L’apertura dell’«occhio del cuore»
nella pratica esicasta e nel sufismo: elementi distintivi

L'esicasmo può dirsi una forma di esoterismo? 


 

L'inabitazione dello Spirito nel cuore è il punto di arrivo della pratica esicasta; ma, in un certo senso, è anche un punto di partenza. Solo a partire da questo momento, infatti, lo «stato» acquisito è permanente: e lo è pro­prio perché alle forze umane si è congiunta una influenza spirituale al di là delle contingenze storiche e biologiche. Spiega Isacco di Ninive: «Dal mo­mento in cui quest'uomo è diventato preghiera [...] lo stesso Spirito non smette di pregare in lui». Se prima, per necessità o per stanchezza, l'uo­mo poteva abbandonare la preghiera, ora è la preghiera a non abbandona­re lui. Si dice talvolta che la preghiera si interrompe: in realtà ciò che si fer­ma è lo sforzo umano teso al conseguimento della katàstasis, dello «stato» di preghiera. In proposito viene detto che «l’uomo dimentica la propria do­manda», stante il fatto che fino a quel punto la «preghiera del cuore» era un grido, un'implorazione, una «domanda» rivolta a Dio in attesa di una sua risposta.

Isacco di Ninive aggiunge che, in questa condizione, l'uomo resta come «un corpo senza respiro», ossia in uno stupore estatico silenzioso e gioio­so: lo spontaneo prodursi della preghiera in lui viene sovente paragonato al mormorare continuo di un ruscello di acqua pura. La mente che, nella «preghiera di Gesù», era «discesa» nel cuore per purificarsi dai logismoi viene ora illuminata e «conosce» i misteri divini in virtù della deificazione ottenuta per grazia. Si è detto che «la carità è la porta della gnosi» (Eva­grio), ma questa proposizione non contiene sfumature irrazionalistiche o anti-intellettualistiche. Più l'intelligenza s'impregna della luce e dell'amore trinitario, più si affina, si espande e conosce pensieri  che Esichio di Batos paragona a dei delfini: «il cuore libero da immaginazioni finisce col pro­durre in sé pensieri santi e misteriosi, così come su un mare calmo si vedo­no saltare i pesci e volteggiano i delfini». Il «corpo senza respiro» finisce così col «respirare» nell'unità divino-umana, come per una pregustazione, gia in vita, della gloria del cielo. Da questo «essere presso» Dio (synousìa) scaturisce un nuovo «dialogo», dal momento che il vedere-conoscere stabi­lisce una vicinanza e immediatezza più grande rispetto al «parlare». Per comunicare con Dio la creatura deificata per grazia non userà il pensiero umano, logico-discorsivo. Tuttavia questa «eloquente mutezza» è contras­segnata dai Padri con un termine che nell'Atene democratica indicava la libertà di parola» (parrhesìa). Nel nuovo contesto parrhesìa è quella «fami­liarità» con Dio che permette di passare dai filosofemi della teologia alla ca­rità vivente: è la «confidenza» e la «franchezza» che nascono dal vedere Dio che si concede come «interlocutore» (synòmilos). Questa può sem­brare, ma non è, una conseguenza della recuperata condizione «edenica». L'esicasta non «torna» nel Paradiso terrestre: egli ri­nasce in Cristo, nuovo Adamo, non come se fosse il vecchio Adamo.

All'estremo opposto dell'arditezza della parrhesìa, troviamo la «pruden­za» (phrònesis) dei Padri. In rapporto ad essa, la condizione dei «perfetti» è considerata alla stregua di un limite matematico. È assai frequente - al pun­to di costituire un topos della letteratura esicasta - il tema dell'estrema ra­rità di coloro che ottengono la «preghiera pura»: si parla di uno su mille praticanti o, più spesso, di uno in una generazione. Questi numeri sim­bolici indicano una selezione severa, che tuttavia non dipende da predesti­nazione o da predeterminazioni elitarie. Nell'esicasmo la ricerca dello «sta­to di preghiera» non è riservato ai monaci anacoreti. I Detti dei Padri abbondano di esempi in cui lo Spirito rivela ai praticante che c'è qualcuno, fra gli uomini comuni, che si trova più avanti di lui sulla via della perfezione: un caso famoso riguarda lo stesso Antonio Abate. Tecnicamente, la sele­zione risponde all'esigenza di umiltà che deve accompagnare ogni momen­to della pratica dell'orante. Teologicamente, essa dipende dalla condizione di «persona», comune a chi incontra ed a Chi viene incontrato lungo la via dell'amore-conoscenza. A parte ciò, non è mancato chi ha ravvisato «stupe­facenti analogie» tra lo stato di «preghiera pura» e lo dhikr nella sua espressione più profonda, ossia nello «dhikr dell'intimo» (sirr): questo ter­mine corrisponde al «segreto», ineffabile e per ciò stesso incomunicabile, procurato al sufi che raggiunge il tawhid, ossia «''identità suprema dell'io del servo con il Sé divino». Nel commento di Al-Ghazali sui Nomi divini si afferma: «Ciò che lo schiavo ottiene da questo nome è deificazione, (ta'al­luh: cfr. la théosis degli esicasti), ovvero il suo cuore e la sua aspirazione so­no dedicati a Dio, tanto che egli non vede altro che Lui». Sul piano feno­menologico, si riscontrano anche altre analogie. Come nell'esicasmo, nello dhikr più elevato l'invocazione si fa costante e indipendente dalla volontà di chi prega. Anch'essa «sgorga» e «mormora» come un ruscello dal cuore dell'adepto: «Tutto l'essere del sufi diventa una 'lingua che dhikra', senza parola pronunciata e in un'effusione di luce».

