RAPA NUI

 

Le incerte origini etniche, le statue...

L'isola di Pasqua si trova a 2.000 km dalle più popolose isole polinesiane ed a quasi 4.000 km dalle coste del Cile, a cui appartiene. È di forma triangolare, con tre grandi vulcani, il maggiore dei quali è il Rano Kao, e si estende su 162 kmq di superficie. A seconda dei visitatori, l'isola ebbe molti nomi: Te Pito o te Henua (l'ombelico del mondo), Rapa Nui (dal dialetto locale: la grande isola/roccia), Isola di Pasqua (perché esplorata dall'ammiraglio olandese Jacob Roggeveen nel giorno di Pasqua del 1722).

Posta all'estremo vertice orientale del "triangolo polinesiano", l'isola fu raggiunta nel 400 d.C. da migrazioni provenienti dai mari del Sud (le ultime migrazioni furono invece nelle Hawaii nel 600 e nella Nuova Zelanda nell' 800 e cioè negli altri due vertici del "triangolo"). Si trattava, probabilmente, di poche decine di uomini di razza Maori provenienti dall'attuale Polinesia Francese. Non c'è molto accordo tra i ricercatori su cosa trovarono i primi arrivati. Secondo alcuni Rapa Nui è sempre stata arida e con pochi alberi, altri invece ritengono che fosse un'isola verdissima dove crescevano una grande varietà di piante tra cui moltissime palme ed alberi (soprattutto Toromiri) che formavano delle lussureggianti foreste. Anche la fauna avicola era ricchissima, infatti, essendo l'unica isola nel raggio di moltissimi chilometri, si concentravano molte specie di uccelli sia marini che terrestri come sule, gufi, aironi, rallidi e pappagalli.

I primi uomini giunti sull'isola avrebbero portato con se tutti i mezzi per la sussistenza tra cui le galline, i topi commestibili, forse i maiali, ed una serie di piante da coltivare come la patata dolce, il banano, la canna da zucchero e il taro. Poiché il suolo era vulcanico e quindi fertile, le piante importate si riprodussero con successo ed il momentaneo benessere fece crescere di molto la popolazione che disboscò sempre più le foreste per avere a disposizione nuovi terreni da coltivazione. Il grande consumo di legna necessaria per il riscaldamento e per costruire le canoe, unita al disboscamento agricolo, fece inesorabilmente scomparire ogni albero sull'isola nel giro di un millennio con conseguenze disastrose: le piogge incominciarono ad erodere il suolo privo di protezione vegetale, causando l'impoverimento della terra e diminuendo la resa agricola proprio quando la popolazione era al suo culmine demografico (circa 9000 abitanti). L'erosione portò anche la siccità e molti corsi d'acqua si prosciugarono. La mancanza di alberi impedì la costruzione di nuove canoe, impedendo alla popolazione di andare a pesca per catturare pesci e delfini, una delle primarie fonti di cibo. Così incominciarono a mangiare oltre al pollame domestico tutti gli uccelli autoctoni dell'isola, sterminandoli completamente. La fame spinse la popolazione ad atti di cannibalismo e il malessere sociale portò nel 1600-1700 alle guerre tra clan e, quindi, alla progressiva diminuzione del numero degli abitanti. Quando nel 1722 sbarcò l'olandese Roggeveen, l'isola era una brulla e desolata terra abitata da pochi abitanti in lotta tra loro, e due anni dopo James Cook trovò molte statue moai abbattute. Alle guerriglie interne si affiancarono ben presto altre due piaghe: lo schiavismo e le malattie portate dagli europei. Quando Rapa Nui divenne parte del Cile nel 1888, rimanevano meno di cento indigeni quasi tutti vecchi e malandati condannati all'estinzione genetica.

