André Louf
 

LA PATERNITÀ SPIRITUALE

NEL MONACHESIMO D'OCCIDENTE OGGI
 

 
 


"Non ha pronunciato una sola parola, mi ha semplicemente ascoltata, ha visto le mie lacrime. Poi si è messo a piangere con me, e abbiamo pianto a lungo insieme"

 

“L'accompagnamento spirituale ha per oggetto la vita dello Spirito operante in colui che si rivolge a un padre spirituale”.

 

“Il padre spiri­tuale è colui che "sa curare le ferite sia proprie che altrui” (S. Benedetto)

 

“Il deside­rio che finirà per prevalere nel cuore delle due persone che si trovano in tal modo l'una di fronte all'altra nel dialogo spiritua­le, sarà il desiderio dello Spirito santo in loro, la parola di Dio nel senso più forte del termine e, proprio per questo, una parola veramente creatrice, capace di aprire un futuro che il discepolo avrebbe a mala pena osato sospettare”.

 

"Dopo Dio, io ho steso sopra di te le mie ali fino a og­gi e porto i tuoi pesi, i peccati, il tuo disprezzo delle parole che io ti rivolgo, e la tua negligenza. Ma pur vedendo io li copri­vo, come Dio vede e copre i nostri peccati, attendendo che tu ti pentissi" (Barsanufio).


 

 

Introduzione. La crisi della paternità

 

Nell'ultimo quarto di secolo i termini impiegati per desi­gnare la relazione tra maestro spirituale e discepolo hanno subi­to una notevole evoluzione in occidente, anche in ambito mona­stico. Fino a quel momento ognuno ci si serviva impunemente di concetti tradizionali come "padre" o "paternità spirituale", so­stituiti con quelli di "direttore di coscienza" o "direzione spiri­tuale" quando la terminologia paterna e filiale poteva dar adito al sospetto di un indebito "paternalismo", con i fenomeni a es­so collegati; il prolungamento dell'infanzia e dell'adolescenza, o addirittura un certo infantilismo. Un'evoluzione della termino­logia non è mai neutrale. Essa lascia intravedere come anche l'oggetto designato si sia a sua volta evoluto. I due termini di "paternità" e "direzione", indubbiamente vittime della contestazione che ha caratterizzato gli anni '6o in occidente, oggi so­no generalmente sostituiti da vocaboli più rassicuranti, come ad esempio quello di "consigliere", e di counselling, di evidente origine rogeriana, o come quello di "accompagnatore" o di "ac­compagnamento spirituale", che si è imposto oggi in modo ab­bastanza generalizzato.

Fino agli anni '6o, la prassi della "direzione" spirituale se­guiva un percorso relativamente ben determinato. Ogni fratello era tenuto a far riferimento a un direttore spirituale, che nella maggior parte dei casi esercitava nei suoi confronti la funzione di confessore: a lui era obbligato a rivolgersi per ricevere il sa­cramento della riconciliazione, secondo il ritmo previsto dalle costituzioni della sua congregazione. Una prassi di questo tipo finiva così per identificare il dialogo spirituale, specifico dell'accompagnamento, con l'accusa dei peccati, che fa parte della confessione sacramentale e faceva dunque coincidere, per forza di cose "l'apertura del cuore" e la manifestazione dei pensieri con "l'accusa dei peccati" effettivamente commessi.

In un simile clima di confusione, quello che rischiava di essere compromesso era l'autentico dialogo spirituale. Sebbene le generazioni formate attraverso questo tipo di direzione in gene­rale non ne abbiano rimesso in discussione il ruolo nella propria vita, non per questo si può esser certi che essa sia stata fedel­mente corrispondente a ciò che la grande tradizione intendeva trasmettere. Ci si può anche chiedere se era sufficientemente adatta ai veri bisogni spirituali di coloro che vi facevano ricorso. Non è questa la sede per esaminarne le lacune, ma coloro che ne hanno serbato qualche ricordo converranno che spesso essa spo­sava uno stile autoritario e aveva un contenuto sostanzialmente moralizzante e legalista. Per di più richiedeva un'obbedienza quasi cieca da parte di chi veniva diretto. Se è vero che la dire­zione era in questo conforme alla tradizione, ci si può però chie­dere se in tale obbedienza il discernimento spirituale – peraltro indispensabile - fosse sempre presente in modo sufficiente sia nell'interessato sia in colui che riteneva di poter dare ordini. È lecito sperare che la "direzione di coscienza" gestita in quella forma così rigida - tanto che solo a sentirla nominare c'è chi sente ancora un brivido nella schiena - sia oggi caduta in desue­tudine.

L'esitazione nella ricerca di un termine adeguato per designa­re la paternità spirituale risale in fondo a una parola dello stesso Gesù: "Non chiamate nessuno 'padre' sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo" (Mt 23,9). Divieto che è stato tranquillamente trasgredito dai primi monaci! Essi non eb­bero la minima esitazione a dare il nome di "padre" ai loro an­ziani. La forma aramaica del termine, abba, passata tale e quale nella lingua "monastica" forse più antica, il copto (apa), sembra del resto suggerire che quest'uso risalga alle comunità palestine­si primitive.

I primi a trasgredire il divieto non furono però i monaci. Già san Paolo, nella più antica delle lettere a noi pervenute, la Prima lettera ai Tessalonicesi, rivendica apertamente il titolo di "pa­dre" nei confronti dei destinatari; e non soltanto quello di "pa­dre", ma anche di "madre". Egli asserisce di essere nel contem­po padre e madre di coloro che ha generato tramite la Parola e allattato con l'evangelo (cf. 1Ts 2,7-12). Qualche tempo dopo, Paolo riprende la stessa affermazione senza tanti complessi nella Prima lettera ai Corinzi, dove arriva a sostenere che la sua pater­nità esclude tutte le altre: "Potreste avere anche diecimila peda­goghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo" (1Cor 4,15). Ecco una bella assicurazione, in apparente contraddizione con la parola di Gesù!

Senza entrare in un'esegesi dettagliata di questo passo dell'Evangelo secondo Matteo, che si spiega nel contesto delle prime comunità cristiane, possiamo supporre che ciò che Paolo e i pri­mi monaci rivendicavano qui  tranquillamente si fondasse sulla loro esperienza di fede, esperienza di una vita da ricevere e da trasmettere. Ora, ogni vita si trasmette attraverso un processo di fecondazione, di maturazione e di generazione, che sfocia in una nascita. Un evento di questo tipo è talmente coinvolgente in profondità che colui che dona la vita nella fede così come colui che viene generato a quella vita si sentono entrambi perfetta­mente autorizzati a dirsi padre e figlio l'uno nei confronti dell’altro. Da venti secoli, questa medesima esperienza si è traman­data di generazione in generazione, da innumerevoli padri a in­numerevoli figli spirituali.

Lo slittamento nella terminologia relativa alla "paternità spi­rituale", che ha portato con sé una modificazione - o "aggiorna­mento" - della prassi, si spiega in molti modi. Esso dipende an­zitutto da un fenomeno culturale al quale nessuna generazione può sottrarsi. Ma ci sono altri due elementi più strettamente correlati a quello che vorrei dirvi oggi e tra i quali esiste inoltre un collegamento. Li evoco qui brevemente, sperando che in se­guito vengano meglio in luce.

