Amore e purificazione: l'eros come divina mania

La parte principale del Simposio platonico è occupata dal discorso di Socrate, che riferisce quanto udito da una sacerdotessa, Diotima. Ella narra la nascita di Eros, generato da un dio, Poros, e da una mendicante, Penia. Eros dunque non è né dio né uomo, ma qualcosa di mezzo, un demone, metafora dell'amante che desidera ciò che non ha e del filosofo che tende verso la sapienza ma non la possiede. 

Eros è desiderio di bellezza e di bontà da parte di chi, dato che le desidera, non le possiede. Esso è un tendere verso, che nella prospettiva platonica significa tendere verso il mondo delle idee. Eros è amore per la bellezza, che è l'unica idea che si manifesta nel mondo visibile. Contemplandola, chi è posseduto dall'eros passa dall'amore per le cose belle a quello per le istituzioni fino alla contemplazione del bello in sé, dell'idea del bello. L'eros rappresenta dunque la tensione, la forza che conduce al superamento dei limiti del mondo visibile per giungere al mondo delle idee. 

 

 T1. PLATONE– Simposio: L'eros è la forza che spinge verso il mondo delle idee

XXVIII. Sino a questo grado nei misteri amorosi, Socrate, forse avresti potuto iniziarti da te. Ma nelle dottrine perfette e contemplative, alle quali, ove si proceda rettamente, quelle finora esposte servono di preparazione, non so se ne saresti capace. Te le esporrò dunque io, disse, e non tralascerò di metterci tutta la mia buona volontà. E tu cerca di seguirmi, se ti riesce. Perché chi vuol incamminarsi per la via diritta e questa impresa, deve da giovane andare verso i bei corpi, e dapprima, se chi lo guida lo guida dirittamente, amare un sol corpo e generare in esso discorsi belli; e poi intendere che la bellezza in un qualunque corpo è sorella della bellezza d'un altro corpo; e se convien perseguire ciò che è bello d'aspetto, sarebbe una grande stoltezza non stimare che una sola e identica sia la bellezza in tutti i corpi. E inteso che abbia questo, divenire amante di tutti i bei corpi, e calmare quei suoi ardori per uno solo, spregiandoli e tenendoli e vile. E in seguito reputare che la bellezza delle anime sia di maggior pregio che la bellezza del corpo, sicché, ove uno sia bello dell'animo, quand'anche poco leggiadro, se ne contenti e lo ami e ne prenda cura e partorisca e cerchi ragionamenti siffatti che valgano a render migliori i giovani, affinché sia dipoi costretto a considerare il bello che è nelle istituzioni e nelle leggi, e riconoscere che esso è tutto congenere a sé, e si persuada così che il bello corporeo non è che piccola cosa. E dopo le istituzioni <la sua guida> lo conduca più in alto, alle scienze, perché veda alla loro volta la bellezza delle scienze, e mirando all'ampia distesa del bello, non più, estasiandosi come uno schiavo, davanti alla bellezza d'una singola cosa, d'un giovanetto o d'un uomo o d'una istituzione sola, e servendo sia una abietta e meschina persona; ma volto al gran mare della bellezza, e contemplandolo, partorisca molti e belli e magnifici ragionamenti e pensieri in un amore sconfinato di sapienza, fino a che, in questo rinvigorito e cresciuto, non s'elevi alla visione di quell'unica scienza, che è scienza di cosiffatta bellezza. 

E ora, continuava, fa' di aguzzare l'occhio della mente quanto più puoi.

 

XXIX. Giacché colui che sia stato educato fin qui alle cose amorose, contemplando a grado e grado e rettamente il bello, pervenuto al termine della via d'amore scorgerà d'improvviso una bellezza di sua natura stupenda, e precisamente quella, Socrate, per la quale si eran durati tutti i travagli precedenti, quella che innanzi tutto è eterna, che non diviene e non perisce, non cresce e non scema; e poi, che non è bella per un verso e brutta per un altro, né è volte sì a volte no, né bella rispetto a una cosa e brutta rispetto ad un'altra, né qui bella e lì brutta, o bella per alcuni e brutta per altri. Né, per di più, la bellezza prenderà ai suoi occhi forma come di volto o di mano o d'alcunché di corporeo, né d'un discorso o d'una scienza o di qualcosa che sia in un altro, in un animale, poniamo, o in terra o in cielo o dove che sia, ma gli apparirà qual è in sé, uniforme sempre a se medesima, e tutte le altre cose belle, partecipi d'essa in tal modo, che, mentre queste altre e divengono e periscono, essa non diviene punto né maggiore né minore, e non soffre nulla. E quando alcuno per aver rettamente amato i fanciulli, sollevandosi dalle cose di quaggiù, prenda a contemplare quella bellezza, allora può dirsi che abbia quasi toccato la meta. Perché questo appunto è sulla via d'amore procedere o esser guidato dirittamente da un altro: muovendo dalle belle persone di quaggiù ascendere via via sempre più in alto, attratto dalla bellezza di lassù, quasi montandovi per una scala, da un bel corpo a due, e da due a tutti i bei corpi, e da' bei corpi alle belle istituzioni e dalle istituzioni alle belle scienze per finire dalle scienze a quella scienza che non è scienza d'altro se non in quella bellezza appunto; e pervenuto al termine, conosca quel che è il bello in sé.

Questo, mio caro Socrate, se altro mai, diceva l'ospite di Mantinea, è il momento della vita degno per un uomo d'esser vissuto, allorché egli può contemplare la bellezza in sé.

Convito, pp. 449-450. 

