ADOLFO TANQUEREY
Compendio di Teologia Ascetica e Mistica

PARTE SECONDA
Le Tre Vie

LIBRO I
La purificazione dell'anima
o la via purgativa


CAPITOLO IV.
Lotta contro i peccati capitali 818-1.

818.   Questa lotta è in sostanza una specie di mortificazione.

Per dar compimento alla purificazione dell'anima e impedirle di ricader nel peccato, bisogna prender di mira la fonte del male in noi, cioè la triplice concupiscenza. L'abbiamo già descritta nei suoi caratteri generali, n. 193-209; ma, essendo ella radice dei sette peccati capitali, conviene pur conoscere e combattere queste cattive tendenze. Più che peccati sono infatti tendenze; si dicono però peccati perchè sono fonte o capo d'una moltitudine di altri peccati.

Ecco come queste tendenze si connettono con la triplice concupiscenza: dalla superbia nasce l'orgoglio, l'invidia, e la collera; la concupiscenza della carne genera la gola, la lussuria e l'accidia; la concupiscenza poi degli occhi s'identifica con l'avarizia o amore disordinato delle ricchezze.

819.   La lotta contro i sette peccati capitali tenne sempre gran posto nella spiritualità cristiana. Cassiano ne tratta a lungo nelle Conferenze e nelle Istituzioni 819-1; ma ne enumera otto invece di sette, separando l'orgoglio e la vanagloria. S. Gregorio Magno 819-2 distingue nettamente i sette peccati capitali che fa derivar tutti dall'orgoglio. Anche S. Tommaso li connette all'orgoglio, e mostra come se ne può fare una classificazione filosofica, tenendo conto dei fini speciali a cui l'uomo tende. La volontà può portarsi verso un oggetto per un doppio motivo che è o la ricerca di un bene apparente, o l'allontanamento da un male apparente. Ora il bene apparente a cui tende la volontà può essere: 1) la lode o l'onore, beni spirituali perseguiti disordinatamente: è questo il fine speciale dei vanitosi; 2) i beni corporali, che hanno per fine la conservazione dell'individuo o della specie, cercati in modo eccessivo, sono il fine particolare dei golosi e dei lussuriosi; 3) i beni esterni, amati in modo sregolato, sono il fine dell'avaro. -- Il male apparente da cui uno rifugge può essere: 1) lo sforzo necessario all'acquisto d'un bene, sforzo sfuggito dall'accidioso; 2) la diminuzione della propria eccellenza che è temuta e sfuggita, sebbene in modo diverso, dal geloso e dal collerico. Così la distinzione dei sette peccati capitali si trae dai sette fini speciali a cui tende il peccatore.

In pratica noi seguiremo la divisione che connette i vizi capitali con la triplice concupiscenza, perchè è la più semplice.

ART. I. L'ORGOGLIO E I VIZI CHE VI SI CONNETTONO 820-1.

§ I. L'orgoglio in sè.

820.   L'orgolio è una deviazione di quel legittimo sentimento che ci porta a stimare il bene che è in noi, e a ricercar la stima altrui fin dove è utile alle buone relazioni che dobbiamo avere con loro. Si può e si deve certamente stimare quanto di buono Dio ha messo in noi, riconoscendonelo come primo principio e ultimo fine: è sentimento che onora Dio e ci fa rispettar noi stessi. Si può anche desiderare che gli altri vedano questo bene, lo stimino e ne rendano gloria a Dio, come noi dobbiamo riconoscere e stimare le buone qualità del prossimo: questa mutua stima fomenta le buone relazioni che corrono tra gli uomini.

Ma vi può essere deviazione o eccesso in queste due tendenze. Si dimentica talora che autore di questi doni è Dio e uno li attribuisce a se stesso: il che è disordine, perchè è negare, almeno implicitamente, che Dio è il nostro primo principio. Parimente si è tentati di operare per sè, per guadagnarsi la stima altrui, in cambio di operare per Dio e riferire a lui tutto l'onore di ciò che facciamo: il che pure è disordine, perchè è negare, almeno implicitamente, che Dio è il nostro ultimo fine. Tal è il doppio disordine che si trova in questo vizio; onde si può definirlo: un amore disordinato di sè, per cui uno, esplicitamente o implicitamente, si stima come primo suo principio o ultimo suo fine. È una specie d'idolatria, perchè uno fa di sè il proprio Dio, come ben fa notare Bossuet, n. 204. -- A meglio combattere l'orgoglio, ne esporremo: 1° le principali forme; 2° i difetti che produce; 3° la malizia; 4° i rimedi.

I. Le principali forme dell'orgoglio.

821.   1° La prima forma consiste nel considerarsi, esplicitamente o implicitamente, come il proprio primo principio.

A) Pochi sono quelli che esplicitamente si amino in modo così disordinato da considerar se stessi come il loro primo principio.

a) È il peccato degli atei che volontariamente rigettano Dio perchè non vogliono padrone: nè Dio nè padrone; di costoro parla il Salmista quando dice: "Dixit insipiens in corde suo: non est Deus821-1. b) Fu equivalentemente questo il peccato: di Lucifero, che, volendo essere autonomo, ricusò di assoggettarsi a Dio; dei nostri progenitori, che, desiderando essere come Dei, vollero conoscere da sè il bene ed il male; degli eretici, che, come Lutero, ricusarono di riconoscere l'autorità della Chiesa stabilita da Dio; è il peccato dei razionalisti, che, superbi della loro ragione, non vogliono assoggettarla alla fede. Ed è pure il peccato di certi dotti che, troppo orgogliosi da accettare la tradizionale interpretazione dei dommi, li attenuano e deformano per conciliarli con le proprie idee.

822.   B) Altri in maggior numero cadono implicitamente in questo difetto, operando come se i doni naturali e soprannaturali da Dio largitici fossero intieramente nostri. In teoria si riconosce, è vero, che Dio è il nostro primo principio; ma in pratica poi uno ha tale smodata stima di sè come fosse egli stesso l'autore delle buone qualità che sono in lui.

a) Ce ne sono di quelli che si compiaccono delle proprie doti e dei propri meriti come ne fossero essi i soli autori: "L'anima, vedendosi bella, dice Bossuet, 822-1 se ne compiacque in se stessa e s'addormentò nella comtemplazione della propria eccellenza; cessò un momento di riferir se stessa a Dio, dimenticò la sua dipendenza, prima si fermò e poi s'abbandonò alla propria libertà. Ma, cercando di esser libero fino al punto di emanciparsi da Dio e dalle leggi della giustizia, l'uomo divenne schiavo del suo peccato".

823.   b) Più grave è l'orgoglio di coloro che attribuiscono a se stessi la pratica della virtù, come gli Stoici; o che pensano che i doni gratuiti di Dio siano frutto dei nostri meriti; che le nostre opere buone appartengano a noi più che a Dio, mentre in verità ne è lui la causa principale; e che vi si compiacciono come fossero unicamente nostre 823-1.

824.   C) È questo stesso principio che fa esagerar le proprie doti.

a) Si chiudono gli occhi sui propri difetti o si guardano le proprie doti con lenti d'ingrandimento; si giunge ad attribuirsi pregi che non si hanno o che hanno la sola apparenza di virtù: così si fa l'elemosina per ostentazione e si crede di essere caritatevoli mentre invece si è superbi; uno crede di esser santo perchè ha consolazioni sensibili, o perchè scrisse bei pensieri o buone risoluzioni, ed è invece ancora ai primi scalini della perfezione. Altri credono di avere mente larga perchè fanno poco conto delle piccole regole, volendo santificarsi con le grandi virtù. b) Di qui a preferirsi ingiustamente agli altri non vi è che un passo; si esaminano gli altrui difetti col microscopio e dei propri è gran cosa se uno ne ha coscienza; si vede la pagliuzza che è nell'occhio del vicino e non la trave che è nel nostro. Si giunge talora, come il Fariseo, a disprezzare i fratelli; 824-1 altre volte, senza arrivare a tanto, uno ingiustamente li abbassa nella propria stima e se ne crede migliore mentre in realtà ne è inferiore. È sempre in virtù dello stesso principio che si cerca di dominarli e di far riconoscere la propria superiorità su di loro.

825.   2° La seconda forma dell'orgoglio consiste nel considerarsi, esplicitamente o implicitamente, come il proprio ultimo fine, facendo le azioni senza riferirle a Dio, e desiderando di esserne lodati come se ne fossero intieramente nostre. È difetto che deriva dal primo; perchè chi si considera come il proprio primo principio vuole anche esserne l'ultimo fine. Bisognerebbe ripetere qui le distinzioni che abbiamo già fatto.

A) Sono pochi che si considerino esplicitamente come loro ultimo fine, se ne togli gli atei e gli increduli.

B) Ma in pratica molti operano come se partecipassero di questo errore. a) Vogliono essere lodati e complimentati per le opere buone, come ne fossero essi i principali autori, e come se avessero il diritto di operare per proprio conto, per soddisfare la propria vanità. In cambio di riferire tutto a Dio, vogliono essere applauditi per i pretesi buoni successi, come se avessero diritto a tutto l'onore che ne deriva. b) Operano per egoismo, per i propri interessi, poco curandosi della gloria di Dio e meno ancora del bene del prossimo. Arrivano perfino all'eccesso di pensare in pratica che gli altri debbano ordinare la vita a far loro piacere e a rendere loro servizi: si fanno quindi centro degli altri e, a così dire, loro fine. Non è questa un'inconscia usurpazione dei diritti di Dio?

c) Senza giungere a questo punto, ci sono persone pie che nella pietà cercano se stesse, si lagnano di Dio quando non le inonda di consolazioni, si desolano quando sono nell'aridità, falsamente, pensando che il fine della pietà sia di goder consolazioni, mentre in realtà la gloria di Dio dev'essere il nostro fine supremo in tutte le azioni e soprattutto nella preghiera e negli esercizi spirituali.

826.   Bisogna dunque confessare che l'orgoglio, sotto una forma o sotto un'altra, è comunissimo difetto che ci segue in tutte le tappe della vita spirituale e che muore solo con noi. Gl'incipienti non ne hanno gran fatto coscienza, perchè non si studiano abbastanza profondamente. Conviene assai chiamarne l'attenzione su questo punto, indicando le forme più ordinarie di tal difetto, perchè ne facciano materia dell'esame particolare.

II. I difetti che nascono dall'orgoglio.

I principali sono la presunzione, l'ambizione e la vanagloria.

827.   1° La presunzione è il desiderio e la speranza disordinata di voler fare cose superiori alle proprie forze. Nasce dal fatto che uno ha troppo buona opinione di sè, delle proprie facoltà naturali, della propria scienza, delle proprie forze, delle proprie virtù.

a) Sotto l'aspetto intellettuale, uno si crede capace d'affrontare e di risolvere i problemi più difficili e le più ardue questioni, o almeno di imprendere studi sproporzionati al proprio ingegno.

Un altro si persuade facilmente di aver molto giudizio e molto senno, e, in cambio di saper dubitare, risolve con gran disinvoltura le più controverse questioni. b) Sotto l'aspetto morale, uno crede di aver lumi suffucienti per regolarsi da sè e che non sia poi gran che utile consultare un direttore. Altri crede che, nonostante i peccati passati, non vi sia da temer ricadute, e imprudentemente si getta in occasioni di peccato in cui soccombe; onde poi scoraggiamenti e dispetti che diventano spesso causa di nuove ricadute.

c) Sotto l'aspetto spirituale, si ha poco gusto per le virtù nascoste e penose, preferendo le virtù appariscenti; e invece di costruire sul fondamento sodo dell'umiltà, si va fantasticando di grandezza d'animo, di forza di carattere, di magnanimità, di zelo apostolico, di trionfi immaginari che si assaporano già nell'avvenire. Ma alle prime gravi tentazioni uno s'accorge subito quanto ancor debole e vacillante è la volontà. Qualche volta pure si disprezzano le preghiere comuni e quelle che si chiamano le piccole pratiche di pietà; e si aspira a grazie straordinarie quando invece si è appena ai principi della vita spirituale.

