Pio XII e il nazismo

Lo sterminio nazista degli ebrei e le responsabilità del Vaticano. A Roma come nei paesi dell'est europeo.

Un lungo viaggio tra i top-secret ANNIE LACROIX-RIZ ARCHIVI di guerra danno ai "silenzi" di Pio XII sullo sterminio degli ebrei un significato che invalida la tesi delle sue terribili torture morali. Anche se il nuovo pontefice (dalla sua elezione nel marzo 1939) non parlò molto, i dignitari sottomessi alla dura regola pontificia parlarono e si agitarono parecchio. Complessivamente, poco si sa per ora dell'Europa occidentale perché gli sviluppi del dopoguerra non hanno condotto gli stati a chiarire il ruolo della chiesa. Tuttavia, man mano che i ricercatori progrediscono nelle loro scoperte, il bilancio si fa più pesante e tende a controbilanciare, con scoperte schiaccianti, l'intervento coraggioso ma tardivo di alcuni prelati in favore degli ebrei deportati. Nell'Europa dell'ovest, persino prima della guerra ci furono preti che presero parte attiva nella caccia ai beni degli ebrei: dopo l'Anschluss, nel giugno 1938, Eugen Haisler, segretario di Innitzer, che era giunto in Francia per predisporre "un comitato cattolico di amicizia franco-tedesca" incontrò fra gli altri Rossé, il capo degli autonomisti alsaziani finanziati dal Reich, "che gli chiese di acquistare per lui a Vienna, a un prezzo vantaggioso, una stamperia ebraica". Oggi disponiamo di informazioni sostanziali sui membri del clero francese che erano a capo della collaborazione (Suhard, Baudrillart, Beaussard, vescovo ausiliare di Parigi): Suhard "dimostrava grande spirito di conciliazione" durante le perquisizioni della Gestapo del 26 luglio 1940 tendenti a "stabilire la collusione fra il defunto cardinale Verdier e gli ebrei" e il "complotto tramato contro il Reich dagli emigrati politici e dall'arcivescovado di Parigi"; "nella stessa sede dell'arcivescovado di Parigi, la Quinta Colonna aveva i propri informatori", come dimostrò l'irruzione tedesca durante la quale fu sequestrato un esemplare del "rapporto sulle conversazioni" tra mons. Verdier e Benès - verosimilmente sulle alleanze franco e ceco-sovietiche - in occasione del congresso cattolico di Praga (dal 27 giugno al 1 luglio 1935).

A est del Vaticano

Ma, riguardo all'Europa orientale, le informazioni sono molto più nutrite. Perché, di fronte a una opposizione forsennata della curia, in occasione dei grandi processi a cavallo degli anni quaranta-cinquanta gli stati estrassero dagli archivi nazionali ed ecclesiastici massicce informazioni (che furono sequestrate una volta acquisite). Questi documenti aprono scenari inquietanti sulle posizioni assunte dalla chiesa cattolica. Saul Friedlander parla della "libertà di azione lasciata ai vescovi", che si tradusse in comportamenti molto diversi: mentre il patriarca ortodosso di Costantinopoli ordinava ai suoi vescovi di fare il massimo per salvare gli ebrei, nessun ordine di questo genere giunse da Roma.

Nella Russia occupata, le responsabilità della chiesa furono identiche a quelle della Croazia di Pavelic o della Slovacchia di Tiso, senza che il Vaticano potesse invocare l'ignoranza di quanto stava succedendo: il Vaticano era la migliore agenzia d'informazioni del mondo e il pontefice era il primo a essere informato sui minimi particolari degli avvenimenti bellici. Fin dal settembre 1939 Pio XII era perfettamente al corrente dei metodi tedeschi. Gli archivi francesi confermano le fonti polacche e jugoslave. Non è possibile distinguere le organizzazioni terroristiche, "l'esercito cattolico d'Ucraina" uscito dall'"Organizzazione degli Ucraini nazionalisti" (OUN) del capo nazista ucraino Stefan Bandera, dai loro tutori religiosi, preti o laici che fossero. Al terrorismo degli anni precedenti la guerra, guidato dal Reich, seguì il terrorismo di guerra che ha consentito a questa "polizia ausiliaria" di massacrare soldati dell'Armata rossa, ebrei e partigiani, con entusiasmo a volte più grande di quello dei tedeschi, preoccupati di garantire una liquidazione "razionale" e organizzata.

