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PROGETTO DI ACCOGLIENZA

Questa pagina è di Cristina, una amica e collega: la pubblico col suo permesso perché
penso sia in linea col fondo serio (fino al crudamente reale) del percorso semiserio.








Il fatto che la scuola avrebbe avuto inizio con qualche giorno di ritardo rispetto alla data ufficiale, giacché erano in corso lavori di ristrutturazione dei nuovi locali, e considerato che, dopo il trasferimento della mia collega, mi sarei trovata sola per i primi tempi, fatta eccezione per la collaboratrice scolastica, la cui autonomia professionale, addirittura eccessiva, in tal caso mi rassicurava, ebbene, viste le premesse, le mie prospettive all’inizio di settembre erano, in qualche strano modo, eccitanti.
Verificavo così che in tali particolari occasioni la progettualità non è espressione pedagogica, ma piuttosto il frutto di un automatismo adrenalinico che permea la giornata di chi, improvvisamente ed immeritatamente, si trova ad assumere, suo malgrado, un ruolo la cui responsabilità travalica il confine contrattuale e si definisce nei confini della persona.
Ma la situazione si è evoluta in modo inatteso, rovesciando le idee orientate inizialmente in direzioni prospettiche.
Comprendevo che, nella condizione che si era venuta a creare, anche grazie a forti ritardi rispetto la consegna dei lavori, ciò che contava inizialmente non era progettare una didassi efficace, pur tuttavia restante in sospeso, non senza peso, bensì l’aspetto dell’accoglienza.

Ma quale accoglienza?
Inizialmente mi sono resa conto di dover «accogliere» molte cose prima dei bambini: i nuovi ambienti ancora non finiti e angusti, l’idea di non poter iniziare la scuola in spazi organizzati e nei tempi inizialmente stabiliti, l’assenza di volti noti sui quali far affidamento per il trasloco ancora non terminato, l’impossibilità di regolarsi su routines ancora non condivise.
Ho accolto un sacco di cose, stancandomi.
Ho quindi desiderato «farmi accogliere».
Ho involontariamente rovesciato le prospettive e, pur senza manifestare un bisogno, ho tentato di tendere una rete di relazioni che mi rassicurasse, cercando di far sì che le famiglie accogliessero la nuova realtà scolastica, della quale rappresento una emanazione visibile.
Ho spesso incontrato le mamme cercando di pormi in maniera dialettica nei loro confronti, pur mantenendo un leggero distacco che sancisse la mia vocazione professionale, ho raccontato loro come l’insegnante comprenda la difficoltà del distacco e come si ponga con rispetto, ma anche con determinazione nei confronti degli aspetti coinvolti nella nuova avventura scolastica dei bambini, mi sono aperta confessando anche le mie pre-occupazioni, mostrando l’umano e l’istituzionale.
Chiedevo loro di favorirmi accogliendomi, credo tuttavia che abbiano percepito la richiesta di farsi forti per favorire i bambini.

P.S. - Per fortuna.
Qualche mattina fa una giovane mamma araba, preoccupata dal vomito nervoso del figlio, mi ha scostato dagli occhi un ciuffo di capelli e mi ha accarezzato.

Giovedì, 15 novembre 2001

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