YULE
Quella mattina Ginevra si alzò di buon’ora. Era la vigilia di Yule e aveva ancora un sacco di faccende da sbrigare. Per di più le nove dozzine di rose d’inverno che Re Laurino le aveva promesso per adornare la sala da ballo non erano ancora arrivate. Mentre si faceva servire del thé al gelsomino e poche meringhe, una colazioncina frugale in previsione del cenone, cominciò a intrecciare distrattamente qualche ramo di agrifoglio. Gioacchino De Bardi, in marsina color crema, le rileggeva la lista dei nobili invitati, segnando con una complessa spirale di inchiostro rosso quanti avevano già assicurato la loro presenza."…Sua eccellenza, la Duchessa di Mutina, Miranda Rubentina, riferisce che la salute del suo augusto consorte ha avuto un improvviso peggioramento e per questo teme di non poter intervenire ai festeggiamenti vespertini…". Ginevra annuì, dando un morsettino a un biscottino glassato di bianco. Come aspettarsi altro dalla sua insopportabile e delicatissima cugina."…La Marchesa di Cocoricò ha invece confermato la sua presenza ma chiede di avere una sistemazione anche per il suo entourage, pettinatrice e sarte e qualche familiare…e… aggiunge in una piccolissima nota…scusate (inforca un paio di occhialetti in filigrana arzigogolata)…e aggiunge dicevo…ahem…chiede se avete gradito il suo piccolo dono…". Sempre discreta Belinda, pensò Ginevra. Il "piccolo dono", abbronzatissimo e profumato e per niente "piccolo", aveva tentato di infilarsi seminudo nel suo letto fino a che lei non lo aveva tramortito con la sua pantofolina di piume di cigno. Tirò, mentalmente, una linea decisa sugli uomini in perizoma, e completò la ghirlanda di agrifoglio con pochi nastri ben disposti. Le sue mani sottili lavoravano rapide e precise intrecciando rami scuri e profumate verzure, bacche cremisi e argentee gocce di rugiada, mentre i suoi occhi sorridevano ai presenti sprizzando lievi scintille iridate. Ma chi la conosceva sapeva che era insoddisfatta. Continuò però a sorridere imperturbabile e iridata a Gioacchino che nel frattempo si era versato mezza boccetta di inchiostro sui pizzi della manica e cercava disperatamente di ripulirsi con il lembo della giacca. Era preoccupata, non insoddisfatta. Anzi, molto preoccupata. Gettò un rapido sguardo fuori dalle vetrate del suo giardino invernale. Aveva dato precise disposizioni perché il cielo fosse di un azzurro tersissimo e vasto quel giorno, e perché solo verso sera una spruzzata di neve soffice coprisse i tetti delle case e adornasse i rami neri degli alberi spogli, lungo i viali. Avrebbe fatto un figurone con le lanternine che aveva disposto lungo tutta la Passeggiata. E invece da ovest avanzava un fronte compatto di nubi striate di piombo. Corrucciò appena un sopracciglio. "Qualcosa vi turba mia signora?" chiese Gioacchino, che per nascondere la macchia aveva deciso di trasformare la sua marsina color crema in una giacca di velluto rosso. Era l’unico che sapeva leggere al di là della sua maschera di rassicurante splendore e per questo lei lo considerava un amico oltre che il suo vassallo più fidato. "Il cielo. È da Samhain che le nubi si raccolgono a occidente e gli uccelli non tracciano buoni auspici con i loro voli nell’aria. E inoltre mi piacerebbe che quella donna andasse a fumare da un’altra parte". Gioacchino si avvicinò con circospezione alle vetrate finemente istoriate. Oltre ai cristalli si poteva vedere un delizioso scorcio di portico rosso con una slavata madonna pre-rinascimentale affrescata appena sotto la volta. Più in basso, sepolta da una cortina di fumo purpureo, una donna minuta, vestita di nero compatto, schiacciava l’ennesimo mozzicone sotto il tacco sottile. Con un gesto serpentino estraeva una nuova sigaretta da un cofanetto d’argento e giaietti e se l’accendeva. Strizzando l’occhio. "Mia signora, volete che faccia intervenire la guardia di palazzo? Oltretutto abbiamo appena fatto spazzare il selciato e gli ospiti dai Granducati Toscani potrebbero arrivare da un momento all’altro…". Ginevra si era alzata. Una cascata di capelli candidi come la neve le scivolò lungo la vestaglia di satin bianco. Impercettibilmente la sottile armatura d’argento che portava a pelle tintinnò. Si avvicinò ai vetri. " Mi guarda… Sono sicura che lo fa apposta. Ma non per impudenza, credo…e per questo mi turba, Gioacchino. Solo per questo. Non voglio capire che genere di avvertimento mi vuole dare…stavolta".