 

Anche a questo livello, tuttavia, debbono riscontrarsi elementi distintivi che in qualche misura attenuano le «stupefacenti analogie» fra i due stati fi­nali.

 

Anzitutto, il sufismo prevede criteri selettivi pregiudiziali. In esso - nonostante le frequenti «aperture» al popolo minuto - è d'uso separare la «via degli eletti» (la tariqa) dalla via degli «uomini comuni»; prospetti­va, questa, che non trova riscontro nell'esicasmo. Se questa è una delle ragioni per negare che l'esicasmo sia una for­ma di esoterismo cristiano, lo è altrettanto per affermare che il sufismo è una forma di esoterismo islamico. Schuon, dal suo punto di vista, soleva di­re che «nell'Islam non c'è santità al di fuori dell'esoterismo, mentre nel Cri­stianesimo non c’è esoterismo al di fuori della santità»

 

Questa differenza si lega ad un'altra, ancor più importante dal punto di vista della «realizzazione» finale. Essa concerne le modalità di approccio all'interlocutore divino: l'incontro spirituale cristiano, anche a livello di esicasmo, riguarda sempre una persona. Ricorda K. Ware: «La 'preghiera di Gesù non è [...] un incantesimo ipnotico, ma è una frase densa di significa­to, un'invocazione rivolta a un’altra persona». A queste parole fa eco Clé­ment, secondo il quale la breve formula ripetuta incessantemente «non è un mantra efficace di per sé, come in India, ma una parola rivolta a qualcuno […] un aggancio con colui che S. Agostino chiamò il Maestro interio­re». Questa «persona» (hypòstasis) è certo al di sopra dell'individuo crea­to di natura umana che si suole definire con lo stesso termine. Nondimeno, l'incontro fra l'uomo e il Dio trinitario è sempre, misteriosamente, persona­le. A coloro che credono di ridurre il concetto di persona ad un puro nome, obiettando che esso è un prodotto della cultura occidentale, è facile rispondere che nessun altro termine ha potuto offrire l’adattabilità, la plasticità necessarie ad esprimere, insieme con altre valenze (filosofiche, giuridi­che, morali), una profonda valenza spirituale riguardante uno stesso sogget­to. L’idea di persona esprime ad un tempo la libertà del rapporto spirituale («Dio può tutto - scriveva Evdokimov - salvo costringere l'uomo ad amar­lo»), la coscienza della graduale partecipazione alla vita divina, e l'unità psichica (in prospettiva escatologica, psico-fisica) dell'integrazione-trasfigu­razione nel divino.

Varie fonti sottolineano le differenze rispetto anche al buddhismo, che conce­pisce l'uomo come un aggregato provvisorio di elementi: tra questi, gli stes­si atti di «coscienza» (vijnana). Come si ricorderà, anche il sufismo pre­vede che l'«ego» del praticante si «estingua» in Allah, ovvero «a tutto ciò che non è Allah. Nell'esicasmo invece «l'unione con Dio, di cui parlano i Padri, non si risolve in una disintegrazione della persona umana nell'Infinito divino: essa è, al contrario, il compimento del suo destino libero e perso­nale». La serie di mortificazioni» (= purificazioni) che l'adepto dovrà attraversare non equivalgono alla «morte iniziatica» in senso stretto: l'esica­sta fa posto nel suo cuore (nel «luogo del cuore» metafisicamente identifi­cato) allo Spirito, la cui grazia lo trasfigura, «deificandolo».

