3) Al club dei vincitori

di Marco De Martino del 24 aprile 2003

 

La parola d'ordine è non ripetere gli errori di Bush senior. Che stravinse in Iraq ma perse negli States. Così, mentre i fedelissimi dell'amministrazione pensano alle ricompense, la Casa Bianca mette a punto la nuova strategia per affrontare la battaglia più importante: le elezioni del 2004

 

È il sabato di Pasqua e, nella sinagoga del Maryland che frequenta, il vicesegretario della Difesa americano Paul Wolfowitz è circondato dallo sguardo di tutti.

L'ideologo dei falchi americani ha finalmente vinto la guerra che aveva invocato per 12 anni, molti dei quali passati nell'ombra, ignorato da tutti. Ora invece Wolfowitz è il re di Washington: ai suoi scritti viene fatta risalire la dottrina della prevenzione che ispira la politica estera americana, fu lui il primo a indicare l'Iraq tra gli obiettivi della guerra al terrorismo.
Ma f
orte è stata la sua impronta anche sul piano militare che ha portato in sole tre settimane fanti e marines del generale Tommy Franks a bere whisky nei palazzi di Saddam.

Secondo gli insider della capitale americana, Wolfowitz ora potrebbe chiedere qualsiasi cosa. Sarebbe suo il posto di segretario del dipartimento di Stato se Colin Powell fosse escluso da una seconda amministrazione Bush.
Ma c'è anche chi vedrebbe bene Wolfowitz come consigliere per la sicurezza nazionale se a Foggy bottom fosse spostata Condoleezza Rice. O come direttore della Cia al posto di George Tenet se finalmente George W. Bush si decidesse a farlo fuori, come al Pentagono vogliono da tempo. L'unico a non credere a queste previsioni è proprio lui: chi lo frequenta assicura che è troppo navigato per non sapere che dall'Iraq si torna sempre con vittorie transitorie.

Wolfowitz era al Pentagono, come sottosegretario di Dick Cheney, anche nel 1991. La parata che festeggiò la fine dell'operazione Desert storm fu la più maestosa della storia americana: 23 mila soldati attraversarono Broadway, non lontano dalle Torri gemelle, applauditi da 2 milioni di persone.Ma stavolta alla Casa Bianca pochi sono favorevoli a celebrare l'operazione Iraqi freedom tanto platealmente. «La parola d'ordine è non ripetere l'errore di papà, inteso come Bush senior, che stravinse in Iraq per poi perdere a casa» dice a Panorama David Sanger, capo dell'ufficio di Washington del New York Times. «Questo presidente e il suo gruppo di lavoro considerano la vittoria completa solo se porterà alla rielezione».

In apparenza Bush esce dall'invasione dell'Iraq più forte che mai. Secondo gli ultimi sondaggi ad approvare l'operato del presidente è il 79 per cento degli americani. Circa metà dei democratici pensa che il presidente abbia condotto bene la guerra, mentre i conservatori lo considerano un nuovo Ronald Reagan, un visionario cioè capace di influenzare con la sua politica una nuova era americana.«La vittoria in Iraq porterà a riconsiderare vecchie categorie: chi è progressista e chi invece è conservatore o reazionario» dice David Brooks, penna di punta del Weeekly standard, il settimanale più vicino all'amministrazione Bush. «Per un ventenne di oggi i progressisti non possono che essere quelli che si battono per la diffusione della democrazia in Medio Oriente.
I conservatori sono invece i profeti di sventura che pensano solo a quello che può andare storto: i giornalisti, quelli del dipartimento di Stato. E i reazionari sono quelli che marciano contro la guerra, e non si capisce mai cosa vogliono». Non tutti però condividono lo stesso entusiasmo: «Per i vincitori il difficile comincia adesso» avverte Charles Kupchan, stratega del Council of foreign relations che insieme a Henry Kissinger guida un nuovo gruppo di ricerca sui rapporti tra Stati Uniti ed Europa. «Finora infatti il gruppo di potere è stato unito dalla prospettiva della guerra: ora invece la forbice tra le due anime dell'amministrazione, quella visionaria dei neoconservatori e quella realista, tenderà ad allargarsi sempre di più».

La prima fazione, guidata da Wolfowitz, vede l'Iraq come l'inizio del processo di democratizzazione dei paesi mediorientali, a partire da Siria e Iran. A ispirare questo punto di vista sono arabisti come Bernard Lewis e Fouad Ajami, che hanno visto le loro teorie sulla eccessiva importanza data al ruolo della piazza araba confermate dalle scarse proteste che hanno accompagnato l'invasione dell'Iraq. Finora a tenere i neoconservatori sotto la propria ala protettiva è stato il Pentagono, ma il primo a strappare con questo gruppo ora potrebbe essere proprio Donald Rumsfeld: «Il suo vero interesse non è rifare il Medio Oriente ma il Pentagono» assicura Michael O' Hanlon, esperto militare della Brookings institution. «Nessuno è nella posizione di rivoluzionare la Difesa americana più di lui, che ha vinto due guerre in due anni».
Rumsfeld si è conquistato sempre più spazio accanto al presidente. Il suo servizio di intelligence al Pentagono, affidato da un mese al fidato assistente Stephen Cambone, produce rapporti in diretta concorrenza con quelli della Cia. Presto Rumsfeld chiederà di riorganizzare le truppe americane in Europa, spostandole dalla Germania verso i paesi che una volta facevano parte del Patto di Varsavia, meno distanti dalle zone di operazione del Medio Oriente. «C'è chi dice che il segretario della Difesa voglia invadere lo spazio del segretario di Stato, ma la verità è che anche Colin Powell esce rafforzato da questa guerra» spiega Victor Davis Hanson, lo storico più legato alla Casa Bianca. «Il precedente dell'Iraq consegna un'arma in più all'arte della diplomazia di Powell, che può minacciare ritorsioni militari: il primo banco di prova è la Corea».

Anche Dick Cheney e Condi Rice, che di recente si erano avvicinati alle posizioni dei neoconservatori, potrebbero ora fare marcia indietro. A provocare il ripensamento sono i dati dei sondaggi, secondo i quali gli stessi americani che erano favorevoli alla vittoria in Iraq sono ora dubbiosi sui costi della ricostruzione. L'economia rappresenta il punto debole della campagna presidenziale di Bush, che è il primo presidente americano a presentarsi alle elezioni con un aumento della disoccupazione.

Per risanare l'economia, Bush punta su un piano di tagli delle tasse che non incontra il favore del Congresso, che pure è controllato dai repubblicani. Alla Casa Bianca quindi già pensano di puntare la campagna elettorale sulla lotta al terrorismo, con una convention repubblicana a ridosso dell'anniversario dell'11 settembre, per ricordare le vittime. Il piano è stato messo a punto da Karl Rove, il cervello del clan di Bush, che ha seguito la guerra in Iraq passo per passo calcolandone gli effetti sulla politica interna: a lui è ora affidato il compito di trasformare la fragile vittoria in Iraq in un trionfo duraturo.