828.   2° Questa presunzione, congiunta all'orgoglio, genera l'ambizione, vale a dire l'amor disordinato degli onori, delle dignità, dell'autorità sugli altri. Presumendo troppo delle proprie forze e stimandosi superiore agli altri, uno vuol dominarli, governarli, impor loro le proprie idee.

Il disordine dell'ambizione, dice S. Tommaso, può manifestarsi in tre modi 828-1: 1) cercando onori che non si meritano e che sono superiori alle nostre facoltà; 2) cercandoli per sè, per la propria gloria, e non per la gloria di Dio; 3) compiacendosi degli onori in se stessi, senza farli servire al bene altrui, contrariamente all'ordine stabilito da Dio, il quale vuole che i superiori lavorino pel bene degli inferiori.

Quest'ambizione invade tutti i campo: 1) il campo politico, dove si aspira a governar gli altri, a costo qualche volta di molte bassezze, di molti compromessi, di mille viltà che si commettono per avere i voti degli elettori; 2) il campo intellettuale, ostinatamente cercando d'imporre agli altri le proprie idee, anche in questioni liberamente discusse; 3) la vita civile, ove avidamente si cercano i primi posti, 828-2 gli uffici più pomposi, gli ossequi della folla; 4) e anche la vita ecclesiastica; perchè, come dice Bossuet, 828-3 "quante precauzioni non si dovettero prendere per impedire nelle elezioni, anche ecclesiastiche e religiose, l'ambizione, gli intrighi, le brighe, le segrete sollecitazioni, le promesse e le pratiche più criminali, i patti simoniaci e gli altri disordini troppo comuni in questa materia; eppure non si è riusciti a intieramente estirpare questi vizi, ma forse solo a coprirli o a palliarli". Anche nel clero, osserva S. Gregorio Magno 828-4, vi sono di quelli che vogliono essere chiamati dottori, e cercano avidamente i primi posti e i complimenti.

È dunque difetto più comune di quello che a prima vista si crederebbe e che si connette con la vanità.

829.   3° La vanità è l'amore disordinato della stima altrui; si distingue dall'orgoglio che si compiace nella propria eccellenza, ma ne è ordinariamente una derivazione, perchè, quando uno si stima in modo eccessivo, è naturale che desideri d'essere stimato anche dagli altri.

830.   A) Malizia della vanità. Vi è un desiderio d'essere stimato che non è disordine: chi desidera che le sue doti, naturali o soprannaturali, siano riconosciute perchè Dio ne sia glorificato e se avvantaggi la sua influenza in fare il bene, per sè non fa peccato, essendo conforme all'ordine che ciò che è buono venga stimato, a patto però che se ne riconosca Dio come autore e a lui solo se ne dia lode 830-1. Tutto al più si potrà dire che è pericoloso fissare il pensiero sopra desideri di questo genere, correndo rischio di desiderare la stima altrui per fini egoistici.

Il disordine quindi consiste nel voler essere stimati con la mira a sè, senza riferir questo onore a Dio che pose in noi quanto c'è di buono; o nel voler essere stimati per cose vane che non meritano lode; o infine nel cercar la stima di quelli il cui giudizio non ha valore, dei mondani, per esempio, che pregiano solo le vanità.

Nessuno descrisse questo difetto meglio di S. Francesco di Sales 830-2: "Vana chiamasi la gloria che uno si dà o per cosa che non sia in noi, o per cosa che sia in noi ma non nostra, o per cosa che sia in noi e nostra ma non meritevole che uno se ne glorii. La nobiltà della famiglia, il favore dei grandi, l'aura popolare sono cose che non sono in noi ma o nei nostri antenati o nell'opinione altrui. Vi sono di quelli che vanno superbi e pettoruti perchè cavalcano un bel destriero; perchè hanno un bel pennacchio al cappello; perchè sono riccamente vestiti; ma chi non vede che questo è follia? Poichè se in ciò vi è gloria, la gloria spetta al cavallo, all'uccello, al sarto... Altri si stimano e si pavoneggiano per due baffi ben rilevati, per la barba ben ravviata, per i cappelli crespi, per le mani delicate, per saper danzare, sonare, cantar bene; ma non sono vili costoro a volersi rialzare in valore e in riputazione per ragioni così frivole e così goffe? Altri poi, per un poco di scienza, vogliono essere da tutti onorati e rispettati, come se ognuno dovesse andare a scuola da loro e tenerli per maestri; onde sono chiamati pedanti. Altri si pavoneggiano pensando alla propria bellezza e credono che tutti li vagheggino. Tutto ciò è grandemente vano, goffo e insulso, e la gloria che si trae da cose così meschine si chiama vana, goffa e frivola".

831.   B) Difetti che derivano dalla vanità. La vanità produce parecchi difetti, che ne sono come la manifestazione esteriore, in particolare: la millanteria, l'ostentazione e l'ipocrisia.

1) La millanteria o iattanza è l'abitudine di parlare di sè o di ciò che può tornare a proprio vantaggio con la mira di farsi stimare. Ce ne son di quelli che parlano di sè, della propria famiglia, dei propri trionfi con un'ingenuità che fa sorridere gli ascoltatori; altri fanno destramente piegare la conversazione su un argomento in cui possono brillare; altri poi parlano timidamente dei propri difetti con la segreta speranza di trovare chi li scusa ponendone in rilievo le buone qualità 831-1.

2) L'ostentazione consiste nell'attirarsi l'attenzione con certi modi di fare, col fasto di cui si fa pompa, con certe singolarità.

3) L'ipocrisia prende la veste o le apparenze della virtù, nascondendo sotto veri vizi segreti.

III. La malizia dell'orgoglio.

A ben giudicare questa malizia, si può considerar l'orgoglio in sè o negli effetti.

832.   1° In sè: Al'orgoglio propriamente detto, quello che coscientemente e volontariamente usurpa, anche solo implicitamente, i diritti di Dio, è peccato grave, anzi il più grave dei peccati, dice S. Tommaso, perchè non vuol sottomettersi al sovrano dominio di Dio.

a) Voler quindi essere indipendente e rifiutar d'obbedire a Dio o ai suoi legittimi rappresentanti in materia grave, è peccato mortale, perchè in tal modo uno si rivolta contro Dio, legittimo nostro sovrano.

b) È pur peccato grave l'attribuire a sè ciò che viene chiaramente da Dio, massime i doni della grazia; perchè è implicitamente negare che Dio è il primo principio di tutto il bene che è in noi. Eppure molti lo fanno, dicendo, per esempio: io mi sono fatto da me.

c) Si pecca anche gravemente quando si vuole operare per sè, escludendo Dio; è infatti negargli il diritto d'essere l'ultimo nostro fine.

833.   B) L'orgoglio attenuato, che, pur riconoscendo Dio come primo principio e come ultimo fine, non gli rende tutto ciò che gli è dovuto e implicitamente gli toglie parte della sua gloria, è peccato veniale qualificato. Tal è il caso di quelli che si gloriano delle loro buone qualità e delle loro virtù, quasi che tutto ciò fosse cosa di loro esclusiva proprietà; oppure di quelli che sono presuntuosi, vanitosi, ambiziosi, senza però far nulla che sia contrario a una legge divina od umana in materia grave. Questi peccati possono anche farsi mortali, se spingono ad atti gravemente riprensibili. Così la vanità, che in sè è solo peccato veniale, diventa peccato grave quando fa contrar debiti che non si potranno poi pagare, o quando si cerca di eccitare in altri amore disordinato. Bisogna quindi esaminar l'orgoglio anche negli effetti.

834.   2° Negli effetti: A) l'orgoglio, non represso, riesce talora a perniciosissimi effetti. Quante guerre non furono suscitate dall'orgoglio dei governanti e qualche volta degli stessi popoli! 834-1 E senza andar tanto lontano, quante divisioni nelle famiglie, quanti odii tra gli individui devono attribuirsi a questo vizio! I Padri giustamente insegnano che è radice di tutti gli altri vizi, e che corrompe pure molti atti virtuosi, facendoli fare con egoistica intenzione 834-2.

835.   B) Se guardiamo la cosa sotto il rispetto della perfezione, che è quello di cui stiamo trattando, si può dire che l'orgoglio è il gran nemico della perfezione perchè produce nell'anima una desolante sterilità ed è fonte di numerosi peccati.

a) Ci priva infatti di molte grazie e di molti meriti:

1) Di molte grazie, perchè Dio, il quale dà liberalmente la grazia agli umili, la nega ai superbi: Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam 835-1. Pesiamo bene queste parole: Dio resiste ai superbi, "perchè, dice l'Olier 835-2, il superbo assale direttamente Dio e se la prende con la stessa sua persona, onde Dio resiste alle insolenti e orribili sue pretese; e poichè vuol conservarsi in ciò che è, abbatte e distrugge quanto si leva contro di lui".

2) Di molti meriti: una delle condizioni essenziali del merito è la purità d'intenzione; ora l'orgoglioso opera per sè, o per piacere agli uomini, invece di operare per Dio, e merita quindi il rimprovero rivolto ai Farisei che facevano le opere buone con ostentazione, per essere visti dagli uomini, onde non potevano aspettarsi di essere ricompensati da Dio: "alioquin mercedem non habebitis apud Patrem vestrum qui in cælis est.... amen, amen dico vobis, receperunt mercedem suam835-3.

836.   b) È pure fonte di numerose colpe; 1) colpe personali: per presunzione uno si espone al pericolo e vi soccombe; per orgoglio non si chiedono istantemente le grazie di cui si ha bisogno e si cade; viene poi lo scoraggiamento e si corre pericolo di dissimulare i peccati in confessione; 2) colpe contro il prossimo: per orgoglio non si vuol cedere anche quando si ha torto; si è mordaci nelle conversazioni, si intavolano discussioni aspre e violenti che generano dissensioni e discordie; quindi parole amare e anche ingiuste contro i rivali per umiliarli, critiche acerbe contro i Superiori e rifiuti d'obbedienza ai loro ordini.

837.   c) Finalmente è causa di disgrazie per chi si abbandona abitualmente all'orgoglio: l'orgoglioso, volendo grandeggiare in tutto e dominare il prossimo, non trova più nè pace nè riposo. Non è infatti tranquillo finchè non abbia potuto trionfar degli emuli; or ciò non riuscendogli mai intieramente, ne resta turbato, agitato, infelice. Convien dunque cercar rimedio a vizio così pericoloso.

IV. I rimedii dell'orgoglio.

838.   Abbiamo già detto (n. 207) che il grande rimedio dell'orgoglio sta nel riconoscere che Dio è l'autore di ogni bene, onde a lui solo spetta ogni onore e ogni gloria. Da noi non siamo che nulla e peccato e non meritiamo quindi che oblìo e disprezzo (n. 208)

839.   1° Noi siamo un nulla. Di questo devono gl'incipienti ben convincersi nella meditazione, lentamente ruminando al lume divino i seguenti pensieri: io sono un nulla, io non posso nulla, io non valgo nulla.

A) Io sono un nulla: piacque, è vero, alla divina bontà di scegliermi tra miliardi di esseri possibili per darmi l'esistenza, la vita, un'anima spirituale ed immortale, e io ne lo devo quotidianamente benedire. Ma: aio esco dal nulla e per mio peso tendo al nulla, ove infallantemente ricadrei se il Creatore con la incessante sua azione non mi conservasse: il mio essere dunque non appartiene a me ma è intieramente di Dio, e a lui ne devo far omaggio.

b) Quest'essere che Dio mi diede è una vivente realtà, un immenso beneficio di cui non potrei ringraziarlo mai troppo; ma, per quanto ammirabile, quest'essere, paragonato con l'Essere divino, è come un nulla, "Tanquam nihilum ante te839-1, tanto è imperfetto: 1) è un essere contingente, che potrebbe sparire senza che nulla venisse a mancare alla perfezione del mondo; 2) è un essere mutuato, che non mi fu dato che sotto l'espressa riserva del supremo dominio di Dio; 3) è un essere fragile, che non può sussistere da sè, bisognoso ad ogni istante d'essere sorretto da colui che lo creò. È dunque un essere essenzialmente dipendente da Dio, la cui unica ragione di esistere è di rendere gloria al suo autore. Chi dimentichi questa dipendenza, chi operi come se le sue buone qualità fossero intieramente sue e se ne vanti, commette un inconcepibile errore, una follia e un'ingiustizia.