E' quanto ha messo in rilievo Raul Hilberg a proposito di tutti gli ausiliari dei nazisti, si trattasse di ucraini o di slovacchi, di croati, di baltici, di rumeni o di ungheresi, e non solo dei "tedeschi etnici" trovati sul posto. Così come ha rilevato il divieto di aiuto agli ebrei perseguitati dagli Einsatzgruppen, notificato ai preti da vescovi come il lituano Brizgys. E' nei ranghi della polizia baltica, biolorussa e ucraina che furono reclutati gli effettivi della divisione Ss Galicia formata nel 1942-1943. I carnefici erano scortati dai preti come dopo il massacro di 6.000 ebrei "che durò tre giorni e tre notti", di cui fu testimone il giovane Simon Wiesenthal. Il massacro, perpetrato nell'estate 1941 dall'Oun per "celebrare il rientro a Lvov" (sede di monsignor Szepticky), fu interrotto al suono delle campane della chiesa: "Una voce ucraina urlò: 'Basta per questa sera! E' l'ora della messa!'". Una cauzione all'intera gerarchia religiosa, dal più umile al più potente, alle crociate cattoliche contro russi ed ebrei. Perché, a dispetto delle pretese reticenze della chiesa, peraltro posteriori a Stalingrado, verso le atrocità tedesche e affini, i prelati controllarono strettamente questa alleanza fra laici e religiosi, come il vecchio vescovo uniate di Lemberg (Lvov), mons. Szepticky, vero simbolo della penetrazione germanica in territorio slavo: la sua lotta antirussa (e antipolacca) al servizio dell'Austria (prima del 1914) poi del Reich ebbe nuovo slancio con la guerra, dal giugno 1941. La sua crociata e le azioni dei suoi subordinati non distinsero mai fra l'imperativo di "vincere una volta per tutte il comunismo ateo e militante" e quello di sbarazzarsi degli ebrei. Egli dette la sua benedizione alla divisione Ss Galicia "guidata dai suoi cappellani uniati" all'assalto degli "empi bolscevichi".

Quanto si sa della Russia vale anche per tutta l'Europa centrale e orientale, dove la gerarchia cattolica, oltre a non proteggere le vittime, vietò ad altri di proteggerle. Del resto, non si vede per quale miracolo i prelati notoriamente antisemiti di Polonia, Ungheria, Slovacchia e Romania, i quali, in paesi pogromisti dotati di una severa legislazione antiebraica prima della guerra, avevano partecipato attivamente all'elaborazione e all'adozione di queste stesse leggi (e che, nel 1945, si mostrarono propensi a ricominciare), avrebbero improvvisamente preso a cuore le sorti dei perseguitati.

E' noto l'eminente contributo della Slovacchia di mons. Tiso, ex-arcivescovo di Bratislava, alle deportazioni degli ebrei. Gli archivi di quest'epoca, aperti dopo la guerra, hanno provato che "l'atteggiamento (dei vescovi) verso il massacro degli ebrei slovacchi (era) stato per lo meno sospetto" e che essi non avevano mostrato "un grande disinteresse verso i beni terreni". Bella litote del console di Francia a Bratislava nel corso del processo "per alto tradimento", nel gennaio 1951, di tre vescovi slovacchi (mons. Vojtassak, Bulzaka e Godjte). Vojtassak aveva approvato la deportazione degli ebrei e partecipato al saccheggio dei loro beni "in particolare a Baldovce e a Betlanova", arrotondando il proprio patrimonio, dal quale ricavava un reddito annuo dai 3 ai 4 milioni di corone.

In Croazia, la "purificazione etnica" colpì tanto i serbi ortodossi quanto gli ebrei. Non è più il caso di chiedersi se Roma ignorò i misfatti del paese di Pavelic e l'eminente contributo di un clero "(composto) per lo più di fanatici o di uomini pietrificati dalla paura", dal più alto al più basso livello della gerarchia. Il Vaticano, e in primo luogo Pio XII, ha sostenuto il regime ustascia fino alla caduta. Ha coperto i crimini dei preti, si trattasse di partecipazione individuale o adesione a massacri e saccheggi dei beni degli ebrei e degli ortodossi. Pio XII preferì parlare dei rischi di fallimento della "crociata militare comune contro il bolscevismo". Il tesoro ustascia, trovato all'inizio del 1946 nel convento francescano di Kaptol a Zagabria, conteneva gioielli, oro, denti in oro in mandibole intere, anelli su dita tagliate, provenienti dal saccheggio di ortodossi ed ebrei assassinati in massa.

