Si racconta che, alle porte
della Sicania, quando ormai non si chiamavano più così, una
principessa araba, convertitasi al cristianesimo, fuggì da casa
per andare a vivere tra i pastori dei quali divise ed alleviò miseria
e pene.
Il racconto del passaggio
della principessa di nome Elisabetta ascoltato nell'infanzia come esempio
di un grande gesto umanitario, suscitava commozione e forniva le prime
rudimentali notizie sulle origini del paese di S. Elisabetta.
Se ancora da piccoli ci avessero
narrato che poco più in là dentro la Sicania, molto tempo
prima di Elisabetta, il grande re Minosse, ivi giunto dalla sua lontana
isola in cerca del geniale Dedalo, aveva trovato la morte in un bagno proditoriamente
offertogli dalle figlie di Kokalos re di Camico?S, Angelo avremmo di certo
opposto qualche domanda al narratore, mossi dalla pietà per il potente
re egeo così ferocemente tradito in un momento di relax, e dalla
grandezza dei personaggi di tutta quanta la storia: Minosse era il re di
un popolo di navigatori e rinomati artigiani; Dedalo un progettatore di
palazzi e città fortificate, persino di labirinti, ali per volare
da un continente all'altro e vacche di metallo per ingannare tori veri;
Kokalos un re sicano che viveva in un'isola favolosa meta preferita di
esploratori e di armate come quella di Minosse, respinta con la forza e
con l'inganno,
Ci sono miti che narrano in
modo cruento gli incontri fra singoli individui e intere comunità
e stuzzicano la nostra curiosità, e miti che addolciscono gli eventi
della storia mettendo in primo piano una principessa in odore di santità.
Riandando al tempo inesorabilmente
trascorso prima dell'avvento di Elisabetta, la lontana discendenza della
gene di quella che fu la Sicania sembra debba farsi risalire a quei re
crudeli che affogavano i propri regali ospiti nel bagno. Ma la gente comune,
cosa faceva? cosa accadeva a tutti gli altri, ai sudditi? cosa c'è
in noi, nella nostra cultura, nel nostro essere, di quegli antichi progenitori?
Essi per noi sono muti perché
non ci è familiare il loro linguaggio; li immaginiamo protagonisti
sulle strade del sale, dello zolfo e della transumanza, guerrieri per la
difesa e il consolidamento del territorio, a contatto con genti straniere,
in una parola appartenenti ad una società organizzata, Usanze, credenze,
codici di comportamento e modelli di socialità nati agli albori
della vita comune, ancora sussistono nel mondo contemporaneo sotto diversi
aspetti; la storia è un incessante adoperarsi a reperire modi sempre
meno duri di vita in comune, e argini ad ogni possibile male inventato
dagli uomini.
Fra tutti i nostri antenati
si distinguono i Greci, nostri progenitori d'elezione, geniali creatori
e veicoli di civiltà anche in terra coloniale. Essi ebbero contatti
con l'interno della Sicilia: Camico-S. Angelo Muxaro, Sabucina e altri
insediamenti interni: ovunque, in epoche diverse dell'antichità,
li vediamo alla ricerca di risorse di ogni genere, Sembra che gli instancabili
fratelli di Ulisse non abbiano lasciato nulla di inesplorato e di inconquistato,
ogni conquista af~ frontando con l'intelligenza e con le armi. nelle fasi
della colonizzazione non c'è il ricordo della pietà di una
tenera principessa in occasione di metastoriche fondazioni, non viene ammorbidito
i racconto del passaggio, quasi un travaso, da un potere estraneo a un
potere che col tempo ci è diventato familiare. Ci sembra di vedere
piuttosto rapporti tra nuovi arrivati e indigeni, a loro spesso nomadi
o profughi, l'incontro- scontro tra capi più o meno guerrieri e
armati, fughe di cervelli, esportazione di tecnologie, minacce a tenori
di vita consolidati e accrescimento di nuove potenze "nel medio occidente",
in quella Sicilia mitica (già allora termine di una subcultura?)
nell'immaginario personale e collettivo di chi l'aveva vista e di chi ancora
non c'era stato, Di passaggio o stanziali, le genti che hanno vissuto a
ridosso dell'Alycus-Platani, dell'Ypsas-Akragas hanno forse tracciato nella
scelta delle loro stazioni più o meno fisse quella continuità
logistica nell'allineamento dei paesi dalle colline al mare, lungo le ataviche
rotte delle greggi, dove sono nate uguali tradizioni di feste pastorali
nel cuore dell'inverno e nel cuore della transumanza.