840.   Quanto diciamo dell'uomo nell'ordine della natura è anche più vero nell'ordine della grazia: questa partecipazione della vita divina, che costituisce la mia nobiltà e la mia grandezza, è dono essenzialmente gratuito che ricevetti da Dio e da Gesù Cristo, che non posso conservare a lungo senza la divina grazia e che non può crescere in me senza il soprannaturale suo concorso (n. 126-128), onde è il caso di ripetere: "gratias Deo super inenarrabili dono ejus840-1. Quale ingratitudine e quale ingiustizia l'attribuire a sè una minima particella di questo dono essenzialmente divino? "Quod autem habes quod non accepisti? Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis?840-2.

841.   B) Io da me non posso nulla: è vero che ricevetti da Dio preziose facoltà che mi fanno conoscere e amare la verità e la bontà; che queste facoltà poi perfezionate dalle virtù soprannaturali e dai doni dello Spirito Santo; che non potrò mai ammirare abbastanza questi doni di natura e di grazia che si integrano e si armonizzano tra loro così bene. Ma da me, di mia volontà, io non posso nulla nè per metterle in moto nè per perfezionarle: nulla nell'ordine naturale senza il concorso di Dio; nulla nell'ordine soprannaturale senza la grazia attuale, neppure formare un buon pensiero salutare, un buon desiderio soprannaturale. Ciò sapendo, potrei inorgoglirmi di queste naturali e soprannaturali facoltà, come se fossero intieramente mie? Anche questa sarebbe ingratitudine, follia, ingiustizia.

842.   C) Io non valgo nulla: se considero ciò che Dio ha posto in me e ciò che vi opera con la sua grazia, io sono certamente un essere di gran pregio e di grande valore: "empti enim estis pretio magno 842-1... tanti vales quanti Deus: valgo quello che sono costato e sono costato il sangue di un Dio! Ma l'onore della mia redenzione e della mia santificazione spetta a me o a Dio? La risposta non potrebbe essere dubbia. -- Ma insomma, dice l'amor proprio vinto, io ho pur qualche cosa che è mia e mi dà valore, è il libero mio consenso al concorso e alla grazia di Dio. -- Certo qualche parte ve l'abbiamo ma non la principale: questo libero consenso non è che l'esercizio delle facoltà dateci gratuitamente da Dio, e nel momento stesso in cui lo diamo, Dio l'opera in noi come causa principale: "operatur in vobis et velle et perficere842-2. E poi per una volta che consentiamo a seguir l'impulso della grazia, quante altre volte le abbiamo resistito! quante volte vi cooperiamo solo imperfettamente! Non c'è veramente di che vantarci ma piuttosto di che umiliarci.

Quando un gran maestro dipinge un capolavoro, a lui viene attribuito e non agli artisti di terzo o di quarto ordine che ne furono i collaboratori. A più forte ragione dobbiamo noi attribuire i nostri meriti a Dio che ne è causa prima e principale, tanto che, come canta la Chiesa con S. Agostino, Dio corona i doni suoi coronando i meriti nostri "coronando merita coronas dona tua842-3.

843.   2° Io sono un peccatore, e come tale, merito disprezzo, tutti i disprezzi che piacerà a Dio di addossarmi. A convincercene, basti richiamare quanto dicemmo del peccato mortale e del veniale.

A) Se ebbi la disgrazia di commettere un solo peccato mortale, merito eterne umiliazioni, perchè ho meritato l'inferno. Ho, è vero, la dolce fiducia che Dio m'abbia perdonato; ma non resta con ciò meno vero che ho commesso un delitto di lesa Maestà divina, una specie di deicidio, una sorta di suicidio spirituale, n. 719, e che, per espiar l'offesa alla divina Maestà, debbo essere pronto ad accettare, a desiderare anzi tutto le umiliazioni possibili, le maldicenze, le calunnie, le ingiurie, gli insulti; perchè tutto ciò è assai al di sotto di quanto merita colui che offese anche una volta sola l'infinita Maestà di Dio. Che se ho offeso Dio moltissime volte, quale non dev'essere la mia rassegnazione, anzi la gioia, quando mi si presenti l'occasione d'espiare i peccati con obbrobri di cosi breve durata!

844.   B) Abbiamo tutti commesso dei peccati veniali e veniali deliberati, volontariamente preferendo la volontà e il piacer nostro alla volontà e alla gloria di Dio. Or questo, come abbiamo detto al n. 715, è offesa alla divina maestà, offesa che merita umiliazioni così profonde da non poter mai da noi stessi, fosse pure con una vita passata tutta nella pratica dell'umiltà, restituire a Dio tutta la gloria di cui l'abbiamo ingiustamente spogliato. Se pare esagerato questo linguaggio, si pensi alle lacrime e alle austere penitenze dei Santi che non avevano commesso se non peccati veniali e che non credevano d'aver fatto mai abbastanza per purificarsi l'anima e riparare gli oltraggi inflitti alla divina maestà. I santi vedevano le cose meglio di noi, e se noi non la pensiamo come loro è perchè siamo accecati dall'orgoglio.

Dobbiamo dunque, come peccatori, non solo non cercar la stima altrui, ma disprezzarci e accettar tutte le umiliazioni che Dio vorrà mandarci.

§ II. L'invidia 845-1.

845.   L'invidia è nello stesso tempo passione e vizio capitale. Come passione, è una specie di tristezza profonda che si prova nella sensibilità osservando il bene altrui; impressione accompagnata da uno stringimento di cuore che ne diminuisce l'attività e produce un sentimento d'angoscia.

Qui ci occupiamo dell'invidia soprattutto come vizio capitale, e ne esporremo: 1° la natura; 2° la malizia; 3° i rimedi.

846.   1° Natura. A) L'invidia è una tendenza a rattristarsi del bene altrui come di attentato contro la nostra superiorità. È accompagnata dal desiderio di vedere il prossimo privo del bene che ci offusca.

È dunque vizio che nasce dall'orgoglio, il quale non può tollerare nè superiori nè rivali. Quando si è convinti della propria superiorità, si prova tristezza a vedere che gli altri hanno doti pari o superiori alle nostre, o che almeno riescono meglio di noi. Materia di invidia sono principalmente le doti brillanti; ma nelle persone serie l'invidia mira anche a doti più sode e perfino alla virtù.

Questo difetto si manifesta colla pena che si prova sentendo questi elogi criticando le persone lodate.

847.   B) Spesso si confonde l'invidia con la gelosia; volendole distinguere, la gelosia viene definita un amore eccessivo del proprio bene accompagnato dal timore che da altri ci venga tolto. Uno, per esempio, era il primo della scuola, vede i progressi di un condiscepolo e ne prende gelosia, perchè teme che lo privi del primo posto. Uno possiede l'affezione d'un amico: viene a temere che gli sia tolta da un rivale e ne prende gelosia. Si ha una numerosa clientela e si teme che sia diminuita da un concorrente: nasce allora quella gelosia che infierisce talora tra professionisti, artisti, letterati, e talvolta anche tra sacerdoti. In una parola si è invidiosi del bene altrui e gelosi del proprio.

C) Vi è differenza tra invidia ed emulazione: l'emulazione è un sentimento lodevole che ci porta ad imitare, ad uguagliare, e, se è possibile, a superare le buone qualità altrui, sempre però con mezzi leali.

848.   2° Malizia. Si può studiar questa malizia in sè e negli effetti.

A) In sè, l'invidia è di natura sua peccato mortale, perchè è direttamente opposta alla virtù della carità che vuole che uno si rallegri del bene altrui. Quanto più il bene invidiato è importante, tanto più grave è il peccato; quindi, dice S. Tommaso 848-1, invidiare i beni spirituali del prossimo, rattristarsi dei suoi progressi o dei suoi trionfi apostolici, è peccato gravissimo. Il che è vero quando i moti d'invidia sono pienamente acconsentiti; ma spesso non si tratta che di impressioni, o di sentimenti involontari o almeno poco volontari e accompagnati da poca o nessuna riflessione, onde la colpa allora può essere tutt'al più veniale.

849.   B) Negli affari l'indivia è talvolta assai colpevole.

a) Eccita sentimenti di odio: si corre pericolo di odiare coloro di cui si ha invidia o gelosia, e quindi di sparlarne, denigrarli, calunniarli, desiderar loro del male.

b) Tende a seminar divisioni non solo tra gli estranei ma anche tra i membri di una stessa famiglia (si ricordi la storia di Giuseppe), o tra famiglie imparentate; divisioni che possono andar molto avanti e generare inimicizie e scandali. Scinde talvolta i cattolici d'una stessa regione con gran detrimento del bene della Chiesa.

c) Spinge alla smodata ricerca delle ricchezze e degli onori: per superare quelli a cui si porta invidia, uno si abbandona ad eccessi di lavoro, a intrighi più o meno leali, in cui l'onestà corre molto rischio.

d) Turba l'anima dell'invidioso: non si ha nè pace nè riposo finchè non si è riusciti ad eclissare, a dominare i propri rivali; ed essendo ben raro che vi si riesca, si vive in perpetue angoscie.

850.   3° Rimedi. Sono negativi o positivi.

A) I mezzi negativi consistono: a) nel disprezzare i primi sentimenti d'invidia e di gelosia che sorgono in cuore, schiacciarli come qualche cosa di ignobile, come si schiaccia un rettile velenoso; b) nel districarsi, occupandosi d'altro; tornata poi la calma, si riflette che le doti del prossimo non diminuiscono le nostre, ci sono anzi stimolo ad imitarle.

851.   B) Tra i mezzi positivi, i più importanti sono due:

a) Il primo viene dalla nostra incorporazione a Cristo: in virtù di questo domma, siamo tutti fratelli, tutti membri del corpo mistico di cui Gesù è il capo, e le buone qualità e le fortune d'uno di questi membri ridondano sugli altri; onde, invece di rattristarci della superiorità dei fratelli, dobbiamo rallegrarcene, secondo la dottrina di S. Paolo, 851-1 perchè contribuisce al bene comune e anche al nostro bene particolare. -- Se poi le altrui virtù diventano per noi oggetto di invidia, "in cambio di portar loro invidia e gelosia per ragione di queste virtù, come spesso avviene per suggestione del demonio e di Gesù Cristo nel Santo Sacramento, onorando in lui la fonte di queste virtù, e chiedendogli la grazia di parteciparvi e di comunicarvi; e vedrete quanto questa pratica vi tornerà utile e vantaggiosa" 851-2.

852.   b) Il secondo mezzo consiste nel coltivar l'emulazione, lodevole e cristiano sentimento che c'invita a imitare e anche a sorpassare, sorretti dalla grazia di Dio, le virtù del prossimo.

Perchè sia buona e si distingua dall'invidia, l'emulazione cristiana dev'essere: 1) onesta nell'oggetto, vale a dire che non deve mirare ai trionfi ma alle virtù altrui per imitarle; 2) nobile nell'intenzione, non cercando di trionfare sugli altri, di umiliarli, di dominarli, ma di divenir migliori, se è possibile, perchè Dio sia più onorato e la Chiesa più rispettata; 3) leale nei mezzi, usando, per conseguire il fine, non l'intrigo, l'astuzia o qualsiasi altro illecito procedere, ma lo sforzo, il lavoro, il buon uso dei doni divini.

Così intesa, l'emulazione è efficace rimedio contro l'invidia, perchè senza punto ledere la carità è ottimo stimolo. Infatti il considerare come modelli i migliori tra i fratelli per imitarli, o anche per superarli, è in sostanza un riconoscere la nostra imperfezione e un volervi rimediare giovandoci dei buoni esempi di coloro che ci stanno attorno. E non è questo in fondo un accostarsi a ciò che faceva S. Paolo quando invitava i discepoli ad essere suoi imitatori come egli era di Cristo: "Imitatores mei estote sicut et ego Christi"? 852-1 e seguire i consigli che dava ai cristiani di osservarsi l'un l'altro per eccitarsi a carità e a buone opere: "Consideremus invicem in provocationem caritatis et bonorum operum"? 852-2. E non è un entrare nello spirito della Chiesa, che, proponendo i Santi alla nostra imitazione, ci provoca a nobile e santa emulazione? Così l'invidia non sarà per noi che occasione di coltivar la virtù.