L'origine etnica

Il fascino di questa piccola isola persa nell'Oceano sta soprattutto nei tanti misteri che custodisce. Uno riguarda proprio i primi occupanti dell'isola. Sembra che avessero la pelle bianca e ciò implicherebbe origini etniche geograficamente piuttosto distanti. La teoria di Thor Heyerdahl, ricercatore norvegese e studioso della civiltà Rapanui, è che la prima etnia giunta sull'isola fosse il risultato di una mescolanza di civiltà nordiche, peruviane e polinesiane che avvalendosi di zattere approdarono su di essa dopo un lungo e difficile viaggio. Per dimostrare la sua idea, Heyerdahl decise di costruire nel 1947 una zattera con sette tronchi di balsa, e partendo dal Sud America dopo 101 giorni di navigazione arrivò sino all'atollo di Raroia, nelle Tuamotu (Polinesia Francese). Heyerdahl ritiene che sin dall'arrivo degli antichi esploratori l'isola non avesse molti alberi, pertanto, non riuscendo a riparare le imbarcazioni, questi uomini furono costretti a rimanere sul posto. In una prima fase le conoscenze di cui erano portatori dai luoghi d'origine, consentirono la costruzione di grandi statue (i moai), poi, debilitati dall'isolamento e dalla carenza di risorse sull'isola, regredirono, dimenticando anche il senso originario di quelle opere.

Uno studio compiuto negli anni Novanta sul Dna di alcune antiche mummie sembra smentire la teoria di Heyerdahl sull'origine etnica della popolazione: gli antichi abitanti dell'isola non provenivano dal Sud-America ma erano polinesiani. Ben poco, comunque, rimane oggi di quel Dna nel sangue degli abitanti poiché il basso numero di superstiti di razza Rapanui "pura" dopo la fine della schiavitù impose il mischiarsi con altre popolazioni.

L'originaria cultura dell'isola di Pasqua prevedeva anche la conoscenza della scrittura, anch'essa perduta e dimenticata, visto che gli indigeni non sono più in grado di decifrare le antiche iscrizioni rongo-rongo sulle tavolette sacre. I geroglifici somigliano molto a quelli dell'antica città di Mohenjo-Daro, nella lontanissima India. Le iscrizioni sono rimaste indecifrate, anche se nel 1996 uno studioso americano, Steven Fisher, ha annunciato sulla rivista New Scientist di aver compreso il significato di alcune di queste tavolette. Fisher ritiene che si tratta di scritti sacri che descrivono la creazione del mondo attraverso una serie di miti di carattere marcatamente erotico.

Le statue

Sono, però, i moai, le famose e caratteristiche statue sparpagliate per tutta l'isola, la più evidente testimonianza della prima razza giunta in questo luogo. Si tratta di gigantesche statue in pietra vulcanica, in gran parte alte sei metri, ma alcune raggiungono i 22 metri, che riproducono quasi ossessivamente lo stesso modello. Alcune sono poste in fila lungo la costa, e sembrano quasi a fissare minacciosamente i naviganti, altre sono abbandonate sulla montagna. Le più grandi giacciono incompiute nelle cave del vulcano Rano Kao, tuttora circondate dagli utensili necessari alla loro realizzazione. Attualmente ve ne sono circa 600. Più della metà, sono state trovate rovesciate, mentre altre si ritiene che siano state gettate in mare o distrutte dagli indigeni.

Le statue ricordano molto l'arte Inca, sia nella struttura che nella lavorazione. Probabilmente sono state erette per motivazioni religiose. I moai sarebbero monoliti sacri, una sorta di totem, raffiguranti gli dei o forse uno dei primi re dell'isola. Non si sa bene con quali tecniche siano stati scolpiti, certamente occorreva possedere una buona perizia tecnica per tagliare la pietra nella cava e scolpirla secondo un preciso progetto. Non si conosce bene neanche il modo con cui furono trasportati e eretti nei santuari. La tradizione orale non fornisce elementi tecnici soddisfacenti. I pasquani invocano un capo mitico, Tuu Ko Ihu, il dio Make Make o ancora i sacerdoti che ordinarono alle statue di camminare e di posarsi sui rispettivi ahu (i raggruppamenti di più moai). L'ipotesi più credibile è che i moai fossero i monumenti voluti dalla casta aristocratica delle "orecchie lunghe", così detta per le orecchie forate ed allungate, che avrebbe sfruttato come schiavi i paria "orecchie corte". Questi ultimi si sarebbero infine ribellati alla tirannia degli aristocratici e, dopo una lunga lotta, avrebbero annientato le "orecchie lunghe" ed abbattuto i monumenti che li rappresentavano, come spesso accadeva nell'antichità.