Un po' di storia
Il paese di S, Elisabetta si
trova nella parte settentrionale della provincia di Agrigento, a m. 498
di altitudine (la massima è m, 653) da dove, verso sud, in lontananza
sull'orizzonte, si vede il mare e si domina con lo sguardo una valle divisa
tra i confinanti paesi di Aragona, Raffadali, Joppolo; alle spalle, l'entroterra
con S, Angelo, fino ai monti Sicani. Il territorio, di natura argilloso?calcareo
e marne bianche nella regione collinare tra i fiumi Platani e Salso, si
estende per 16 kmq. Gli abitanti sono 3.407.
La natura del luogo è
piuttosto impervia; ma la presenza di acqua e di sorgenti, al Capo, a nord
della rupe di Keli, dove sorge l'Hypsas?Akragas e verso sud al Garraffello
(la sua acqua era calda?) e alla Salina dove pare sia sotterrata una grande
vasca ha attirato nell'antichità genti la cui presenza è
variamente testimoniata sul territorio;: gli abitanti sono stati probabilmente
fluttuanti in epoca moderna almeno fino agli inizi del Seicento, dato che
nella licenza di edificare e popolare la "terra" di S. Elisabetta, concessa
dal vicerè Villena il 15 febbraio 1610 a Nicolò Montaperto,
marchese di Montaperto e barone di Raffadali, si legge " ... dictum pheudum
est fructiferum et defectu incolarum non est cultum ..... detto feudo
è fertile e per mancanza di abitanti non è coltivato...".
In un territorio già
interessato alla pastorizia, esso sorge sulla sommità della rupe
di Keli, di cui occupa il versante sud fino a ricongiungersi quasi con
la contrada Cinti Vucali riecheggiante nel nome antiche pasture. La rupe
è sede sul versante nord della necropoli paleocristiana; in cima
alla rupe pare si trovi la strada per il "vecchio cimitero"; con esposizione
verso Cinti ospitava una masseria oggi completamente rasa al suolo.
Il paese di S, Elisabetta
fu fondato nel 1620 da Nicolò Giuseppe Montaperto marchese di Raffadali;
figlio di Elconora e Pietro Montaperto, nel feudo di Canneto nel val di
Mazara.
Nicolò Giuseppe e sua
moglie Elisabetta Valguarnera erano primi cugini, avendo in comune la trisavola
donna Elisabetta Valguarnera.
Del documento di concessione
del feudo con privilegio regale in data 6 ottobre 1095 da parte di Ruggero
il Normanno conquistatore della Sicilia al casale dei Montaperto esiste
un altro documento che ne attesta l'autenticità, redatto nel 1482
vivente Bartolomeo Montaperto. Di questo documento è stata data
copia notarile a Francesco Montaperto principe di Raffadali nel 1687. diciamo
subito che il Peri considera questo documento un falso.
In esso si legge che il privilegio
venne concesso a Gerlando Montaperto, consanguineo e omonimo del vescovo
di Agrigento, il "venerabilis Giorlandus"; il soldato Gerlando era al seguito
del Conte Ruggero durante la conquista della Sicilia, nell'anno 1087 in
occasione dell'assedio della fortezza del monte Guastanella, già
fortificata dai bizantini con strutture tuttora visibili, dove si erano
ritirati i saraceni in un tentativo di estrema difesa. Gerlando acquistò
meriti sul campo, avendo contribuito alla conquista delle terre già
possedute dall'arabo Alì, alla guida di un reggimento di 150 cavalieri.
1 Montaperto ebbero Guastanella, tutte le terre del "perfido Alì"
e lo stemma con nove rose divise da quattro bande diagonali di colore argento
in campo azzurro, Lo stemma in legno dei Montaperto a S. Elisabetta presenta
bande diagonali in senso opposto, ed è testimoniato unicamente sul
pulpito della Chiesa Madre.