§ III. L'ira 853-1.

L'ira (o collera) è una deviazione di quell'instintivo sentimento che ci porta a difenderci quando siamo assaliti, respingendo la forza con la forza. Ne diremo: 1° la natura; 2° la malizia; 3° i rimedii.

I. Natura dell'ira.

853.   C'è un'ira-passione e un'ira-sentimento.

1° L'ira, considerata come passione, è un violento bisogno di reazione, determinato da un patimento o da una contrarietà fisica o morale. Questa contrarietà fa scattare una violenta emozione che tende le forze allo scopo di vincere la difficoltà: si è allora portati a scaricar l'ira sulle persone, sugli animali o sulle cose.

Se ne distinguono due forme principali: l'ira rossa o espansiva nei forti, e l'ira bianca o pallida o spasmodica nei deboli. Nella prima, il cuore batte con violenza e spinge il sangue alla periferia, la respirazione si accelera, il viso s'imporpora, il collo si gonfia, le vene si rilevano sotto la pelle; i capelli si rizzano, lo sguardo lampeggia, gli occhi paiono uscir dalle orbite, la narici si dilatono, la voce diventa rauca, interrotta, esuberante. La forza muscolare aumenta: tutto il corpo è teso per la lotta e il gesto irresistibile colpisce, spezza o allontana violentemente l'ostacolo. -- Nell'ira bianca, il cuore si serra, la respirazione diventa difficile, il viso si fa estremamente pallido, un sudore freddo bagna la fronte, la mascelle si chiudono, si sta in cupo silenzio, ma l'agitazione internamente contenuta finisce con scoppiar brutalmente e si sfoga in colpi violenti.

854.   2° L'ira, considerata come sentimento, è un desiderio ardente di respingere e di punire l'aggressore.

A) Vi è un'ira legittima, un santo sdegno che altro non è se non desiderio ardente, ma ragionevole, d'infliggere ai colpevoli il giusto castigo. Così Nostro Signore si accese di giusto sdegno contro i venditori che profanavano col traffico la casa di suo Padre 854-1; il sommo sacerdote Eli fu invece severamente rimproverato per non aver represso la cattiva condotta dei figli.

Perchè dunque l'ira sia legittima, è necessario che sia: agiusta nell'oggetto, non mirando a punire se non chi lo merita e nella misura che merita; bmoderata nell'esercizio, non oltrepassando ciò che l'offesa commessa richiede e seguendo l'ordine voluto dalla giustizia; ccaritatevole nell'intenzione, non lasciandosi andare a sentimenti di odio, ma solo cercando la restaurazione dell'ordine e l'emenda del reo. Se alcuna di queste condizioni manchi, si avrà un biasimevole eccesso. L'ira è legittima particolarmente nei superiori e nei genitori; ma anche i semplici cittadini hanno talvolta il diritto e il dovere di assecondarla per difendere gl'interessi della città e impedire il trionfo dei malvagi; vi sono infatti uomini pei quali poco vale la dolcezza e che temono solo il castigo.

855.   B) Ma l'ira vizio capitale è violento e smodato desiderio di punire il prossimo senza tener conto delle tre indicate condizioni. L'ira è spesso accompagnata da odio, che cerca non solo di respingere l'aggressione ma di trarne vendetta, onde è sentimento più meditato e più durevole, e che ha quindi più gravi conseguenze.

856.   L'ira ha vari gradi: a) al principio è solo moto d'impazienza: uno si mostra di malumore alla prima contrarietà, al primo cattivo successo; b) poi è impeto di collera, onde uno si irrita oltre misura, manifestando il malcontento con gesti disordinati; c) talvolta giunge alla violenza, sfogandosi non solo in parole ma anche con colpi: d) e può anche arrivare fino al furore, che è passeggiera pazzia; il collerico non è più padrone di sè, ma trascorre a parole incoerenti, a gesti talmente disordinati, che si direbbe vera pazzia; e) finalmente degenera talvolta in odio implacabile, che non respira che vendetta e giunge fino a desiderar la morte dell'avversario. Conviene saper distinguere questi vari gradi per valutarne la malizia.

II. Malizia dell'ira.

L'ira si può considerare in e negli effetti.

857.   1° Considerata in sè, si può ancora distinguere:

A) Quando è semplicemente passeggiero moto di passione, è di natura sua peccato veniale: perchè vi è allora eccesso nel modo con cui si esercita, oltrepassando la debita misura; ma non vi è, come si suppone, violazione delle grandi virtù della giustizia o della carità. Vi sono peraltro casi in cui l'ira è talmente eccessiva che si perde la padronanza di sè e si trascorre a gravi insulti contro il prossimo; se questi moti, benchè prodotti dalla passione, sono deliberati e volontari, costituiscono colpa grave; ma spesso non sono che semivolontari.

858.   B) L'ira che giunge all'odio e al rancore se deliberata e volontaria, è di natura sia peccato mortale, perchè viola gravemente la carità e spesso pure la giustizia. Di questa collera disse Nostro Signore: "Chi s'adira contro il fratello, merita di essere punito dai giudici; e chi avrà detto al fratello: Raca, merita di essere punito dal Consiglio (Sinedrio); e chi avrà detto: Stolto, merita di essere gettato nella geenna del fuoco" 858-1. Se però il moto di odio non è deliberato o se vi si dà solo consenso imperfetto, la colpa sarà soltanto leggiera.

859.   2° Gli effetti dell'ira, quando non vengono repressi, sono talvolta terribili.

A) Seneca li descrisse in termini vivaci: all'ira attribuisce tradimenti, omicidi, avvelenamenti, intestine divisioni nelle famiglie, dissensioni e lotte civili, guerre con tutte le funeste loro conseguenze 859-1. Anche quando non giunge a tali eccessi, è pur sempre fonte di gran numero di colpe, perchè ci fa perdere la signorìa di noi stessi, e turba specialmente la pace delle famiglie e produce terribili inimicizie.

860.   B) Rispetto alla perfezione, l'ira è, detta di S. Gregorio 860-1, grande ostacolo al progresso spirituale. Perchè, se non viene repressa, ci fa perdere: 1) il senno ossia la ponderazione; 2) la gentilezza, che abbellisce le relazioni sociali; 3) la premura della giustizia, perchè la passione ci fa misconoscere i diritti del prossimo; 4) il raccoglimento interno, così necessario all'intima unione con Dio, alla pace dell'anima, alla docilità alle ispirazioni della grazie. Conviene quindi cercarne i rimedi.

III. Rimedi contro l'ira.

Questi rimedi devono combattere la passione dell'ira e il sentimento di odio che ne è talora la conseguenza.

861.   1° A trionfar della passione non bisogna trascurare mezzo alcuno.

A) Vi sono mezzi igienici che giovano a prevenire o a moderare la collera, come, per esempio, un regime alimentare emolliente, i bagni tiepidi, le docce, l'astinenza dalle bevande eccitanti e in particolare dalle spiritose: atteso l'intimo vincolo che corre tra l'anima e il corpo bisogna saper moderare anche il corpo. Dovendosi però, in questa materia, tener conto del temperamento e dello stato di salute, prudenza vuole che si consulti il medico 861-1.

862.   B) Ma anche migliori sono i rimedi morali. a) A prevenir l'ira, è bene abituarsi a riflettere prima di operare, per non lasciarsi dominare dai primi assalti della passione: lavoro di lunga lena ma efficacissimo. b) Quando poi, non ostante ogni vigilanza, questa passione, ci sorprende il cuore, "è meglio respingerla subito anzichè mettersi a discutere con lei; perchè, per poco tempo che le si dia, diventa padrona di tutto il campo, a modo del serpente che insinua tutto il corpo dove può ficcare la testa... Appena dunque ve ne accorgete, bisogna che raccogliate subito le forze, non bruscamente o impetuosamente ma con calma e serietà" 862-1. Altrimenti, volendo reprimere l'ira con impetuosità, ci turbiamo anche di più. c) A reprimere meglio l'ira, è utile distrarsi, pensando ad altro che a ciò che può eccitarla; bisogna quindi bandire il ricordo delle ingiurie ricevute, allontanare i sospetti, ecc. d) "Bisogna invocare l'aiuto di Dio quando ci sentiamo agitati dalla collera, ad imitazione degli Apostoli vessati dal vento e dalla tempesta in mezzo al lago, e Dio comanderà alle nostre passioni di calmarsi, onde seguirà grande bonaccia" 862-2.

863.   2° Quando l'ira eccita in noi sentimenti di odio, di rancore o di vendetta, non si può radicalmente guarirli che con la carità fondata sull'amor di Dio. È bene rammentare che siamo tutti figli dello stesso Padre celeste, incorporati allo stesso Cristo, chiamati alla stessa felicità eterna, e che queste grandi verità sono incompatibili con ogni sentimento di odio. Quindi: a) Si richiameranno le parole del Pater: rimetti a noi i nostri debiti come noi rimettiamo ai nostri debitori; vivamente desiderando di ricevere il perdono di Dio, si perdonerà più volentieri ai propri nemici. b) Non si dimenticheranno gli esempi di Nostro Signore che dà a Giuda il nome di amico anche nel momento del tradimento e che dall'alto della croce prega per i suoi carnefici; e gli si chiederà il coraggio di dimenticare e di perdonare. c) Si schiverà di pensare alle ingiurie ricevute e a tutto ciò che vi si riferisce. I perfetti pregheranno per quelli che li hanno offesi e troveranno in questa preghiera grande addolcimento alle ferite dell'anima.

Tali sono i mezzi principali per trionfar dei tre primi peccati capitali, l'orgolio, l'invidia, e l'ira; passiamo ora a trattar dei difetti che derivano dalla sensualità o dalla concupiscenza della carne: gola, lussuria e accidia.

ART. II. DEI PECCATI CHE SI CONNETTONO CON LA SENSUALITÀ.

§ I. Della gola 864-1.

La golosità non è che l'abuso del legittimo diletto che Dio volle associare al mangiare e al bere tanto necessari alla conservazione dell'individio. Ne diremo: 1° la natura; 2° la malizia; 3° i rimedi.

864.   1° Natura. La golosità è l'amore disordinato dei piaceri della tavola, del bere o del mangiare. Il disordine consiste nel cercare il diletto del nutrimento per se stesso, considerandolo esplicitamente o implicitamente come fine, ad esempio di coloro che si fanno un Dio del loro ventre, "quorum Deus venter est864-2; o nel cercarlo con eccesso, senza darsi pensiero delle regole della sobrietà e qualche volta anche con danno della salute.

865.   I teologi notano quattro modi diversi di mancare a queste regole.

Præpropere: mangiar prima che se ne senta il bisogno, fuori delle ore stabilite per i pasti, facendolo senza ragione, per pura golosità.

Laute et studiose: cercar vivande squisite o squisitamente cucinate per averne maggior diletto: è il peccato dei buongustai e dei ghiottoni.

Nimis: oltrepassare i limiti dell'appetito o del bisogno, rimpinzarsi di cibo o di bevanda, a rischio di guastarsi la salute; è chiaro che il solo piacere disordinato può spiegare quest'eccesso, che nel mondo viene detto voracità.

Ardenter: mangiare avidamente, ingordamente, come certi animali; l'ingordigia è tenuta nel mondo per grossolanità.

866.   2° La malizia della golosità deriva dal fatto che rende l'anima schiava del corpo, abbrutisce l'uomo, ne infiacchisce la vita intellettuale e morale, e lo prepara per insensibile pendìo ai diletti della voluttà, che in fondo è vizio dello stesso genere. Per valutarne la colpevolezza, occorre fare una distinzione.