 

   Infine, la terza differenza principale riguarda il tipo di «liberazione» fi­nale. Come si è notato, l'esicasmo fa propria una tradizione patristica che prevede la possibilità del raggiungimento di una «divinizzazione» nel corso della stessa vita, consistente nella immedesimazione in Cristo attraverso l'accesso nel cuore dello Spirito Santo. Va però ricordato nuovamente che questa «liberazione in vita» esicasta è sottoposta a una duplice limitazio­ne: anzitutto la théosis ricevuta da vivi secondo la «capacità» di ciascuno non è che la «caparra» (arrhabòn) di ciò che verrà concesso al momento del Giudizio finale; inoltre la conoscenza-identificazione riguarda esclusivamente le «energie» increate che procedono dalla Trinità e non l'essenza divina (il che non impedisce che il santo divenga increato secondo la gra­zia»). «La divina caligo sta sempre a significare l'inconoscibilità di Dio, sottratto agli sguardi dall'oltranza del suo bagliore accecante [...]. Ma l'oc­chio puro, l'occhio del cuore nudo, contempla i raggi e se ne impregna; raggi-energie o idee divine che, scendendo dal Principio dei principi, manifestano l'essenza incomunicabile». Nonostante la somiglianza-affinità (homòiosis) che si acquista a partire dalla semplice «immagine» divina impressa nell'uomo-creatura, l'eterogeneità delle nature (divina e umana) per­siste, invalicabile.

 

       Nel mondo islamico la situazione si presenta in modo parzialmente diverso. Anche l'Islam eredita - e rielabora - la teologia «apofatica» dello pseudo-Dionigi. Anch'esso non ammette la possibilità di conoscere l'«essenza» divina (Dhat); questa «rimane inaccessibile muovendo dal relativo». Al-Ghazali osserva che «nessun essere creato può avere una visione della realtà dell'Essenza (Dhat) di Lui, se non nello stupore e nello sbalordimento [dell'impotenza]. Quindi l'unica possibilità di conoscenza [di Dio] con­siste nella conoscenza dei nomi e degli attributi di Lui». La possibilità di una «conoscenza-identificazione» con i Nomi (Asma') e con le Qualità (Ci­fat) divine è molto simile alla posizione cristiano-orientale. In questo senso anche il sufismo parla di «nube oscura» (‘ama) impartecipabile agli esseri creati. La conoscenza avviene mediante le Qualità, che corrispondono pressappoco alle enérgeiai divine nel senso che costituiscono «il contenuto increato delle cose create»

E tuttavia, ferma restando questa corrispondenza di fondo, varia il mo­do d'interpretare l'obiettivo spirituale. Meta dell'esicasta è Cristo, ipostasi incarnata della Trinità, col quale si cerca una «fusione senza confusione», realizzata per amore-gnosi, scevra da sentimentalismo. Meta del sufi è inve­ce l'«Uomo Universale» (al insan al kamil). Questo termine designa sia un'entità spirituale, sia un grado iniziatico. Dal punto di vista divino, esso è il «prototipo unico» (al-Ulmudhaj al-farid), al quale Allah ha asservito ogni cosa creata, a causa della perfezione (o «universalità», kamal) della sua «forma» (curah). Dal punto di vista umano esso è il grado raggiunto da tutti gli uomini che «abbiano realizzato l'Unione o l'identità Suprema, come i grandi mediatori spirituali, particolarmente i profeti e i “poli” fra i santi». Nel contesto islamico anche l’Identità suprema si ottiene grazie alla “realtà muhammadica” (al-haqiqa al muhammadiya) che secondo Ibn ‘Arabi fu la prima cosa venuta in esistenza dopo la “polvere primordiale” (al-haba).

     Il Profeta è l'Uomo Perfetto (O Universale) che è «un istmo» (barzakh) fra il mondo e Dio [...]; è la linea di separazione fra il grado divino e il gra­do delle cose cui è data esistenza, simile alla linea che separa l'ombra dal sole. In questo senso «il sufi, mediante l'identificazione con la «realtà eter­na di Maometto» viene trasformato nell'Uomo Perfetto (o Universale) e ri­torna nello stato in cui era prima della creazione, quando esisteva come pu­ro spirito nello stato della più pura unione con Dio».

     Anche il «profeta Gesù», in ambito islamico, riveste particolare importanza. Tra l'altro egli è il «Sigillo della santità universale» (khatam al-Wilayat al-'Amma) poiché dopo la sua seconda venuta alla fine del ciclo attuale, chiuderà il «ciclo della santità»: quando il suo respiro e quello dei suoi compagni saranno ritirati da questo mondo, non vi saranno più individui qualificati con i gradi elevati di santità e non si potrà più raggiungere il grado spirituale di Uomo Uni­versale; gli uomini diverranno progressivamente simili alle bestie ed è su questa umanità che si leverà l'Ora.

