Enrico Montanari

NOTA SULL’ ESICASMO

 

 

 Il termine (dal gr. hesychia, quiete, silenzio, pace) designa un movimento spirituale sorto nell'Oriente cristiano, e al tempo stesso uno stato interiore che può aprire alla contemplazione delle cose invisibili.

Nella sua formula­zione dottrinaria l'esicasmo risale al IV sec. d.C., in particolare ai grandi Pa­dri cappadoci (Basilio, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo) e ad Eva­grio Pontico che definì i primi elementi di un itinerario spirituale esicasta. Nel V secolo, fu Diadoco di Fotica ad unificare tali elementi e a proporli come metodo pratico di preghiera.

Tale metodo, consistente anzitutto nella pronuncia ripetuta di un'invocazione giaculatoria - denominata preghiera di Gesù a partire da Giovanni Climaco (VII sec.) -, si è espresso in una for­mula rinvenibile per la prima volta nella Vita di Abba Filemone, un monaco egiziano (ca. VI sec.), che recita:

«Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me».

Un momento significativo nell'evoluzione dell'esicasmo si ebbe quando alla recitazione della «Preghiera di Gesù» si aggiunsero (ovvero divennero storicamente riconoscibili) tecniche psico-fisiche (visualizzazione, respira­zioni ritmate col battito cardiaco, posture, etc.).

Il primo richiamo ad una «tecnica del corpo» può rinvenirsi nell'opera di Niceforo, un monaco del Monte Athos vissuto nella seconda metà del XIII secolo. È presupposta una preparazione morale, una coscienza pura (amerimnìa) e accanto ad essa so­no richieste delle condizioni esterne: una cella chiusa, la posizione seduta su un basso sedile, appoggiare la barba sul petto «volgendo l'occhio corporeo con tutto lo spirito nel mezzo del ventre, altrimenti detto ombelico». L'esercizio prevede anche un rallentamento regolato dalla respirazione (più tardi si raccomanderà di sincronizzare la ripetizione della formula col ritmo rallentato della respirazione), «nonché un’esplorazione mentale dell’io viscerale alla ricerca del luogo del cuore» (Spidlik), e l'invocazione continua di Gesù.

    In tal modo, l'orante deve sforzarsi di «far discendere la mente nel cuore», portando la preghiera cosciente al centro dell'essere, con ciò stesso unificandolo: la «Preghiera di Gesù», consistente essenzialmente nell'invo­cazione del Nome, aiuta appunto a concentrarsi sul cuore e a smorzare l'a­bitudine al pensiero discorsivo.

Una generazione dopo Niceforo, Gregorio il Sinaita (m. 1346) concluse la formula con «. . abbi pietà di me, peccatore» (tale ampliamento cono­scerà particolare fortuna nell'esicasmo russo, e da questo è stato trasmesso all'età moderna). Gregorio unifica la tradizione sinaitica (Giovanni Clima­co) con quella del Monte Athos. Inoltre, valorizza il pensiero di un grande mistico del X-XI secolo, Simeone il Nuovo Teologo (m. 1022), sottolineando la possibilità di una parziale anticipazione in vita della divinizzazione (théo­sis) ottenibile nel Giudizio Finale. Rifacendosi alla concezione del battesi­mo in Simeone, Gregorio collega la Preghiera di Gesù al battesimo, ve­dendo in essa il mezzo con cui la presenza dello Spirito Santo, donata vela­tamente nel battesimo, diventa consapevole in colui che prega. Egli afferma che «quando una persona diventa consapevole della presenza dello Spirito Santo, avverte un senso di calore nel cuore, che porta alla contemplazione della luce divina. Sebbene egli non parli di questa luce divina a livello teo­logico, è chiaro che ciò a cui egli pensa è un esperienza immediata di Dio» (Zawilla).

