Dialogo al fioretto tra Roma e L'Avana

di André Linard

La domenica, la chiesa è piena e il portale rimane aperto. "Io dico ciò che voglio nella mia chiesa, afferma il curato, ma so che tutto è sorvegliato." Agli informatori dovrebbero fischiare le orecchie quando i fedeli cantano: "Non è più felice chi ha il potere, o l'ossessione di possedere". Lo sanno, i suoi parrocchiani, ciò che stanno cantando? Il prete risponde con un sorriso. A Cuba, cattolici e comunisti si tollerano a vicenda, ma restano diffidenti: non c'è entusiasmo, ma i calcoli strategici di due istituzioni, la Chiesa e lo stato, ciascuna alla ricerca di vantaggi attraverso il dialogo.
La rivoluzione cubana non ha mai chiaramente affermato un ateismo di principio; ha piuttosto insistito sui motivi politici congiunturali della sua ostilità verso la Chiesa cattolica: la prossimità tra l'istituzione ecclesiale e gli oppositori della rivoluzione in particolare gli esiliati. Eppure vi è stato ateismo. All'epoca della rivoluzione del 1959, il Partito comunista cubano (Pec) si definiva ateo e proclamava l'inesistenza di Dio. "Noi non esigiamo esattamente che ogni membro del partito sia ateo, spiegherà Fidel Castro nel 1985, in un lungo colloquio concesso a Frei Betto; la nostra non è una posizione anti-religiosa. Ciò che esigiamo è un'adesione integrale e ferma al marxismo-leninismo in tutti i suoi aspetti, non solo politico-programmatici ma anche filosofici." Non c'è stata mai, come altrove, "persecuzione" o "riduzione al silenzio", ma un atteggiamento fatto di ostilità e di confronto, che incontestabilmente ha indebolito la Chiesa cattolica, tanto da a farle perdere una parte del suo clero e delle sue scuole, canale essenziale di diffusione dei suoi messaggi. Non mancavano i cattolici che partecipavano con discrezione al culto, ma essere cristiani rimaneva sospetto; i bambini che frequentavano il catechismo erano penalizzati a scuola. I praticanti erano in maggioranza anti-comunisti, e di conseguenza venivano definiti "controrivoluzionari". Il regime non riconosceva la Chiesa come interlocutrice, dato che se lo avesse fatto avrebbe ammesso un'istituzione autonoma. I soli rapporti accettati erano quelli con i rappresentanti della Santa sede. A poco a poco, la Chiesa cubana risentì degli effetti di eventi quali il Concilio Vaticano II, che apriva la Chiesa a un mondo pluralista, o la Conferenza di MedellÆn (1968), in America latina, che impegnava l'istituzione sulla via del cambiamento sociale. A Cuba, fin dal 1969 questi sviluppi trovarono espressione in una lettera pastorale, con la quale l'episcopato prendeva le distanze dal radicalismo degli esiliati.
I dirigenti comunisti compresero il messaggio. Fidel Castro affermò pubblicamente di non vedere alcuna contraddizione tra l'adesione alla rivoluzione e la fede religiosa. Vi fu in seguito un suo lungo dialogo con il teologo (della liberazione) brasiliano Frei Betto, reso pubblico in Fidel y la Religion, un libro in forma di colloquio che ebbe larga diffusione e fu decisivo per l'avvenire. Questa evoluzione era dovuta in parte al permanere di un fondo religioso nella società, che sarebbe stato pericoloso continuare a reprimere; ed è stata favorita, sia pure indirettamente, anche dalla partecipazione cristiana alla rivoluzione sandinista in Nicaragua (e successivamente alla lotta rivoluzionaria in Salvador). Ma si dovrà attendere il IV Congresso del Pec, nel 1991, perché la convinzione del Capo dello stato "scenda" fino alla base per tradursi nell'abolizione di ogni discriminazione per motivi religiosi nell'adesione al Partito.