Questa funzione di Sidna 'Aissa (Gesù), elevata al punto di riguardare il destino del più alto grado dell'iniziazione sufi (relativo al raggiungimento della «stazione di prossimità», (maqam al-qurba) è, ovviamente, ben diversa da quella rivestita da Gesù nel Cristianesimo. L'Islam esclude la divinità di Cristo in base al rifiuto della «specificazione di luogo» (hulul) dell'identità Suprema: non si ammette cioè che l'essenza possa venir circoscritta entro una forma contenuta in uno spazio.

Nella dottrina esposta da Guénon questo postulato islamico comporta una serie di «aggiustamenti»: il principio dell'equivalenza delle tradizioni lo porta talora a conciliare sul piano simbolico principi dogmatici , od anche semplicemente storici, che alcune tradizioni presentano come divergenti. Così, egli accetta pienamente la realtà storica della morte di Cristo sulla croce, ma al patto di considerarla per i suoi aspetti «simbolici», aggiungen­do che «è solamente a questa stregua che i fatti storici hanno per noi un qualche interesse». Ciò lo induce a postulare una sorta di doppio livello di unione col divino: quella con Cristo-Gesù, propria dei mistici occidenta­li moderni, nella quale Gesù è assunto «sotto l'aspetto 'individualizzato' dell'Avatara»; e quella con il Cristo-«principio», o Logos, in tutto corri­spondente all'«Uomo Universale». Ne deriverebbe, per corrispondenza simmetrica, che se nel misticismo (exoterico) l'unione è limitata alla individualizzazione «avatarica» di Gesù, nell'esicasmo (esoterico) l'unione do­vrebbe realizzarsi, al sommo, con lo stesso Logos. Tuttavia Guénon non esplicitò mai questa conclusione: d'altronde la dottrina esicasta esclude chiaramente qualsiasi identificazione in essentia con il Logos, limitando la théosis umana alla identità a livello dell'energia» (tautòtes kat’ enérgeian). ­A parte ciò vi è il fatto, ben rilevato da Jean Borella, che la stessa equivalen­za di Cristo con un Avatara è assurda, dal momento che non è la «natura» divina, bensì l'ipostasi (o persona) del Figlio che si fa carne: per questo il Fi­glio poteva assumere la natura - e quindi divenire una «persona» - umana, mentre non poteva assumere la natura di esseri non personali, quali pesci, tartarughe o cinghiali, cosa invece possibile per l'Avatara hindu. Infine, l'esicasta non può identificarsi con una figura equivalente al grado di «Uomo Universale», poiché quest’ultimo, pur essendo la suprema “forma” (curah) riassuntiva dell’Universo, è pur sempre forma non generata ma creata da Dio, laddove Cristo è generato ma non creato dal Padre.

      

        Al termine della nostra analisi, possiamo finalmente tentare di dare ri­sposta ad uno dei problemi che ci siamo posti: l'esicasmo può dirsi una for­ma di esoterismo?  Se si valuta la questione sul piano della consapevolezza, si registra soltanto la coscienza, propria della mistica cristiano-orientale, di differenziarsi rispetto al «misticismo» occidentale post-medievale. Quanto all’­esoterismo, esso è talora scientemente negato da alcuni teologi orto­dossi: per il resto, esso è affermato da esoteristi sulla base di osservazioni di teologi (cfr. Guénon da Lossky, Valsan da Behr Sigel, etc. ), ovvero dipende da sporadiche allusioni (Dumitriu, Scrima), allusioni che, attentamente considerate, si risolvono anch'esse in interpretazioni (stavolta a dire invertita: il teologo (Scrima) interpreta sulla base dell’esoterista (Guènon), etc.). Ma le interpretazioni richiedono comunque riscontri che non possono scaturire dall'autorità di chi le sostiene.