Contro questa esperienza «sensibile» di luce spirituale - e contro talune pratiche ascetiche degli esicasti - insorse, nel XIV secolo, un monaco greco di Calabria, Barlaam. Da una sua esperienza presso monaci esicasti (proba­bilmente principianti) egli riportò l'impressione di una grave eresia: «sono stato iniziato da loro - afferma - a mostruosi e strani principi [...]. Essi trat­tano di [...] unioni prodigiose di mente e di anima, di un succedersi di luci bianche e di colori di fuoco, di flussi e di afflussi intellettivi in uno con lo spirito che avvengono attraverso le narici, divellicamenti attorno all'ombe­lico, infine di un collegamento dentro l'ombelico [...] e di altre cose simili che io, sforzandomi, credo necessario considerare come vera pazzia e man­canza di senno».

Queste accuse suscitarono la reazione del teologo greco Gregorio Pala­mas (1296-1359). Soprattutto nella sua prima Triade in difesa dei santi esi­casti (1336), Palamas richiama l'idea del corpo umano come «vaso di argil­la» (2 Cor 4,6-7) che tuttavia custodisce al suo interno il soffio primordiale con cui l’anima è stata creata a immagine di Dio. Per questo l'orante deve volgere all'interno il suo sguardo, raccogliere le sue facoltà intellettuali e, grazie alla luce già impressa nel suo cuore col battesimo, raggiungere con sforzo di preghiera e di esercizi ascetici la luce deificante che può trasfor­marlo già in vita, donandogli per grazia le primizie della théosis.

Palamas ri­prende dallo pseudo-Dionigi l'idea dell'inconoscibilità intrinseca di Dio, che tuttavia è conoscibile, anzi partecipabile, attraverso le sue «energie» (enérgeiai): esse «sono» Dio, quindi sono increate (gloria, luce, provviden­za, sapienza etc. di Dio in azione) pur senza rivelare l'intima essenza di Dio, inattingibile dall'uomo.

Le opere di Palamas, approvate definitivamente nel Concilio di Costan­tinopoli del 1351, fornivano una solida base dottrinale all'esicasmo, che fi­no ad allora era rimasto quasi ai margini della speculazione teologica, in una condizione di riservatezza (se non di segretezza), perché praticabile so­prattutto da monaci anacoreti e dai loro discepoli.

Per altro verso, l'appro­vazione delle tesi palamite accentuava il vuoto nei confronti della Chiesa d'Occidente apertosi con lo Scisma del 1054; un vuoto di fatto sussistito fino alle soglie del XX secolo.

I presupposti di un risveglio - e di una riapertura all'Occidente - furo­no determinati da due eventi quasi concomitanti. Il primo fu la pubblica­zione della Philokalia, una raccolta di passi di Padri orientali riguardante in prevalenza l'orientamento esicasta. La Philokalia, curata in greco da Ni­codemo Aghiorita, (1749-1809) e da Macario Notaras, vescovo di Corinto, (1731-1805), verrà pubblicata nell'edizione più ampia a Venezia nel 1782.

Il secondo evento si lega all'azione rinnovatrice di Paisij Velickovskij (1722-1794), che non soltanto curò la traduzione in slavo ecclesiastico della Philokalia (Dobrotojubie, Mosca 1793), ma risvegliò il ruolo di «guida spirituale» (geron, starec), che si era in parte attenuato in Russia e nei Bal­cani, soprattutto in concomitanza con l'imporsi delle riforme illuministiche. L'edizione greca e slavone della Philokalia, oltre all'azione restauratri­ce di Paisij, ebbero l'effetto di contrastare validamente il declino della spi­ritualità esicasta e, insieme, di aprirla a masse di cristiani ortodossi.