Anzitutto, a partire dal secondo dopoguerra, c'è stato il rin­novamento patristico in occidente, che ha portato a una migliore conoscenza delle fonti della vita monastica. Non soltanto un certo numero di testi fino ad allora sconosciuti o dimenticati so­no stati riesumati, tradotti e messi a disposizione, ma, grazie a un'ermeneutica storica e letteraria rinnovata - fatto d'importan­za capitale - tutta una generazione ha imparato a leggerli nel contesto della cultura e della prassi che li hanno prodotti. Per ci­tare solo un esempio, si può dire con certezza che uno studio co­me quello di padre Irénée Hausherr, La direzione spirituale nell’antico oriente, pubblicato nel 1955, abbia seminato nel cuore di tutta una generazione di monaci qualcosa che prima o poi avrebbe dovuto portare frutto. Dopo la lettura di quello studio, noi giovani monaci di quel tempo non potevamo evitare di porci la domanda: è proprio così che oggi si pratica ancora la direzione spirituale?

All'incirca nello stesso periodo un altro fenomeno, emergente da un orizzonte molto diverso, lasciava la propria impronta sul­la concezione stessa dell'accompagnamento. Era l'entrata in sce­na delle cosiddette "scienze umane": la psicologia, la psicotera­pia, la psicoanalisi e le scienze a esse collegate. La psicoterapia - cioè, secondo l'etimologia di origine greca, la "guarigione dell’anima" - non poteva non toccare, incuriosire, a volte irritare o addirittura provocare una reazione di rigetto, ma anche a poco a poco interessare coloro che erano incaricati della formazione e della maturazione spirituale dei propri fratelli. Certamente ci furono molte esitazioni, serie obiezioni, addirittura moti di ri­fiuto e di chiusura. Tuttavia a poco a poco è nata una letteratura spirituale impegnata nel tentativo di sintesi tra gli insegnamenti tradizionali, che derivano dalla prassi secolare dell'accompagnamento spirituale, e le acquisizioni più comunemente accettate delle quali siamo oggi debitori alle scienze umane. Sono stati an­che aperti luoghi nei quali si è tentato di vivere concretamente questa avventura. Matrimonio felice, che però non esclude mai interamente momenti nei quali si procede a tentoni o in modo maldestro, e talora i fallimenti. Le comunità monastiche vi han­no contribuito, ma non sono le sole. Diverse delle cosiddette "nuove" comunità coltivano questa apertura, a volte in modo molto fecondo, e nessuna famiglia religiosa classica è rimasta estranea a tale processo. Per citare soltanto la Compagnia di Gesù, "specializzata" nell'accompagnamento spirituale fin dai tem­pi del suo fondatore, sant'Ignazio - erede a sua volta (è il caso di ricordarlo?) di Cassiano e di Diadoco di Fotica -, certamente il modo in cui i celebri "trenta giorni" sono vissuti oggi si dif­ferenzia sensibilmente da quello raccomandato anche solo cinquanta anni fa.

 

 

Le radici nella tradizione

 

Prima di prendere in esame gli sviluppi recenti della prassi dell'accompagnamento spirituale, può esserci di aiuto una rapi­da panoramica sulle sue radici nella tradizione. Dal IX secolo in poi, la Regola di Benedetto si è progressivamente imposta all'in­sieme della vita monastica occidentale. In essa il ruolo dell'aba­te, che Benedetto talora assimila a quello di un padre spirituale, è centrale, sia in relazione all'insieme della comunità, sia per ciascuno dei fratelli.

Se da un lato l'abate non è, con ogni probabilità, l'unico ac­compagnatore dei suoi monaci, dal momento che la regola preve­de esplicitamente altri "anziani spirituali" che lo assistano in questo campo, il suo stile di governo, anche nel foro esterno, è influenzato da una certa qualità che si ritrova nelle relazio­ni con i fratelli riguardo al foro interno. Se per un verso l'aba­te deve instancabilmente insegnare con la sua parola, a maggior ragione questo va fatto con l'esempio. E il fatto che tocchi a lui decidere in ogni situazione non significa che il suo pote­re sia illimitato. Anzitutto cercherà di ascoltare con attenzione i fratelli, anche i più giovani, perché Dio abitualmente parla attraverso dì loro, di tener conto in particolare delle debolez­ze di ciascuno e anche della loro eventuale "fondata mormora­zione". Queste ultime possono infatti assumere il valore di un segnale che avverte l'abate che ciò che sta chiedendo ai fratel­li oltrepassa il dono loro accordato dalla grazia in quel momen­to. E dato che questi doni di grazia sono diversi, una qualità fondamentale dell'abate sarà la flessibilità con la quale mostrerà di adattarsi, a seconda dei casi, a una grazia che si rivela tanto multiforme. Mostrerà fermezza con alcuni, tenerezza con al­tri; sarà soprattutto un maestro per chi è alla ricerca di insegna­mento a di correzione, ma ancor di più un pius pater, un "tenero padre" per chi ha bisogno di essere accolto e incoraggiato.

In un capitolo che deve poco alle fonti della Regola e molto all'intervento di Benedetto, egli addirittura dice esplicitamente che l'abate è un medico, un "terapeuta", che ha ricevuto il compito di curare e guarire i malati, non di regnare sui sani. Qualora debba prendere qualche decisione un po' severa nei con­fronti di chi si è reso colpevole, avrà cura di inviargli quasi di nascosto, un fratello a lui vicino, per consolarlo in quella pro­va , e anzi, se è necessario, abbandonerà l'insieme del suo greg­ge imitando "l'affettuoso esempio del buon Pastore, il quale la­sciate le novantanove pecore sui monti se ne andò a cercare quell’unica pecora che si era smarrita, della cui debolezza ebbe tanta compassione - aggiunge san Benedetto - da degnarsi di pren­derla sulle sue sante spalle e di riportarla così al gregge". Si può ritenere che questa immagine del buon pastore che porta sulle spalle la propria pecora traspaia, come in filigrana, dietro innumerevoli figure di padri spirituali del monachesimo latino.