"Secondo me, desidera solo innervosirla, mia Signora. Oppure crede di rovinarle la festa con la sua infesta presenza".
"Gioacchino…ti prego…piuttosto lascia a me la lista e va a controllare che le rose siano arrivate. È il primo anno che Re Laurino mi combina uno scherzo del genere. La sua teutonica puntigliosità è sempre stata affidabilissima, per cose come queste…".
Con una artritica riverenza Gioacchino De Bardi lasciò sola la Dama Bianca di Felsina.
Lei scagliò la ghirlanda di agrifoglio in un angolo e portò una mano al petto.
Poi ricambiò lo sguardo della strega, giù, in strada.
Fino a che il suo fiato leggero non appannò la vetrata.
Le cucine di Felsina erano, da giorni, in fermento. Disseminate in tutta la città, in appartamentucoli da studentessa referenziata o in ampie ville sui colli, in ognuna forni e fornelli cuocevano senza sosta arrosti e sughi e ripieni e intingoli, e poi torte e tortini, glasse e cremine, polente e minestre, lasagne e zamponi. E centinaia di casseruole e tegami e pentole e coperchi si ammucchiavano negli acquai mentre tutte le donne della città sembravano prese da un sacro furore che le spingeva ad azzuffarsi nelle pescherie e nelle drogherie, dal fruttivendolo e dal macellaio, e poi di corsa, a casa, per dare sfogo a quella voglia di manicaretti che, per incanto, le stava travolgendo. Ginevra stilava con scrupolo, nella sua agendina color avorio, il menu. Sarebbe passata poi di persona, in casa di tutte le sue "amiche", per dare il tocco finale alle pietanze e quindi requisirle per i suoi ospiti. Con una legione di cuoche ai suoi ordini la Dama Bianca era sicura di non sfigurare quando le teste coronate di tutta Enotria si sarebbero riversate nella sua sala da pranzo per accendere il fuoco di Yule e festeggiare il Mezzinverno. "Perfetto…anche la meringata è un trionfo…le colombine di zucchero che ho aggiunto un vero colpo di genio…speriamo che si ricordino di cinguettare quando verranno servite…vediamo chi è la prossima…ohh l’Ernestina…che cara…lei mi prepara…che mi prepara…oh Dea! I tortellini". Stringendosi nel suo piumino immacolato Ginevra attraversò via Rizzoli e marciò risoluta verso la cucina dell’Ernestina. In realtà era un po’ agitata. Le rose di Re Laurino non si erano ancora viste e i violinisti che la Principessa Zarmina le aveva promesso neanche…ma confidava molto nella proverbiale mancanza di puntualità degli artisti…in ogni caso aveva in borsetta un indirizzario con il domicilio di tutti i componenti dell’orchestra stabile del Comunale…con un po’ di sforzo sarebbe riuscita ad incantarli tutti prima delle sei e salvare un po’ di Glamour per due o tre ballerine…
Ernestina era in cucina, come c’era da aspettarsi. Ed era bianca di farina, dalla testa ai piedi. E anche questo non stupì Ginevra, che, anzi, ne fu segretamente divertita. Ma il suo sorriso interiore si incrinò di colpo quando il suo sguardo si posò sulla tavola.
Invece di centurie ordinatissime di delicati e perfetti tortellini, non uno più grande dell’altro, non uno troppo grasso o troppo magro…invece di una distesa giallo uovo di deliziosi cappelletti…invece di una sfilata trionfale di meravigliosi ravioli…niente. Solo in un angolo una massa giallastra e grumosa. Il mattarello rotolato chissà come sul pavimento.
Due grosse lacrime scesero sulle guance dell’Ernestina, lavando via due strisce di farina, giù, per tutta la gola. "La sfoglia…la sfoglia…la sfoglia…". Ernestina non riusciva a dire altro mentre i singhiozzi le erompevano dal petto.