A) La golosità è colpa grave: a) quando arriva ad eccessi tali da renderci incapaci, per un tempo notevole, di adempiere i doveri del nostro stato o di obbedire alle leggi divine o ecclesistiche; per esempio, quando nuoce alla salute, quando è fonte di pazze spese che danneggiano la famiglia, quando fa che si violino le leggi dell'astinenza o del digiuno. b) Lo stesso è a dire quando diventa causa di colpe gravi.

Diamone alcuni esempi. "Gli eccessi della tavola, dice il P. Janvier, 866-1 dispongono all'incontinenza che è figlia della golosità. Incontinenza degli occhi e delle orecchie che chiedono perniciosi pascolo agli spettacoli e ai canti licenziosi; incontinenza della fantasia che si sconcerta; incontinenza della memoria che cerca nel passato ricordi capaci d'eccitare la concupiscenza; incontinenza del pensiero che, traviando, si disperde in oggetti illeciti; incontinenza del cuore che aspira ad affetti carnali; incontinenza della volontà che rinunzia alla sua signoria per farsi schiava dei sensi... L'intemperanza della tavola conduce all'intemperanza della lingua. Quante colpe non commette la lingua nei sontuosi e prolungati pranzi! Colpe contro la gravità... Colpe contro la discretezza. Si tradiscono segreti che si era promesso di custodire, sacri segreti professionali, e si dà in pascolo alla malignità il buon nome d'un marito, d'una sposa, d'una madre, l'onore d'una famiglia, e perfino l'avvenire d'una nazione. Colpe contro la giustizia e la carità! La maldicenza, la calunnia, la detrazione nelle forme più inescusabili corrono liberamente e senza riguardo... Colpe contro la prudenza! Si prendono impegni che non si potranno poi mantenere senza offendere tutte le leggi della morale...».

867.   B) La golosità è colpa soltanto veniale quando si cede ai diletti della mensa immoderatamente, senza però cadere in eccessi gravi e senza esporsi a violare importanti precetti. Così sarebbe peccato veniale mangiare o bere più del consueto, per diletto, per far onore a un buon pasto o per compiacere un amico, senza commettere notevole eccesso.

868.   C) Rispetto alla perfezione, la golosità è ostacolo serio: 1) alimenta l'immortificazione, che infiacchisce la volontà, e fomenta l'amore del sensuale diletto che prepara poi l'anima a pericolosi tracolli; 2) è fonte di molte colpe, producendo allegria eccessiva, che porta alla dissipazione, al cicalìo, alle facezie di cattivo gusto, alla mancanza di riserbo e di modestia, e apre l'anima agli assalti del demonio. Conviene quindi combatterla.

869.   3° Rimedii. Il principio che deve guidarci nella lotta contro la gola è che il piacere non è fine ma mezzo, onde dev'essere subordinato alla retta ragione illuminata dalla fede, n. 193. Ora la fede ci dice che dobbiamo santificare i piaceri della mensa con la purità d'intenzione, la sobrietà e la mortificazione.

1) Prima di tutto bisogna cibarsi con intenzione retta e soprannaturale, non da animale che cerca solo il piacere, non da filosofo che si contenta di intenzione onesta, ma da cristiano, per meglio lavorare alla gloria di Dio: in ispirito di riconoscenza alla bontà di Dio che si degna darci il pane quotidiano; in ispirito d'umiltà, pensando con S. Vincenzo de' Paoli che non meritiamo il pane che mangiamo; in ispirito d'amore, adoprando le ricuperate forze al servizio di Dio e delle anime. Adempiamo così la raccomandazione di S. Paolo ai primi cristiani, che in molte comunità viene richiamata al principio dei pasti: "Sia che mangiate, sia che beviate, fate tutto alla gloria di Dio: sive ergo manducatis, sive bibitis... omnia in gloriam Dei facite869-1.

870.   2) Questa purità d'intenzione ci farà serbar la sobrietà ossia la giusta misura: volendo infatti mangiare per acquistar le forze necessarie all'adempimento dei doveri del nostro stato, schiveremo tutti gli eccessi che ci potrebbero danneggiar la salute. Ora, dicono gli igienisti, "la sobrietà o frugalità è essenziale condizione del vigore fisico e morale. Mangiando per vivere, dobbiamo mangiar sanamente per vivere sanamente. Non bisogna quindi nè mangiar troppo nè troppo bere... Bisogna levarsi da mensa con sensazione di leggerezza e di vigore, restare con un po' d'appetito, e schivar la pesantezza per eccesso di buona tavola" 870-1.

È però bene notare che la misura non è uguale per tutti. Vi sono temperamenti che, a preservarsi dalla tubercolosi, esigono più copiosa alimentazione; altri invece, a combattere l'artritismo, devono moderar l'appetito. Ognuno quindi s'attenga in questo ai consigli d'un savio medico.

871.   3) Alla sobrietà il cristiano aggiunge la pratica di qualche mortificazione. A) Essendo facile sdrucciolare sul pendìo e concedere troppo alla sensualità, è bene privarsi talora di qualche alimento che piace, che sarebbe anzi utile, ma non necessario. Si acquista così una certa padronanza sulla sensualità, sottraendole alcune legittime soddisfazioni; si svincola l'anima dalla servitù dei sensi, le si dà maggior libertà per la preghiera e per lo studio, e si scansano molte tentazioni pericolose.

B) Ottima pratica è l'abituarsi a non prender pasto senza fare qualche mortificazione. Queste piccole privazioni hanno il vantaggio di rinvigorir la volontà senza nuocere alla salute, e sono quindi generalmente preferibili alle mortificazioni più importanti che non occorrono che di rado. Le anime pie vi aggiungono un motivo di carità; si lascia qualche cosa per i poveri, e quindi per Gesù che vive nella loro persona; però, come bene osserva S. Vincenzo Ferreri, 871-1 ciò che si lascia non dev'essere cosa di rifiuto, ma boccone scelto, sia pur piccolo. Ed è pure buona pratica abituarsi a mangiare un po' di ciò che non piace.

872.   C) Tra le mortificazioni più utili poniamo quelle dei liquori alcoolici.

Richiamiamo su questo punto alcuni principii:

a) In sè l'uso moderato dell'alcool o delle bevande spiritose non è male: non si possono quindi biasimare i laici o gli ecclesiastici che ne usano moderatamente.

b) Ma l'astenersi per spirito di mortificazione o per dar buon esempio, è certo lodevolissima cosa. Quindi certi sacerdoti e certi laici addetti all'azione cattolica si astengono da ogni liquore per dissuaderne più facilmente gli altri.

c) Vi sono casi in cui tale astinenza è moralmente necessaria per scansare eccessi: 1) quando, per atavismo, si è ereditata una certa propensione alle bevande spiritose: anche il semplice uso può allora generare una quasi irresistibile inclinazione, come basta una scintilla per suscitar un incendio in materie infiammabili; 2) chi avesse avuto la disgrazia di contrarre inveterate abitudini d'alcoolismo: il solo rimedio efficace ne sarà allora spesso l'astinenza totale.

§ II. La Lussuria. 873-1

873.   1° Natura. Dio, come volle che un sensibile diletto fosse annesso al nutrimento per aiutar l'uomo a conservare la vita, così associò pure speciale diletto agli atti con cui l'umana specie si propaga.

Lecito quindi è questo diletto alle persone coniugate, a patto che ne usino pel nobilissimo fine per cui il matrimonio fu istituito, la trasmissione della vita; fuori del matrimonio è rigorosamente proibito. Non ostante questa proibizione, vi è sciaguratamente in noi, soprattutto a cominciare dall'età della pubertà o della adolescenza, una tendenza più o meno violenta a gustar questo diletto anche fuori del legittimo matrimonio. È quella disordinata tendenza che si chiama lussuria e che vien condannata nel sesto e nel nono precetto del Decalogo: "Non commettere atti impuri; non desiderar la donna d'altri873-2.

Non dunque i soli atti esterni vengono proibiti ma anche gli atti interni acconsentiti, immaginazioni, pensieri, desideri. E a ragione: perchè se uno si ferma deliberatamente su fantasie o pensieri disonesti e su desideri cattivi, i sensi si turbano, e sorgono moti organici che non sono bene spesso se non preludio d'atti contrari alla purità. Chi dunque vuole schivare questi atti, deve pur combattere i pericolosi pensieri e le pericolose immaginazioni.

874.   2° Gravità di queste colpe. A) Quando si cerca e si vuole direttamente il piacere cattivo, il voluttuoso diletto, si commette peccato mortale. È infatti gravissimo disordine compromettere la conservazione e la propagazione dell'umana stirpe. Ora, posto come principio che si possano cercare i diletti della voluttà in pensieri, in parole o in atti, fuori del legittimo uso del matrimonio, sarebbe impossibile porre un freno al furore di questa passione, le cui esigenze aumentano con le soddisfazioni che le si concedono, e presto il fine del Creatore verrebbe frustrato. Il che si fa pur manifesto dall'esperienza: quanti giovani si rendono incapaci di trasmettere la vita per aver abusato del loro corpo! Quindi nel piacere cattivo direttamente voluto non si dà parvità di materia.

B) Ma vi sono casi in cui questo piacere, senza che sia direttamente cercato, sorge per effetto di certe azioni peraltro buone o almeno indifferenti. Se non vi si consente e se d'altra parte si ha ragione sufficiente per far l'azione che vi da occasione, non c'è peccato e non bisogna quindi impensierirsene. Ma se gli atti che causano queste sensazioni non sono nè necessari nè utili, come le letture pericolose, le rappresentazioni teatrali, le conversazioni leggiere, i balli lascivi, è chiaro che l'abbandonarvisi è peccato d'imprudenza più o meno grave secondo la gravità del disordine così prodotto e del pericolo di acconsentirvi.

875.   C) Rispetto alla perfezione, non v'è, dopo la superbia, ostacolo più grande al progresso spirituale, del vizio impuro. a) O si tratta di peccati solitari o di peccati commessi con altri, non tardano a produrre tiranniche abitudini che spengono ogni slancio alla perfezione e inclinano la volontà ai grossolani diletti. Non più gusto per la preghiera; non più gusto per le austere virtù; non più nobili e generose aspirazioni. b) L'anima è invasa dall'egoismo: l'amore che si aveva per i genitori o per gli amici intristisce e scompare quasi intieramente; non resta più che l'avidità di godere a ogni costo dei cattivi diletti: è una vera ossessione. c) Rotto è allora l'equilibrio delle facoltà: il corpo e la voluttà hanno l'impero; la volontà diviene schiava di questa vergognosa passione e presto si rivolta contro Dio che interdice e castiga questi cattivi piaceri.

d) I tristi effetti di questa abdicazione della volontà si fanno presto sentire: l'intelligenza infiacchisce e s'ottunde perchè la vita è discesa dalla testa nei sensi: non si ha più gusto per gli studi seri; l'immaginazione non si volge più che a cose basse; il cuore a poco a poco sfiorisce, si fa arido e duro, non sentendo più allettative che per i grossolani diletti. e) Spesso anche il corpo ne rimane profondamente colpito: il sistema nervoso, sovraeccitato da questi abusi, s'irrita, si svigorisce e "diviene inetto all'ufficio di regolazione e di difesa" 875-1; i vari organi non funzionano più che imperfettamente; la nutrizione si fa male, cadono le forze e si è minacciati di consunzione.

È chiaro che un'anima così sconvolta, avvivante un corpo debole, non pensa più alla perfezione; se ne allontana anzi ogni giorno più; fortunata se potrà ravvedersi a tempo e assicurarsi almeno l'eterna salvezza!

Conviene quindi indicare alcuni rimedi contro questo grossolano vizio.

876.   3° Rimedi. Per resistere a passione così pericolosa, occorrono: convinzioni profonde, fuga delle occasioni pericolose, mortificazione e preghiera.