Qualche maggiore indicazione, come abbiamo visto, può fornirla la comparazione storico-rellgiosa, ove si tenga conto delle affinità e delle di­scordanze riscontrabili fra esicasmo e metodi spirituali analoghi nella forma e vicini nello spazio e nel tempo, come è, principalmente, il sufismo. Su questa base, la risposta alla nostra domanda può dirsi negativa se per esote­rismo s'intende quanto Guénon sosteneva in un articolo del 1935, nel quale sottolineava la differenza di natura e non di grado dell'esoterismo ri­spetto all'exoterismo corrispondente. È invece probabilmente positiva, se si prendono come riferimento le ultime posizioni assunte da Guènon ri­guardo al tema specifico ma anche, in generale, quelle da lui affermate nell’articolo del 1931, L'écorce et le noyau, non a caso rivolto specificamente all'esoterismo islamico e riunito poi in una raccolta riguardante esoterismo islamico e taoismo.  Non meno dello dhikr Allah, e pur con le differenze indicate, la preghiera del cuore, nella sua formulazione più estesa e praticata («Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore») è un'orazione «quintessenziale» (per la sua «equivalenza» ri­spetto alle preghiere liturgiche, per l'esaltazione del Nome, per la mortifi­cazione dell'«ego»). Essa non presuppone una «lingua sacra» Originaria e non dà importanza al suono delle parole, ma al loro senso (anche se è un senso che Occorre far discendere nel cuore). E’ un riconoscimento della Pre­senza del Signore Gesù, nell'ambito trinitario (come «Cristo» per unzione dello Spirito Santo, come «Figlio di Dio»); è un'ammissione d'insufficienza di sé e, per conseguenza, una potente chiamata in soccorso nella lotta con­tro i «pericoli dell'anima». Come l'invocazione di Allah rappresenta lo zahir ed il batin (ossia il lato esteriore e quello più interno della tradizione islamica), così la preghiera del cuore è insieme una giaculatoria fra tante ed il «nocciolo» dell'esicasmo. Ciò può spiegare l'originaria «segretezza» cui accenna Clément, ma anche il riserbo e la «discrezione» che sempre han­no circondato questa pratica spirituale. E può spiegare anche la similarità formale con dottrine di altre tradizioni, certamente esoteriche, come il sufismo (selezione dei praticanti, cura da parte di un «maestro», metodo e gra­dualità fissati per tradizione, trasformazione ontologica degli adepti, etc.). Sotto questo aspetto non si può sottovalutare la tecnica connessa al «lavoro spirituale». Di questa, diversi studiosi hanno rile­vato l'utilità e persino la «necessità» in prospettiva simbolica. Tuttavia l'elemento-base di questo metodo, il «centro del centro», resta l'invocazio­ne del Nome. Se questa ha potuto divenire oggetto di culto fanatico (onomatolatria), se ne è stato (e ne è!) possibile un uso improprio o blasfemo, essa rappresenta nondimeno il cardine dell'esicasmo, il solo elemento che non potrebbe venire rimosso senza disgregare l'insieme.

        Questa invocazione-giaculatoria, presa in se stessa, non risentì delle po­lemiche dei «tomisti orientali» e, indirettamente, fu considerata compatibi­le con le orazioni cattoliche, dal momento in cui venne riconosciuto (1782) il carattere non eretico della Philokalia. Oggi la preghiera del cuore rap­presenta la principale ragione di successo della Philokalia in Occidente. Forse non contribuirà al ravvivamento di un «esoterismo cristiano», ma può contribuire ad un riavvicinamento ecumenico tra Ortodossia e Cattoli­cesimo, anche nei termini indicati da Scrima nell'Avènement philocalique. Del resto, la preghiera di Gesù non è mai stata del tutto ignorata in Europa. Tra l'altro, l'«orazione cordiale» ne rappresenta un effimero quanto significativo equivalente.

Forse, potremmo spingerci ad accostamenti più arditi. In termini fun­zionali la «fatica del cuore» compiuta dall'esicasta corrisponde a ciò che l'i­slamismo definisce «grande guerra santa» (jihad al-akbar): essa è la lotta contro i nemici interiori, per una purificazione che prelude all'illuminazio­ne e all'Unione. Ma anche nell'Occidente medievale sorsero Ordini mona­stici che puntavano ad una forma di «guerra santa»: ci riferiamo in partico­lare ai Templari. Sulla fama «sulfurea» immeritatamente imputata ai vertici dell'Ordine, così come sulle posteriori mistificazioni dell'esotero-occultismo o sulle recenti, lucrose affabulazionì alla Umberto Eco, non è qui il ca­so di soffermarci. Eppure, a prescindere da degenerazioni e da postume deformazioni, anche quella condotta dai Templari fu, a suo modo, una «guerra santa». Anche per essi venne raccomandato anzitutto l'abbattimen­to dei «nemici interiori». E soprattutto anch'essi, sulla scorta dell'esorta­zione di Bernardo di Chiaravalle, posero al centro della lotta il Santo Nome, al punto di assumere come canto di battaglia un verso dei Salmi: Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam.

Enrico Montanari

 

 

Tratto da Enrico Montanari, LA FATICA DEL CUORE -  Saggio sull'ascesi esicasta - ed. Jaca Book a cui si rimanda per l'approfondimento e le relative note numerose e particolareggiate.