ERNESTO "CHE" GUEVARA

Uomo del suo tempo o immortale?

di Fernando Martinez Heredia, membro del Partito Comunista cubano,

Affrontare il pensiero e la pratica del Che significa recuperare una serie di elementi importanti degli anni sessanta sistematicamente, faticosamente e intenzionalmente dimenticati. Vorrei soffermarmi sul mito del Che, comparso in seguito, dopo la sua morte precoce.

Guevara ha costituito l'espressione più alta degli anni Sessanta; ne era l'immagine quant'altri mai, ed è scomparso fisicamente proprio nel pieno di quella fase. Il mito del Che trasse particolare alimento dal clima largamente diffuso di esaltazione e di protesta nei confronti dell'ordine costituito. Inoltre la sua stessa immagine personale era molto bella: il Che era straordinariamente fotogenico, e in quel periodo l'immagine cominciava a diventare tremendamente importante; neanche la musica ad esempio, è mai stata come negli anni Sessanta: anch'essa è rimasta per sempre connessa all'immagine, insieme alla luce e al colore e non più solo al ballo giovanile.

Il mito del Che poi è scomparso, perché è stato impossibile adeguare il Che al dominio e i poteri dominanti sono tornati a rafforzarsi nel mondo dopo gli anni Sessanta. Un mito può essere funzionale all'ideologia di una classe dominante, purché consenta alle classi dominate di sentirsi a posto, o attraverso un'autoidentificazione compensatoria, un senso di benessere o un'esaltazione, o grazie a festeggiamenti, alla delinquenza comune, o a una qualsiasi altra cosa. Così si protrae comunque la subordinazione al controllo della classe dominante, ma gli interessati pensano di essere un po' liberi.

Non era questa la funzionalità del mito del Che: il Che era inaccettabile e credo che per questo sia stato tolto di mezzo, perché era troppo sovversivo. Da parte di tutte le posizioni allora presenti si è contribuito alla sua scomparsa, anche se è vero che le ragioni, le motivazioni di tale convergenza sono state molte diverse.

Molto sinteticamente, i quattro seguenti aspetti indicano le caratteristiche di inaccettabilità del Che:

1) egli ha dedicato la vita e il pensiero alla lotta per la liberazione integrale degli esseri umani, e in lui vita e pensiero erano in assoluta concordanza. E' una cosa talmente inusuale che la si rigetta per un riflesso difensivo;

2) era un politico che praticava un'etica coerente con il suo obiettivo di vita, e la proponeva come base di fondo della politica;

3) ha incarnato il primato del progetto sul potere nel processo rivoluzionario;

4) il pensiero elaborato dal Che e la corrente alimentata da lui e dalla sua vita sono estremamente utili per combattere a fondo ed efficacemente il dominio capitalista; e lo sono anche per un recupero anticapitalista e comunista del socialismo.

In questo ventesimo secolo si sono avuti due tipi di dominio, cui accenno per contestualizzare quanto penso del Che. Il primo, quello principale, tuttora predominante, è il dominio del capitalismo imperialista, quello dell'espansione coloniale e neocoloniale, soprattutto neocoloniale, che rappresenta l'essenza generale del capitalismo stesso. Per tutto il secolo questo sistema ha accresciuto le proprie capacità per quanto riguarda gli aspetti di fondo del funzionamento di questa formazione sociale, nelle aree centrali del suo dominio, a partire dalle quali si espande. Al tempo stesso, i suoi meccanismi di dominio hanno costretto la altre società - a livelli e in forme diverse - a subordinare o meno lo sviluppo delle proprie capacità, strategie, settori ed obiettivi dello sviluppo stesso ai supremi interessi del capitalismo centrale. Questo è stato inoltre protagonista, su scala universale, degli eventi più selvaggi, spietati e crudeli del secolo, contro la vita umana e i diritti fondamentali delle persone, dei gruppi etnici, delle comunità e dei vari paesi. La sua organizzazione economica e sociale è profondamente aggressiva verso l'ambiente in cui viviamo, tanto da porre ormai a rischio la stessa sopravvivenza dell'uomo sul pianeta. Quanto alle tendenze di fondo, definirei l'attuale dominio capitalistico transnazionale in economia, democratico in politica e totalitario in fatto di ideologia e cultura. Sono questi i tratti essenziali di questa forma di dominio.