Ginevra non perse la calma. Preparò una tisana di tiglio e valeriana per la donna e per sé, e saggiò col dito l’impasto.
Lo ritrasse con un brivido.
La sfoglia.
La sfoglia sottile e resistente come una preziosa pergamena, come un lenzuolo di seta, come un manto di oro fino.
La sfoglia.
La sfoglia composta con una precisa e segretissima proporzione di ingredienti che poche elette si tramandavano, e poi tirata devotamente a mano e segnata e ripiegata secondo un rituale altrettanto preciso e segreto.
La sfoglia.
Non era venuta.
Pessimo segno. Più infausto delle tempeste o a occidente o dei voli dei corvi.
Il Circolo doveva esserne informato, e subito.
Quando poi, per strada, Ginevra incrociò lo sguardo della strega, che la fissava dalla sua nuvola di fumo, non poté trattenere una lacrima.
"Sybilla, vuoi smettere di ingozzarti come un animale…almeno mentre mi intrecci i capelli, grazie". Si sarebbe morsa subito la lingua, ma il danno era fatto. Nell’immenso specchio d’argento Ginevra vide il volto paciocco di Sybilla adombrarsi, mentre posava il suo panino con la porchetta su un vassoio di bignè. Si ripulì le mani unticcie nella veste sgraziata che le avvolgeva il corpo e si sfregò un occhio. Non era colpa sua, non del tutto almeno. La Dama Bianca sapeva che Sybilla stava scontando gli effetti di una maledizione antica, che il Circolo le aveva inferto per averne disprezzato le tradizioni, sapeva che la punizione era quanto mai giusta ed appropriata, ma sapeva anche che era profondamente crudele accanircisi sopra. Si sarebbe morsa la lingua. Ma non lo fece. Mantenne il suo viso leggiadramente composto mentre Sybilla, avvilita, terminava di puntarle le trecce sul capo.
"Bene così, ti ringrazio. Sei sempre così precisa…e accurata".
Sybilla accennò un mezzo sorriso. Aveva le labbra ancora sporche di crema di funghi e quando se ne avvide arrossì. Ginevra distolse lo sguardo dallo specchio e fece finta di nulla.
Si rimirò la gonna. Superba. E il corpetto. Impeccabile. Aveva personalmente raccolto i ricami di brina dai vetri delle sue finestre per disporli su quelle sete antiche. E il suo manto leggero come l’ala di una farfalla e al tempo stesso caldo come un abbraccio avrebbe fatto schiattare d’invidia la Marchesa.
Levò gli occhi allo specchio. Nell’incavo dei suoi seni splendevano come stelle fredde le gemme che aveva fatto incastonare nella sua armatura. Il suo volto ne riceveva una luce siderale che la rendeva al tempo stesso splendente e remota. Come la luna.
Quando si fosse posta in capo la Corona la somiglianza sarebbe stata perfetta. Nello specchio d’argento e ghiaccio che ricopriva un’intera parete del suo Palazzo d’Inverno le avrebbe sorriso una Dea. La Regina di Felsina.
Rabbrividì.
Poi alle sue spalle una porta si aprì. Erano Gioacchino, di verde vestito, e la Duchessa di Vante, in una succinta mise di velo e perle. Un po’ meno bella del solito, notò Ginevra, ma comunque troppo. Eppure sapeva che la Duchessa aveva la delicatezza di offuscare il proprio splendore in tutte le occasioni ufficiali che prevedevano una bellezza pari al proprio rango. E quella sera Ginevra era così stanca e svuotata di incanto da non poterne sprecare neppure un goccia per rinnovare il lustro del suo sembiante. Le rose non erano arrivate e aveva dovuto ornare il salone con i suoi incantesimi, tutti se ne sarebbero accorti ovviamente, ma erano comunque bellissimi e non avrebbero potuto ridire alcunché. L’orchestra d’archi della Serenissima non si era presentata, e per fortuna la Duchessa di Vante si era offerta spontaneamente di salvare la festa con il suo canto di sirena. Per i tortellini non si era trovata soluzione. Ginevra aveva comunque ecceduto, per sicurezza, nelle riserve di vino. Ubriachi gli ospiti non avrebbero forse notato quella clamorosa assenza. O almeno così sperava.
