazione e "l'unità tra i cubani, indipendentemente da ciò che
pensano". Sottinteso: sotto l'egida della Chiesa. Come dire che il
pastorale fiancheggia sempre il politico. La Chiesa cubana spera che la
mobilitazione intorno al papa possa trasformarla definitivamente in un
interlocutore di peso di fronte allo Stato, e in una soluzione alternativa alla
rivoluzione. Dal canto suo, il papa indubbiamente assapora la possibilità di
portare il suo anticomunismo nel cuore del comunismo ancora esistente, e di
proporsi come personalità carismatica, in concorrenza con Fidel Castro, sul suo
stesso terreno.
Perché allora il regime cubano si assume un rischio del genere?
Perché Fidel Castro, che ingenuo non è, scommette di poter trarre dal viaggio
papale più vantaggi che inconvenienti. Ha bisogno di appoggio all'interno del
suo paese, e vuole conciliarsi con il mondo cattolico: in questo senso,
l'annuncio con il quale, il 14 dicembre, è stata ripristinata la giornata
festiva per la celebrazione del Natale una festa eliminata dal calendario nel
1969 rappresenta, in questo senso, una concessione non di poco conto. Come ogni
capo di stato, e a maggior ragione nella sua posizione isolata sulla scena
internazionale, Fidel Castro può trovare un riconoscimento nel suo incontro con
Giovanni Paolo II, e si aspetta di trarne una maggiore legittimazione. Tanto più
che il papa è ormai un interlocutore accettabile: la sua crociata
anticomunista, rincarata negli anni 80 da una violenta offensiva contro la
teologia della liberazione, ha lasciato il posto a un discorso più equilibrato
nel quale, al di là dei sermoni ripetitivi sulla morale sessuale e i valori
della famiglia, non mancano i riferimenti ai danni del capitalismo selvaggio.
Ultimo esempio: il viaggio in Brasile nell'ottobre 1997, nel corso del quale il
papa ha dichiarato davanti al presidente Fernando Enrique Cardoso: "Gli
squilibri sociali e la distribuzione diseguale e ingiusta delle risorse
economiche, fonte di conflitti nelle città e nelle campagne, così come la
necessità di una vasta diffusione delle strutture sanitarie e culturali di base
e i problemi dell'infanzia abbandonata nelle grandi città, per citarne solo
alcuni, costituiscono per il governo una sfida di enormi proporzioni."
Peraltro, la Chiesa cattolica, a tutti i livelli, ha preso posizione contro
l'embargo imposto a Cuba dagli Stati uniti. Il lider mçximo ha dunque
conficcato un cuneo nell'opposizione al suo regime. Ma il gioco è rischioso, e
le carte in mano a un Fidel Castro contestato non sono forse le migliori.
All'equilibrio di interessi che precede l'incontro non fa necessariamente
riscontro un equilibrio dei guadagni ottenibili. Al momento c'è però un
settore che può essere considerato fin d'ora come perdente: quello degli
oppositori radicali, generalmente in esilio, favorevoli all'isolamento totale
del regime di Fidel Castro, per i quali la congiuntura non è favorevole; tanto
più che con il decesso di Mas Canosa, il 23 novembre 1997 a Miami, hanno
perduto il più carismatico e intransigente dei loro dirigenti. Se non potranno
impedire a Fidel Castro di ritrovare una legittimità nella visita del papa,
dissimuleranno la loro delusione sottolineando ognuna delle frasi critiche che
Giovanni Paolo II non mancherà di rivolgere al regime. I cittadini cubani e
l'opinione pubblica internazionale si preparano dunque ad assistere a uno
scontro al fioretto tra due istituzioni, due progetti politici e due forti
personalità. Un vero duello tra capi.