C'è stato anche un altro tipo di dominio nel nostro secolo, il cosiddetto "socialismo sovietico". I principali tratti interni del processo che lo ha originato sono i seguenti: la fine di una grande rivoluzione anticapitalista nell'ex Impero Russo, e l'instaurarsi di un regime postrivoluzionario che ha abbandonato gli obiettivi del bolscevismo ed esercitato la dittatura aperta di un gruppo sull'intera società; successivamente, il trionfo di un forte potere statuale su un paese enorme, che è riuscito ad essere molto potente, ha cercato di realizzare notevoli processi di modernizzazione, per poi finire in una situazione di stagnazione generalizzata. Tra le caratteristiche della rivoluzione bolscevica e del regime che l'ha soppiantata va altresì considerata l'esigenza di affrontare le aggressioni di potenze capitaliste, di condurre una delle guerre più terribili della storia e di partecipare negli anni cinquanta a confronti e coordinamenti internazionali fra grandi potenze.

Intorno a quest'altra forma di dominio è sorta un'enorme confusione. Come mai? Perché lo stato e il potere che l'anno espressa - connessi nelle loro origini rivoluzionarie alla pretesa di organizzare la lotta anticapitalista al livello mondiale - sono stati implicati, hanno promosso od influito su tutta una serie di organizzazioni connesse a moltissime iniziative anticapitaliste e anticolonialiste, o perlomeno ostili a governi balordi; lotte o forme di resistenza che si sono succedute nel mondo per oltre mezzo secolo, influenzando considerevolmente nel frattempo anche i modi di pensare.

Tali realtà hanno dato vita a una grandissima complessità, ulteriormente accresciuta allorché, dopo la seconda Guerra Mondiale, si è affiancato all'URSS un gruppo di stati europei e il peso della collaborazione politica, militare ed economica di quel grande stato e dei suoi alleati è diventato significativo e determinante per numerosi paesi ed organizzazioni nel mondo. L'improvvisa fine del regime e dello stato sovietico nonché dell'associazione di paesi capeggiata da questo in Europa ha lasciato in una situazione difficile il mondo intero. Ora l'espansione capitalista sembra incontrastabile, il suo trionfo pervade e corrode tutti i campi, e la forza militare e il predominio ideologico degli USA condizionano - almeno per ora - il capitalismo sviluppato. Era inevitabile che la bancarotta dell'URSS e dell'Europa orientale andasse insieme a quella dell'idea stessa di socialismo e più in generale della sua possibilità di realizzarsi in qualche parte del mondo. Per cui, chiunque oggi si senta di sinistra o conservi speranze nel socialismo, parlando di quelle realtà cerca un modo per giustificarsi: "si, ma non erano socialiste" , " si, erano socialiste ma socialiste reali" , "prima erano socialiste poi non più". In questa precaria e penosa situazione ci ha lasciati questa forma di dominio, sviluppatasi al termine della grande Rivoluzione russa, bolscevica.

Il Che rappresenta la figura centrale degli anni sessanta, in q1uanto ha incarnato la completa ribellione alle due forme di dominio e la proposta di una vita e di una cultura diversa. Non lo ha fatto a partire dal mondo intero, perché è impossibile e neanche il capitalismo è ancora riuscito a costituire la cultura del mondo intero, anche se è quello che vi si avvicina di più. Il Che lo ha fatto a partire del Terzo mondo occidentale, pur riuscendo a conquistare una rappresentatività generale a un livello piuttosto elevato. E se il mito subito sorto è subito scomparso, il Che in quanto tale continuerà ancora a costituire un elemento di battaglia. Nella fase a venire il Che rappresenterà un nuovo "luogo" di ribellione.

