Thor

Thor Contro il serpe del mondo
Thor (Þórr in antico norreno) è una delle principali divinità dei Vichinghi, noto come il dio del tuono e del fulmine. La mitologia norrena è ricca di racconti sulle gesta di Thor e sulla sua perenne lotta contro i giganti
Figlio di Odino, era il più forte degli
Æsir e dunque la sua dimora era ad Ásgarðr, nel
Trudheimr, un castello nelle terre di Bilskirnir.
Mentre Odino era considerato re degli dei, Thor era un po' più il dio degli
uomini, infatti era molto amato dagli scandinavi, probabilmente più di Odino,
tanto che i Vichinghi si definivano Popolo di Thor. Sua moglie
si chiamava Sif, ma poco si conosce di lei a parte che avesse i
capelli d'oro, fabbricati per lei dai nani dopo che Loki
le aveva tagliato i suoi.
Un dio così
esuberante, incarnazione dell'energia vitale, non poteva certo accontentarsi
di una sola donna, seppur bellissima: si conoscono numerosi suoi amori con
comuni mortali e con gigantesse. Ma un solo incontro fu importante per Thor:
quello con la gigantessa Jarnsaxa. Dall'unione con la donna appartenente alla
razza dei suoi nemici per eccellenza Thor ebbe due figli: Modhi,
"coraggio selvaggio", e Magni, "potenza colossale", ed una
figlia, Thrudhr, "forza". E quando, alla fine dei tempi, Thor
cadrà vittima delle esalazioni asfissianti del Serpe del mondo, saranno i suoi
figli Modhi e Magni a prendere in consegna il mitico martello, portandolo
nella nuova cittadella divina, consci che la pace e la prosperità vanno difese
con la forza.
La sua forza, già leggendaria, era aumentata da
tre oggetti che non abbandonava mai e che lo rendevano quasi invincibile:
una cintura che raddoppiava la forza di chi la indossava,
un paio di guanti di ferro
ed il leggendario martello Mjöllnir il corto manico del martello , "maciullatore", onnifrantumante arma, inestimabile strumento d'offesa contro malefici mostri e giganti. Una volta lanciato in aria e frantumato il suo bersaglio, lo straordinario martello ritorna nelle mani di Thor come un insolito, ma ben più devastante, boomerang. Mjölnir, nella sua qualità di arma celeste, è anche un simbolo del fulmine, necessario preliminare luminoso ai tuoni ed alle precipitazioni atmosferiche. Ecco perché il rosso gigante era tanto venerato dai contadini, che vedevano in lui il signore delle piogge, importante elemento per il conseguimento di un buon raccolto. E, a mo' di pendagli appesi a rozze catenine, piccoli martelli ornavano i colli dei figli dei contadini per proteggerli dalle potenze maligne..
Il suo mezzo di spostamento era un carro
trainato da due capre (Tanngnjóstr e Tanngrisnir).
Anche questi animali avevano proprietà portentose: spesso Thor
quando era in viaggio li mangiava per cena visto che, conservando la pelle e
le ossa, il mattino dopo sarebbero stati di nuovo vivi.
Nelle sue soventi scorrerie era spesso accompagnato da Loki.
Nel corso del Ragnarök, Thor ucciderà e
sarà ucciso da Miðgarðsormr, il serpente di Miðgarðr
(la Terra): Thor ucciderà il serpente, ma, ammorbato dal suo soffio velenoso,
farà solo nove passi prima di cadere a sua volta a terra morto.
L'eccezionale diffusione del suo culto portarono a tradurre il nome del giorno
a lui consacrato nell'antica settimana nordica come dies Jovis,
attribuendogli, così, la stessa importanza e funzione del Giove romano.
Nei suoi
avventurosi viaggi nelle terre dei giganti, Thor è spesso accompagnato da Loki,
il più astuto e malvagio degli dèi. Anche questa avventura ha un suo
antecedente che vede come protagonista il perfido Loki, finito nelle grinfie
di un gigante a causa della sua sfrontatezza. Dopo aver a lungo insistito ed
adoperando tutto il suo doppio eloquio, Loki era riuscito a realizzare uno dei
suoi sogni: aveva convinto la moglie di Odino, Frigg, a prestargli il suo
magico manto di penne di falco. Ora, travestito da improbabile rapace, poteva
sorvolare senza troppi pericoli le terre dei giganti ed esplorare i loro
possedimenti. Così, inseguendo le sue recondite curiosità, il dio pennuto si
era da poco librato in volo ed assaporava l'ebbrezza di quella celestiale
nuova dimensione, quando scorse il palazzo di Geirrddhr.il
potente re dei giganti.