A) Convinzioni profonde e sulla necessità di combattere questo vizio e sulla possibilità di riuscirvi.

a) Quanto dicemmo sulla gravità del peccato della lussuria mostra quanto sia necessaria fuggirlo per non esporsi alle pene eterne. Vi si possono aggiungere due altri motivi tratti da S. Paolo: 1) Siamo tempii vivi della SS. Trinità, tempii santificati dalla presenza del Dio d'ogni santità e da una partecipazione della vita divina (97, 106). Ora nulla insozza maggiormente questo tempio quanto il vizio impuro che profana nello stesso tempo il corpo e l'anima del battezzato. 2) Siamo membra di Gesù Cristo, a cui fummo incorporati col battesimo; dobbiamo quindi rispettare il nostro corpo come il corpo stesso di Cristo. E vorremo profanarlo con atti contrari alla purità? Non sarebbe questo una specie di obbrobrioso sacrilegio? e tutto per procurarci un grossolano diletto che ci abbassa al livello dei bruti?

877.   b Ci sono molti che dicono che è impossibile praticar la continenza. Così la pensava pure Agostino prima di convertirsi. Ma ritornato a Dio e sorretto dagli esempi dei Santi e dalla grazia dei Sacramenti, capì che non c'è nulla d'impossibile quando si sa pregare e lottare. E questa è la pura verità: da noi siamo così deboli e il piacere cattivo è talora così lusinghiero che finiremmo per soccombere: ma quando ci appoggiamo sulla grazia divina e facciamo sforzi energici, usciamo vittoriosi dalle più rudi tentazioni. Nè si dica che la continenza nei giovani è contraria alla sanità; i medici onesti rispondono col Congresso internazionale di Bruxelles 877-1: "Bisogna soprattutto insegnare alla gioventù maschile che la castità e la continenza non solo non sono nocive, ma che anzi queste virtù sono raccomandabili anche sotto l'aspetto puramente medico ed igienico". Non si conosce infatti nessuna malattia prodotta dalla continenza, mentre ve ne sono molte che hanno origine nella lussuria.

878.   B) La fuga delle occasioni. È assioma spirituale che la castità si conserva principalmente con la fuga delle occasioni pericolose; quando uno è convinto della propria debolezza non si espone inutilmente al pericolo. Quando si tratta di occasioni non necessarie, bisogna diligentemente fuggirle sotto pena di soccombervi: chi si espone al pericolo vi perisce: "qui amat periculum in illo peribit878-1. Quando dunque si tratti di letture, di visite, d'incontri, di rappresentazioni pericolose, a cui uno può senza notevole inconveniente sottrarsi, non si deve esitare; in cambio di cercarle si fuggono come si fugge un pericoloso serpente. Se poi queste occasioni non possono essere evitate, bisogna rafforzar la volontà con disposizioni interne che rendano i pericolo meno prossimo. Così S. Francesco di Sales dichiara che se le danze non si possono evitare, devono almeno essere accompagnate da modestia, dignità e retta intenzione; onde poi queste pericolose ricreazioni non abbiano a destare cattivi affetti, è bene riflettere che, durante quel ballo, molte anime ardono nell'inferno per i peccati commessi nel ballo o per causa del ballo 878-2. Quanto più vero è questo oggi che balli esotici e lascivi hanno invaso tanti saloni!

879.   C) Vi sono però occasioni che non si possono evitare, e sono quelle che uno incontra ogni giorno dentro di sè e fuori di sè, e che non si possono vincere che con la mortificazione. Abbiamo già detto che cosa sia questa virtù e quali ne siano le pratiche, n. 754-815. Non possiamo che richiamare alcune delle sue prescrizioni che riguardano più direttamente la castità.

a) Gli occhi specialmente devono essere custoditi, perchè gli sguardi imprudenti accendono i desideri e questi trascinano la volontà. Ecco perchè Nostro Signore afferma che chi guarda una donna con concupiscenza, ha già commesso adulterio nel suo cuore: "qui viderit mulieren ad ad concupiscendam eam, jam mæchatus est in corde suo879-1; e aggiunge che se l'occhio destro ci è occasione di scandalo, bisogna strapparlo 879-2, vale a dire allontanare energicamente lo sguardo dall'oggetto che ci scandalizza. Questa modestia degli occhi è tanto più necessaria oggi che si è esposti ad incontrare quasi dappertutto persone e cose capaci di suscitar tentazioni.

b) Il senso del tatto è anche più pericoloso, perchè eccita impressioni sensuali che tendono facilmente a cattivi diletti; bisogna quindi astenersi da quei toccamenti o carezze che non possono che eccitar le passioni.

c) Quanto alla fantasia e alla memoria, si richiamino le regole esposte al n. 781. Riguardo alla volontà, bisogna rinvigorirla con virili educazione, secondo i principi esposti ai n. 811-816.

880.   d) Anche il cuore dev'essere mortificato con la lotta contro le sensibili e pericolose amicizie (n. 600-604). È vero che viene un momenti in cui le persone che si preparano al matrimonio si legano di legittimo amore, ma sia amore casto e soprannaturale; schiveranno quindi quei segni d'affetto che fossero contrari alle leggi della decenza, rammentandosi che la loro unione, per poter essere benedetta da Dio, deve restar pura. Quanto alle persone ancor troppo giovani da pensare al matrimonio, staranno in guardia contro quelle affezioni sensibili che, ammollendo il cuore, lo preparano a pericolose transazioni. Non si può impunemente scherzar col fuoco. E poi se uno esige dalla persona che vuole sposare un cuor puro, non dovrà esser puro anche quello che le offre?

881.   e) Finalmente una delle più utili mortificazioni è l'energica e costante applicazione ai doveri del proprio stato. L'ozio è cattivo consigliere; il lavoro invece, occupando tutta la nostra attività, ci allontana la fantasia, la mente e il cuore dagli oggetti pericolosi; sul che ritorneremo presto, al n. 887.

882.   D) La preghiera. a) Il Concilio di Trento ci avverte che Dio nulla comanda d'impossibile ma ci chiede di fare quello che possiamo e di pregare per ottener quello che da noi non possiamo 882-1. Prescrizione che si applica soprattutto alla castità, la quale presenta per la maggior parte dei cristiani, anche per quelli che sono nel santo stato del matrimonio, speciali difficoltà. A trionfarne, bisogna pregare, pregar spesso, e meditare sulle grandi verità: queste frequenti ascensioni dell'anima a Dio ci distaccano a poco a poco dai sensuali diletti per elevarci a pure e sante delizie.

b) Alla preghiera bisogna aggiungere la pratica frequente dei sacramenti. 1) Quando uno si confessa spesso, e sinceramente si accusa delle colpe o delle imprudenze commesse contro la purità, la grazia dell'assoluzione, unita ai consigli del confessore, invigorisce in singolar modo la volontà contro le tentazioni. 2) Grazia che maggiormente si rinsalda con la comunione frequente: l'intima unione col Dio d'ogni santità smorza la concupiscenza, rende l'anima più sensibile ai beni spirituali e la distacca quindi dai grossolani diletti. Con la confessione e con la comunione frequente S. Filippo Neri guariva i giovani abituati nel vizio impuro; e anche oggi non c'è rimedio più efficace sia a preservare come a fortificare la bella virtù. Se tanta gioventù maschile e femminile sfugge al contagio del vizio, lo deve alle pratiche religiose, ove trova l'arma efficace contro le tentazioni che l'assediano. È vero che quest'arma richiede coraggio, energia, frequenti rinnovati sforzi; ma con la preghiera, coi sacramenti e con la salda volontà si trionfa di tutti gli ostacoli.

§ III. L'accidia o pigrizia 883-1.

883.   L'accidia o pigrizia si connette con la sensualità, perchè sorge in sostanza dall'amor del piacere in quanto ci porta a fuggire lo sforzo o l'incomodo. Vi è infatti in noi tutti una tendenza al minimo sforzo che intorpidisce o diminuisce la nostra operosità. Esponiamone: 1° la natura; 2° la malizia; 3° i rimedi.

884.   1° Natura. A) L'accidia è una tendenza all'ozio o almeno alla negligenza e al torpore nell'operare. È talora disposizione morbosa proveniente da cattivo stato di salute; ma ordinariamente è malattia della volontà che paventa e rifiuta lo sforzo. L'accidioso vuole schivare ogni pena, tutto ciò che può turbarne il riposo e indurre qualche fatica. Vero parassita, vive, per quanto gli è possibile, a spese altrui. Dolce e rassegnato finchè non viene disturbato, s'arrabbia e incattivisce quando si vuol trarlo dalla sua inerzia.

b) Vi sono vari gradi nell'accidia. aL'indolente non pone mano al lavoro che con lentezza, fiacchezza e indifferenza; se fa qualche cosa, la fa male. b) Il fannullone non rifiuta assolutemente il lavoro, ma indugia, va a zonzo e ritarda indefinitamente l'affare che aveva accettato. c) Il vero accidioso o pigro o infingardo non vuol far nulla di faticoso e mostra spiccata avversione per ogni lavoro serio di corpo e di mente.

C) Quando la pigrizia riguarda gli esercizi di pietà ritiene in particolar modo il nome di accidia e consiste in un certo disgusto alle pratiche spirituali, che induce a farle con negligenza, ad abbreviarle, e talora anche ad ometterle sotto vani pretesti. È la madre della tiepidezza, di cui parleremo a proposito della via illuminativa.

885.   2° Malizia. A) A capire la malizia dell'accidia, bisogna ricordarsi che l'uomo è fatto per il lavoro. Quando Dio ebbe creato il nostro primo padre, lo pose in un giardino di delizie perchè lo coltivasse: "ut operaretur et custodiret illum885-1. L'uomo infatti non è, come Dio, un essere perfetto; possiede molteplici facoltà che hanno bisogno di operare pre perfezionarsi: è quindi per lui necessità di natura il lavorare per coltivar queste facoltà, per provvedere ai bisogni del corpo e dell'anima e tendere così al proprio fine. La legge del lavoro precede dunque il peccato originale. Caduto l'uomo nel peccato, il lavoro diventò per lui non solo legge di natura ma castigo, nel senso che il lavoro gli riesce ora penoso ed è come mezzo per riparare il peccato; col sudore della fronte dobbiamo mangiare il nostro pane, il pane dell'intelligenza e il pane che nutrisce il corpo: "in sudore vultus tui vesceris pane885-2.

Ora a questa doppia legge, naturale e positiva, contravviene l'accidioso; onde commette un peccato la cui gravità dipende dalla gravità dei doveri da lui trascurati. a) Quando giunge fino a trascurare i doveri religiosi necessari alla sua eterna salute o alla sua santificazione, fa peccato grave. Così pure quando trascura volontariamente, in materia rilevante, qualcuno dei doveri del suo stato. b) Se poi questo torpore non gli fa trascurare che doveri, religiosi o civili, di non molta importanza, il peccato è soltanto veniale. Ma il pendìo è sdrucciolevole e, se questa indolenza non viene combattuta, presto si aggrava e diventa più funesta e più colpevole.

886.   B) Rispetto alla perfezione, l'accidia o pigrizia spirituale è uno degli ostacoli più seri pei funesti suoi effetti.

a) Rende la vita più o meno sterile.. Si può infatti applicare all'anima quanto la Sacra Scrittura dice del campo dell'uomo pigro:

"Passai accanto al podere di un neghittoso
e presso il vigneto d'un uomo privo di senno:
ed eccoli pieni di erbacce;
le ortiche ne coprivano la superficie,
e il muricciolo di pietre giaceva demolito.
A quella vista io riflettei:
quello spettacolo fu per me una lezione.
Un po' sonnecchiare, un po' dormire,
un po' con le mani in mano per riposare;
e ti sopraggiunge, come un vagabondo, la miseria
e l'indigenza come un accattone" 886-1.

È proprio ciò che si trova nell'anima dell'accidioso: invece delle virtù vi crescono i vizi, e i muri che la mortificazione aveva eretto a proteggerne la virtù, a poco a poco si sgretolano e preparono la via all'invasione del nemico, vale a dire del peccato.

887.   b) Presto infatto le tentazioni diventano più vigorose e più insistenti: "perchè l'ozio insegna molta malizia, multam malitiam docuit otiositas887-1. Per questo vizio e per l'orgoglio rovinò Sodoma: "Ecco quale fu il delitto di Sodoma: l'orgoglio, l'abbondanza e l'accidioso riposo in cui vivevano le sue donne" 887-2. La mente e il cuore dell'uomo non possono infatti restare inoperosi: se non si occupano nello studio o in qualche altro lavoro, vengono subito invasi da una folla di fantasmi, di pensieri, di desideri e d'affetti; ora, nello stato di natura decaduta, ciò che domina in noi, quando non le contrastiamo, è la triplice concupiscenza; saranno quindi pensieri sensuali, ambiziosi, orgogliosi, egoistici, interessati, quelli che prenderanno il sopravvento nell'anima e la esporranno al peccato 887-3.