Quella del Che non è stata una ribellione distante dal potere; ricercava il potere per realizzare la liberazione dell'umanità. Era una ribellione che nasceva dalla Rivoluzione Cubana, quando il potere cubano costituiva un'eresia. E' una cosa piuttosto complicata, e anche per questo si è preferito dimenticarla. Dicevo prima che una delle caratteristiche del Che è stata quella di incarnare il primato del progetto sul potere, e il problema dei rapporti tra potere e progetto è uno dei problemi di fondo per chiunque tenti di portare alle estreme conseguenze la realizzazione concreta della rivoluzione anticapitalista. Ciò che si vuole in tal caso è la liberazione totale, una liberazione tale che deve essere liberazione dal potere militare, da quello materiale e dalle sue possibilità di condizionamento, dalla proprietà privata, dal rispetto della proprietà privata, dal potere spirituale, dalla subordinazione dei sessi, da quelle delle razze, dal cumulo di tutte le gerarchie create prima del capitalismo e riproposte in modo diverso dal capitalismo ma usate anche da questo. Ciò di cui quindi si tratta è instaurare un potere così forte che il capitalismo non possa liquidarlo, un potere che serva al tempo stesso come strumento per gli immensi e apparenterete impossibili compiti di liberazione totale. I libertari quindi si impegnano a creare un potere e accade che questo possa ritorcersi contro di loro, per cui si può poi definire per dimenticare a quale fine tale potere fosse stato creato, che era sorto per farla finita con qualsiasi tipo di dominio, o di alienazione, come diceva il Che, nel linguaggio dell'epoca.

Parlando del cosiddetto socialismo dell'Europa orientale, il Che ha spiegato una volta che poteva paragonarsi a un pilota che, senza rendersi conto, a un certo punto la rotta ma se n'è accorto tempo dopo; non sa però in che momento preciso sia uscito di rotta, per cui non riesce a tornare indietro. Nell'ottobre del 59' il Che ricordava ai compagni dell'Accademia di Polizia di come mesi prima Fidel avesse messo in guardia i ribelli che avevano occupato le principali fortezze militari dell'Avana: "Il leader maximo, ci ha detto, quando abbiamo preso Columbia e La Cabana, che, al contrario, erano state queste a prendere noi". I ribelli si erano visti costretti a diventare capi, a occupare le fabbriche, a firmare documenti, a occuparsi dell'ordine, a prendere decisioni, a comandare. E il Che mostrava loro come l'organizzazione e la mentalità precedenti avessero ancora la capacità di permeare progressivamente tutti coloro che assumevano queste funzioni. Mentre il Che stava per partire per la Bolivia, al XII Congresso della "Central de los Trabajadores de Cuba", nel 1966, Fidel ricordava a tutti che la direzione rivoluzionaria era il gruppo che storicamente deteneva a Cuba più potere di qualsiasi altro precedente, in quanto lo esercitava al livello economico, a quello politico e ideologico. E' chiaro che si tratta di una questione molto seria; ma la rivoluzione cubana al potere negli anni Sessanta la esplicitò in tutta la sua portata, nello spirito del progetto originario della stessa rivoluzione, secondo il quale il potere sarebbe stato soltanto uno strumento di lotta contro qualsiasi forma di dominio.

