IL RISVEGLIO DI VALAAM, L’ ATHOS DEL NORD

Paradiso  naturalistico e centro spirituale della Russia ortodossa. L’arcipelago dove vivono solo comunità monastiche sta rifiorendo. E racconta a pellegrini e turisti la sua millenaria storia. Di Santi, invasori e grandi intellettuali.

 

 

 

Si parte per Valaam per nave, come il Viaggiatore incantato di Leskov. Sulle sponde della Neva, i pietroburghesi cercano sollievo al caldo eccezionale di questa estate, tuffandosi nelle acque del fiume, rischiarato dal giorno allucinato delle Notti bianche. Dopo la lunga traversata sul lago Ladoga, acqua e ancora acqua all’orizzonte, largo mare dolce e piatto, dal ponte i passeggeri avvistano finalmente l’arcipelago. Nelle prime ore del mattino, le isole appaiono come sfolgoranti smeraldi sospesi in un etereo, pullulante, mondo acquatico. Man mano che la nave si avvicina al piccolo porticciolo, unico approdo per pellegrini e naturalisti, i contorni si fanno più nitidi, e l’occhio più esigente. Ma è difficile orientarsi tra le 480 specie di piante che si aggrappano, tenaci come gabbiani, alle rosse rocce degradanti, le stesse dipinte, su antiche icone, da Andrej Rublev: granito che, ai tempi di Pietro il Grande, servì a costruire i lungoargini dei mille canali di San Pietroburgo.

L’arcipelago di Valaam, come una matrioska, racchiude nell’acqua cinquantatre isole. E ognuna a sua volta ospita i suoi limpidissimi laghi fioriti di ninfee, ruscelli e sorgenti. Duecento e più specie di uccelli vivono in questo paradiso, qui, sul terso tetto d’Europa. Volpi, scoiattoli, lepri si nascondono alla vista degli “intrusi”, e solo un bagliore scuro annuncia la presenza di un alce, o quella, solitaria, di un monaco. E’ per questo che si viene a Valaam. Per respirare armonia. Natura e spirito, bosco e preghiera, silenzio e canto.

In questo spicchio di Eden, da secoli vivono, pregano e lavorano piccole comunità di monaci ortodossi, gli abitanti dell’arcipelago. Le cupole dello stesso colore del cielo, o coperte da lamine d’oro, spuntano all’improvviso, nascoste tra il verde accecante. Ovunque, nel folto di un abetaia o in riva al lago, si lavora al restauro o alla riedificazione di cappelle e antichi edifici. Valaam sta rifiorendo e torna da accogliere pellegrini e turisti.

Le guide che accompagnano i visitatori parlano russo, raramente inglese. Ma è facile allontanarsi dal gruppo e seguire il percorso nel cuore di Valaam: ogni sentiero è lastricato con piccole tavole di legno, disposte sapientemente dai monaci su resistenti ceppi d’albero. Perché “un pellegrino lascia un’orma nel bosco, tanti tracciano un sentiero, troppi lo distruggono”, come è inciso in cirillico su una tavola di betulla.

Valaam MonasteryDa sempre la comunità monastica vive di queste isole. L’Athos del Nord, centro spirituale della Russia ortodossa, è come il Giardino della Creazione, dove non c’è Caduta né Cacciata. E come nell’Eden, il pino abbraccia il ciliegio, e l’abete il melo. Ai confini con la Finlandia (la città più vicina della Carelia, Serdobol è a quaranta chilometri da qui), quando in inverno il Ladoga si trasforma in una bianca distesa di ghiaccio, il clima di Valaam resta relativamente mite. E i trentacinque giorni di sole in più rispetto alla terraferma fanno il miracolo. In realtà furono i monaci nel corso dei secoli a portare, uno ad uno, i semi. Solo quindici centimetri di terra coprivano il granito di queste isole, e i religiosi portarono anche la terra, pugno a pugno. Perché Valaam è luogo di pazienza. E di rinascita.