L'ambito in cui si esercita questa paternità è quello dei "pen­sieri", o meglio delle suggestioni e dei progetti che attraversano incessantemente il cuore. Su questi il monaco si aprirà rego­larmente al suo padre spirituale, come prevede il quinto grado dell'umiltà che Benedetto ha preso tale e quale dalla Regola del Maestro, a sua volta ispirata da vicino all'opera di Cassiano. Quest' "umile confessione", come la chiama Benedetto, non por­ta del resto assolutamente a una condanna o a una sanzione. Al contrario, è piuttosto una proclamazione della bontà di Dio, un incontro faccia a faccia con la sua misericordia, come attesta il versetto del salmo che Benedetto cita a fondamento di essa: "Confidatevi al Signore, perché egli è buono, perché eterna è la sua misericordia" (Sal 106, 1). Egli si discosta dalle sue fonti quando fa entrare questa “apertura” nello scenario della lotta contro le tentazioni che bisogna spezzare su Cristo (Benedetto è il solo a parlarne). Del resto non sono solo i pensieri cattivi che bisogna comunicare e "manifestare all'anziano spirituale", ma anche i buoni, e persino quelli che sembrerebbero partico­larmente generosi. Ad esempio, durante la quaresima, le peni­tenze supplementari che certuni vorrebbero imporsi, spinti dalla "gioia dello Spirito santo", devono prima essere sottoposte all’approvazione del padre spirituale perché, precisa Benedetto, "quello che si fa senza il [suo] permesso verrà imputato a pre­sunzione e a vanagloria, e non sarà [ritenuto degno] di ricom­pensa".  Si noti il termine: la praesumptio, il fatto di impadro­nirsi di qualcosa prematuramente. Senza quella benedizione il monaco sì espone al rischio di "presumere", e non tanto delle proprie forze, quanto della grazia del Signore che, nel caso spe­cifico, non gli è forse stata accordata. Ne risulterebbe allora un ascesi condotta in pura perdita. Un discernimento dello stes­so tipo s'impone a proposito delle osservanze che l'abate richie­de alla comunità nel suo insieme. Ispirandosi a questo discerni­mento - virtù che Benedetto qualifica, sulla scia di Cassiano, come la madre di tutte le altre - l'abate "agisca con misura in tutto, in modo che anche i forti abbiano qualcosa da desiderare e che i deboli non si ritirino".

Un discernimento simile s'impone in particolare per saggiare l'autenticità della vocazione del nuovo arrivato. Non gli si deve facilitare in alcun modo l'accesso, bisogna anzi opporgli dei ri­fiuti e coprirlo di insulti, per mettere alla prova la qualità del suo desiderio: "Provate gli spiriti - dice Benedetto citando san Giovanni - per vedere se sono da Dio" (cf. 1Gv 4,1). Se si tratta di un chierico, si arriverà persino a rivolgergli il rimprove­ro poco lusinghiero, e inaspettato in questo contesto, che Gesù mosse a Giuda nel giardino del Getsemani: "Amico, per cosa sei venuto?". Ma, se insiste lo stesso per entrare, sarà affidato a un anziano particolarmente esperto nel discernimento. Benedet­to descrive questo anziano come uno che è "capace di guadagna­re le anime". Egli dovrà osservare il novizio con la massima attenzione per vedere se veramente cerca Dio nella vita monastica. A questo scopo, la Regola segnala tre criteri di discernimen­to, che, unitamente alla prova del tempo, dovranno verificare la qualità di questa ricerca: se, cioè, il novizio si applica con cu­ra all'opera di Dio (probabilmente qui intesa nel senso ristretto della celebrazione della liturgia), all'obbedienza e alle umiliazio­ni, criteri mutuati sia da Basilio sia da Giovanni Cassiano.

Un ultimo aspetto sorprende il lettore della Regola: il modo in cui Benedetto coinvolge personalmente l'accompagnatore in questo itinerario, donde emerge l'importanza che riveste ai suoi occhi la qualità della relazione instauratasi tra maestro e disce­polo. Il maestro deve anzitutto ricordarsi di essere anche lui, se non un malato, per lo meno un convalescente non ancora com­pletamente guarito. Il padre spirituale più adatto, scrive, è colui che sa curare le ferite sia proprie che altrui". Solo il terapeuta guarito o in via di guarigione mostrerà di essere un buon terapeuta. D'altronde è quello che Benedetto augura all'abate, che "mentre con le sue esortazioni provvede alla correzione di altri, viene egli stesso corretto dai vizi". "Sia sempre vigilante sulla propria fragilità", gli consiglia ancora, per impedirgli di punire con eccessiva severità il fratello che si è reso colpevole. Se è por­tato dalle circostanze a fargli delle osservazioni, lo faccia con prudenza e senza alcun eccesso, perché non accada che mentre desidera raschiare troppo la ruggine si rompa il vaso".  Ma so­prattutto "faccia sempre prevalere la misericordia sul giudizio (cf. Gc 2,13), per ottenere anch'egli altrettanto". Perché solo l'amore guarisce veramente, non il giudizio o la condanna, e neppure il richiamo all'ordine: "Odi i vizi, ami i fratelli", in modo da essere contraccambiato da loro, "e cerchi di essere più amato che temuto".

I tratti tipicamente evangelici della figura del "padre spiritua­le" secondo san Benedetto sono evidenti. Se da un lato è ve­ro che egli li ha leggermente accentuati rispetto ad alcune rego­le monastiche del suo tempo - come nel caso della Regola del Maestro, la sua fonte principale - Benedetto, qui come altrove, non fa che riassumere una tradizione le cui origini si trovano in oriente, alla quale in parte poteva accedere attraverso le prime traduzioni latine. Nel corso dei secoli, questa figura del padre spirituale resterà a lungo rinchiusa nell'ambito claustrale, prima di varcarne i confini a partire dal XVI secolo, ma soprattutto nel corso del XVII secolo, per raggiungere un largo pubblico di fer­venti cristiani che vivono nel mondo.

In Spagna questo avviene con la nascita della scuola carmeli­tana, con Teresa d'Avila e Giovanni della Croce. Ma soprattutto è decisiva l'influenza di Ignazio di Loyola, il cui insegnamento in materia sembra discendere direttamente da alcuni autori greci proprio allora "riscoperti" in occidente: Diadoco di Fotica, per esempio. Un "best-seller" spirituale del tempo, scritto da uno dei discepoli italiani di Ignazio di Loyola, Lorenzo Scupoli, che ritorna con insistenza sulla necessità di frequenti colloqui con il padre spirituale, penetrerà nel mondo ortodosso, in forma anonima: cosa che ci fa toccare con mano il debito di ricono­scenza reciproco tra oriente e occidente in questa grazia dell'ac­compagnamento. In Francia, nel secolo successivo, viene orga­nizzata quella che oggi chiameremmo una "direzione spirituale per corrispondenza". Essa si sviluppa quasi a oltranza, per arri­vare a vette raramente raggiunte sotto la penna di maestri come Fénelon, Bérulle, e soprattutto san Francesco di Sales. Nel giro di breve tempo, nello stesso periodo in cui Optina Pustyn' attira moltissimi pellegrini russi attorno alle sue grandi personalità ca­rismatiche, figure straordinariamente simili sorgono in occiden­te, suscitando lo stesso entusiasmo presso i fedeli, altrettanto as­setati di luci spirituali. Citiamo soltanto san Giovanni Bosco in Italia, e il santo curato d'Ars in Francia.

 

 

 

L'accompagnamento spirituale oggi

 

Dopo questa rapida panoramica sulle fonti, affrontiamo ora la prassi stessa dell'accompagnamento, così come cerchiamo di viverla oggi, accogliendo quello che ci è stato concretamente tra­mandato dai padri spirituali che ci hanno generato alla fede, ritornando incessantemente alle fonti di questo dono presso i grandi testimoni della tradizione, ma cercando nel contempo di mettere a profitto quello che la psicologia moderna ci ha inse­gnato nell'ambito delle relazioni terapeutiche. Prenderemo in esame l'oggetto dell'accompagnamento spirituale, quindi le sue tappe, i pericoli e le difficoltà alle quali oggi va incontro.