Oggi è necessario tornare a riflettere sul socialismo, porsi di nuovo la domanda non solo di che cosa non è stato ma anche di cosa sarà, di cosa possa essere il socialismo. Il Che dovette percorrere questo itinerario, farsi questo tipo di domande fin da quando era un giovane rivoluzionario che aveva combattuto e trionfato, fin da quando sembrava fosse solo il momento di affermare ed esercitare il potere. Prima ancora della guerra a Cuba aveva letto molto, si sentiva e credeva di essere marxista e aveva cercato di operare coerentemente come rivoluzionario; nella guerra, già dal 1957, era uno dei più eminenti capi ribelli e sicuramente ebbe modo di conoscere un'evoluzione notevole. Nei giorni tumultuosi del dicembre 1957, scrivendo dalla Sierra Maestra a un dirigente del 26 Luglio, il Che sostiene posizioni di principio rivoluzionario e soggiunge "Appartengo, per la mia preparazione ideologica, a coloro che credono che la soluzione dei problemi del mondo si trovi oltre la cosiddetta cortina di ferro...". E il compagno, che morì eroicamente combattendo pochi mesi dopo, gli rispose spiegandogli che condividevano entrambi gli stessi ideali e le stesse convinzioni, ma gli chiariva che considerava fini del movimento portare avanti con la liberazione di Cuba, la Rivoluzione che, avviata nel solco del pensiero politico di José Martí (...) si è vista frustrata dall'intervento del governo degli Stati Uniti(...), e che la rivoluzione cubana sarebbe rientrata nella lotta della nostra America per eliminare oppressione e miseria, conquistare i diritti sociali dei popoli e creare governi dei popoli che "saldamente uniti", sarebbero riusciti a formare " un'America forte, padrona del proprio destino" di fronte a tutte le grandi potenze.

Il Che imparò rapidamente, e meglio di tanti altri cubani d'origine, quale fosse il significato di fondo della rivoluzione cubana e quale ruolo avrebbe potuto svolgere. Questo la dice lunga sulle sue capacità di imparare. Nel 1959 però il Che credeva che Cuba potesse subito avere una propria pianificazione, sul modello sovietico. Nel marzo del 1962 recrimina sul fatto che si sia lasciato passare il 1959- l'anno 1959! - senza dichiarare quale sarebbe stata la linea economica e con quali ritmi si sarebbe proceduti lungo di questa. Sfugge a un simile protagonista impaziente e severo come in realtà una rivoluzione implichi un caos inevitabile, che si vive o si ascolta raccontare, ma che non si riesce mai a spiegare. A Cuba si promulgò una legge di riforma Agraria e per realizzarla si dovette non rispettarla e impossessarsi della terra violentando la legge stessa, perché le leggi non servono a fare le rivoluzioni ma si fanno per legittimare le rivoluzioni o le controrivoluzioni.

Il Che percorse un arduo processo di apprendistato e lo fece bene e con rapidità. In pochi anni sviluppò un insieme di idee: sul socialismo e il marxismo, su che cosa sono realmente la rivoluzione e la transizione al socialismo, sulle loro dimensioni nazionali e internazionali e sulle rispettive interazioni; sul movimento politico e su quello sociale; sui rapporti tra l'individuo, la massa e lo stato; sui rapporti tra la coscienza, l'avanguardia e la partecipazione popolare alla direzione del processo e della società; sui rapporti tra l'etica, la politica, l'economia. Questo corpo di idee si è rivelato antitetico rispetto al socialismo reale. Ma il Che non effettuò questo eccezionale lavoro dalla posizione di uno che sia stato contrastato od escluso, ma dalla posizione di un dirigente in un paese che aveva importanti rapporti con l'Unione Sovietica, rapporti complicati che sarebbe necessario conoscere e ricostruire storicamente. Il Che non avanzò le sue critiche eretiche cercando di esprimersi come un franco tiratore, ma assumendo le proprie responsabilità di dirigente. Questo però lo rendeva ancora più pericoloso e sovversivo: l'eresia vera e propria è quella che proviene dall'interno.