Si può dire che la pratica ascetica e la direzione spirituale propiziate dall'esica­smo, abbiano largamente influito sul costume religioso cristiano-orientale, in particolare della Russia (dove l'esicasmo era noto fin dal XII secolo). Un esempio di «guida spirituale» aperta al mondo si rinviene nello starec Amvrosij di Optina: i monaci ed il popolo semplice assistevano alle prediche dello starec, ma cercavano da lui consigli di saggezza spirituale anche per­sone appartenenti ai più alti strati della società del tempo e dell’intelligencija­, come ad esempio Dostoevskij, Solov’ev, Leont’ev, Gogol, Tolstoj. Le figure di Alioscia Karamazov e dello starec Zosima nascono da quei contatti: come da quel clima di rinnovato fervore popolare nascono i Racconti di un pellegrino russo, opera celeberrima di autore anonimo (ca. 1870), nella quale uno strannik (pellegrino itinerante) racconta “in soggettiva”, dal di dentro, le sue esperienze trasformatrici connesse alla pratica della «preghiera del cuore».

L'enorme successo editoriale del Pellegrino russo è alle origini della co­noscenza dell'esicasmo anche in Occidente. Un altro elemento di diffusio­ne in Europa e in America fu rappresentato dalla «diaspora» di teologi or­todossi costretti ad emigrare dalla Russia dopo la Rivoluzione sovietica. Il pensiero teologico di molti di essi (Vl. Lossky, S. Bulgakov G. Florovsky, P. Evdokimov etc.) fece conoscere la spiritualità ortodossa e, in particolare esicasta, nel mondo latino e anglosassone, e al tempo stesso, si «ambientò» nel mondo occidentale, dando vita ad una nuova generazione di teologi (J. Meyendorff, K. Ware, O. Clément, etc.) molto aperti al dialogo ecumenico: al punto che, oggi, il loro pensiero è paradossalmente accolto quasi più nel mondo cattolico che nella Russia ortodossa, spesso restia ad aperture con­ciliatrici.

Per altro verso, non va trascurato il convergente interesse dimostrato dalla Chiesa cattolica nei riguardi dell'esicasmo, specialmente a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Tra i molti contributi in questo senso, va segnalato almeno l'apporto recato da due studiosi del Pontificio Istituto Orientale di Roma: Ireneo Hausherr e Thomas Spidlik.

Il primo ha inaugu­rato gli studi filologici su testi esicasti; ne ha studiato molte caratteristiche comparandole e distinguendole da consimili dottrine eretiche (ad esempio dai Messaliani); ed ha valorizzato autori, già in antico discriminati, come Evagrio Pontico, rilevandone la capitale importanza per la formazione dell’esicasmo.

Il secondo ha esteso ampiamente la conoscenza dell'esicasmo russo; ha recuperato i valori simbolici relativi alla «Preghiera di Gesù», in particolare quelli del «Cuore» e del «Nome»; ha, tra i primi, avviato una comparazione fra tecniche di preghiera cristiane occidentali ed orientali.

Grazie a questa e ad altre iniziative, si può affermare che la comprensione fra le «Chiese sorelle» (Cattolica ed Ortodossa) proceda più speditamente a livello mistico-ascetico che non a quello dogmatico o diplomatico. Ne fanno fede, anche in campo ufficiale, i riconoscimenti tributati all'esicasmo dalla Santa Sede: soprattutto la lettera apostolica Orientale Lumen (2 mag­gio 1995), in cui si parla diffusamente del «silenzio» (traduzione di hesy­chia) «carico di presenza adorata», inteso come «il metodo teologico che l’Oriente preferisce e continua ad offrire a tutti i credenti in Cristo» (corsivo nostro).

In conclusione, può dirsi che sul piano antropologico-culturale l’esica­smo costituisce una «tecnica del corpo» (Mauss) paragonabile allo yoga, an­che se non confondibile con esso: nonostante evidenti somiglianze, l’esica­smo non è uno «yoga cristiano» più di quanto lo yoga possa dirsi un «esica­smo indiano».

Sul piano teologico, l'esicasmo costituisce una dottrina la cui autenticità», unita all'assenza di violenza (salvo quella rivolta al perfezio­namento interiore) può contribuire ad un ravvicinamento nel dialogo ecu­menico ed in quello interreligioso.

Sul piano ascetico-mistico, esso rappre­senta un regolare metodo tradizionale, che può propiziare il raggiungimen­to, per grazia e per sforzo interiore, di una illuminazione spirituale.