Il motivo dell’amore come impulso che spinge l’uomo a superare i propri limiti e la propria individualità per nobilitarsi è particolarmente importante in ambito umanistico-rinascimentale. Nella filosofia rinascimentale, in gran parte di ispirazione neoplatonica, l’eros spinge l’uomo a superare i propri limiti, fino a divenire simile a Dio, a “indiarsi”, come dice Ficino, o a identificarsi con Dio inteso come razionalità della natura, mens insita omnibus, come suggerisce Bruno. 

Marsilio Ficino, cui si deve la prima traduzione integrale in latino delle opere di Platone, considera come è noto l’anima, e quindi l’uomo, come copula mundi, punto di unione dell’universo, congiunzione della materia e dello spirito, di Dio e del mondo. Grazie alla presenza in sé di questo principio divino l’uomo, in virtù della tensione amorosa che è appunto unione e congiunzione, può farsi Dio. 

T2. Ficino, L’uomo è destinato a diventare come Dio

Quindi, come esposi nel mio libro Sull’Amore, lo splendore del sommo bene stesso rifulge nelle singole cose e, là dove più perfettamente rifulge, ivi soprattutto stimola chi vede quella cosa, eccita chi la considera, trascina e occupa tutto chi vi si avvicina, costringendolo a venerare uno splendore di tal genere più di ogni altro, come si venera una divinità, ed infine a non tendere a null’altro se non a che, deposta la precedente natura, egli stesso si trasformi in splendore. E ciò risulta chiaramente dal fatto che non è mai contento un uomo alla vista o al contatto con l’uomo amato e spesso esclama: «Quest’uomo ha qualche cosa in sé che mi brucia, mentre io non capisco che cosa io stesso desideri!». Ove risulta chiaro che l’animo è acceso da quel divino fulgore che risplende nell’uomo bello come in uno specchio, e che per ignote vie catturato ne viene come da un amo trasportato in alto fino ad indiarsi.

Ma Dio sarebbe, per così dire, un tiranno iniquo se ci spingesse a tentare di raggiungere cose che noi non potessimo mai ottenere. Per cui si deve dire che ci spinge appunto a cercare lui nell’atto in cui infiamma il desiderio umano con le sue faville.

Ma sarebbe anche un inetto saettatore troppo temerario se dirigesse i nostri desideri come saette verso di sé come loro bersaglio e non avesse aggiunto alle saette le penne in virtù delle quali esse potessero essere in grado di raggiungere il loro bersaglio. E sarebbe infine sfortunato se lo sforzo con il quale ci trascina verso di sé non potesse mai conseguire il suo fine. Per la qual cosa il nostro animo può ad un determinato momento indiarsi, dato che per natura a ciò tende sotto lo stimolo diretto di Dio. Ma non si india se non assumendo la forma di Dio, come nulla si infuoca se non accoglie la forma appunto del fuoco.

Teologia platonica, XIV, i , vol. II, pp. 203-5.

Nel De gli Eroici furori Bruno riprende la teoria dell’eros come impulso ad elevarsi moralmente e intellettualmente, superando il mondo della quotidianità e del senso comune.

 

T3. Bruno, Il furore “eroico”

Non è furor d’atra bile che fuor di conseglio, raggione ed atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla disordinata tempesta [...]. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne l’anima e impeto divino che gl’impronta l’ali; onde più e più avvicinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure, dovien un oro probato e puro, ha sentimento della divina ed interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose.

De gli eroici furori, parte I, Dialogo terzo, in Dialoghi italiani, p. 592. 

La funzione dell’eros, gli “eroici furori” che spingono l’individuo a dimenticare se stesso per ricongiungersi con il tutto, viene esemplificata da Bruno mediante il racconto del mito di Atteone, il cacciatore che, inseguendo un cervo insieme ai propri cani, sorprende la dea Diana mentre sta immergendosi, nuda, nelle acque di un fiume. La contemplazione della divina bellezza lo fa uscire dal suo stesso essere e i cani, simbolo dei suoi pensieri, lo sbranano, liberandolo dalla prigione del corpo in modo da poter contemplare la verità.  

T4. Bruno, Il mito di Atteone

Tans. – Sai bene che l’intelletto apprende le cose intelligibilmente, idest secondo il suo modo; e la voluntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que’ pensieri, quei cani che cercavano estra di sé il bene, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, ed in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la divinità.

Cic. – Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del riformato intelletto e voluntade.

De gli eroici furori, parte i, Dialogo quarto, in Dialoghi italiani, p. 1008. 

Grazie ai furori eroici, l’uomo si identifica con Dio, partecipando all’opera della creazione.  

T5. Bruno, Elogio dell’homo faber

E (Giove) soggiunse che gli dei aveano donato a l’uomo l’intelletto e le mani, e l’avevano fatto simile a loro, donandogli facultà sopra gli altri animali; la qual consiste non solo in poter operare secondo la natura ed ordinario ma, ed oltre, fuor le leggi di quella; acciò, formando o possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l’ingegno, con quella libertade, senza la quale non arrebe detta similitudine, venesse ad serbarsi dio de la terra.

Spaccio de la bestia trionfante, Dialogo terzo, in Dialoghi italiani, pp. 732-33.


 

- Puoi trovare il testo integrale delle opere di Platone e di Bruno ricordate sopra, nel sito Libe Liber: www.liberliber.it

- Preleva De gli eroici furori di Bruno. Nel Libro IV trovi il mito di Atteone al quale si accenna sopra, esposto e spiegato dai personaggi del dialogo. Leggilo e commentalo.