L'accompagnamento spirituale ha per oggetto la vita dello Spirito operante in colui che si rivolge a un padre spirituale; vita da intendersi nel senso più forte rispetto all'uso abbastanza ba­nalizzato che si fa oggi di questa espressione: la sua "vita spiri­tuale". Insisto: oggetto dell'accompagnamento è proprio quella particolare vita. Vi si potrebbe in primo luogo vedere l'appren­distato di una spiritualità, la trasmissione dei grandi principi dell' esperienza spirituale, ma 1'accompagnamento sarebbe allora una sorta di indottrinamento, nel senso più nobile del termine peraltro, che permetterebbe poi di conformarsi a quei principi nelle più svariate circostanze della vita. Il padre spirituale si tra­sformerebbe così in un maestro, un insegnante, e il figlio diven­terebbe un discepolo. Che nella relazione di accompagnamento spesso venga dedicato un certo spazio alla dimensione dell'inse­gnamento o dell'informazione, questo è scontato, specie quando il padre spirituale si rivolge ai nuovi venuti, ma è importante sottolineare come tale aspetto non raggiunga ancora ciò che co­stituisce il cuore di questa esperienza. Infatti un buon corso di spiritualità o di morale potrebbero il più delle volte sostituirlo in modo proficuo.

Altri forse penseranno che il ruolo del padre spirituale sia quello di discernere in certe occasioni la volontà di Dio sul pro­prio figlio. Intendiamoci: la relazione di accompagnamento può effettivamente svolgere un ruolo essenziale nelle circostanze, re­lativamente eccezionali, in cui c'è da fare una scelta importan­te, che si vuole conforme alla volontà di Dio. Attenzione però! Questo non implica in alcun modo che il padre spirituale sia abi­litato a decretare da se stesso ciò che Dio attende dalla persona che egli accompagna. Non sia mai! Se egli ha un ruolo non tra­scurabile da svolgere in una circostanza del genere non è in virtù dei suoi consigli, per quanto sensati, e ancor meno degli ordini che può dare, ma della qualità stessa della relazione esistente già prima tra padre e figlio, qualità che può permettere al desiderio di Dio dì manifestarsi nel cuore del figlio, attraverso l'apertura del cuore da parte di quest'ultimo, e attraverso l'ascolto rispet­toso da parte del padre spirituale. Tutto questo presuppone però che tra i due sia già avvenuto qualcosa di più importante e che in qualche modo è in relazione con quella misteriosa generazione alla vita di Dio di cui ci parlava san Paolo.

Accompagnare qualcuno non significa dunque né assicurargli un insegnamento, né dargli degli ordini, né prodigargli consigli. Mi si potrebbe obiettare che nella tradizione monastica antica, per esempio quella codificata negli Apoftegmi, la domanda ricor­rente che il giovane monaco rivolge al padre si esprime invece proprio con la richiesta di una parola: "Padre, dimmi una parola perché io sia salvato". Siamo perfettamente d'accordo. Ancor oggi la parola del padre spirituale costituisce il momento culmi­nante e decisivo, al cuore della relazione. Però essa non deve mai assumere la forma di un ordine perentorio, e neanche quella di una direttiva che tenta diplomaticamente di far pressione, sfiorando il ricatto. Non si tratta né dell'una né dell'altra cosa. Se ci sarà una parola da pronunciare da parte dell'accompagna­tore, egli lo farà dopo avere ascoltato a lungo, "auscultato" nel senso più forte del termine, tutto quello che si muove e pullula nel cuore di colui che egli accompagna. Questa parola pronun­ciata su di lui dovrà prima essere intravista al fondo del suo cuo­re, allo stato ancora inespresso, mentre si apre faticosamente la strada attraverso molte perplessità ed esitazioni perfettamente legittime. Quando l'accompagnatore l'avrà finalmente indivi­duata con il suo discernimento, di concerto con colui che egli accompagna, essa apparterrà a quest'ultimo quanto a lui. Ma so­prattutto, sarà divenuta parola di Dio su di lui. Infatti il deside­rio che finirà per prevalere nel cuore delle due persone che si trovano in tal modo l'una di fronte all'altra nel dialogo spiritua­le, sarà il desiderio dello Spirito santo in loro, la parola di Dio nel senso più forte del termine e, proprio per questo, una parola veramente creatrice, capace di aprire un futuro che il discepolo avrebbe a mala pena osato sospettare. Beato colui che riconosce sulle labbra del padre spirituale ciò che viene da Dio nel proprio intimo! Ritorneremo su questo punto, perché qui si arriva pro­prio al cuore dell'accompagnamento spirituale.

Questa parola sarà il punto di arrivo di un processo che nor­malmente richiede un certo tempo e nel quale è importante non bruciare le tappe. La prima realtà alla quale il novizio si trova a far fronte nel suo cuore è proprio questo "pullulare di desideri", nei quali egli non arriva a veder chiaro. Incapace di giudicarli in positivo o in negativo, e sapendo forse per esperienza fino a qual punto si lasci facilmente ingannare da questi, si apre con un confidente. È la famosa exagòreusis, "apertura del cuore" o "dei pensieri". Egli non la fa tanto - insisto su questo ancora una vol­ta - per sapere da lui dove si trovino il bene e il male: questo può insegnarglielo anche la teologia morale, ma per condividere que­ste cose con un altro ed essere accolto da lui così com'è, con quello che egli intuisce come il suo immenso tesoro interiore, le possibilità che gli si aprono e i rischi che corre, e come per rice­vere da lui l'autorizzazione a essere quello che è, con le proprie ombre e le proprie luci, sotto lo sguardo del suo amore; in fon­do, per essere guardato e accolto così come Dio stesso lo guarda e lo accoglie. E come intende guarirlo.

Perché la nostra è un'umanità ferita e malata. Ora, san Paolo descrive questa malattia e la sua guarigione con l'immagine di una lotta tra due desideri che si fronteggiano: il desiderio dello Spirito, già attivamente presente in ciascuno, e il desiderio della carne, che non ci ha ancora abbandonati definitivamente. "La carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda" (Gal 5,17). Ora, non è mai facile distinguere dentro di noi ciò che viene dall'uno o dall'altra, perché la nostra facoltà di giudizio è anch'essa ferita, ovvero è cieca se lasciata a se stessa. Così cieca che se non siamo guidati dallo Spirito noi siamo incapaci di gui­darci gli uni gli altri: "Quando un cieco guida un altro cieco tut­ti e due cadranno in un fosso!" (Mt 15,14).