Sentendosi sufficientemente protetto dal suo travestimento, Loki si affacciò
ad una finestra del palazzo reale e, attratto dallo spettacolo fastoso della
corte, penetrò nell'immenso salone. Pensava che, volando in alto, forse non si
sarebbero nemmeno accorti di lui. Ma quell'insolito e goffo uccellaccio non
poteva certo passare inosservato: fu proprio Geirrddhr a
scorgerlo per primo, ordinandone immediatamente la cattura. Allora un
servitore, un vero e proprio colosso, iniziò a rincorrere lo strano volatile.
Ma Loki, signore assoluto del dispetto, si divertiva a sfuggirgli, volando da
un punto all'altro della sconfinata sala, facendo disperare il suo
inseguitore. Alla fine però il gigante riuscì a bloccare con una presa
micidiale i piedi del dio che, ormai, non sghignazzava più. Immobilizzato e
reso del tutto inoffensivo, il misterioso intruso fu condotto al cospetto di
Geirrddhr. Il gigantesco sovrano squadrò dall'alto verso il basso l'impacciato
volatile e, in un attimo, comprese che si trattava di un sortilegio, un
incantesimo che aveva dotato di ali quell'essere venuto da chissà dove. Il re,
minaccioso e fiero, iniziò ad interrogare il prigioniero, ma Loki rifiutava di
rispondergli e, con somma sfacciataggine, si divertiva a prenderlo in giro.
Irritato ed offeso, Geirrddhr lo fece rinchiudere in una cassa: senza un
briciolo di commiserazione, lo lasciò inarcire nell'angusta prigione per tre
mesi senza alcun cibo. Dopo la spossante prigionia ed il digiuno forzato Loki
perse gran parte della sua baldanza, ma non la sua astuzia; rivelò al re la
sua vera identità e, tendendogli una trappola a cui aveva pensato a lungo, gli
promise di condurre nei suoi territori, pronto ad essere catturato, il
principale nemico dei giganti, Thor. Geirrodhr, pensando che gli
sarebbe stato facile liquidare Thor se questi avesse messo piede nella sua
regione, fece liberare Loki. Intanto il maestoso signore dei tuono, chiamato
da Loki, si era già messo in cammino ed aveva varcato da un pezzo le frontiere
dello Jótunheim. Stanco del cammino, aveva chiesto ed ottenuto
ospitalità da una sua amica, la gigantessa Gridhr, madre di
Vidhar, detto il «silenzioso». La gigantessa, che nutriva una
profonda simpatia per il dio dalle chiome fulve, mise in guardia il suo ospite
e gli svelò i progetti del re. Inoltre, spinta da una naturale antipatia nei
confronti dì Geirrbdhr, la padrona di casa gli donò dei
portentosi oggetti: una cintura magica capace di raddoppiare la forza
muscolare di chi l'indossava; un paio di guanti di ferro, ma
morbidi e comodi da calzare; infine un bastone durissimo, il famoso
Gridharvoir, il «bastone di Gridhr». L'indomani, forte delle sue nuove
armi, Thor si avviò verso la reggia di Geirrddhr. Lungo la via si trovò a
dover guadare il fiume Vimur, che segnava il confine con le
terre del gigante. Sostenendosi su Oridhavdlr, ben piantato nel letto del
fiume, Thor entrò nelle acque gelide, sfidando le insidiose correnti. Ma
giunto proprio al centro del fiume, il livello dell'acqua sali paurosamente,
minacciando di travolgere il dio. Volgendosi a monte per scoprire la causa del
repentino aumento di pressione, Thor scorse Gjalp, una delle
figlie del re dei giganti, che sedeva a cavalcioni sul corso d'acqua.