888.   C) Si tratta quindi non solo della perfezione dell'anima ma anche della eterna salvezza. Perchè, oltre le colpe positive in cui l'ozio ci fa cadere, il solo fatto di non adempiere gli importanti nostri doveri è sufficiente causa di riprovazione. Fummo creati per servir Dio e adempiere i doveri del nostro stato, siamo operai mandati da Dio a lavorar nella sua vigna; ora il padrone non chiede soltanto agli operai di astenersi dal mal fare, ma vuole che lavorino; se quindi, anche senza commettere atti positivi contro le leggi divine, noi incrociamo le braccia invece di lavorare, il Padrone non avrà ragione di rimproverarci, come agli operai evangelici, il nostro ozio? "quid statis tota die otiosi?" L'albero sterile, pel solo fatto di non produr frutti, merita di essere tagliato e gettato al fuoco: "omnis ergo arbor, quæ non facit fructum bonum, excidetur et in ignem mittetur888-1.

889.   3° Rimedi. A) A guarire il pigro bisogna prima di tutto inculcargli convinzioni profonde sulla necessità del lavoro, fargli capire che ricchi e poveri sono soggetti a questa legge, e che il mancarvi basta ad incorrere l'eterna dannazione. È questa la lezione che ci dà Nostro Signore nella parabola del fico sterile; per tre anni viene il padrone a cercarvi frutti: non trovandovene, ordina al vignaiuolo di atterrarlo: "succide illam, ut quid terram occupat?889-1.

Nè si dica: io sono ricco e non ho bisogno di lavorare. -- Se non avete bisogno di lavorare per voi, dovete farlo per gli altri. Ve lo comanda Dio, vostro padrone: vi diede le braccia, un'intelligenza, un cervello, dei mezzi, perchè li utilizziate a gloria sua e a bene dei fratelli. Non mancano certo le opere buone da fare: quanti poveri da soccorrere, quanti ignoranti da istruire, quanti cuori affranti da consolare, quante grandi imprese da fondare per dare a chi ne abbisogna pane e lavoro! E volendo farsi una numerosa famiglia, non bisogna forse penare e faticare per assicurare l'avvenire dei figli? Non si dimentichi dunque la grande legge della solidarietà cristiana, in virtù della quale il lavoro dei singoli serve a tutti, mentre la pigrizia nuoce tanto al bene generale come al particolare.

890.   B) Alle convinzioni conviene aggiungere il continuato e metodico sforzo, applicando le regole esposte sulla educazione della volontà, n. 812. E poichè il pigro indietreggia come per istinto davanti allo sforzo, è opportuno mostrargli che in fin dei conti non vi è uomo più infelice dell'ozioso: perchè, non sapendo come impiegare o, com'egli dice, ammazzare il tempo, s'annoia, si disgusta di tutto, e finisce col prendere in orrore la stessa vita. Non è dunque meglio fare un poco di sforzo, rendersi utile, e procurarsi un poco di felicità studiandosi di rendere felici quelli che gli stanno intorno?

Fra gli accidioso vi sono di quelli che adoprano una certa attività, ma unicamente in giuochi, in divertimenti ginnastici, in riunioni mondane. Si rammenti a costoro che cosa seria è la vita e che si è obbligati a rendersi utili, cosicchè rivolgano l'attività a campo più nobile e sentano orrore di essere parassiti. Il matrimonio cristiano, con gli obblighi domestici che porta seco, è spesso ottimo rimedio: un padre di famiglia sente bisogno di lavorare per i figli, e di non affidare a stranieri l'amministrazione dei loro beni.

Quello però che non bisogna cessar mai di richiamare, è lo scopo della vita: 890-1 siamo qui sulla terra, non per vivere da parassiti, ma per conquistarci, col lavoro e con la virtù, un posto nel cielo. E Dio continuamente ci ripete: Che fate dunque qui, o pigri? Andate anche voi a lavorare nella mia vigna. "Quid hic statia tota die otiosi?... Ite et vos in vineam meam890-2.

ART. III. L'AVARIZIA 891-1.

L'avarizia si collega con la concupiscenza degli occhi, di cui abbiamo già parlato, n. 199. Ne esporremo: 1° la natura; 2° la malizia; 3° i rimedi.

891.   1° Natura. L'avarizia è l'amor disordinato dei beni della terra. Per mostrare ove sta il disordine dell'avarizia, bisogna primieramente richiamare lo scopo per cui Dio diede all'uomo i beni temporali.

A) Lo scopo che Dio si propose è doppio: l'utilità nostra e quella dei nostri fratelli.

a) I beni della terra ci sono dati per provvedere ai bisogni temporali dell'uomo, dell'anima e del corpo, per conservar la vita a noi e ai nostri dipendenti, e per procurarci i mezzi di coltivar l'intelligenza e le altre nostre facoltà.

Di questi beni: 1) gli uni sono necessari per il presente o per l'avvenire: è doveroso acquistarli con l'onesto lavoro; 2) gli altri sono utili per accrescere gradatamente le nostre sostanze, assicurare il benessere nostro o quello degli altri, contribuire al bene pubblico favorendo le scienze o le arti. Non è proibito desiderarli per un fine onesto, a patto che si tenga conto dei poveri e delle opere di beneficenza.

b) Questi beni ci sono dati anche per venire in aiuto dei fratelli che si trovano nell'indigenza. Siamo quindi, fino a un certo punto, i tesorieri della Provvidenza, e dobbiamo disporre del superfluo per soccorrere i poveri.

892.   B) Ci è ora più facile dire ove sta il disordine nell'amore dei beni della terra.

a) Sta qualche volta nell'intenzione: si desiderano le ricchezze per se stesse, come fine, o per fini intermedi che uno si fissa come fine ultimo, per esempio, per procurarsi piaceri e onori. Chi si ferma qui e non considera la ricchezza come mezzo per conseguir beni superiori, commette una specie d'idolatria, è il culto del vitello d'oro: non si vive più che pel denaro.

b) Sta pure nel modo di acquistarli: si cercano avidamente, con ogni sorta di mezzi, a scapito dei diritti altrui, con danno della salute propria o di quella degli impiegati, con speculazioni rischiose, con pericolo di perdere il frutto dei propri risparmi.

c) Sta anche nel modo di usarne: 1) non si spendono che a malincuore, con spilorceria, perchè si vuole accumularli, a fine di avere maggior sicurezza, o godere dell'influenza che viene dalla ricchezza; 2) non si dà nulla ai poveri o alle opere buone: capitalizzare, ecco lo scopo supremo a cui incessantemente si mira. 3) Ci sono di quelli che giungono ad amare il denaro come un idolo, a riporlo nei forzieri, a palparlo amorosamente: è il tipo classico dell'avaro.

893.   C) Non è generalmente questo il difetto dei giovani, che, leggieri ancora e imprevidenti, non pensano a capitalizzare; vi sono però eccezioni tra i caratteri cupi, inquieti, calcolatori. Si manifesta nell'età matura o nella vecchiaia: sorge infatti allora la cosiddetta paura di restar senza, fondata talvolta sul timore di malattie o di accidenti che possono produrre impotenza o incapacità al lavoro. I celibi, o vecchi scapoli e le zitellone vi sono particolarmente soggetti, non avendo figli che li possano soccorrere nella vecchiaia.

894.   D) La civiltà moderna sviluppò un'altra forma dell'insaziabile amore delle ricchezze, la plutocrazia, la sete di diventar milionari o miliardari, non già per assicurar l'avvenire a sè o ai figli, ma per acquistar quell'autorità dominatrice che viene dalle ricchezze. Quando uno può disporre di somme enormi, gode grandissima autorità, esercita un potere spesso più efficace di quello dei governanti, è re del ferro, dell'acciaio, del petrolio, della finanza, e comanda a Sovrani e a popoli. Questa signoria dell'oro degenera spesso in intollerabile tirannia.

895.   2° Sua malizia. A) L'avarizia è segno di diffidenza verso Dio, che promise di vigilare su noi con paterna sollecitudine, e di non lasciarci mancar mai del necessario, purchè abbiamo fiducia in lui. C'invita a considerare gli uccelli del cielo che non seminano nè mietono, i gigli del campo che non lavorano nè filano, non certo per animarci alla pigrizia, ma per calmare le nostre ansie e invitarci alla confidenza nel Padre celeste 895-1. Ora l'avaro, in cambio di porre la confidenza in Dio, la ripone nella copia delle ricchezze e fa ingiuria a Dio diffidando di lui: "Ecce homo qui non posuit Deum adjutorem suum, sed speravit in multitudine divitiarum suarum et prævaluit in vanitate sua895-2. Diffidenza che è accompagnata da eccessiva confidenza in sè e nella propria attività: uno vuol essere la provvidenza propria e così si cade in una specie d'idolatria, facendo dell'oro il proprio Dio. Ora nessuno può servire nello stesso tempo due padroni, Dio e la ricchezza: "non potestis Deo servire et mammonæ895-3.

Questo peccato è dunque di natura sua grave per le ragioni ora indicate; lo è pure quando fa ledere doveri gravi: di giustizia, pei mezzi fraudolenti di cui uno si serve ad acquistare e ritener la ricchezza; di carità, quando non si fanno le limosine necessarie; di religione, quando uno si lascia talmente sopraffar dagli affari da lasciar da banda i doveri religiosi. -- Ma è peccato soltanto veniale quando non ci fa contravvenire ad alcuna delle grandi virtù cristiane, compresi i doveri verso Dio.

896.   B) Rispetto alla perfezione, l'amore disordinato delle ricchezze è ostacolo gravissimo.

a) È passione che tende a soppiantar Dio nel nostro cuore: questo cuore, tempio di Dio, è invaso da ogni sorta di desideri affannosi per le cose della terra, di inquietudini, di opprimenti pensieri. Ora, per unirsi a Dio, bisogna vuotare il cuore di ogni creatura e di ogni affannosa cura delle cose terrene; perchè Dio vuole "tutta la mente, tutto il cuore, tutto il tempo e tutte le forze delle meschine sue creature" 896-1. Bisogna vuotarlo soprattutto di superbia: ora l'affetto alle ricchezze fomenta la superbia perchè ci fa riporre maggior fiducia nelle ricchezze che in Dio.

Attaccare il cuore al denaro è quindi mettere ostacolo all'amor di Dio; perchè là ov'è il nostro tesoro, ivi pure è il nostro cuore: "ubi thesaurus vester, ibi et cor vestrum erit". Distaccarnelo è aprire a Dio la porta del cuore: l'anima spoglia di ricchezze è ricca di Dio: toto Deo dives est.

b) L'avarizia conduce pure all'immortificazione e alla sensualità: quando uno ha denaro e l'ama, vuol goderne e procurarsi molti piaceri; o, se si priva dei piaceri, attacca il cuore al denaro. Nell'uno e nell'altro caso è idolo che ci allontana da Dio. Conviene quindi combattere questa trista inclinazione.

897.   3° Rimedi. A) Il grande rimedio è la convinzione profonda, fondata sulla ragione e sulla fede, che le ricchezze non sono fine, ma mezzi che la Provvidenza ci dà per provvedere ai bisogni nostri e a quelli dei nostri fratelli; che Dio ne resta sempre Supremo Padrone; che noi non ne siamo, a dir vero, che amministratori e che un giorno ne dovremo render conto al Giudice Supremo. -- Ma poi sono beni passeggeri che non ci potremo portar dietro nell'altra vita, ove del resto non hanno corso; e, se abbiamo senno, capitalizzeremo pel cielo e non per la terra: "Non accumulatevi tesori sulla terra, dove la ruggine e la tignuola corrodono e dove i ladri forano i muri e rubano: procurate di accumularvi tesori nel cielo, dove la ruggine e la tignuola non corrodono e dove i ladri non forano i muri nè rubano" 897-1.