Un'altra fonte (Mugnos, Teatro
genealogico, PA, 1647), descrive i Montaperto come un'antica famiglia di
chiara fama nobiliare, versati nelle armi e nelle lettere nella loro terra
d'origine, la Francia, ramo della nobile stirpe dei Mongrana, tra cui si
distinsero Ugo, e Ruperto Montaperto, signori dell'antico castello di Moritaperto,
in francese Maulx, posto in luogo non identificato, Altra fonte, sempre
riportata dal Mugnos, fa derivare i Montaperto dalla famiglia Tomasi di
Siena padrona del Castello di Montaperto in Italia, al cui stemma i nostri
progenitori aggiunsero le bande e le rose, Accettando la tesi francese,
ripresa da una genealogia sulle grandi famiglie di Francia, Mugnos indica
Lamberto come primo dei Moritaperto ad essere venuto dalla Francia in Sicilia,
al seguito di Carlo D'Angiò, dal quale ricevette varie cariche nel
1267. Di contro, il Barberi nei suoi Capibrevi ci porta in tutt'altre direzioni
in merito alle nobili origini dei Montaperto sui quali graverebbe il problema
dei titoli e delle investiture quasi mai reperite nei libri regi e legate
al feudo di Cometa.
Nicolò Giuseppe 11,
nipote del fondatore di S. Elisabetta, ebbe il titolo di Principe di Refadale
nel 1650, probabilmente per meriti acquisiti nella lotta contro la malavita,
i cui risultati positivi il principe usò per incrementare ulteriormente
il numero degli abitanti di S. Elisabetta, ottenendo il diritto di azzerare
i debiti dei nuovi venuti. Al suo fianco incontriamo un'altra pia Elisabetta,
sua moglie, fondatrice con un lascito del Colleggio di Maria di Raffadali
per l'educazione delle orfane, sepolta in una cripta della Chiesa Madre
di Raffadali.
Il titolo di principe attraverso
Francesco figlio di Nicolò Giuseppe passò al nipote Ottavio,
il quale prese l'investitura della terra di S. Elisabetta il 21 gennaio
1698 come annota il Marchese di Villabianca nella sua opera sulla nobiltà
siciliana.
Ottavio morì nel 1718;
dei suoi figli, Bernardo principe di Raffadali e marchese di Montaperto
ebbe il titolo di barone di S. Elisabetta e il diritto di occupare il 24'
posto nel parlamento nonché il potere delle armi; Antonio Montaperto
fu insignito nel 1747 del titolo di duca di S. Elisabetta, Il quinto principe
di Raffadali Salvatore, barone di S. Elisabetta, sposò Anna Maria
Naselli dei principi di Aragona,
Nel 1816 gli Inglesi abolirono
il feudalesimo in Sicilia; nel 1828 S. Elisabetta divenne frazione di Aragona,
fino al 1955, anno in cui ottenne l'autonomia amministrativa con legge
regionale 28/01/55,
Il paese venne dunque fondato
nell'ambito della colonizzazione dell'entroterra siciliano avviata dalla
nobiltà per aumentare il proprio prestigio e cercare di
ovviare alle difficoltà
economiche in cui versava la stessa aristocrazia siciliana. La vista del
monte Guastanella con la sua cima curiosamente spianata disegnata l'orizzonte
a ovest, affiancato dalla massiccia Montagna Comune, che dal nome ricorda
la parte riservata dai feudatari agli usi promiscui concessi ai contadini
stanziali; ma ben poco di legna
o pascolo o qualche altro mezzo di sussistenza
si riusciva a strappare alla montagna. Vi era l'acqua della sorgente al
Capo al suoi piedi, lavatolo comune fino a non molti anni fa, prima che
la sorgente affiorante dal terreno venisse sconvolta nel suo suggestivo
impianto originario. La montagna invece si rivelò ricca di tesori
sognati e cercati dentro grotte e anfratti (degni tuttavia di essere esplorati
e rilevati) secondo buffi racconti popolari,
L'impianto del paese è
lineare, con asse est?ovest su cui insiste a monte con aggregazioni spontanee
secondo l'impianto originario, su curve di livello che rispettano l'orografia
del sito. Gli abitanti sono misti, a corte sul lato nord e a stecche sul
lato sud, dove i posti sono a spina; dalla tipologia del centro storico
con 'Icatoi" di lato tre per tre ad una sola luce (la porta) si è
passati al primi anni settanta a case a schiena.
Essendo un piccolo borgo di
origine feudale, per qualche secolo la consistenza numerica degli abitanti
è stata molto varia, e precisamente, fino al 1647, gli abitanti
erano 979 dislocati in 113 case, secondo lo storico Rocco Pirri in "Sicilia
sacra", edizione postuma del 1733; 759 abitanti in 179 case nel stesso
periodo secondo i libri regi, come si legge nel Dizionario topografico
di Vito Amico nell'edizione di Gioacchino di Marzo del 1855.