Per usare un'altra immagine biblica si potrebbe dire che l'ac­compagnatore è il testimone della nascita della vita divina in un fratello nella fede. Anzi, è qualcosa di più: lo assiste rivestendo anche il ruolo della levatrice. La sua presenza attenta permetterà al principio della vita divina, deposto in quel fratello al momen­to del battesimo, di svilupparsi nel modo più lineare. Egli evite­rà al fratello certi pericoli che potrebbero ostacolare tale cresci­ta. Lo aiuterà a far proprio poco per volta il disegno misericor­dioso di Dio su di lui. L'accompagnatore "ausculta" questa vita divina e contemporaneamente si sforza di smascherare gli osta­coli che continuano ad accumularsi davanti a tutte le ferite che sono irritate e talora esasperate dalla vita divina, prima che essa le guarisca.

Come avviene tutto ciò? A partire da quali criteri? In un primo tempo si tratterà di aiutare l'accompagnato a vedere più chiaro nella complessità dei desideri che si contendono il suo cuore in tutte le direzioni, cosa che evidentemente presuppone che questi ne parli all'accompagnatore. E questa apertura potrà avvenire solo quando sentirà di avere veramente fiducia in lui, cioè si sentirà accolto dall'accompagnatore con un amore vero. Ciò che egli teme più di tutto è di essere biasimato, giudicato, messo alla berlina, cosa che non farebbe che moltiplicare in lui la vergogna che ha già dovuto vincere per aprirsi. D'altronde questo avverrebbe inevitabilmente se l'accompagnatore si preci­pitasse a offrire qualche veloce risposta tratta dalla collezione dei "casi di coscienza" che tiene in serbo. Ma anzitutto, perché essere così precipitosi? E poi, ci si deve limitare a rispondere? Non sarebbe meglio molto semplicemente "accogliere", cioè per prima cosa e anzitutto mantenere un silenzio rispettoso e affet­tuoso, per meglio ascoltare? Questo fratello prova vergogna ai propri occhi. Ma come potrebbe essere diversamente? Come ciascuno di noi, è ferito. Ora, ha il diritto di condividere in tal modo quella che è la sorte comune di tutti gli uomini. Soprat­tutto, Dio lo conosce e lo ama così com'è. Perché prima ancora di guarirlo, Dio desidera anche che il malato prenda coscienza delle proprie ferite. In che modo un medico potrebbe guarire una malattia che non gli è stata svelata?

D'altronde questo fratello ha soltanto ragione di aver vergo­gna? E da dove gli viene questa vergogna? Forse da quello che spesso gli è stato ripetuto, e cioè che i suoi desideri sono "catti­vi"? Ma, per l'appunto, esistono veramente dei desideri "catti­vi"? Ammettere che Dio abbia potuto dotarci di "desideri asso­lutamente cattivi" non equivale forse a ricadere a nostra volta in un'eresia già da tempo condannata: il manicheismo? Purtroppo il vocabolario forgiato da una certa spiritualità ci ha giocato un gran brutto tiro! Vale sicuramente per l'occidente, ma si può di­re lo stesso anche per l'oriente. Agli occhi di Dio non ci sono desideri fondamentalmente cattivi, ci sono solo desideri malati, e malati d'amore, perché purtroppo sulla nostra terra quello che più fa difetto è sempre l'amore.

Un atteggiamento accogliente, costruito su un amore vero, e non unicamente su una tecnica relazionale, e del quale un silen­zio anche prolungato può essere il segno migliore, è in grado, da solo, di svolgere un ruolo terapeutico decisivo all'interno della relazione. L'accompagnatore che sa ascoltare con rispetto il gro­viglio, a volte persino rocambolesco, dei desideri dell'altro, sen­za giudicare né condannare - e naturalmente senza nemmeno approvare - è il primo protagonista, e forse il più efficace, di un'autentica terapia spirituale. Nella misura in cui egli stesso si è pacificamente riconciliato con i propri desideri (cosa che resta la condizione sine qua non), può a sua volta aiutare profonda­mente l'altro a convivere e a riconciliarsi con i suoi.

Il figlio può far questo molto più efficacemente se il padre spirituale, lungo tutto questo processo, cerca con tutte le pro­prie forze di portare insieme a lui il peso, se necessario, anche del suo peccato, oltre a quello delle tentazioni: ne patisce la vio­lenza nello stesso tempo in cui la patisce il figlio, piange con lui il suo peccato, è persino pronto a farsi carico della riparazione. E’ un essere di profonda compassione. Gli esempi abbondano negli Apoftegmi. Ecco come il grande Barsanufio, nel VI secolo, si ri­volge a uno dei suoi figli, che ha tenuto un comportamento me­diocre: "Dopo [Dio], io ho steso sopra di te le mie ali fino a og­gi e porto i tuoi pesi, i peccati, il tuo disprezzo delle parole che io ti rivolgo, e la tua negligenza. Ma pur vedendo io li copri­vo, come Dio vede e copre i nostri peccati, attendendo che tu ti pentissi".

Così l'oriente. Un apoftegma occidentale, e contemporaneo, sarà altrettanto eloquente. Si racconta che una donna molto an­gosciata, che aveva bussato alla porta di moltissimi padri spiri­tuali e psicoterapeuti per essere liberata dalla sua condizione, fu guarita all'improvviso dopo un unico incontro con padre Maurice Zundel, il presbitero e autore spirituale svizzero che fu amico intimo di papa Paolo VI. Quando si chiese alla donna quale con­siglio padre Zundel le avesse dato per ottenere una guarigione così rapida, rispose: "Non ha pronunciato una sola parola, mi ha semplicemente ascoltata, ha visto le mie lacrime. Poi si è messo a piangere con me, e abbiamo pianto a lungo insieme". Compa­tire così profondamente l'angoscia di un fratello a volte è suffi­ciente non solo a rappacificarlo, ma a guarire la ferita che si na­sconde dietro le sue lacrime.

Compassione tanto più efficace in quanto, all'interno della relazione di accompagnamento, essa diventa allora l'immagine dell'accoglienza misericordiosa che il Padre del cielo riserva a ogni peccatore. In fondo è di Dio che l'accompagnatore può es­sere il segno, e spesso il segno efficace, vale a dire il sacramento. All'interno di un amore di questo tipo, e in certo qual modo da esso rianimati, i desideri fino a quel momento deformati dalla malattia del peccato a poco a poco si risanano, trovano il loro giusto posto nell'anima, senza inutili eccessi, e sono di nuovo utilizzabili con discernimento. Vi è allora un inizio di guarigio­ne, nella misura in cui l'accompagnatore ha potuto ripetere le parole rivolte da Gesù alla donna adultera: "Neanch'io ti con­danno; va', e d'ora in poi non peccare più" (Gv 8,11). Non vi è dubbio che proprio l'assenza di giudizio da parte di Gesù, ed es­sa sola, sia stata ciò che ha reso quella donna capace di un cam­biamento di vita così spettacolare.

Da un incontro di questo tipo, in cui la debolezza umana, e persino il peccato, sono toccati e nello stesso tempo inghiottiti dalla misericordia, nasce il pentimento o la compunzione, la ka­tànyxis, criterio di ogni esperienza realmente cristiana ed evan­gelica. E’ importante distinguerla accuratamente dal senso di colpa psicologico, con il quale spesso la si è confusa. Questo è tanto più urgente oggi nella misura in cui un complesso di col­pa collettivo, sia che venga assorbito inconsciamente o che sia respinto con violenza, sembra lasciare il segno in profondità nell'inconscio dei nostri contemporanei, complesso del quale è in parte responsabile una certa spiritualità, pesantemente legalistica. La sorda irritazione spesso provata dal lettore moderno, anche credente, di fronte all'importanza che i padri accordano al pentimento e alla coscienza del proprio peccato, proviene da questo malessere inconscio, che tradisce una mancanza di liber­tà nei confronti di alcune istanze interiori. Su di esse avrebbe dovuto lavorare invece l'accompagnamento spirituale, neutraliz­zandone gli eccessi.

