5) La tribù dei neoconservatori USA

di Marco De Martino dell’ 8 maggio 2003

 

Ignorati fino all'11 settembre 2001, oggi elaborano le idee che stanno rivoluzionando gli Stati Uniti. Da giovani militavano a sinistra, poi hanno riscoperto il valore della libertà. E della lotta contro i suoi nemici.

 


È tra gli indirizzi più importanti del potere diWashington: 1175, 17ª strada. Concentrati in un solo palazzo, per la gioia di chi crede alle teorie del complotto, sono tre centri nevralgici della rivoluzione ideologica che ha portato l'America a invadere l'Iraq.

Al decimo piano c'è l'American enterprise institute, da cui l'amministrazione Bush ha prelevato 20 fra i suoi uomini chiave e che dà lavoro alla moglie del vicepresidente, Lynn Cheney. Cinque piani più sotto ci sono gli uffici del Project for a New American century, think tank i cui documenti ispirano direttamente la nuova politica estera americana, che crede più nell'uso della forza che nell'arma della diplomazia. E sullo stesso piano ha sede il Weekly Standard, il settimanale che nonostante le sole 55 mila copie vendute, è considerato ora dal NewYork Times il più influente giornale americano, se non altro perché alcuni dei suoi lettori abitano alla Casa Bianca.

Per capire dove va l'America non si può che partire da qui. È giovedi 1° maggio e, attorno alla scrivania del direttore del giornale William Kristol, si festeggia la vittoria in Iraq. In televisione Fox news accompagna l'atterraggio di George Bush sulla portaerei Lincoln con una scritta esagerata: «Breaking news, il presidente approccia una nave in movimento». Kristol, che deciderà poi di dare la copertina all'evento, ironizza: «Posso solo immaginare la domanda accorata del Washington Post di domani: perché il presidente non ha scelto una nave che porta i soccorsi umanitari?».

Con un po' di arroganza e molta sfrontatezza il Weekly Standard è diventato il punto di riferimento dei neoconservatori americani, lo strano gruppo le cui idee prima dell'11 settembre 2001 sembravano destinate alla marginalità e che invece ora stanno cambiando il mondo. «Siamo falchi in politica estera, tolleranti e spesso democratici in politica interna» fa l'autoritratto David Brooks, autore di Bobos in paradise, che scrive sullo Standard. «Non c'entriamo niente con i paleoconservatori alla Pat Buchanan, che sono ancora a battersi contro l'immigrazione ed erano contro l'intervento in Iraq. Siamo poco attenti alle istanze della destra religiosa, che pure io rispetto. E consideriamo ancora legati alla visione della storia emersa dal Congresso di Vienna i realisti come George Bush padre, Henry Kissinger o Brent Scowcroft, che pensano che la politica sia un'esclusiva delle élite della East Coast e che in politica estera cercano la stabilità. Ma siamo anche più idealisti dei conservatori europei: loro guardano al passato, noi a un futuro in cui vediamo sempre più paesi diventare democratici».

I veri rivoluzionari, come amano definirsi i «neo-con», pranzano nella mensa dell'American enterprise institute, dove invece dell'odiata acqua francese Perrier ora si servono solo bottigliette di americana Polar Spring. Ai tavoli si incontrano lo storico Michael Ledeen, l'ex presidente della Camera Newt Gingrich, che ha appena accusato Colin Powell di andare contro gli interessi dell'amministrazione, e David Frum, lo speech writer che ha inventato l'espressione «asse del male». Ma è facile vedere anche il capo dei falchi Paul Wolfowitz, viceministro della Difesa, con il suo grande alleato Richard Perle.

Convinti che i consiglieri spesso siano più importanti del re, i neocon occupano posti chiave ma non di primo piano nell'amministrazione Bush: si considerano parte del movimento Douglas Feith e John Bolton (sottosegretari al Pentagono e al dipartimento di Stato), l'esperto di questioni mediorientali Elliott Abrams al Consiglio per la sicurezza nazionale e il capo di staff della vicepresidenza Scooter Libby.