Gli abitanti calarono sensibilmente
nel 1713, forse a causa di un'epidemia di colera: furono 310 in 101 case.
Dopo una rimonta fino a 915, gli abitanti furono 1,700 nel 1798; subirono
un calo fino a 942 nel 1831 e risalirono fino a 1.201 nel 1852.
Nel 1873 la popolazione era
di 1.288 abitanti, il rapporto tra battesimi e funerali era di 65 a 92,
vi erano due scuole, una maschile e l'altra femminile, e due chiese, la
Chiesa Madre e la Chiesa di S. Antonio, nelle quali amministravano il culto
tre sacerdoti: l'arciprete Valenti, che all'epoca aveva 61 anni, il sac.
Alaimo che ne aveva 80 e il cappellano sacramentale Randisi che ne aveva
44; in quell'anno era stata costituita la congregazione del Cuore Immacolato
di Maria, le feste principali erano il Corpus Domini e la festa del SS.
Crocifisso nella prima domenica di settembre, Di queste feste se ne conserva
ancora la memoria. La festa del SS. Crocifisso rappresentava un importante
appuntamento per gli abitanti, assimilabile alla festa del patrono negli
altri paesi, Veniva organizzata da un comitato promotore che raccoglieva
le offerte dei fedeli, utili a finanziare i tamburini, la banda, spettacoli
musicali e giochi d'artificio. Essa richiamava anche molta gente dai paesi
vicini per l'annuale fiera del bestiame che occupava tutta la mattinata
della domenica,
Durante la festa del Corpus
Domini si portava in processione per una setti
mana il SS. Sacramento, con
figure viventi di angeli e sante; nel corso della solenne processione si
officiavano riti sacri davanti a bellissimi altari riccamente ornati che
la gente preparava nei quartieri.
Oltre all'ottavario del Corpus
Domini, la vita religiosa era scandita anche dalle predicazioni della Quaresima,
le novene di Natale, il quindicinale dell'Assunzione ed Avvento,
Nel periodo di tredici giorni
che va da Natale all'Epifania vi era un misto di riti pubblici e privati,
in quanto, oltre alle gaie processioni alle quali partecipavano tutti i
bambini, una famiglia alla volta "si pigliava 'u bambinedu" portato in
processione, una piccola immagine di gesso di Gesù Bambino vestito
con il suo abitino bianco decorato da ricami. L'avvento e il Natale avevano
il loro culmine nei festeggiamenti dell'Epifania quando Gesù si
svelava ai Re Magi e ai pastori. In particolare, i pastori protagonisti
della Pastorale sulla piazza S. Carlo, guidati dall'angelo e dalla stella,
si recavano nella chiesa di S, Antonio con Nardu in testa e "spaventavanu"
alla vista del bambinello, che troneggiava solitario sull'altare maggiore.
A conclusione dell'Epifania,
pastori e fedeli portavano nella chiesa di S, An~ tonio la Madonna dalla
Chiesa Madre, rappresentata con manto azzurro e "abitini", ex-voto pendenti
dalle braccia; su di esse veniva adagiato il bambinello, mentre voci femminili
intonavano un canto per dire che dopo tredici giorni di separazione "ora
si unginu Maria cu Gesù".
Cosa c'è da vedere
Sono zone di interesse archeologico
la vasta campagna del Giammaritaro interessata da resti di epoca romana;
la rupe di Keli con la sua necropoli comprendente circa trenta tombe ad
arcosolio e una grande grotta di mq. 14 con due loculi scavati sul pavimento,
a destra e a sinistra dell'ingresso, altri tre sul fondo a livelli superiori.
Queste tombe fanno capolino
un po' ovunque nel territorio, come al piedi della montagna del Raffo e
a Minzagnu Longu.
