IL POEMA DI UN POETA CIECO

 

 

Quando tornai a casa non avevo molti pensieri costruttivi in testa. Mi dicevo che è una strada come altre, e che da quelle parti conosco anche qualcuno. Be', non è proprio così. Ma cominciamo col dire che parlo di quando tornai per la seconda volta. Tutto dipende dal Canone. Omero disse che vi tornai la prima volta dopo un lungo peregrinare, e feci una strage. Omero si sbaglia. Non farei del male ad una mosca. Del resto ho a mio favore la testimonianza di Giacomo Joyce. D'accordo, sto facendo un po' di citazioni a vanvera. Ho in corpo la stanchezza accumulata lungo il viaggio dei giorni passati, ed ho perciò questa irrazionale contrarietà che mi pervade lo spirito. All'epoca avevo un'aria trasognata. Ascoltavo immobile il mio corpo rabbrividire alle note di un'intima melodia, sconosciuta solo qualche mese prima, e che aveva preso forma gradualmente dentro di me nota dopo nota. Credo fosse stata un debole sottofondo, appena udibile nei molti anni assordati dai ritmi tribali in cui udivo qualcosa di sommesso ed indistinto, ma non ebbi modo di prestargli attenzione.

 

 

Bene, ci siamo. Siamo da qualche parte che mi è piuttosto familiare. Ormai ho ceduto. Voglio dire, ho ceduto da un pezzo. Il cuore mi si attorciglia su sé stesso come quando si strizza un panno lavato a mano, e da ognidove sprizzano lacrime di commozione gioiosa. Mi succede ogni volta che ho dapprima sopportato la noia della frontiera, poi ho contenuto la stupore per le mille luci del flipper della Costa Azzurra, ancora ho armonizzato con il richiamo dell'eredità millenaria dei sedimenti montuosi delle Alpi Marittime, fino a quando ho ritrovato, quasi in uno stato di trance, la caotica familiarità di Marsiglia Saint Charles e tutti i suoi McDonald, i self-service, le edicole, i bar e le rosticcerie, e tutt'intorno le vibrazioni appena percettibili della zona universitaria, i viali, il porto, la gente, l'africa, Allah, l'hip-hop, l'eden di plastica, gli alberghi internazionali e le discoteche variamente di tendenza. Solo a quel punto tiro un profondo sospiro di sollievo ed ascolto il treno che riparte. Ci vuole un po'. Ci vuole qualche quarto d'ora per dire che ci siamo. Che siamo a casa. Casa. È una parola che uso pochissimo. Comunica un senso di territorio, di questo-è-mio. Così quando ho oltrepassato gli ultimi avamposti della civiltà, della cultura delle strade infette, dei non-metterti-le-mani-in-bocca e dei disinfettanti che non bruciano, quando cominciano ad essere naturali come qualunque edificio civico le pietre armonicamente sovrapposte da due millenni del colore caldo come la corrida incruenta ed il teatro popolare, laggiù smetto di tirare il fiato ed assaporo l'aria come se stessi ascoltando la musica dei profumi. Non penso che è o non è casa. Non prendo tutto ciò fino al punto.

 

 

Ora ci penso perché sono a casa. Ci sarò tra un po' ancora. Ho aperto casa mia, ed il mio cuore, al richiamo della gente che guarda, che giudica, che ama, e si commuove. Questo panorama non è casa, ma un’estensione di quello che pensavo, che amavo, un po' di anni fa. Siccome i miei sono brave persone, e non avrei mai voluto farli soffrire, stavo in una banda, e con loro solo, con quelli che abitavano vicino a casa mia, si rincasava all'alba. Sono nell'età della ragione e devono fare le loro esperienze. In fondo sono dei bravi ragazzi, bisogna dar loro fiducia. Caro papà. Mai che piantasse un casino. Non lo faceva, perché conosceva alcuni della mia banda, ed erano figli dei suoi amici d'infanzia. Non poteva dire che uscivo con che razza di gente. A volte c'era pure una forma di competizione tra stanchi figli d’un sogno, attardatisi a dimostrare che vale più la generosità del comportamento pedagogico che non l'eredità del seme. Hai sempre una seconda possibilità. Caro papà. Colori, luci ed ombre. Casa mia rifece i sottopassi deserti ed i vagoni abbandonati a sua immagine e somiglianza. Tutti i rossi, i bianchi, ed i neri, come minimo, finché usai il giallo e molte sfumature di grigio e marrone. Ci stavamo allargando alle zone più controllate, ma ormai era fatta.