 

 

Accompagnamento spirituale e psicologia

 

La psicologia ci ha reso vigilanti su quelle istanze che possono compromettere, e talora pervertire, il clima nel quale dovrebbe svolgersi il dialogo dell'accompagnamento spirituale, e che ri­schiano di influire sulla qualità della relazione che s'instaura tra i due partner. Ora, ciò che importa è anzitutto la qualità di que­sta relazione, che porta in sé in proporzione un potenziale tera­peutico non misurabile né sulla frequenza o sulla durata dei col­loqui, né sulla lunghezza delle lettere che vengono scambiate. Questa qualità è l'amore, un amore privato di ogni forma di ri­piegamento su di sé, a immagine dell'agape di Dio che non esclu­de nessuno, soprattutto non esclude i peccatori. "Non sono venu­to per i giusti - ha detto Gesù - ma per i peccatori" (Mt 9,13).

A titolo esemplificativo soffermiamoci un istante su una sola di queste istanze, inevitabilmente presente al cuore di ogni col­loquio di accompagnamento, se ne sia coscienti o meno. Si trat­ta di quello che la psicologia moderna chiama il super-ego, o, con un termine meno tecnico, il "censore interiore", presente in ciascuno di noi fin dalla prima infanzia. Per molto tempo è stato l'unica norma interiore che dirigeva, senza che ce ne accorgessimo, tutto il nostro comportamento morale. Non è né un'imper­fezione né una malattia. Al contrario, ci è addirittura indispen­sabile. Ma non coincide nemmeno con lo Spirito santo, che un giorno dovrà prenderne il posto. E’ questo "censore interiore" che è all'origine dei sentimenti di vergogna provati dall'accom­pagnato quando comunica a un altro i suoi desideri più intimi. Ma esso spiega anche la difficoltà, incontrata da molti accompa­gnatori durante l'ascolto silenzioso e pieno di rispetto delle con­fidenze che vengono loro fatte, a far fronte a qualche fremito di panico interiore al quale non devono cedere, possibile indizio di come neanche loro siano sufficientemente liberi nei confronti dei propri desideri.

Se l'accompagnato si sente colpevole, a torto o a ragione, a causa dei pensieri che gli hanno traversato il cuore, l'accom­pagnatore può cedere alla tentazione di ratificare simile condan­na implicita, accrescendo così la sua confusione. Ma può anche provare il desiderio di liberarlo da questo sentimento, rassicu­randolo e cercando di provargli che non è per nulla colpevole. Viceversa, se l'accompagnato gli sottopone i suoi pensieri positi­vi e i suoi buoni propositi, l'accompagnatore può pensare di agi­re bene incoraggiandolo apertamente, felicitandosi, approvan­do. In tutte le situazioni qui tratteggiate le sue intenzioni sono indubbiamente ineccepibili, ma il risultato, sia psicologico che spirituale, rischia di essere nullo. L'accompagnatore ha sempli­cemente fatto eco all'istanza interiore che motiva e spesso tor­menta il figlio, si è identificato al "super-ego" dell'altro, vale a dire che si è assunto dall'esterno il ruolo da esso svolto; un "cen­sore esterno" e intervenuto a fornire sostegno al "censore inter­no . Come quest'ultimo, esso giudica, condanna, eventualmen­te punisce; oppure fa il contrario: autorizza, permette, applau­de. Ma in nessuno di questi due casi l'accompagnatore riesce ad aprire la strada all'azione molto più sottile, e molto più difficile da discernere, dello Spirito santo; rimane sul piano psicologico.

In questo modo c'è il grande rischio di otturare la piccola fes­sura attraverso la quale poteva insinuarsi l'azione dello Spirito santo per emergere nella vita della coscienza. Solo un'accoglien­za silenziosa, che si vieta provvisoriamente di intervenire con tutto quello che potrebbe essere recuperato dal censore interiore in un senso o nell'altro, solo una tale accoglienza, piena di un amore estremamente rispettoso, può aprire la strada allo Spiri­to santo. In caso contrario, colloqui di questo tipo, sia che sia­no indebitamente colpevolizzanti o falsamente rassicuranti, non possono avere che due risultati, entrambi funesti: o creano degli scrupolosi o riconfermano dei farisei, due tipologie spirituali che non sono fondamentalmente differenti. Senza accorgersene, sia lo scrupoloso sia il fariseo vorrebbero sforzarsi da soli di fare quello che li rende giusti, senza attendere nulla dalla misericor­dia. E purtroppo in questo vengono talora assecondati da un accompagnatore poco illuminato.

Per evitare tale pericolo, che non è per nulla immaginario, è indispensabile che l'accompagnatore stesso abbia a sua volta percorso una parte del cammino e che, per la parte non ancora attraversata, sia almeno vagamente cosciente delle passioni, cioè dei desideri provvisoriamente malati che ancora lo abitano e che rischiano di falsare il suo discernimento. Perché anche lui non è ancora perfettamente guarito. Nel migliore dei casi è un con­valescente che conserva le cicatrici delle proprie ferite. Cicatri­ci che, all'interno di una relazione a volte abbastanza carica dal punto di vista affettivo come può essere l'accompagnamento spi­rituale, possono riaprirsi e rimettersi a sanguinare. Ferite che, in ogni modo, anche se in via di guarigione, continuano sempre a trasudare un po' nel corso della vita.

Può accadere, ad esempio, che l'accompagnatore soffra anco­ra di un bisogno esagerato di riuscita; o che sia paralizzato dal­la paura di fallire; o che non sopporti di essere contraddetto, perché è geloso della propria autorità. Può anche succedere che si senta continuamente minacciato, insidiato dagli altri, e dun­que avaro nel far fiducia; o che sia handicappato dalla sete segre­ta di una figura materna, sete che senza accorgersi ha abilmen­te riconvertito in desiderio di iperprotezione dell'altro. Esisto­no un'infinità di scenari analoghi, che sono trappole reali nelle quali può imbattersi ogni accompagnatore. Questi scenari sono tanto più pericolosi in quanto l'accompagnato, aiutato in questo da un inconscio malizioso all'eccesso, li smaschera rapidamente, senza d'altronde poterli esprimere, e cerca poi di trarne profit­to, senza neanche accorgersene, per il consolidamento dei propri scenari e per la soddisfazione dei propri bisogni inconsci.