Ancora, il monte Guastanella
con i suoi ruderi e i numerosi ritrovamenti di ceramica policroma; la zona
compresa tra la rupe di Keli e la sorgente al Capo presenta stratificazioni
con resti di manufatti; vivo è ancora il ricordo dei resti del convento
detto "convento di S. Ralmondo" ivi ubicato,
La CHIESA
DI SANTO STEFANO nel suo impianto originario presentava una sola
navata rettangolare; è orientata a sud, ha la facciata e il campanile
in pietra locale, un altro campanile sul lato ovest crollato o mai costruito,
come da elementi architettonici ancora visibili. Era una tipica chiesa
siciliana minore, con un suggestivo giardinetto sul sagrato davanti alla
scalinata a più di quattro ordini di gradoni massicci. Tutto l'insieme
occupava armoniosamente la propaggine sud sulla stretta e lunga rupe di
Ke11, sul cui versante nord si affaccia la necropoli,
Il recente restauro ha notevolmente
modificato l'interno; è stata però restituita la facciata
in pietra e il campanile già rimaneggiato con mattoni rossi nella
parte apicale, Il bel portale neoclassico, con timpano sovrastato da una
finestra con architrave "a sardunati", reca sul fregio la scritta: "D.
STEPH.O PPD. MDCCXCVI", che attesta la riedificazione della Chiesa
nel 1796, ad opera dell'arciprete Domenico D'Alessandro ivi sepolto nel
1799 e probabilmente la dedica della stessa a S. Stefano in quel periodo.
Sulla lapide du marmo posta
sulla tomba del l'ecc lesi astico veniva confermato che egli, con elemosine
sue e del popolo, riedificò la chiesa. Essa tuttavia venne di nuovo
chiusa nel 1853 per vent'anni e riedificata nel 1873 ad opera di tutti
i cittadini di S, Elisabetta con le pietre della locale cava, come in maniera
retorica, ma molto suggestiva, viene narrato dall'arciprete Valenti in
un suo intervento sull'annuario diocesano di quell'anno.
Chiusa ancora una volta agli
inizi del Novecento, fu riadattata e riaperta dopo il 1935, anno in cui
divenne parroco di S. Elisabetta mons. Di Stefano, ancora vivente e fonte
di tutte le notizie raccolte sui beni culturali qui descritti.
A tutt'oggi si notano le varie
fasi della ricostruzione della chiesa, rilevate dagli addetti ai lavori
durante la demolizione precedente la recente ricostruzione, Dice l'arch.
C. Miccichè dell'Ufficio Tecnico Comunale: "La parte inferiore più
antica è in pietrame calcareo e malta di calce e sabbia, la parte
superiore presenta pietrame informe di tipo gessoso e malta di gesso, Ed
è così in tutto il suo perimetro",
Iternamente era ornata con
tipici fregi di gesso bianco e con parte degli arredi di seguito descritti.
La scalinata a gradoni monumentali
è stata sostituita da una scala di travertino posta lateralmente
sua facciata e sormontata da un'inferriata di ferro, con grave danno per
l'insieme neo?classico costituito dallo stilobate e dal portale.
Il giardinetto davanti alla
chiesa, che ne costituiva elemento caratterizzante, è stato sostituito
da una pavimentazione in pietra con al centro una superstite palma.
Notevoli beni artistici sono
custoditi nelle due chiese, la Chiesa Madre dedicata a, S. Stefano, e la
Chiesa di S Antonio, Nella prima non sono più esposti dopo gli interventi
di restauro, essendo in custodia del parroco pro tempore,
- la
PISSIDE, il CALICE e la PATENA (piattino) d'argento, ornati di fregi,
donati dai Montaperto alla chiesa; la pisside ha la coppa in oro; misura
cm. 30 in coperchiata e reca punzonata sulla base all'interno l'iscrizione
"PRIN.E REFADALE", principe di Raffadali, e altri segni indecifrati (N
G 79 o anche 1679); sul bordo del coperchio reca ancora una punzonatura
indecifrata (una data? una sigla?). La leggenda intorno a questi primi
oggetti sacri vuole che
il principe di Raffadali abbia
donato alla Chiesa Madre di S. Elisabetta oggetti un po' più piccoli
rispetto a quelli donati alla Chiesa di Raffadali, ma in compenso più
belli, cioè più ornati di fregi. Tanto quegli oggetti avevano
colpito la popolazione, insieme ai candelabri di legno e all'altarino di
legno, rivestiti, i primi, di oro zecchino, mentre il secondo aveva quattro
colonnine sottili sormontate da capitelli in stile corinzio e applicazioni
ornamentali dorate, secondo testimonianze orali.