Insieme alla Cuba di quegli anni, nacque all'idea di rendere universale il socialismo un figlio occidentale, libertario e sommamente comunista; figlio a propria volta della storia nazionale e non del movimento comunista internazionale. E quando affermo "figlio della storia nazionale" intendo dire anche figlio della storia della lotta cubana per la giustizia sociale e non solo per la nascita di una nazione indipendente. E questa rivoluzione cubana così legittima e così comunista non avveniva in nome di un dibattito fra intellettuali, ma si faceva, semplicemente si faceva. Così si spiega che il Che abbia commesso il peccato di dichiarare a Ernesto Sabato che la rivoluzione va molto più in là dell'ideologia, o che Sartre abbia commesso il suo "peccato francese", rispetto alla rivoluzione e alla teoria. Il dato certo è, che pur non avendo fuori grandi libri, in Cuba si stava verificando una grande avanzata del pensiero rivoluzionario e marxista, e in questo consisteva la sovversività e il grande rischio: Cuba non stava di fronte come avversario, stava all'interno.

Il Che vie, lavora e pensa sulla cresta dell'onda. Molto brevemente, i punti di partenza e il pensiero del Che negli anni sessanta sono influenzati dagli avvenimenti, dalle idee e dallo spirito di un'epoca come quella in cui viveva, così ricca di sfide e di espressioni diverse. Analizzando il Che, dobbiamo quindi applicare la regola metodologica generale di distinguere tra le due realtà interconnesse costituite dai fatti di un'epoca e dalle prese di coscienza di quanti hanno operato allora e le acquisizioni di altre rappresentazioni ed espressioni dell'epoca. Dalla superficie più nota - e quindi più spesso richiamata - degli anni sessanta affiorano frasi che andarono molto di moda, figlie della volontà di negare a fondo le forme del dominio. "Fate l'amore non la guerra" è un'espressione molto bella, "proibito proibire" è un proposito molto affascinante; sono formulazioni che si riferiscono nientemeno che all'imprescindibile rapporto tra la felicità individuale e gli ideali più universali da un lato e l'ansia di libertà che è alla base di qualsiasi progetto di trasformazione sociale di un qualche valore. Ma se quelle espressioni restano sganciate da concrete lotte di liberazione, finiscono soltanto per riguardare la vicenda privata o discussioni su questa e non rappresentano stimoli al progresso sociale e possono quindi venire manipolate e assorbite in un'operazione di ammodernamento del potere. Ad esempio, dopo gli anni sessanta il sistema nordamericano impara che non si può essere, né apparire, troppo etnocentrico, per cui da quel momento tutti i tenenti neri dei film nordamericani sono onesti, non sono mai corrotti e sono amatissimi dalle rispettive mogli; e in un serial televisivo si fa vedere un tipo molto etnocentrico perché tutti possano riderne. Riassorbendo messaggi un tempo antagonistici si allarga l'egemonia e il consenso migliora.

Tra gli altri aspetti, va detto che il Che ha condotto a termine un'esperienza pratica sul terreno economico a partire dalle sue idee circa la transizione socialista, sottoponendole a verifica per vari anni su parte della società cubana. Ed è questo per noi un lascito straordinario. Nel dibattito teorico di quegli anni si era pronunciato contro la riproduzione del mondo capitalistico nella transizione socialista - cosa che si rivela funesta per quest'ultima - e contro l'errore di credere nell'inevitabilità di una prolungata "fase intermedia" e "precedente" il socialismo, che avrebbe in realtà portato a congelare il processo di trasformazione e alla sua successiva sconfitta. L'attività del Che, i rapporti instaurati tra varie migliaia di persone, le istituzioni, l0'organizzazione, il controllo e la loro pianificazione, il sistema preventivo di finanziamento, erano dimostrazioni pratiche del fatto che è possibile una forma diversa di transizione al socialismo.