Dal canto suo, nel 1986 la Chiesa cattolica ha organizzato l'incontro nazionale ecclesiale cubano (Enec) il quale, pur ricordando che Cuba è una nazione cristiana, ha preso atto della società cubana quale di fatto era, e non quale la Chiesa l'avrebbe voluta; e nel suo documento finale è arrivato persino a specificare "il contributo che il socialismo può dare alla fede": una migliore coscienza della dimensione sociale del peccato, l'apprezzamento del lavoro, la percezione delle esigenze di cambiamenti strutturali, una maggiore solidarietà. Un linguaggio inimmaginabile vent'anni prima, e difficile da comprendere per i cubani in esilio.
Distensione ma non intesa Indubbiamente, la diaspora non è stata in grado di comprendere che il dialogo può essere un mezzo di lotta contro la rivoluzione. Oltre alle opzioni esplicite dell'Enec, l'evoluzione che le aveva precedute ha convinto in effetti i cattolici della possibilità di giocare un ruolo sociale inedito. La Chiesa cattolica è divenuta così un'istituzione ineludibile, strutturata in tutto il paese: l'unica capace di rivaleggiare con lo stato.
In seguito al quarto Congresso del Partito comunista, nel 1991, e alle modifiche costituzionali del 1992, i rapporti migliorano, e soprattutto le Chiese, sia cattolica che protestante, ritrovano uno spazio sociale e riacquistano vigore. Le attività religiose autorizzate in pubblico registrano una grande affluenza, sebbene non sia sempre facile distinguere tra le varie motivazioni spirituali, materiali e politiche. Ma distensione non significa intesa. Una lettera pastorale del 1993 "El amor, todo lo espera", suscita in particolare la collera delle autorità. Da un lato, i vescovi vi descrivono in maniera molto diretta "il carattere esclusivo e onnipresente dell'ideologia ufficiale, (...) accentratrice e globalizzante", "il controllo eccessivo da parte degli organi della sicurezza dello stato", "il gran numero di detenuti", "il deterioramento del clima morale".
Al tempo stesso, l'episcopato condanna l'embargo contro Cuba, che "con il pretesto di punire il governo contribuisce ad aggravare le difficoltà della popolazione". Ma rifiuta di vedere in esso la causa di tutti i mali. Infine, i vescovi fanno appello al dialogo con tutte le componenti della società cubana, compresi anche gli esiliati. Ricordando la ripartizione dei ruoli tra istanze politiche e religiose, l'episcopato cubano propone la Chiesa come luogo e agente di questa riconciliazione, ponendo così, molto clericalmente, la propria istituzione su un piano di parità e di concorrenza con la rivoluzione.
Secondo il sociologo della religione Aurelio Tejada, questo messaggio contiene un appello alla "mobilitazione della società civile, in una prospettiva diversa da quella offerta dal sistema politico". E interpreta l'evoluzione nei seguenti termini: nel 1986 vi è stato un adattamento al progetto socialista, mentre nel 1993 si arriva a "ridefinire un disegno alternativo" a questo progetto. Globalmente, i nuovi rapporti tra la Chiesa cattolica e il regime cubano danno origine a rivalità sul terreno sociale.
L'una e l'altro hanno le proprie strategie, ma sanno di non avere interesse allo scontro frontale. Dopo la settimana sociale cattolica del novembre 1994, la Chiesa "è l'istituzione più forte dopo il partito, e si comporta come un potere a fronte di un altro potere. E la recente nomina a cardinale di Mons. Ortega rischia di accentuare questa tendenza", dichiara un gesuita. La sua analisi è confermata dalla costituzione di un "pilastro" cattolico nella società, con la creazione di un'Unione della stampa, di un movimento di universitari cattolici e di una commissione "Giustizia e Pace".
A questa prospettiva nettamente istituzionale si accompagna una riflessione molto interessante sulla nozione di società civile e sull'apporto di quest'ultima alla democrazia. La Chiesa afferma la necessità di corpi intermedi, che esprimano le preoccupazioni della popolazione, e sottolinea che i diritti individuali sono importanti quanto quelli sociali. Dal suo punto di vista, il dialogo con lo stato non riguarda tanto il diritto dei cattolici di iscriversi al Partito comunista, quanto la trasformazione della società cubana. La prevista visita di Giovanni Paolo II, nel gennaio 1998, si iscrive in questa dinamica, e si è resa possibile perché sia l'episcopato cubano e la Santa sede che i dirigenti dell'Avana sono interessati alla sua realizzazione.