Analogie con altri culti

Gli ahu servirebbero di volta in volta da monumento per gli dei, da colonne portanti del palazzo reale e da lapidi funerarie. E questo è confermato dalla grande importanza che gli isolani attribuivano alla religione, che ha la sua massima espressione nella festa annuale dell'uomo-uccello, intimamente legata al culto del dio Make-Make. Incisioni sulla roccia raffigurano l'uomo-uccello che sorregge un uovo, a ricordo di quando gli uomini facevano a gara per raccogliere il primo uovo deposto su un isolotto prospiciente le spiagge di Rapa Nui. Ogni anno i giovani più vigorosi si gettavano tra i flutti dalle aguzze scogliere di Orongo per raggiungere a nuoto l'isolotto di Motunui, dove era nascosto un uovo, che idealmente assumeva un significato sacro, quale primo uovo di Manutara. Quindi, sempre a nuoto, portando il sacro uovo in mano, dovevano ritornare indietro e consegnare l'ambito trofeo al capo del villaggio. Si trattava di una prova tutt'altro che semplice, che spesso terminava con la morte di uno o più partecipanti. Ma al vincitore spettava il favore degli dei e un grandissimo potere politico.

Va ricordato che il culto dell'uomo-uccello è presente in numerosi altri antichi miti. Lo ritroviamo in Nordafrica, nel medioriente e nella cultura celtica. Per molti queste sono solo delle semplici coincidenze cerimoniali, ma per alcuni studiosi esse sono la conferma dell'esistenza nell'antichità di una civiltà avanzata, i cui residui culturali sarebbero sparsi nelle popolazioni di tutto il mondo. Secondo questa ipotesi, circa 10.000 anni prima di Cristo l'umanità aveva raggiunto un momento di apice scientifico e tecnologico, bruscamente interrotto da una catastrofe mondiale che ha portato ad un imbarbarimento repentino dei pochi superstiti. I sopravvissuti, nel corso dei secoli e dei millenni, avrebbero lentamente trasposto nel mito i ricordi del loro passato, conservandone testimonianze sporadiche in manufatti ed edifici antichi, apparentemente di gran lunga più evoluti del livello di conoscenze in loro possesso.

Questa teoria spiegherebbe un certo patrimonio culturale e mitologico comune in tutto il mondo antico. Per citare un esempio, il ricordo di un disastro mondiale (il diluvio) dal quale si salvarono pochi eletti e il mito di un continente sprofondato nel mare da cui giunsero gli antenati. Rapa Nui, quindi, con le sue particolari manifestazioni artistiche e il suo misterioso passato è uno di quei luoghi che viene indicato come un possibile residuo emerso di antichi continenti che si sarebbero inabissati in tempi remoti a causa di disastri naturali (Atlantide o di Mu o ancora di Lemuria) e i moai come la rappresentazione dei suoi originari abitanti o della classe al potere.

L'ipotesi extraterrestre

Altri ricercatori vedono nei moai la rappresentazione di esseri di un altro mondo giunti sulla Terra per istruire e civilizzare i suoi abitanti. In quest'ottica i moai rappresenterebbero l'attesa del ritorno degli uomini dalla pelle bianca venuti dalle stelle. "Il dio Make-Make viene ricordato in costante rapporto con misteriosi esseri alati - sostiene lo scrittore tedesco Ulrich Dopatka membro dell'Ancient Astronaut Society - bassorilievi e statue di legno e di pietra raffigurano straordinari uomini-uccello, uomini-lucertola e uomini-pesce... Nella letteratura specializzata, l'Isola di Pasqua viene indicata come isola degli uomini-uccello; l'appellativo è del tutto giustificato. Potrebbe darsi che le numerose leggende relative a divinità volanti tramandino una remota memoria di extraterrestri dall'aspetto parzialmente umano. Su un masso del vulcano Rano Kao è scolpita una faccia totalmente estranea ai luoghi, con una sorta di occhiali, una lunga barbetta, lunghe escrescenze ai lati degli occhi e un paio di corna ramificate, che gli indigeni chiamavano l'uomo-insetto. Da notare che sull'isola non sono mai esistiti animali con le corna...". Allineato a questa teoria anche l'autore francese Denis Saurat, il quale sostiene che i pasquani appartenessero ad una razza perduta, quella degli uomini-insetto, e che gli stessi moai siano esseri viventi pietrificati. Lo scrittore tedesco Horst Haas ritiene di aver trovata una traccia degli "dei giunti dallo spazio" giudicando un'incisione su una pietra raffigurante un pesce palla come lo schema di uno statoreattore, la sezione trasversale di un razzo a combustione...