Qualcuno, forse esagerando, raccontava che la colossale fanciulla stava
orinando e qualcun altro aggiungeva che, colmo delle nefandezze, versava il
suo copioso flusso mestruale nelle acque limacciose. In ogni caso, l'ira di
Thor non tardò a manifestarsi in tutta la sua potenza: il dio afferrò un
enorme macigno dal greto del fiume e urlando irripetibili imprecazioni lo
scagliò contro la giovane maleducata. Poi, per salvarsi dalla massa d'acqua
che stava per sommergerlo, si aggrappò ai rami di un sorbo che sporgevano
dalla riva e guadagnò rapidamente la sponda opposta, mettendosi in salvo.

Thor con Gjalp, una delle figlie del re dei giganti, che siede a cavalcioni sul corso d'acqua per sommergerlo
E proprio per questo motivo che il sorbo, provvidenziale salvatore dei dio, era oggetto di particolare venerazione da parte dei devoti di Thor. Ed inoltre, ricordando anch'essi tale episodio, gli antichi poeti nordici chiamavano l'albero il «salvatore di Thor». Superata la prima imboscata tesagli da Geirrddhr, il dio del tuono giunse alla corte del gigante. A quanto sembra, Thor non fu accolto con gli onori dovuti al suo rango: come dimora notturna gli offrirono un misero ovile, dove, sicuramente, lo attendevano altri tranelli. Ma, accettando la tacita sfida, il dio si recò nel poco divino alloggio. Qui, come indegno letto, trovò solo uno scomodo e duro seggio sul quale, ormai sempre più sospettoso, si accasciò esausto. Dopo un po', come per sortilegio, il pesante sedile iniziò ad alzarsi velocemente: sicuramente si trattava di un vile stratagemma per schiacciare contro il soffitto l'ignaro ospite. Thor, però, subito si rese conto della macabra macchinazione e, cingendosi con la portentosa cintura donatagli da Gridhr, puntò il bastone contro le travi del soffitto, riuscendo così a bloccare la micidiale ascensione. Quando ripiombò di colpo con tutto il suo peso sul seggio, Thor udì un tremendo boato e urla agghiaccianti: sotto il sedile si erano nascoste le figlie di Geirródhr, Gjalp e Greip, facendo da gigantesche leve in carne ed ossa a quefl'orrendo meccanismo di morte da loro architettato. Ma il contraccolpo provocato dalla repentina caduta di Thor aveva sfracellato le schiene delle scellerate attentatrici. li giorno dopo, come se nulla fosse accaduto, Thor venne invitato dal re a visitare il suo palazzo. Nell'immensa sala del trono ardevano enormi bracieri su cui erano poste pesanti sbarre di ferro, incandescenti attrezzi destinati ad esibizioni di coraggio e potenza da parte di intrepidi guerrieri. Thor, vedendo quei fuochi, pensò che il gigante aveva abbandonato i vili trabocchetti ed intendeva sfidarlo in qualche gara o invitarlo a battersi con qualcuno dei suoi campioni. Abbandonata per un attimo la sua diffidenza, il «dio rosso» si avvicinò al trono. All'improvviso, dando ancora una volta prova della sua viltà, Geirródhr scagliò con violenza contro il suo ospite una spessa sbarra incandescente, tentando di coglierlo di sorpresa. Ma i riflessi di Thor erano scattanti come saette: le sue mani, avvolte nei guanti di ferro, afferrarono il pesante proiettile, bloccandolo in una presa decisa. Il gigante, ormai preda del panico, sradicò dalle fondamenta del palazzo una colonna di ferro e la lanciò contro il dio: anche questa volta Thor parò il colpo e, ormai stanco e disgustato, afferrò con entrambe le mani la massiccia colonna e la scagliò nell'angolo dove si era nascosto il ì,e. Non si era mai udito, in quelle terre, un boato cosi terrificante: l'immenso palazzo crollò, seppellendo sotto un mare di calcinacci l'imprudente re che aveva osato sfidare il più forte degli Asi.
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Giovane
baldanzoso ed impaziente di sfogare la sua vitalità, Thor non
riusciva mai a stare fermo. Sempre in giro per il mondo, ricercava
continuamente occasioni per mostrare la sua forza ed affrontare i suoi nemici
principali, personificazioni del male di questa terra: i giganti ed i mostri.