B) A meglio distaccarsene, il mezzo più efficace è di depositare i propri beni sulla banca del paradiso facendone larga parte ai poveri e alle opere di beneficenza. Chi dà ai poveri presta a Dio, e riceve il centuplo anche sulla terra con la consolazione di far dei felici attorno a sè, ma principalmente in cielo dove Gesù, considerando come dato a sè ciò che fu dato al minimo dei suoi, si farà premura di restituire in beni imperituri i beni temporali che avremo sacrificati per lui. I savi quindi sono coloro che cambiano i tesori di quaggiù con quelli del cielo. Cercar Dio e la santità, ecco in che consiste la prudenza cristiana. "Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto ciò vi sarà dato per giunta. Quærite primum regnum Dei et justitiam ejus; et hæc omnia adjicientur vobis897-2.

898.   C) I perfetti vanno anche più oltre: vendono tutto per darlo ai poveri o metterlo in comune, entrando in qualche comunità. -- Si può anche, conservando i capitali, spogliarsi delle rendite, non ne usando che secondo i consigli d'un savio direttore. A questo modo, pur restando nello stato in cui la Provvidenza ci ha posti, si pratica il distacco di mente e di cuore.

CONCLUSIONE.

899.   La lotta dunque contro i sette peccati capitali finisce così di svellere in noi quelle cattive tendenze che nascono dalla triplice concupiscenza. È vero che ce ne resterà sempre qualcuna di queste tendenze, per esercitarci nella pazienza e richiamarci alla diffidenza di noi stessi; ma saranno meno pericolose e noi, appoggiati sulla grazia di Dio, ne trionferemo più facilmente. È vero che, non ostante i nostri sforzi, le tentazioni ci sorgeranno ancora nell'anima, ma per darci occasione di nuove vittorie.


818-1 Cassiano, De cœnobiorum institutis, l. V, c. I, P. L., XLIX, 202 sq; Collationes, coll. V, c. X, ibid. 621 sq; S. Giovanni Climaco, La Scala del Paradiso, grad. XXII, P. G., LXXXVIII, 948 sq; S. Gregorio Magno, Moral., l. XXXI, c. XLV, P. L. LXXVI, 620 sq; S. Tommaso, Iª IIæ, q. 84, a. 3-4; De Malo, q. 8, a. I; S. Bonaventura, In II sentent., dist. XLII, dub. III; Melchior Cano, La victoire sur soi-même, trad. da M. Legendre, Parigi, 1923; Natale Alessandro, De peccatis (Theol. cursus Migne, XI, 707-1168); Alvarez de Paz, t. II, l. 1, P. 2ª, De extinctione vitiorum; Filippo della SS. Trinità, P. Iª, Tr. II, disc. II e III, De vitiorum eradicatione et passionum mortificatione; Card. Bona, Manuductio ad cælum, c. III-IX; Alibert, Physiologie des passions, 1827; Descuret, La medicina delle passioni; Paulhan, Les Caractères, Parigi, 1902; J. Laumonier, La Thérapeutique des péchés capitaux, Parigi, Alcan, 1922.

819-1 De cænobiorum institutis, l. V, c. I; Collat., col. V, c. X.

819-2 Moral., l. XXXI, c. 45, P. L., LXXVI, 620-622.

820-1 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 162 e 132; de Malo, q. 8. 9; Bossuet, Trattato della Concupiscenza, c. 10-23; Sermone sull'Ambizione; Bourdaloue, Quaresimale, Serm. pel mercoledì della 2ª settimana; Alibert, op. cit., t. I, p. 23-57; Descuret, op. cit., t. II, p. 191-240; Paulhan, Les Caractères, p. 167; Beaudenom, Formation à l'Humilité, Parigi, 1902, p. 33-55; Thomas, L'Education des sentiments, Parigi, Alcan, 1904, p. 113-124, e 133-148; Laumonier, op. cit., c. VII.

821-1 Ps. XIII, 1.

822-1 Trat. della concupiscenza, c. XI.

823-1 Ibid. c. XXIII; J. J. Olier, Introd. c. VII.

824-1 Luc. XVIII, 9-14.

828-1 Sum. theol., IIª IIæ, q. 131, a. I.

828-2 Questo difetto non si trova solo presso i dotti e i ricchi: Bossuet parla (Trat. della Concupiscenza, c. XVI) di contadini, che nelle chiese si contendono aspramente i banchi più onorifici, fino al punto di dire che non andranno più in chiesa se non vengono appagati.

828-3 Trat. della Concupiscenza, c. XVI.

828-4 "Videri doctores appetunt, transcendere ceteros concupiscunt, atque attestante veritate, primas salutationes in foro, primos in cœnis recubitus, primas in conventibus cathedras quærunt". (Pastoral., p. I, c. I, P. L., XXXVII, 14).

830-1 Molto bene spiega questo S. Tommaso, IIª IIæ, q. 132, a. I: "Quod autem aliquis bonum suum cognoscat et approbet, non est peccatum. ... Similiter etiam non est peccatum quod aliquis velit bona opera sua approbari: dicitur enim (Matth., V, 16): Luceat lux vestra coram hominibus. Et ideo appetitus gloriæ de se non nominat aliquid vitiosum. ... Potest autem gloria dici vana tripliciter: uno modo ex parte rei de qua quis gloriam quærit, puta cum quis quærit gloriam de eo quod non est gloria dignum, sicut de aliqua re fragili et caduca; alio modo ex parte ejus a quo quis gloriam quærit, puta hominis cujus judicium non est certum: tertio modo ex parte ipsius qui... appetitum gloriæ suæ non refert in debitum finem".

830-2 La Filotea,, P. III, C. IV (Salesiana, Torino).

831-1 "Chi sparla di sè, dice S. Francesco di Sales, (Lo Spirito etc., c. XIX) cerca indirettamente la lode, e fa come chi rema, che volge il dorso al luogo a cui tende con tutte le forze. E resterebbe molto afflitto se si credesse al male che dice di sè, essendo l'orgoglio quello che gli fa desiderare di essere stimato umile".

834-1 Hominem efficit dæmonem contumeliosum, blasphemum, perjurum, facit ut appetantur cædes... (S. Giov. Crisostomo, in ep. II ad Thess., C. I, homil. I, n. 2, P. G., 471.)

834-2 "Alia vitia eas solum virtutes impetunt quibus ipsa destruuntur... ; superbia autem, quam vitiorum radicem diximus, nequaquam unius virtutis exstinctione contenta, contra cuncta animæ membra se erigit, et quasi generalis ac pestifer morbus corpus omne corrumpit, ut quidquid illâ invadente agitur, etiamsi esse virtus ostenditur, non per hoc Deo, sed soli vanæ gloriæ servitur". S. Gregorio, Moral. l. XXXIV, c. 33, n. 48, P. L. LXXVI, 744.

835-1 Jac., IV, 6.

835-2 Introd., C. VI, S. 1ª.

835-3 Matth., VI, 1-2. aa

839-1 Ps. XXXVIII, 6.

840-1 II Cor., IX, 15.

840-2 I Cor., IV, 7.

842-1 I Cor., VI, 20.

842-2 Phil., II, 13.

842-3 Prefazio della festa di tutti i Santi.

845-1 S. Cipriano, De zelo et livore, P. L., IV, 637-652; S. Gregorio, Moral., l. V, c. 46, P. L., LXXV, 727-730; S. Tommaso, IIª IIæ, q. 36; De malo, q. 10; Alibert, op. cit., t. I, p. 331-340; Descuret, t. II, p. 241-274; Laumonier, op. cit., c. V.

848-1 "Est tamen invidia quæ inter gravissima peccata computatur, scilicet invidentia fraternæ gratiæ, secundum quod aliquis dolet de ipso augmento gratiæ". (Sum. Theol., IIª IIæ, q. 36, a. 4, ad 2).

851-1 I Rom., XII, 15-16.

851-2 G. G. Olier, Cat. Chrét. P. IIª, lez.

852-1 I Cor., XI, I.

852-2 Hebr., X, 24.

853-1 S. Gregorio, Morali, l. V., c. 45, P. L., LXXV, 727-730; S. Tommaso, IIª, IIæ, q. 158; De Malo, q. 12; Descuret, op. cit., t. II, I. 57; S. Thomas, op. cit., c. IX, p. 94-103; Laumonier, op. cit., c. VI.

854-1 Joan., II, 13-17.

858-1 Matth., V, 22.

859-1 "Videbis cædes ac venena, et reorum mutuas sordes, et urbium clades, et totarum exitia gentium... Aspice tot memoriæ proditos duces" (De irâ, l. I, n. 2).

860-1 Moral., l. c., P. L. LXXV, 724.

861-1 Cf. Descuret, La medicina delle passioni; J. Laumonier, La thérapeutique... p. 167-174.

862-1 S. Fr. di Sales, La Filotea, P. IIIª, c. VIII.

862-2 Ibid.

864-1 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 148; De malo, q. 14; Jaugey, De quatuor virtut. cardin., 1876, p. 569-574; Laumonier, op. cit., c. II.

864-2 Phil., III, 19.

866-1 Quaresimale, 1921, Ritiri Pasquali, Eccessi della tavola (Marietti, Torino).

869-1 I Cor., X, 31.

870-1 E. Caustier, La vie et la santé, p. 115.

871-1 La vie spirituelle, trad. Bernadot., P. II, c. III.

873-1 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 153-154; S. Alfonso, l. III, n. 412-485; Capelmann, Medicina pastoralis; Antonelli, Medicina pastoralis, Romæ 1905; Surbled, Vie de jeune homme, Parigi 1900; Vie de jeune fille, Parigi 1903; Fonssagrives, L'educazione della purezza etc. (Galla, Vicenza); G. Guibert, La purezza (Marietti, Torino); M. Dubourg, Sixième et neuvième Commandement.

873-2 Esodo, XX, 14, 17; Matth., V, 27, 28.

875-1 Laumonier, op. cit., p. 111.

877-1 II° Congresso della Conf. intern., 1902. Si consultino molte altre testimonianze nel Le problème de la chasteté au point de vue scientifique di F. Esclande, 1919, p. 122-136.

878-1 Eccli., III, 27.

878-2 La Filotea, P. IIIª, c. XXXIII (Salesiana, Torino).

879-1 Matth., V, 28.

879-2 Matth., V, 29.

882-1 Sess. VI, De justificatione, c. XI.

883-1 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 35; De Malo, q. II; Natale Alessandro, op. cit., p. 1148-1170; Melchior Cano, Victoire sur soi-même, c. X; G. Faber, Progresso etc, c. XIV (Salesiana, Torino); Laumonier, op. cit., c. III; Vuillermet, Soyez des hommes, Parigi, 1908, XI, p. 185.

885-1 Gen., II, 15.

885-2 Gen., III, 19.

886-1 Prov., XXIV, 30-34. La versione è tolta da "I libri poetici della Bibbia tradotti dai testi originali e annotati dal P. A. Vaccari S. J."; è il secondo volume della preziosa versione edita dall'Istituto Biblico di Roma.

887-1 Eccli., XXXIII, 29.

887-2 Ezech., XVI, 49.

887-3 Melchior Cano, La victoire sur soi-même, c. X.

888-1 Matth., III, 10.

889-1 Luc., XIII, 7.

890-1 Ollé-Laprune, Il valore della vita.

890-2 Matth., XX, 6, 8.

891-1 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 118; de Malo, q. 113; Melchior Cano, op. cit., c. XII-XIII; Massillon, Discorsi sinodali, L'avarizia dei sacerdoti; Monsabré, Ritiri pasquali, 1892-1894: Gli idoli, la ricchezza; Laumonier, op. cit., c. VIII.

895-1 Matth., VII, 24-34.

895-2 Ps. LI, 9.

895-3 Matth., VI, 24.

896-1 J. J. Olier, Introd. aux vertus, ch. II, Ire Sect.

897-1 Matth., VI, 19-20,

897-2 Matth., VI, 33.


Quest'edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@yahoo.it>.