Alla curia, sono noti fin dagli anni sessanta i silenzi di Pio XII su "l'anti-cristianesimo del regime hitleriano, le persecuzioni, le deportazioni, i terrificanti metodi di guerra e di occupazione" dei tedeschi. Da questo dossier, definitivamente studiato da Saul Friedlander, emerge che la curia fu informata nei minimi particolari da fonti ebraiche, americane (l'americano Myron Taylor, rappresentante personale di Roosevelt "presso papa Pio XII" le fornì uno stato particolareggiato degli stermini in Polonia il 26 settembre 1942) e tedesche. La curia non denunciò nulla di tutto ciò nemmeno quando, dal luglio all'ottobre 1942, "gli Stati Uniti e altri governi", fra cui quello inglese, unirono i loro "sforzi [...] per ottenere dal papa una protesta pubblica contro le atrocità naziste nei territori occupati dalla Germania". I vari motivi invocati costituiscono una duplice anticipazione, della negazione dei crimini e della tesi dell'innocenza tedesca: "Il papa nei suoi discorsi ha già condannato le offese contro la morale in tempo di guerra e ha già detto che, attualmente, una maggiore precisione non farebbe che aggravare la situazione"; "Il popolo tedesco, amareggiato dalla sua disfatta, gli rimprovererà un giorno di aver contribuito, seppure indirettamente, a questa disfatta". (Montini a Tittmann). "Alcuni rapporti sui severi provvedimenti presi contro persone non-ariane erano giunti anche alla Santa Sede da altre fonti ma finora non era stato possibile verificarne l'esattezza". (Maglione, 16 ottobre 1942).

Il 30 dicembre 1942, Pio XII usò un duplice argomento poco dopo il messaggio di Natale che presentò a Tittmann, rappresentante degli Stati uniti, come per rispondere ai desideri di quanti gli chiedevano insistentemente di "dire une parola [some word] di condanna delle atrocità naziste". Questo lungo testo insignificante comportava, al quinto punto, una allusione "a centinaia di migliaia di persone le quali, senza alcuna colpa personale, per il solo fatto della loro nazionalità o della loro origine etnica, sono state destinate alla morte o a una progressiva estinzione". Quattro righe, che nessuno rilevò, nemmeno a Berlino.

Egli invocava "una certa esagerazione a fini propagandistici" nei "rapporti degli alleati sulle atrocità". Spiegava che, quando parlava delle atrocità, non poteva nominare i nazisti senza menzionare allo stesso tempo i bolscevichi, cosa che potrebbe non piacere agli alleati". Le deportazioni di massa

Non sempre silenziosi, Pio XII e L'Osservatore "attaccarono i bombardamenti di Roma" con veemenza fino all'estate 1944 (dopo aver cercato di evitarli fin dal 1940) e, a partire dal 1942, quelli che colpivano le città del Reich. Queste grida di protesta ebbero grande risonanza, tanto più che il papa non aveva aperto bocca sulle deportazioni di massa degli ebrei, come quelle che si svolsero "sotto le [sue] finestre" nella città di Roma occupata dai tedeschi, a partire della metà dell'ottobre 1943. Egli aveva affidato a Hudal il compito di discutere con il generale Stahel, comandante in capo della città di Roma, questa "questione delicata [e] sgradevole per le relazioni germano-vaticane" ma che fu "liquidata" - secondo von Wreiszècher, neo-ambasciatore del Reich dall'inizio di luglio 1943 - in meno di due settimane: da sola, questa missione costituiva una ammissione, tenuto conto dell'antisemitismo del nazista austriaco Hudal e dei suoi contatti a Roma con Walter Rauff, "capo dei servizi di sicurezza delle Ss", "responsabile del programma delle camere a gas mobili" dal 1941 all'est (inviato nella primavera 1943 a Roma per sei mesi da Martin Bormann, Rauff fu assegnato in settembre "in un'unità Ss operante nella regione di Genova-Milano-Torino" con lo stesso obbiettivo). Né si sentirono ulteriori dichiarazioni da parte di Pio XII sulle deportazioni del 1944, in particolare su quelle degli ebrei ungheresi, che furono massicce a partire dal mese di maggio.