Questo lo spirito che lo animava quando, alle prime luci dell'alba, era
partito senza il suo seguito con il fermo proposito di catturare il serpe del
mondo, stanandolo dagli abissi marini. Dopo aver marciato tutto il giorno, il
dio giunse, stanco ed affamato, presso la dimora del gigante Hymir:
chiese ed ottenne ospitalità per la notte. All'alba, quando era ancora a
letto, Thor sentì dei rumori: il gigante, come era solito fare, si preparava
per andare a pescare. L'intrepido giovane dalla barba rossa - tale l'aspetto
di Thor - si avvicinò a Hymir e, con tono deciso, si offrì di accompagnarlo.
Un poco infastidito dall'ardire dell'intraprendente giovanotto, Hymir gli
rispose che era ancora acerbo per simili faccende «da grandi»: senza dubbio,
una volta in alto mare, avrebbe avuto paura delle montagne d'acqua rovesciate
dall'occano durante la burrasca. Il potente signore del tuono, irritato da
tanta arroganza, a stento represse la sua collera rinunciando a mettere mano
al suo martello, e pensando al suo obiettivo principale, ribatté che non
sarebbe stato certamente lui a chiedere di tornare a terra. Il gigante,
sorpreso e divertito da tanta giovanile spavalderia, accettò di portarlo con
sé, dicendogli che i marosi avrebbero ridimensionato la sua irruenza. Allora
il novello pescatore, volendo attrezzarsi nel modo migliore, chiese al gigante
quale era l'esca più adatta. Hymir, prendendolo bonariamente in giro, gli
indicò una mandria di buoi che stava pascolando li vicino. Ma Thor non si
perse d'animo e supponendo che l'esca migliore fosse una testa di bue,
decapitò l'esemplare più grande e bello, un bue famoso con il nome
Himinhr-jodhr, «nato dal cielo».
Con il macabro trofeo ancora sanguinante sotto il braccio, Thor si recò al
porto, dove il gigante lo aspettava a bordo della sua barca. Le braccia
possenti di Thor spinsero presto l'imbarcazione al largo e, giunti sul tratto
di mare dove era solito pescare le sogliole, Hymir gli ordinò di
tirare i remi in barca. Ma il giovane rifiutò: erano ancora troppo vicini alla
costa, disse; e remando con rinnovata lena condusse l'imbarcazione dove mai si
erano avventurati giganti o uomini. Intanto Hymir, pensando anche alla propria
pelle, mise in guardia il barbuto: da quelle parti potevano incontrare il
serpe del mondo e morire orrendamente stritolati tra le sue spire. Ma Thor non
volle sentire ragioni e, come un forsennato, remò fino a quando non ebbe più
fiato e gettò l'ancora. Le mani nodose abituate a stringere Mjòlnir,
tenevano ora, ben salda, una lunghissima canna, robusta e flessibile, alla cui
estremità pendeva un amo massiccio. Thor prese dal fondo della barca la testa
bovina e, sotto lo sguardo raccapricciato di Hymir, la conficcò sulla punta
affilata dell'amo. Poi con un fenomenale lancio gettò l'esca sanguinoienta
nelle profondità occaniche. Attratto dal sangue ed accettando la sfida che
quell'insolita esca rappresentava, il serpe dei mondo, dopo un po', abboccò
all'amo. E mancò poco che il primo strattone della bestia arpionata non
trascinasse nelle acque gelide il divino pescatore. Tutt'intorno l'azzurro del
mare era sparito lasciando il posto ad una spuma incolore emersa dà mostro
ferito che si dimenava furiosamente, alzando altissime ondate. Ma, pur
scorticandosi i polsi per non mollare la presa, Thor riusci a tirare a bordo
il mostruoso serpente.

Thor cerca di tirare a bordo il mostruoso serpe del mondo, sul fondo della barca il gigante Himir guarda spaventato
Hymir, che
aveva assistito terrorizzato a quella spaventosa scena, subendo impotente le
gigantesche ondate pregne del malefico secreto del serpe, tagliò la lenza:
ormai era preda del panico più assoluto. Prima che il mostro si inabissasse,
Thor riuscì ad afferrare il suo martello e a scagliarglielo sulla testa. Ma fu
inutile: il rettile scomparve tra i fiutti. Thor, pieno di rabbia, vedendo
andare in fumo tutti i suoi sforzi, si scagliò contro il gigante che, con il
suo vile gesto, gli aveva impedito di raggiungere il suo scopo: lo colpì
sdegnosamente con un pugno, proprio su un orecchio. La potenza del colpo di
Thor fu tale che si vide la testa dei gigante staccarsi dal collo e volare
fuori dall'imbarcazione, divenendo preda di pesci e mostri marini. Ma la sfida
con il serpe del mondo era solo stata rimandata.