Sostenitori della teoria extraterrestre sono anche lo scrittore svizzero Erich von Daniken e l'esoterista francese Robert Charroux. Von Daniken in una delle sue opere sostiene che nell'antichità l'isola era una base di astronauti extraterrestri che la popolazione locale venerava come divini. Gli stessi uomini venuti dallo spazio avrebbero fornito ai primi abitanti strumenti da lavoro atti a scolpire con relativa facilità le gigantesche statue. Le statue sarebbero state trasportate sfruttando "forze elettromagnetiche o di antigravità". A un certo punto i "visitatori" ritornarono nello spazio. Fu questa la causa, secondo lo scrittore svizzero, per cui gran parte del lavoro è rimasto incompiuto. Oltre 200 statue rimanevano incollate alla parete del cratere. I nativi provarono a portare a termine il lavoro utilizzando le mazze di pietra, ma senza riuscirci.

Le risposte degli archeologi

Per rafforzare l'idea dell'utilizzo di tecnologie avanzatissime come mezzo di trasporto delle statue, Ulrich Dopatka evidenzia il fatto che l'isola non è mai stata densamente popolata e per trasportare manualmente le statue sarebbe stato necessario lo sforzo di molti uomini robusti. In effetti alcune di queste statue sono sepolte sino alla vita nel terreno o sono scavate o conficcate in verticale nella roccia, e l'unico modo per estrarle consiste nel sollevarle. Sappiamo che i primi visitatori europei avevano trovato pochi alberi, occorrerebbe, quindi, immaginare un sistema di sollevamento che necessitasse di un minimo di legname. Le ricerche, però, hanno dimostrato che l'isola un tempo era boscosa e che i pasquani disponevano di legname. Vi si posavano vari semi, come la sophora toromiro e una varietà di piante simili alla pritchardia. Il legno di questi alberi è ideale per l'estrazione, il trasporto ed il rotolamento. La scorza di un altro legno, la triumfetta, era particolarmente preziosa per la fabbricazione di solide corde. Gli archeologi francesi Catherine e Michel Orliac sostengono che è stata proprio la mancanza di dati precisi ha scatenare l'immaginazione. Il peso stesso delle statue è stato sopravvalutato. L'ipotesi di Catherine e Michel Orliac, è che le pietre estratte sul vulcano Rano Raraku, venissero trasportate dai nativi sino agli ahu senza particolari difficoltà.

Nel 1982, l'équipe dell'archeologa Joan Vanteelbourg con l'ausilio di un computer ha potuto stabilire che per percorrere i 15 chilometri dal vulcano a valle erano sufficienti 70 operai e quattro giorni e mezzo di lavoro. Secondo l'archeologa è possibile che gli isolani trasportassero i moai, facendo poca fatica e in poco tempo, stendendoli su due travi di legno, fatte rotolare su alcuni rulli da traino.

Thor Heyerdahl, sotto l'occhio delle cineprese, ha materialmente dimostrato come sia possibile sollevare un moai, trascinandolo a valle semplicemente servendosi di una ventina di uomini. Lo si fa scivolare, tirandolo con delle corde ora a destra ora a sinistra, facendogli percorrere in piedi un percorso a zig zag. "L'idea mi era venuta - ha dichiarato lo studioso - ascoltando una nenia locale, la stessa che secoli orsono dava il ritmo agli operai che trascinavano i moai. Guardando poi la base delle statue, che è smussata e levigata dall'attrito del terreno durante il trasporto, ho avuto la conferma alle mie teorie". Pertanto, la ricostruzione storica fatta dagli archeologi sembra essere sufficientemente esauriente rispetto alle fantastiche teorie dei "paleoastronauti", le cui speculazioni, se non altro, hanno avuto il merito di accrescere il fascino di queste antiche sculture e l'interesse (anche turistico) verso queste lontane terre.