Se l'accompagnato riesce in questo, l'accompagnatore potreb­be trovarsi molto semplicemente accomunato alla malattia spiri­tuale della persona che segue, coinvolto come parte in causa nella sindrome di quest'ultima. Inutile dire che nessun progresso reale sarebbe più possibile da quel momento, e che la frequen­za o la lunghezza dei colloqui non vi avrebbe alcuna incidenza: l'accompagnamento sarebbe bloccato indefinitamente in una si­tuazione di stallo. Un rischio del genere esiste. E’ sottile, parti­colarmente per chi ha poca esperienza della vita spirituale. E’ sufficiente esserne avvertiti. Si ricordi Benedetto: il padre spiri­tuale è colui che "sa curare le ferite sia proprie che altrui”.

 

 

Il discernimento spirituale

 

Ma se l'accompagnatore ha saputo fare almeno un po' di luce sui propri desideri, la sua sensibilità spirituale a ciò che provie­ne dalla vita di Dio in un altro si potrà affinare progressivamen­te, sotto l'azione dello Spirito santo. Qui si tocca quello che dal­la tradizione è stato chiamato il carisma del discernimento spiri­tuale. Come indica il termine carisma, esso viene ricevuto come un dono da parte dello Spirito santo: non è automaticamente as­sociato a una funzione precisa e alla persona che la esercita. L'accompagnatore può essere dotato per natura di un certo fiuto psicologico che gli permette, meglio di altri, di "indovinare", come spesso si dice, la persona che gli sta di fronte. Ma non per questo ha la garanzia di poter discernere con precisione, tra tutti gli elementi che gli vengono affidati, quello che è un desiderio neutro e senza conseguenze, da un desiderio ferito dal peccato, e da un desiderio dello Spirito santo nel profondo del cuore. In­fatti solo lo Spirito santo può dare a qualcuno la facoltà di "sen­tirlo" spiritualmente.

La Prima lettera di Giovanni conosce già una misteriosa "un­zione" che dovrebbe dispensare un battezzato da ogni insegna­mento proveniente dall'esterno: egli viene ammaestrato dall'in­terno, su ogni cosa (cf. 1Gv 2,27). La Lettera agli Ebrei, dal canto suo, menziona coloro che, tra i cristiani, hanno le facoltà esercitate al discernimento del buono e del cattivo, grazie alla loro esperienza (cf. Eb 5,14). Un documento antico come il Pa­store d'Erma contiene già un breve trattato sul discernimento tra i due spiriti, discernimento confermato da "consolazioni" che sono diverse da quelle della carne o della ragione lasciate a se stesse.

Come descrivere questa nuova sensibilità spirituale che per­mette di "sentire" distintamente ciò che viene dalla vita di Dio negli altri, spesso con timore e tremore, perché queste cose non sono mai totalmente evidenti? L'immagine usata da san Giovan­ni sembra caratterizzarla in modo felice. Egli la paragona a un chrìsma, una unctio: a un'unzione, all'effetto dell'olio che nel contempo fortifica, addolcisce e ammorbidisce. In fin dei conti, quel particolare tipo di forza e di dolcezza sono gli unici criteri validi, ma resterà sempre difficile renderne partecipi coloro che si trovano al di fuori della relazione che l'accompagnatore in­staura con l'accompagnato. Solo all'interno della relazione è da­to comprendere di che cosa si tratti.

Ma per lo meno si può già vedere come alcuni criteri non sia­no decisivi, anche se possono sembrare tali sia in rapporto ai no­stri schemi abituali sia alla cultura nella quale siamo immersi. Così, per esempio, la volontà di Dio non coinciderà necessaria­mente con ciò che vi è di più generoso, di più nobile o di più ele­vato tra i desideri che si presentano, come qualche volta si è pen­sato. E a maggior ragione non sarà neanche ciò che vi è di più doloroso, mortificante, contrario alle aspirazioni spontanee dell’interessato. Dio non è un carnefice per definizione. Certo, pri­ma o poi la Pasqua di questo fratello arriverà, preceduta dall'i­nevitabile croce da portare, ma solo quando sarà la sua ora. Inu­tile anticiparla con un forcing nel quale un ruolo di primo pia­no viene svolto spesso dall'amor proprio e dall'orgoglio, anche quelli dell'accompagnatore. Questi pochi esempi basteranno per far comprendere a quali insidie può essere esposto un discerni­mento che non sia illuminato interiormente dallo Spirito santo. Insidie che sono tanto più pericolose quanto più l'orgoglio in­conscio dell'accompagnato viene candidamente avallato da quel­lo dell'accompagnatore.

Ancora una parola sulla famosa obbedienza che, all'interno della relazione padre-figlio, deve permettere all'uno come all'al­tro un discernimento corretto. La tradizione la chiama "rinuncia alla volontà propria", formula che oggi può apparire sconcertan­te, ma sulla quale ci si può intendere. Con volontà propria evidentemente la tradizione non indica il principio stesso della nostra libertà spirituale, significato che il termine voluntas assu­merà a partire dal medioevo latino. Al contrario, si ritiene che proprio la rinuncia alle "volontà proprie" - nella maggior parte dei casi l'espressione è al plurale - permetta di recuperare un au­tentica libertà spirituale. Con "volontà proprie" s'intende tra­dizionalmente l'insieme dei nostri desideri nella misura in cui questi sono ancora feriti, cioè affetti da quella distorsione che li porta facilmente al peccato. Questo insieme di desideri fa parte del proprium, come lo chiamano ancora i padri latini, che in se­guito al peccato, si contrappone dentro di noi alla vera natura, ricevuta da Dio al momento della creazione e rinnovata in noi al momento del nostro battesimo, sotto forma di un seme chiama­to a svilupparsi. E in questo senso che espressioni come "tronca­re le volontà", tò kòpsai tà thelemata autou, frequenti negli Apoftegmi, o anche "odiare le volontà proprie", espressione che si ri­trova anche in san Benedetto, hanno ancor oggi un significato pienamente accettabile, anche se di primo acchito possono urtare la nostra sensibilità moderna. Tuttavia ciò è vero solo a condi­zione che il padre spirituale utilizzi questa obbedienza non per far prevalere un punto di vista personale, ma nel rispetto di un contesto spirituale preciso, per nulla comune e che non bisogna mai dare per scontato.

In fondo è proprio questa molteplicità di "volontà proprie" ciò che ingombra il nostro spazio interiore e ci impedisce di ritrovare il desiderio di Dio in noi, l'unico al quale è importante acconsentire. Allo stesso tempo si comprende come uno sforzo intenso di rinuncia alle volontà proprie possa garantire un esatto discernimento della volontà di Dio. Dato che vi è stata una ri­nuncia, per quanto è possibile, a tutto ciò che è desiderio super­ficiale, solo la volontà di Dio deve sopravvivere e farsi sentire in colui che la ricerca sinceramente. Abba Poemen non diceva for­se: "La volontà propria è un muro di bronzo tra Dio e noi"?

Questa rinuncia è evidentemente cruciale per colui che si fa accompagnare. Ma è altrettanto indispensabile all'accompagna­tore. Abbiamo gia visto come anche il suo sguardo possa essere obnubilato da residui di passioni non ancora guarite. Nel cerca­re di auscultare i desideri che il figlio gli presenta, i rumori di di­sturbo che questi emettono possono mescolarsi a quelli prodotti dai suoi stessi desideri, quando non è ancora pronto a rinunciar­vi completamente. Egli si trova così esposto al rischio di scam­biare per volontà di Dio quella che non è altro che la proiezione della sua volontà personale.