Narrazione sapidamente burlesca., con delle punte grottesche esitaranti, il racconto che segue presenta l'altra faccia di Thor. Gigante burbero e violento, il signore del tuono è talvolta un personaggio bonario e bonaccione, fino ad assumere i contorni di una vera e propria figura comica. Tuttavia, anche in questo caso, complessi e stratificati appaiono i piani simbolici collegabili ad altre lontane tradizioni (il motivo del travestimento femminile del dio, ad esempio). Quella mattina Thor era nervosissimo: si era appena svegliato e non trovava più il suo martello, il prodigioso Mjóinir. Il sangue, simile ai frutti tempestosi di un fiume in piena, scorreva impetuoso nelle sue vene: tremende vampate gli salivano alla testa, rosseggiando ancor di più la fulva chioma. Preda di una rabbia smisurata, furibondo come non mai, Thor tormentava con le possenti mani nodose la sua barba, scuotendola ed attorcigliandola senza sosta. I suoi passi rintronavano in tutta Asgardh causando spaventosi terremoti che, terribile eco dell'ira divina, scuotevano anche la terra. Infine, con un urlo bestiale, sonora propaggine della sua disperazione, Thor chiamò Loki, il signore d'ogni astuzia, l'unico che poteva aiutarlo a scoprire l'autore del sacrilego furto. Esperto negli inganni e conoscitore profondo della malvagità, Loki capi subito che il colpevole era da ricercarsi nello Jótunheim, la terra dei giganti. Senza perdere un attimo i due si recarono dalla bellissima Freya per chiederle il suo manto fatato, il prezioso mantello di piume di falco: indossando quell'abito straordinario, Loki avrebbe potuto alzarsi in volo e, sfrecciando alto nei cieli come un potente rapace, giungere più rapidamente che mai nelle regioni dei giganti, indagare e scoprire il ladro. Freya, ben comprendendo l'importanza di Mjólnir, strenuo difensore della sicurezza degli dèi e degli uomini, prestò volentieri il suo manto. Indossatolo, Loki, spiccò il volo e, dopo un po', già sorvolava i territori nemici. Su un colle, intento a pavoneggiarsi con i suoi cani, leggiadre bestie con guinzagli.d'oro, era seduto Thrym, «rumoroso», un re molto potente. Intuendo la missione dell'alato investigatore, Thrym, con malcelata ironia, chiese a Loki se tutto andasse bene lassù tra gli dèi. L'astuto inviato divino capì immediatamente che aveva davanti a sé il colpevole e rompendo gli indugi, gli raccontò dell'ira di Thor e, tentando di spaventarlo, dei suoi propositi di vendetta. Ma il gigante, accarezzando con sussiego le criniere di alcuni suoi cavalli, gli confessò di aver sotterrato il sacro martello nelle profondità della terra, in un luogo a lui solo noto. Thrym, sentendosi al sicuro, aggiunse che mai gli dèi lo avrebbero riavuto se non quando gli avessero concesso come sposa l'affascinante signora d'ogni beltà: Freya. La missione di Loki era terminata: il dio pennuto volò velocemente verso Asgardh, portando le tristi notizie. Il primo ad avvistarlo, quando ancora non era atterrato, fu proprio l'affranto Thor che, impaziente di conoscere l'esito della missione, si fece gridare ogni cosa dall'alto. Subito dopo, insieme a Loki, Thor si recò da Freya per implorarla di accettare l'offerta di matrimonio. Ma la dea, indignatissima, rifiutò: come avevano potuto solo pensare che lei, la più avvenente delle dee, avrebbe potuto sposare un gigante? Freya era davvero fuori di sé, si agitava nervosamente, indispettita per l'affronto subito e, coinvolta anch'essa dalla foga motoria divina, persino la collana Brisingamen, lo splendido gioiello che ornava il collo della dea, sobbalzò e si ruppe. La bellissima Freya non avrebbe mai accettato: bisognava convocare l'assemblea divina ed escogitare un piano per