Innanzitutto, i vescovi cubani, che non cessano di affermare l'obiettivo puramente pastorale del viaggio del papa. Giovanni Paolo II, insistono, favorirà la riconciliazione e "l'unità tra i cubani, indipendentemente da ciò che pensano". Sottinteso: sotto l'egida della Chiesa. Come dire che il pastorale fiancheggia sempre il politico. La Chiesa cubana spera che la mobilitazione intorno al papa possa trasformarla definitivamente in un interlocutore di peso di fronte allo Stato, e in una soluzione alternativa alla rivoluzione. Dal canto suo, il papa indubbiamente assapora la possibilità di portare il suo anticomunismo nel cuore del comunismo ancora esistente, e di proporsi come personalità carismatica, in concorrenza con Fidel Castro, sul suo stesso terreno.
Perché allora il regime cubano si assume un rischio del genere?
Perché Fidel Castro, che ingenuo non è, scommette di poter trarre dal viaggio papale più vantaggi che inconvenienti. Ha bisogno di appoggio all'interno del suo paese, e vuole conciliarsi con il mondo cattolico: in questo senso, l'annuncio con il quale, il 14 dicembre, è stata ripristinata la giornata festiva per la celebrazione del Natale una festa eliminata dal calendario nel 1969 rappresenta, in questo senso, una concessione non di poco conto. Come ogni capo di stato, e a maggior ragione nella sua posizione isolata sulla scena internazionale, Fidel Castro può trovare un riconoscimento nel suo incontro con Giovanni Paolo II, e si aspetta di trarne una maggiore legittimazione. Tanto più che il papa è ormai un interlocutore accettabile: la sua crociata anticomunista, rincarata negli anni 80 da una violenta offensiva contro la teologia della liberazione, ha lasciato il posto a un discorso più equilibrato nel quale, al di là dei sermoni ripetitivi sulla morale sessuale e i valori della famiglia, non mancano i riferimenti ai danni del capitalismo selvaggio. Ultimo esempio: il viaggio in Brasile nell'ottobre 1997, nel corso del quale il papa ha dichiarato davanti al presidente Fernando Enrique Cardoso: "Gli squilibri sociali e la distribuzione diseguale e ingiusta delle risorse economiche, fonte di conflitti nelle città e nelle campagne, così come la necessità di una vasta diffusione delle strutture sanitarie e culturali di base e i problemi dell'infanzia abbandonata nelle grandi città, per citarne solo alcuni, costituiscono per il governo una sfida di enormi proporzioni." Peraltro, la Chiesa cattolica, a tutti i livelli, ha preso posizione contro l'embargo imposto a Cuba dagli Stati uniti. Il lider mçximo ha dunque conficcato un cuneo nell'opposizione al suo regime. Ma il gioco è rischioso, e le carte in mano a un Fidel Castro contestato non sono forse le migliori. All'equilibrio di interessi che precede l'incontro non fa necessariamente riscontro un equilibrio dei guadagni ottenibili. Al momento c'è però un settore che può essere considerato fin d'ora come perdente: quello degli oppositori radicali, generalmente in esilio, favorevoli all'isolamento totale del regime di Fidel Castro, per i quali la congiuntura non è favorevole; tanto più che con il decesso di Mas Canosa, il 23 novembre 1997 a Miami, hanno perduto il più carismatico e intransigente dei loro dirigenti. Se non potranno impedire a Fidel Castro di ritrovare una legittimità nella visita del papa, dissimuleranno la loro delusione sottolineando ognuna delle frasi critiche che Giovanni Paolo II non mancherà di rivolgere al regime. I cittadini cubani e l'opinione pubblica internazionale si preparano dunque ad assistere a uno scontro al fioretto tra due istituzioni, due progetti politici e due forti personalità. Un vero duello tra capi.