Debbo ricordare una sua frase, sinteticissima ma precisissima: "dobbiamo cominciare a costruire il comunismo fin dal primo giorno, anche se dovessimo trascorrere la vita intera a costruire il socialismo". Il Che si è posto il problema - ed è per questo che è così sovversivo - di come realizzare la transizione dei comunisti mediante la transizione socialista. Farla quotidianamente e renderla ogni volta più pianificata, senza rinviare il comunismo a un programma massimo confortante e menzognero. Si è appunto posto, il Che, il problema di come fare questo. Al centro del suo pensiero c'è la questione di come costruire, per dirla con il termine che gli era abituale, che usava lui stesso e che si usava fino a poco tempo fa. Il vero problema è creare: come creare una nuova economia? come creare nuovi rapporti di solidarietà? come combattere il persistere dell'egoismo, dell'individualismo? La rivoluzione non la realizzano dei marziani ma quella stessa popolazione che è sempre stata sottomessa, assuefatta alle barbarie del capitalismo. Il Che affermava: "Ora i mezzi di produzione passano al potere del popolo, ma il popolo continua ad essere quello stesso popolo che ieri inveiva contro il padrone e malediceva il proprio lavoro. In molti casi le condizioni di lavoro non sono mutate...".

La lotta quotidiana diventa allora quella contro il sottosviluppo, ma non ha l'obiettivo di modernizzare il paese. Può avvenire che si modernizzi un paese, ma modernizzarlo e dominare sono la stessa cosa. Il lavoro teorico del Che per affrontare la transizione socialista è complesso - e purtroppo non lo si studia; ne costituisce una dimostrazione la sua idea di assenza di soluzione di continuità dalla coercizione ed imposizione statuali alla coercizione sociale sugli individui, dai metodi pedagogici all'autoeducazione. Il Che è consapevole che uno stesso individuo possa, per un verso, autoeducarsi e per l'altro essere educato, e c'è bisogno al tempo stesso di premiarlo, di fargli pressioni o di costringerlo, per altri aspetti. La sua affermazione che la dittatura del proletariato si eserciti non solo sulla classe sconfitta, ma anche, individualmente, su quella vittoriosa ha rappresentato la pietra dello scandalo. Il lavoro del Che, lo straordinario sforzo che ha costruito la rivoluzione cubana nel suo complesso, mi richiamano alla mente il lungo cammino percorso e i passi avanti compiuti da quando il giovane Karl Marx, ormai convinto che solo il proletariato potesse liberare tutte le altre classi, scriveva con estrema lucidità: "...perlomeno nei primi tempi del loro dominio i proletari dovranno convincere le altre classi di poterle liberare".

Rientra nel pensiero del Che il rapporto tra teoria e prassi. Nel Che, non solo il rapporto intrinseco tra teoria e prassi è presente nel nesso tra quanto diceva e faceva, ma lo si ritrova nel ruolo stesso che ha la pratica in seno alla sua teoria. Ad esempio, le concezioni del Che perlopiù non contengono, solo nella loro definizione, l'aspetto dell'esistente che intendono esprimere, ma anche proposte dei contenuti che debbono riuscire ad avere. Così la sua definizione di quadri non si limita a quello che i quadri erano, ma implica anche quel che debbono riuscire ad essere. Lo stesso vale per la definizione di avanguardia, teoricamente tanto importante, che attiene sia a quel che è sia a quel che deve diventare.

E' impossibile in questa sede sviluppare con sufficiente ampiezza il pensiero del Che, per cui mi limiterò solo ad alcuni aspetti Può sembrare irrazionale, ma io credo che ci troviamo forse all'inizio di una nuova fase di rinnovamento del pensiero e della pratica rivoluzionaria, e credo che le concezioni del Che abbiano particolare valore nel favorire tale rinascita e possano essere molto utili. Anche per questo vorrei mettere in guardia da due modi di presunta "difesa" del Che che ritengo funesti entrambi:

a) si dice che il Che è stato un'ottima persona, particolarmente eroico, generoso, pieno di abnegazione, pressoché inimitabile, ma degli anni sessanta, un uomo di quel decennio. E' una verità banale, perché chiunque appartiene a un determinato periodo, al proprio tempo: Cristo è di circa 2000 anni fa. E' una difesa che in realtà punta a sminuire il Che, a spogliarlo della sua universale valenza pratica, a privare i contemporanei del sostegno, dell'aiuto e della forza che ancora potrebbe esprimere. Significa collocare quel grande uomo su un altare dal quale non possa nuocere;