Aveva fatto persino portare un calice di cordiale alla strega, giù, in strada. Ma quella, al calare delle tenebre, se ne era andata, lasciando un cumulo di ceneri spente sul marciapiede.
"Buona notte di Yule, vostra Maestà" la voce della sirena risuonò dolcemente nella stanza, mentre Gioacchino si esibiva nella sua riverenza più acrobatica (perdendo gli occhialetti dal taschino).
"Buon Yule a voi, Artemisia di Vante…Gioacchino…basta così, grazie. Gli ospiti sono…"
"Aheem…"Gioacchino si schiarì la voce mentre sua figlia, Sybilla, gli raccoglieva gli occhiali e li ripuliva in un lembo macchiato del suo abito.
"In realtà, vostra Altezza…pare che…insomma…"
"Gioacchino, ti prego."
"Se permettete, Vostra Maestà…pare che il cattivo tempo abbia impedito a molti nobili di Enotria di raggiungere la vostra Corte stanotte, nessuno si aspettava una tale tempesta, e sono sicura che se hanno mancato di inviare un messo è stato per oggettive ed evidenti difficoltà". Ginevra sorrise alla sirena. Come non darle ragione. Ma neppure lei doveva credere fino in fondo alle proprie parole. " In compenso siamo riusciti a recuperare la piccola Selina, che quindi sarà con noi, in questa nostra notte di Yule". Questa, se non altro, era davvero una bella notizia, considerati i pasticci in cui era solita ficcarsi quella Pooka. "Perfetto. Penso che non sia il caso di fare aspettare chi ha tanto faticato per giungere fino a noi. Artemisia, visto che siamo a corto di musici ti dispiacerebbe…"
"Per nulla Maestà, sarà anzi mio piacere accompagnarvi col canto mentre ricevete gli ospiti".
Ginevra si prese allora qualche minuto di solitudine. Dal salone proveniva il vociare confuso dei convitati mescolato al tintinnare dei molti calici e al cozzare delle armature della sua guardia. Qualcuno, alla fine, era riuscito ad arrivare…quando, nel tardo pomeriggio, i cieli erano esplosi in una violenta tempesta di lampi scarlatti e pioggia fitta e crudele come coltelli, aveva in vero disperato. Aveva stretto la Corona tra le mani e aveva pregato Damia di sorridere sul suo fato, come aveva fatto fino ad allora, per seicento anni. Ma era da qualche tempo che la Corona aveva smesso di soddisfare i suoi desideri. E da qualche tempo sentiva la dea…distante. Da Samhain per essere sinceri. Ma la Dama Bianca sapeva che la sincerità non è tra le prime virtù di un sovrano.
Per questo trasse un profondo respiro e chiamo la Corona a sé.
E la Corona venne, proprio come il sole sorge e tramonta, come la primavera succede all’inverno, come la luna cresce e poi muore e di nuovo torna alla vita e con lei le acque, il sangue e la magia.
Ginevra si guardò nel suo vasto specchio mercuriale e sorrise. E quel che vide la riempì di sgomento.
Ma era la Regina di Felsina.
E doveva andare.
Nonostante tutto la sala era considerevolmente piena. Scorse perfino, tra le luci abbaglianti dei decori e le mille candele, la sagoma possente del Duca di Ca de Mandorli, che era noto per disdegnare gli eventi mondani e che invece stava reclamando, un po’ rumorosamente, della tequila. Più in là Belinda, la Marchesa di Cocoricò, si beava delle mille attenzioni che i galantuomini le riservavano senza scrupolo. Lei non era una che andava molto per il sottile quando bisognava essere la più bella, e l’occhio esperto di Ginevra notò subito, senza fallo, che lo era. Sfacciata. Persino la luce pareva adorarla e una pioggia di brillanti accompagnava ogni sua movenza. Si poteva finanche sentire il crack dei cuori che spezzava ogni volta che sbatteva le ciglia di seta o si carezzava con finta noncuranza i fianchi e il seno.