Ma il network della lobby comprende anche anchorman di successo come Bill O'Reilly sul network Fox e Rush Limbaugh alla radio. Case editrici come la Regnery che produce bestseller a ripetizione (dopo Bias, il saggio di Bernard Goldberg contro la stampa liberal, ora è il turno di Dereliction of Duty sulla presidenza Clinton). Editori simpatizzanti come Rupert Murdoch, che finanzia il Weeekly Standard e Fox, e il canadese Conrad Black che ha dato il via al quotidiano Sun di New York. E ancora blog di successo come quello di Andrew Sullivan, siti trafficati come quello della National Review e un esercito di convertiti.

L'ultimo e più clamoroso è Christopher Hitchens, l'iconoclastico giornalista inglese che ha abbandonato il settimanale The Nation in disaccordo con la linea sull'Iraq. I primi furono i fondatori del movimento, Norman Podhoretz e Irving Kristol (il padre di William), intellettuali ebrei newyorkesi che negli anni Cinquanta e Sessanta abbandonarono la sinistra per fondare le riviste Commentary e National Interest.

«I neoconservatori sono liberal assaliti dalla realtà» disse allora Kristol. Ma in realtà la storia del movimento non si può ridurre a un pentimento formale. Sia lui sia Podhoretz erano grandi ammiratori di Leo Strauss, che nei vent'anni precedenti il 1968 insegnò filosofia politica negli edifici neogotici della University of Chicago. Tra i libri meno noti di Strauss, un classicista che per il resto studiava Platone e Aristotele, c'è quello che sembra ora il più importante. Si intitolava Della tirannia, e vi si leggeva tra l'altro: «Quando fummo messi a faccia a faccia con la tirannia, la nostra scienza politica non la riconobbe». Convinto che per evitare certi pericoli tutti i paesi del mondo debbano diventare democratici, Strauss ebbe un'influenza decisiva su Allan Bloom, autore del saggio La chiusura della mente americana, protagonista del ritratto spietato e affettuoso che gli fece Saul Bellow nel libro Ravelstein. Ma tra i suoi discepoli ci fu anche Albert Wohlstetter, lo stratega militare che fu tra i primi a predicare guerre contenute e basate su armi intelligenti. Tra gli studenti di Wohlstetter c'erano anche Richard Perle, che finì per sposare la figlia del professore, e Paul Wolfowitz.

La loro posizione, e la prevalenza di ebrei tra i «neocon», ha portato i critici del movimento a definirli una cabala al servizio di Israele. «Neoconservatore è una parola yiddish per conservatore» è la battuta che circola all'American enterprise institute, dove però il filosofo della politica Michael Novak ha un'altra interpretazione.«Tra i neo-con ci sono anche molti cattolici» spiega. «Quello che ci accomuna tutti è la nostra religiosità: ci si vede molto nelle chiese e nelle sinagoghe. E questo spiega anche perché Bush ci sente vicini: anche lui è molto religioso».

Per capire se il presidente continuerà a essere influenzato dalle idee neoconservatrici bisogna scendere al quinto piano del palazzo e visitare gli uffici del Project for a new American century: «Abbiamo sicuramente vinto sull'Iraq e prima ancora in Kosovo, ma alla Casa Bianca molti ci odiano, anche se di recente Cheney è più vicino alle nostre posizioni» sostiene Gary Schmitt, direttore del think tank. «A differenza di quello che si pensa, i nostri strumenti sono artigianali: produciamo un documento, lo faxiamo a 2 mila persone al Congresso e cerchiamo di fare circolare le idee su riviste e nei talk show».
Il prossimo banco di prova secondo lui è l'Iran: «Prima o poi un confronto è inevitabile: che a deciderlo sia l'amministrazione o la sequenza degli eventi scatenati dall'invasione in Iraq è ancora da vedere. Di certo noi ancora una volta saremo pronti a far fronte alle sfide della storia».