b) si dice che il Che è stato di gran lunga superiore al suo tempo, tanto superiore da appartenere a un'epoca non ancora presente, il che potrebbe andare bene se si riferisse ad un aspetto del suo lascito, vale a dire alla comprensione delle dimensioni più universali di quest'uomo del suo tempo e del nostro nella lotta contro la dominazione. In realtà questa difesa pretende di presentarci il Che come uno strano individuo che appartiene a un'epoca che non verrà mai: quella che è stata in passato l'epoca dei programmi massimi formulati per assolvere ai rituali d'obbligo, raccogliersi dietro a un dogma e dormire sonni più tranquilli, e che si presenta oggi come l'epoca illusoria e impossibile di quanti hanno avuto l'ardimento di credere che gli individui e la società possano diventare solidali e liberi.

In entrambe le prospettive il Che viene collocato o come un uomo degli anni sessanta o come un uomo di un tempo che forse verrà, ma chissà quando. Il Che è l'uomo che poneva ai compagni nella famosa polemica del 63'-64' l'interrogativo: "perché pensare a quello che "è" nella fase di transizione "debba essere" per forza?". E li invitava a non "disperare eccessivamente delle nostre energie e capacità". E' questo il Che che può tornare, il Che che io penso tornerà presto, perché c'è un'accumulazione culturale che opera a nostro favore. Gli anni sessanta hanno conosciuto tante sconfitte, ma ci hanno anche lasciato tantissime esperienze, per cui, da allora, mai le cose sono rimaste le stesse. Succede sempre così in ogni vera rivoluzione alla quale partecipa il popolo, succede lo stesso per tutti i grandi movimenti che vanno a fondo nello scontro con l'ordine istituito: non scompaiono mai del tutto; pur se sconfitti, si tratta di una sconfitta apparente, perché determinano nuovi superiori punti di partenza per i giorni a venire. José Martí scrisse oltre un secolo fa, in La edad de oro, in occasione del primo centenario della rivoluzione francese, una pagina e mezzo su questa, dove menziona sei volte specificatamente i soggetti che hanno fatto la rivoluzione - li chiama i lavoratori della campagna e della città, la gente che lavora, il popolo che solleva - omettendo di nominare tutti i personaggi famosi che ricorrono nelle storie di quella rivoluzione. E pur essendosi concluso tutto con la tirannide, Martí conclude "Ma...i lavoratori si spartirono le terre dei nobili e dei sovrani", e questi non riuscirono a conservarle. "Né in Francia né in alcun altro paese - sentenzia Martí - gli uomini sono tornati ad essere così schiavi come prima".

Il Che ritorna - io credo - perché ne abbiamo bisogno e perché aumenta la nostra cultura politica, per cui siamo in grado di coglierne effettivamente e pienamente l'apporto originale. E non torna ormai in effigie, come nei tanti posters dei primi anni, ma torna scontrandosi con l'oblio e le dissimulazioni che gli abbiamo frapposto. E' ormai conclusa la fase in cui il pensiero sociale è stato sminuito ed è rimasto inutilizzato senza potere svolgere i suoi compiti fondamentali; ora torna ad essere chiaro che la nostra cultura si rapporta in qualche modo al dominio e al colonialismo, o alla liberazione. Ci troviamo attualmente a scontrarci con la battaglia culturale che pretende, attraverso il predominio della vita quotidiana, di convincerci che non c'è socialismo possibile, che ci rassegniamo a parlare in generale di tutto quello che vogliamo, purché però il potere e la vita di ogni giorno restino completamente sotto controllo del capitalismo.

Ora più che mai è necessario riappropriarci dell'esempio del Che, della sua iniziativa e del suo pensiero, perché oggi è più realistico poterlo fare.