Ginevra piegò sdegnata le labbra. E invocò il potere della Corona. Lei era stanca e vuota, ma il dono di Damia avrebbe raccolto per lei il glamour del regno e allora tutti, proprio tutti si sarebbero dovuti voltare…
…una persona, che preferisce rimanere anonima, ha così raccontato il resto di quella notte di Yule, entrata a diritto negli annali della storia di Enotria…
"…Improvvisamente il canto della sirena di levò sopra la furia della tempesta, e io mi voltai verso il fondo del salone…c’era una luce intensa e candida, dolce e misteriosa come la luna piena, e tutti si accalcavano per guardare…dovetti persino scavalcare la Marchesa di Cocoricò che alta com’è sembrava due troll e mezzo…e alla fine…insomma là in fondo c’era lei…la Regina…l’Usurpatrice cioè…
Perché…all’improvviso, come quando una nube nera passa all’improvviso sulla luna, tutto fu tenebra. La tempesta che fuori infuriava mandò in frantumi i cristalli delle vetrate e un vento di collera travolse tutte le candele. La sirena lanciò un grido acuto, pareva terrorizzata, e poi la porta alle nostre spalle fu sfondata. La guardia di corte si dispose subito a difesa, ma, non so, come un fumo, pieno di lampi scarlatti, ma simile a serpe, li avvolgeva e li stritolava mentre una potente magia sfrigolava nell’aria.
E nel buio si schiuse allora una ferita di luce purpurea, e l’edera scura si avviticchiò sulle colonne mentre la pioggia che oramai batteva fitta sugli ospiti si mutava in vino…o sangue…non ho capito, non ricordo. E da quella luce vidi avanzare una schiera di esseri oscuri e deformi che suonavano cembali e sistri e danzavano come folli gridando "Viene viene viene colui che scioglie dalle pene" e in greco antico "Evàn Evàn Evàn Lyeus". E c’erano donne bellissime con gli occhi pieni di voglie e le bocche piene di zanne, e uomini cornuti con la pelle che profumava di bosco, e ragni mostruosi e serpi nerissime che si infilavano dappertutto…alle mie spalle qualcuno gridò "Viene viene viene colui che mi scioglie…Evàn Lyeus"…e la corte si aprì in due lunghe file.
Primo un essere nero, con una maschera grottesca sul viso, si fece largo a capriole e strida, gettando silenzio nelle gole dei presenti e brividi.
Poi avanzò una schiera di tredici vestali avvolte in veli neri, tutte reggevano torce, meno una che gridava sortilegi e maledizioni e aveva capelli come ali di corvo e occhi rossi come il sangue…
E allora lui venne.
Ed era il Principe Bastardo, il folle figlio di Damia, colui che lei fra tutti preferiva, colui che fra tutti osò levare contro di lei la mano.
"Sei mia"
Sì, furono queste le sue prime parole e tutti pensarono che stesse parlando all’essenza fatata di ciascuno e per un istante ci sentimmo strappare da noi stessi. Erano seicento anni che nessuno di noi incontrava uno Sidhe. Erano seicento anni che nessuno ci schiacciava così.
E fu la Dama Bianca a cadere. Pareva che la corona le stesse bruciando il capo, ma non c’era fiamma, e il suo volto bellissimo era scosso da un tormento insostenibile. La Duchessa di Vante e il Ciambellano provarono ad aiutarla ma lei non si faceva toccare, urlava " non mi toccate", e c’era poca luce e confusione, ma non sembrava neppure…come dire…integra…si …spezzava…scioglieva…in forme mobili, leggere, iridate…
E in fine gettò a terra la Corona di Damia, che rotolò fino ai piedi del nuovo venuto.
Lui la raccolse e se la pose in capo, come fosse la cosa più naturale del mondo, proprio come il sole sorge e tramonta, come la primavera succede all’inverno, come la luna cresce e poi muore e di nuovo torna alla vita e con lei le acque, il sangue e la magia.
Il principe Evàn prese il corpo incosciente di Ginevra tra le braccia e salì pochi gradini. Alla luce rossastra del blasone della Dama Bianca che bruciava con violenza alle sue spalle si voltò verso di noi e ululò il suo trionfo.
Mi vergogno quasi…a dirlo…ma crollai con tutti gli altri in ginocchio, e non so come…ero…no, è un segreto".
E questa fu la fine del regno dell’Usurpatrice e l’inizio di quello di Evàn Lyeus, così come Dama Tanachvil, secoli prima, aveva profetizzato.