-il bel PULPITO DI LEGNO scolpito, a base pentagonale, recante sulla faccia prospiciente il pubblico dei fedeli lo stemma dei Montaperto, dal quale è stata asportata una figura mostruosa non meglio identificata, forse una testa leonina, posta sull'apice.
La particolarità del pulpito consisteva nel fatto che sovrastava il confessionale, con il quale costituiva un unico arredo,
-la LAPIDE di marmo; cm. 60X40, posta sulla tomba dell'arciprete Domenico D'Alessandro morto il 24 Marzo del 1799 a 64 anni, attestante la riedificazione della chiesa durante i suoi 37 ani di servizio ecclesiastico, ed esattamente nel 1796 come si legge sulla facciata della Chiesa recentemente restaurata; pare sia andata distrutta nel corso di questo restauro insieme ai resti dell'arciprete.
-olio su tela di grandi dimensioni raffigurante la SS. TRINITA;
-olio su tela m. 2X1,40 raffigurante l'ANNUNCIAZIONE;
-notevole OLIO SU TELA m. 1,50 X cm, 100 raffigurante S. ANTONIO nel deserto in atto di schiacciare il demonio tentatore; pare rechi una firma nella parte inferiore destra.;
-tela cm, 80X50 raffigurante S. ROSALIA, dipinta nel 1919 dal maestro Barbagallo di Acireale. La santa reca i segni dell'eremitaggio visibili dalle due conchiglie poste sui seni.
-notevole OLIO SU TELA montata su bella cornice di legno molto rovinata, cm.80X50, raffigurante ANGELO che sorregge una figura femminile priva di sensi (una delle rare immagini della Maddalena svenuta?), della quale colpisce l'intensa bellezza del viso.
Infine, riveste una grande
importanza per la storia della comunità di S. Elisabetta l'ARCHIVIO
PARROCCHIALE risalente al Seicento, con scritti in latino e in siciliano,
che riporta note parrocchiali (battesimi, matrimoni) con l'indicazione
delle famiglie.
La Chiesa di S, Antonio reca
sul bel portone originario l'iscrizione "Antomus màlleus dèmomim"
e la data 1860. Attualmente è ricoperta da intonaco giallo che ne
nasconde la facciata in pietra. A memoria d'uomo, conteneva la statua di
S, Antonio che veniva portata in processione ogni anno.
Vi viene custodita la storica
statua dell'Addolorata riproducente il modello iconografico spagnolo, con
il bel manto rifatto dopo l'attentato a comp i di fucile che lo rovinò
in parte, Il manto originario è conservato nella stessa chiesa.
-Di notevole fattura è una STATUA di ebano riproducente S. GIUSEPPE con il Bambino Gesù sul braccio sinistro, probabilmente di epoca antecedente la costruzione della chiesa. La statua in posizione incedente su un piedistallo ha risentito nel tempo di problemi di equilibrio. Puntellata già ca, settant'anni or sono, un artigiano locale ha rifatto interamente il braccio sinistro del Bambino Gesù, la parte anteriore del piede destro del santo, e gli occhi del bambino non più di vetro, ma di plastica, Il vecchio piedistallo recante tracce di oro zecchino e lettere illeggibili è stato calato dentro uno nuovo, insieme a quattro lunghi chiodi in ferro battuto dell'epoca, secondo l'uso ecclesiastico della conservazione di tutto ciò che appartiene o è appartenuto al sacro. 1 colori attuali sono dovuti all'arte dei pittori sabettesi Pino Fiore e Denise Leca, i quali hanno attestato che in principio la statua aveva il manto marrone, la tunica rossa: il vestito del Bambin Gesù era bianco, e gli occhi di entrambi di vetro. La statua consterebbe di pezzi autonomamente scolpiti e assemblati: il Bambino Gesù e il torace di S. Giuseppe formerebbero un unico pezzo,
- Da vedere anche una pittura su un enorme blocco di pietra incastonato sulla parete destra della chiesa, in forma circolare, riproducente la MADONNA DELLE GRAZIE, detta "Madonna di li putieddi", Si tratta di un ex?voto, realizzata per la guarigione del proprio figlio da un calzolaio che non aveva mai dipinto in vita sua, al quale era stato ordinato in sogno di fare quell'opera. Essa proviene dalla chiesa di Santa Oliva, oggi distrutta, nel vicolo che porta il nome della santa, mentre nessun ricordo rimane delle citate "putieddi". Il termine si riferisce in Sicilia alle antiche botteghe di impianto romano?bizantino?arabo poste a pianterreno e direttamente comunicanti con la strada da dove il cliente comune veniva servito; di esse non esiste nessuna traccia nell'impianto recente degli edifici lungo la via Umberto, sulla quale tuttavia si affacciano piccoli "catoi" nei pressi del vicolo S. Oliva,
La PIAZZA
S, CARLO («'ncapu 'u chianu), Secondo la tradizione vi si
trovava la chiesa di S, Carlo menzionata dal Pirri che non ne specifica
l'ubicazione,da identificare con un attento studio storico? urbanistico,
utile anche per l'identificazione della chiesa di S, Oliva. La piazza segna
uno dei due punti di un ideale segmento di cui l'altro punto in alto, lungo
l'asse costituito dalla via Matrice, è la piazza S. Giovanni Bosco
('u bastiuni), che si affaccia come una terrazza sul paese sottostante
e su tutta la valle.