Un retto discernimento richiede dunque assolutamente l'at­tuazione di quella che si potrebbe chiamare una "mutua rinun­cia alla volontà propria", affinché possa emergere, al cuore della rinuncia, quell’unzione che insegna ogni cosa" (1Gv 2,27) e che ci rivela l'autentico desiderio di Dio. Rinuncia da parte di chi viene accompagnato, perché non scambi i propri desideri per desideri di Dio; e rinuncia da parte dell'accompagnatore, perché non imponga in nome della volontà di Dio il proprio mo­do di pensare.

Avevo esordito esprimendo l'intenzione di approfondire l'iti­nerario tradizionale dell'accompagnamento con l'apporto di al­cune acquisizioni della psicologia del profondo, oggi general­mente accettate, ma sottolineando anche fin dall'inizio come l'una non abbia la vocazione di sostituirsi all'altro. Prima di ter­minare chiediamoci rapidamente in quale momento i due percorsi, che apparentemente procedono in modo abbastanza pa­rallelo e talora danno l'impressione di coincidere, iniziano inve­ce a essere divergenti. I diversi elementi che li rendono simili l'uno all'altro sono noti: accoglienza neutra o anche fondamen­talmente benevola, manifestazione dei desideri profondi che si presentino sotto forma di tentazioni o di sogni, astensione da ogni giudizio e condanna, emergere di sofferenze o di ferite ri­mosse da tempo, riconciliazione il più possibile pacifica con i propri limiti.

Malgrado questo parallelismo impressionante, gli obiettivi dei due itinerari sono però radicalmente differenti. La psicoterapia non ambisce mai a far emergere a livello cosciente il desiderio profondo di Dio su qualcuno, la sua vocazione, il segreto della sua libertà. Come abbiamo visto, essa può utilmente spianare il terreno, ma è obbligata, presto o tardi, a cedere il campo a un al­tro tipo di sostegno. Perché e in che modo avviene questo? Per­ché la situazione relativa al famoso "transfert", inevitabilmente presente nella relazione tra i due partner, per quanto sia impor­tante giacché possiede la chiave della loro evoluzione più o meno felice, non esaurisce il senso della relazione di accompagnamen­to spirituale. Ogni relazione comporta sempre qualcosa che va oltre il gioco sottile del transfert e del contro-transfert: essa im­plica una possibilità di contatto tra l'Io autentico dell'uno e l'Io autentico dell'altro, quello che uno psicanalista inglese e presbi­tero della Chiesa d'Inghilterra, il reverendo Fred Blum, ha chia­mato la "terza dimensione", tipica di ogni relazione analitica. Mi limito qui a citare un breve passo tratto dai suoi scritti. Dopo aver messo in guardia dal meccanismo di proiezione inerente al transfert, egli aggiunge:

 

La forza di guarigione che è all'opera in questo processo non interviene tramite quello che è stato chiamato "transfert e contro-transfert", ma piuttosto grazie a una certa qualità del­la relazione, nella quale è all'opera una realtà vitale più pro­fonda ... che unisce i due partner a livello del nucleo intimo del loro essere, nella loro essenza. La condizione preliminare perché possa verificarsi un evento simile è, naturalmente, che a sua volta anche il terapeuta possieda in se stesso un legame vivo con quella realtà.

 

Effettivamente si tratta di un possibile Evento, con la maiu­scola, un Evento di salvezza, e la forza terapeutica che vi si dispiega è proprio l'agape, l'onnipotente forza dell'amore miseri­cordioso.

 

 

Conclusione. Paternità spirituale come luogo ecumenico

 

Vorrei concludere ponendo un semplice interrogativo. La tra­smissione dell'esperienza spirituale che avviene al cuore dell'ac­compagnamento - una generazione alla vita divina - grazie al ministero esercitato da un padre nei confronti di un figlio spiri­tuale, non implica forse che l'accompagnamento sia un possibile "luogo ecumenico"? E questo non solo dal punto di vista della condivisione in abstracto tra chiese, così come la si pratica in riu­nioni come questa, ma anche nella realtà di questa trasmissione, concretamente vissuta come legame vivo e vivificante tra part­ner che appartengono a chiese ancora ufficialmente separate?

Parlando della situazione di evoluzione nella quale si trova at­tualmente il dialogo ecumenico, il cardinale Walter Kasper l'ha di recente definita "una situazione ecumenica intermedia", ca­ratterizzata dal fatto che sono possibili e anzi auspicabili un cer­to numero di gesti di comunione, mentre la comunione piena non ci è ancora stata accordata. Egli enumera una lista impres­sionante di canali di mediazione, tra i quali figurano, ad esem­pio, "gli incontri e le relazioni tra comunità monastiche e con­gregazioni aperte all'ecumenismo, tra nuovi movimenti, gruppi e confraternite". All'interno di queste "relazioni" potrebbe trovare posto uno scambio a livello di accompagnamento spiri­tuale tra "padri" e "figli" appartenenti a chiese separate. Si trat­terebbe di una specie del tutto particolare di communicatio in sacris, del tutto priva di intenzioni di proselitismo - questo è scontato - e neanche tentata di forzare le barriere che impedi­scono oggi la celebrazione eucaristica comune. Piuttosto questa esperienza le trascenderebbe in certo qual modo permettendo, da una confessione all'altra, quella generazione alla vita divina nella quale si compie il mistero della paternità spirituale, che è al cuore della chiesa.

Per quanto mi riguarda, è con infinita gratitudine che ricordo un monaco della Chiesa ortodossa romena, padre André Scri­ma, che negli anni '60 ha iniziato molte comunità monastiche francofone alla pratica della preghiera di Gesù. Prima di giunge­re esule in occidente, padre Scrima era stato in Romania figlio spirituale di un monaco russo, padre Ioann Kulygin, superstite proprio dell'allora soppresso monastero di Optina, e in seguito internato in un gulag sovietico, dal quale fu liberato per l'avan­zata delle truppe tedesche nel 1942. Padre Scrima aveva rice­vuto una benedizione particolare da padre Ioann, che quest'ul­timo a sua volta conservava dal proprio padre spirituale a Op­tina, ed è grazie a quella benedizione che egli riteneva di aver ricevuto il carisma della paternità spirituale. E’ lecito pensare che attraverso le parole e la preghiera di padre Scrima, e anche attraverso quella benedizione, che egli talora acconsentiva, in via eccezionale, a impartire ai figli spirituali d'occidente, qual­che cosa della grazia di Optina Pustyn' abbia oggi portato dei frutti fin nel monachesimo latino?

 

Tratto da: A.A.V.V., Optina Pustyn' e la paternità spirituale, ed. Qiqajon - Comunità di Bose a cui rimandiamo per l'approfondimento dei temi relativi allo Starcestvo russo. In questo volume sono pubblicati gli atti del X Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa - sezione russa - svoltosi a Bose il 19-21 settembre 2002.