 

 

È davvero incredibile. Alcune cose le vedi passando in treno, come le pareti interne dei muri di cinta della ferrovia. Li vedi per forza. Li facemmo con quel proposito. Chi si sporgeva dal finestrino poteva apprezzare un po' di colore tra il cemento e le lamiere arrugginite. Poi abbiamo dipinto tutti quei vagoni, ma lo sai solo prima di salire in treno, perché alla fine te ne dimentichi. Ma c'era qualcosa che mi prendeva di più. Ora non si può capire. Fai passo passo la città, di notte, per tutte le stradine disposte geometricamente come succede da queste parti, ed è come fosse giorno, come fosse un giorno qualunque, umido e deprimente. Giri l'angolo ed hai una specie di impatto visivo con la grande massa grigia d’una centralina dell'energia elettrica, o di quegli incredibili muri di qualcosa di indefinibile, che un tempo era un'attività dell'uomo, e ora solo quella domanda che ti fai in un breve istante, senza darvi mai una risposta che interessi un poco. Cominci così. Dalle ombre. Lo so, che le ombre sono l'involontario disegno di un sipario tangibile alle attenzioni di una luce. Così mi piace. Le granulose ombre nero pastello di Sironi. E ti racconto di una luce lontana, e di una massa che prende forma, e poi ribadisco la luce, come una foto bruciata. Ora è tempo di colorare, ma i colori non si vedono a quest'ora di notte, e dal treno non si vedono nemmeno tutti quei girato-l'angolo che ti colpiscono d'improvviso quando corri su e giù per questo capoluogo di provincia, che allora non lo era ancora, ma sapeva cos'era il logorio della vita moderna da prima del passaggio di classe e anche del Cynar. Un colpo come un bacio inaspettato, portato da una penitenza di cui non sai niente, o come il ritmo, il ritmo delle discoteche che qui, sembrerebbe, sono a decine, ma chissà perché non riesce mai ad elevarsi un po' al di sopra dei rumori di una città orario ufficio. I miei ritmi intimi. Li urlavo. Sapete perché urlavo i miei ritmi intimi, ora. Ora non li sento neppure io, e non vedo nessun muro da qui, ma vorrei il beneficio della verifica, perché faccio anch'io la mia parte nella cacofonia dell'orario ufficio, però cerco di ascoltare un po' oltre.

 

 

Avevamo un piccolo stupido scherzo che valeva quanto la campana di fine scuola. In Piazza del Popolo c'era una cabina per chiamare il taxi, che emetteva un suono simile al conto alla rovescia del congegno nucleare terminale di quel videogioco in tre dimensioni. Quando s’era arrivati ad una certa ora prima dell'alba in quella deprimente isola pedonale, ci voleva qualcuno che avvertisse tutti gli altri che l'avvelenamento da inconcludenza aveva raggiunto la soglia di guardia. Allora ci dileguavamo freneticamente per mille direzioni come da copione, mentre la cabina dei taxi ululava istericamente alla luna. Di norma ci si ritrovava di lì a poco a comporre un fila di scooter lungo la statale che porta fin su a casa. A quell'ora eravamo i soli per le strade, e potevamo occupare tutte le due corsie con i nostri incoscienti sorpassi, frenetici come uno sciame di lucciole nei prati di maggio.

 

 

Quando finalmente arrivai in stazione era ormai notte fonda, ed il primo autobus passava solo la mattina successiva. Misi in spalla le mie cose e m’incamminai verso il centro, e feci un paio di considerazioni sul fetore che dal porto giungeva fino a quel punto, e sul fatto che tutto sommato avrei gradito che m’avessero fatto trovare un comitato d'accoglienza. Avevano capito benissimo, e m’attendevano un poco più avanti, lungo la strada che porta alla casa di uno di noi che ora vive in città, a pochi passi dal centro. Ci dovevano essere davvero tutti quanti, come in quel film di Damiani, e lui mi spiegò che erano sicuri che avrei cercato di far loro uno scherzo per non farmi riconoscere, così mi potevano prendere in contropiede. Lì per lì pensai solo che avevo una fame della madonna, e più tardi mi parve che ci fosse un certo pudore reciproco ad ammettere che in quell'età di scelte di vita eravamo ancora a fare le marachelle notturne come anni prima. Comunque, senza dircelo esplicitamente, ricomponemmo il dinamico duo che aveva ispirato tutti gli altri per quella lunga stagione dell'adolescenza, e loro lasciarono che ci attardassimo di qualche passo per rimanere a parlare da soli. La notte si svolse in un attimo, anche se le strade erano quelle di sempre, con la sola novità di recenti transenne di qualche lavoro in corso che nessuno aveva ancora pensato di colorare. In quelle ore parlammo di molte cose che appartenevano ad un repertorio collaudato che entrambi amavamo rinverdire, finché lui mi disse con la voce alterata dall'emozione che aveva pensato molto a come il tempo cambia le persone, e che non sempre questi cambiamenti sono per il meglio. Io mi fermai a guardarlo, anche se forse stavamo ancora camminando, non so bene, e vidi che gli altri erano parecchio più avanti, e noi ci guardavamo fissi negli occhi, come se fossimo fermi, o forse camminavamo, come in una scena di qualche film assurdo, con tutta quella luce arancione diffusa sugli squallidi muri medievali di quella città squallida, e mi chiesi quando mi avrebbe chiesto di baciarlo o roba del genere. Poi finalmente qualcuno disse qualcosa di incomprensibile e concitato, e l'allarme dei taxi cominciò ad ululare insopportabilmente tra le nebbie arancione di quella deprimente piazza arancione, e tutti noi ci mettemmo a ridere come degli incorreggibili perditempo, mentre ci si dileguava a testa bassa per le vie della città deserta.