Non si conosce esattamente quando il primo monaco arrivò in queste isole, ma per tutti fu l’Apostolo Andrea, nel I secolo, a sbarcare a Valaam. Fu lui a demolire gli altari pagani delle tribù locali, lui ad innalzare la prima croce sulla scogliera. Nove secoli dopo, i santi Sergio e Germano fondarono il monastero della Trasfigurazione del Salvatore, la candida cattedrali dalle cupole celesti e la guglia d’oro, che si mostra all’improvviso, dietro uno stretto fiordo, annunciata, come un  bianco gabbiano su un minuscolo isolotto, dalla chiesa di San Nicola. Ma comunità monastiche, cappelle, croci, impervi e sfuggenti rifugi di eremiti, sono ovunque su queste isole. Segni venerati di soggiorni antichi e del lavoro di molti santi, dai nomi incomprensibili. Ignorati dall’altra metà dell’Europa: Avraamy Rostovsky, Savvaty Solovetsky, Arseny Konevsky e molti altri. Monaci che da qui partirono per innalzare altre chiese, in ogni parte della sterminata Russia, fino a spingersi nel Nord america, in Alaska.

E non si pensi che la vita delle comunità monastiche di valaam sia stata semplice. Situati al confine tra Russia e Scandinavia, i monasteri furono spesso saccheggiati e demoliti dagli Svedesi, nelle sanguinose guerre che già all’epoca di Pietro il Grande videro i due popoli contendersi, palmo a palmo, questo spicchio di Russia, strategico per il controllo del lago Ladoga e, quindi, della Neva, il fiume che, 227 chilometri più in là, raggiunge Pietroburgo, la città imperiale. E quando non furono le armi, furono gli incendi a violare Valaam. E nemmeno Pietro il Grande, che nel 1715 ordinò la ricostruzione dei monasteri, preso dal sogno di una nuova Gerusalemme in terra di Russia, poté evitare che per sei volte quello che si ricostruiva finisse in cenere. Solo mattoni e pietre, utilizzati al posto di tavole e assi, spezzarono l’incubo delle fiamme all’inizio dell’800. Chiese in muratura risorsero ovunque, ma cappelle e fattorie, dove monaci-contadini continuavano a coltivare orti e allevare animali, sono rimaste di legno: piccole isbe dai tetti verticali. Non ci sono case, né negozi, in tutto l’arcipelago, meno che mai alberghi. Ai pellegrini è concesso un giorno: si dorme in nave, sulla via del ritorno. E solo d’estate, perché in inverno il grande lago gela: e Valaam torna al suo assoluto silenzio di preghiera.

Fu nell’Ottocento, tra cenobi ed eremiti, che la fama di Valaam crebbe. Vestito di bellezza e austerità, l’arcipelago si svelò agli occhi dei pellegrini. Gli zar Alessandro I e Alessandro II lo visitarono, insieme a molti membri della famiglia imperiale. E grandi intellettuali trovarono qui ispirazione. Nella candida ala del complesso monastico della Trasfigurazione, un tempo riservata agli ospiti, soggiornarono scrittori e poeti: Tolstoj, Leskov, Tjuchev, Apukhtin, Shmelyov. E proprio in una di quelle stanze oggi abbandonate (solo il piano terra è usato come asilo e scuola per i figli dei preti ortodossi), Ciaikosvkij compose la prima sinfonia. Ma il vero inferno, per Valaam, fu il regime sovietico. Già nel febbraio 1940 i monaci furono obbligati a trasferirsi in Finlandia, e portarono con sé gli antichi archivi, la biblioteca, le icone. I sacri edifici si riempirono di nostromi e marinai della flotta sovietica. Più tardi, di invalidi.

Storpi, mutilati, handicappati, che potevano “turbare” la vista dei vincitori, venivano portati qui, a forza. Soldati dell’Armata Rossa, volontari, civili che avevano combattuto durante il lungo assedio nazista di Leningrado, operai che avevano lavorato giorno e notte nelle fabbriche per salvare la Russia, trovarono tra questi boschi la loro prigionia. Una casa a cielo aperto degli invalidi di guerra e del lavoro: questo diventò Valaam in quei tragici anni. Pagina nera della storia di un popolo, che solo adesso viene rivelata.

Ma Valaam è luogo di pazienza. E di rinascita. Così, nel dicembre 1989, nella festa di Sant’Andrea, la vita monastica è tornata sulle isole. Duecentoventi monaci, dalle tonache scure e dalle lunghe barbe, continuano oggi a lavorare e pregare. Tra betulle e ciliegi, sotto lo sguardo d’oro delle antiche icone.

 

Fiorella Iannucci

 

Tratto da il Messaggero, Mercoledì 3 settembre 2003, pag. 17.