La piazza S. Carlo si ricongiunge
anche alla zona bassa del paese attraverso la via Virgilio. Essa dunque
si trova ad una altitudine media sul fianco sud della collina, e sovrasta
leggermente la ripida via Umberto di cui rappresenta il primo largo a monte
con un incrocio ("piazza ferrna"). Ristrutturata e rimodernata, è
ornata da cinque bellissimi pannelli in ceramica policroma riproducenti
il ciclo del grano,
Su questa piazza si svolge
la festa del 6 Gennaio, pastorale imperniata sul personaggio del "buffo"
Nardu garzone di pastori, il quale con le sue gesta comiche e irriverenti
è al centro dell'attenzione della festa realizzata con personaggi
di una ideale "rnassaria" di pastori; essi muovono lungo la via Dante e
la via Umberto, l'antica "strada lunga" dell'archivio storico parrocchiale,
fino alla piazza dove vengono ripetute scene di vita in tempo reale della
masseria, La manifestazione è mimata e improvvisata nelle incitazioni
urlate dai pastori a Nardu, tutto l'insieme risulta molto teatrale pur
nella sua spontaneità. La manifestazione è stata ripresa
dalla RAI e inserita dall'Università di Palermo in un cd riproducente
i suoni e i rumori delle feste popolari conservato nella biblioteca comunale.
Percorsa la via Matrice, la
breve e ripida salita della via Posta Vecchia porta alla Chiesa Madre;
a ridosso del padronale PALAZZO CASA che si affaccia sul bastione e lo
domina con la sua rustica imponenza, vi è il quartiere sulla VIA
FOSSE, la città fantasma («ncapu 'i grutti»). Esso più
di ogni altro ci dà testimonianza del nucleo abitativo più
antico: la strada è acciottolata, i catoi a una o più luci,
case padronali ampie, anche con mura di cinta. Lo stato d'abbandono non
ha fatto dimenticare a chi ci viveva fino al primi decenni del Novecento
le persone e le storie nate In quei vicoli e in quelle case. Succedeva
che per una coppia di novelli sposi si dovesse aprire una porta d'ingresso
autonoma su im altro lato di un unico "catoio" condiviso con il resto della
famiglia: a garanzia della privacy, un tramezzo di stoffa,
In custodia presso la Biblioteca
Comunale si trova un ARCIERE di ferro puri~ zonato trovato in località
Salina, ampio avvallaniento tra la rupe di Kcli e Cinti. Misura cm. 9,5
in altezza e cm, 6,5 in larghezza, su un piedistallo ad arco capovolto
le cui punte distano tra loro in diagonale ciri. 6 con un dislivello di
qualche millimetro. Alla base, un pedicello cilindrico di miii. 5 di diametro
e circa cm. 1 di altezza. Il piedistallo regge una figura di arciere nell'aao
di tendere l'arco; la figura ha il busto eretto e il capo di profilo, gambe
divaricate e ginocchia piegate nello sforzo; le differenti proporzioni
tra loro rispettivamente delle gambe e dei due lati del bacino danno all'insieme
una visione prospettica.
La piccola figura reca molti
segni di punzonature: cerchietti e segni inprossimità delle vertebre
e della colonna vertebrale, i segni dell'occhio, della bocca e dell'elmo,
segno sulla sommità del capo a forma di artigli e punzonature lungo
il corpo che hanno fatto pensare per l'arciere ad un tipo di Eracle con
la leontè.