 

 

Oggi questa città non mi sembra poi molto diversa da com'era allora, o negli anni prima. A dire il vero non mi sembra molto diversa da dove vivo ora. Le stesse strade, la stessa gente, gli stessi eleganti caffè del centro dove ci si attarda a far niente. Ora hanno aperto qualche nuovo McDonald, come quello sul lungomare, che assomiglia in modo impressionante al Boulevard des Lices, e dalle cose che mangi diresti davvero che è lo stesso. Ma non voglio mettermi a dire che nel mio paese natale oggi non si può più vivere, e che all'estero è tutt'altra cosa, perché non sarebbe giusto, ma non riesco a sopire questo vago senso di paura che mi pervade mentre percorro le strade deserte a quest'ora di notte, come l'incapacità di rilassarsi o di rinunciare all'idea che ti possa capitare qualcosa di spiacevole. Lo so, qui andiamo verso dei cambiamenti che altrove sono già passato, già affrontati e digeriti. Penso ai miei stati d'animo. Partire non è come andare a passeggiare per le vie del centro. Quando ti nausea la folla, o cambi idea su quello che ti va di fare, decidi che vorresti tornare a casa. Ci sono casi e casi, e dipende da dove ti trovi in quel momento, e quali cose avevi bisogno di fare, e quanto ti ci vuole per tornare a casa. Casa, anche tornare a casa è partire, e non è detto che si possa fare in qualunque momento, però mi sembra che in certi momenti il ritorno a casa sia come partire per un viaggio verso una meta sconosciuta e lontana. Anch'io vorrei sapere qualcosa di più su come il tempo cambia le persone, e quanto un viaggio possa mutare il modo che hai di vedere questi cambiamenti fino al punto da permetterti di capire quanto cambierà in un viaggio che non hai fatto. Tutti i ragazzi e le ragazze della mia età di quel tempo stanno ai tavoli di McDonald prima della discoteca, vestiti per piacere. Posso vedere molti di loro, come saranno tra vent'anni, e temo che non ricorderanno neppure questa stagione della vita, perché non sembra che cerchino di ascoltarla. Non credo di cedere al pessimismo, perché queste sono sensazioni che sto provando ora, e molto di ciò che penso è solo un pretesto.

 

 

Tornai a casa in un'altra occasione che sembrava un parentesi della mia vita, anche se non me ne resi conto finché non fu finita. Quella volta però non passai da queste parti, perché mi feci accompagnare per un percorso inusuale. Avevo lasciato un'altra città che ora eviterei molto volentieri, se non mi sforzassi di dare ad ogni cosa il giusto peso. Il treno ci passa obbligatoriamente, ed a volte si deve scendere per prendere la coincidenza. Ho imparato che esistono dei tragitti ferroviari alternativi, che sono anche molto più suggestivi e rilassanti. Alcune linee secondarie vengono percorse da treni locali per viaggiatori più cordiali e meno numerosi dei viandanti dall'alto al basso del paese che mi accompagnano lungo la via più diretta. In questo modo non si è bene sicuri del fatto che s’arriverà da qualche parte, ma non ho così fretta d’arrivare dove devo andare. Avevo il desiderio legittimo di tornare dove molte cose erano cambiate, ma non vissi in quello stato di cambiamento. Mi persi appresso a quest'idea.

 

 

Ora voglio dormire, lasciare al mattino una pagina bianca, e la freschezza di mente per gettare via qualcosa, e per ricominciarne qualcun'altra da zero. Non è stato semplice come pensavo, ma sapevo da principio che oltre un certo confine non ci sono più punti di riferimento. Dante disse che ripartii alla volta delle zone meno conosciute all'uomo, e non feci più ritorno. Col passare del tempo i sistemi di riferimento d'un tempo sono destinati a cambiare, così non potrei dire con certezza se la città dove vissi a lungo è diventata a me tanto sgradita da prenderla al largo di proposito, o se non è solo un'altra stazione ferroviaria dove passavo spesso lungo un viaggio che attraversava tante altre stazioni qualunque tutte uguali tra di loro. Ad ogni modo Dante aveva ragione. Non feci più ritorno a casa. Non avrei saputo come.

 

 

FINE