recuperare Mjólnir. Il sacro concilio si riunì: il saggio Heimdailr, il più chiaro tra gli Asi, propose che Thor, travestito da Freya, si recasse tra i giganti e, sfruttando l'opportunità offertagli dal travestimento, riprendesse il maltolto. li signore del tuono si dimostrò poco felice della proposta; temeva lo scherno: lui, il possente Thor vestito da femmina! Ma Loki, che con la sua somma conoscenza di ogni tranello aveva capito come quello fosse l'unico modo per riavere il martello, gli consigliò di accettare: per convincerlo, si offrì di accompagnarlo, vestendosi anch'egli da donna, facendogli da «damigella». Dopo lunghe discussioni Thor, sacrificando la sua reputazione al bene comune, accettò la proposta di Heimdaììr. Si vide allora lo spettacolo davvero inconsueto di un Thor graziosamente agghindato con vestimenti femminili: una lunga tunica, finemente drappeggiata sul suo corpo rnuscoloso, gli giungeva fino alle ginocchia, occultando l'irta peluria rossiccia che adornava le sue poco femminili gambe. Ai fianchi pendevano le chiavi di casa, tintinnante emblema delle virtù muliebri. Le folte chiome divine vennero trattenute con nastri riccamente ornati, tempestati di pietre preziose. A completare l'«addobbo» nuziale, il collo di Thor, soleato da spesse e gonfie vene, fu cinto con la collana di Freya: la messinscena era completa. Le due «fanciulle», goffe ed impacciate nei movimenti - sebbene Loki, più avvezzo a simili truffaldini travestimenti, si muovesse con insospettabile grazia - montarono sul cocchio trainato dai capri e corsero verso la terra dei giganti. In poco tempo giunsero alla corte di Thrym che, ignaro e felice, accolse la promessa sposa e la sua damigella. Poi, desideroso di ben figurare, fece preparare un sontuoso banchetto, adornando con fasto regale le mense. Con la gioia nel cuore, iniziò a fare i primi complimenti alla sposa: disse di possedere mandrie intere di buoi dal pelo nero e dalle corna d'oro ed altre smìsurate ricchezze, ma nessuna poteva eguagliare il valore della sua bellezza. Intanto il banchetto era iniziato e, con grande stupore del gigante, la «fanciulla» divorò in un baleno un bue intero, otto salmoni ed una montagna di altre leccornie, il tutto abbondantemente innaffiato con tre botti di idromele tracannate in un solo sorso. Mai si era vista una gentile donzella trangugiare una simile quantità di cibo: il re manifestò apertamente la sua sorpresa ed i suoi dubbi sulla «femminilità» della fidanzata. Ma la «serva» - l'astuto Loki - fu lesta e, sfoderando tutta la sua malizia, disse che la sposa non aveva toccato cibo da una settimana, tanto era emozionata ed onorata dall'offerta di matrimonio di un tale signore. Soddisfatto ed orgoglioso per quella «prova d'amore», Thrym si accostò all'amata tentando di carpirle un dolce bacio: nello scostare il velo che le celava il volto, però, il re fu spaventato dal suo sguardo, da quegli occhi rossi come tizzoni ardenti. Thrym sobbalzò all'indietro. Anche questa volta la devota damigella fornì una lusinghiera spiegazione: la «verginella», impaziente di conoscere lo sposo, non aveva chiuso occhio da una settimana, ecco perché i suoi occhi erano arrossati in quel modo. Cosi, grazie "a spudoratezza di Loki, la truffa non fu scoperta e, giunto ormai il banchetto a termine, Thrym diede ordine di iniziare la cerimonia nuziale. Fu portato il sacro martello Mjdlnir che, secondo le antichissirne usanze, doveva essere posto sul grembo della sposa per augurarle prosperità e fecondità. Alla vista dei suo martello Thor sorrise e, afferratolo con entrambe le mani, abbandonò il travestimento muliebre seminando morte e distruzione tutt'intorno. Ovviamente il primo micidiale colpo fu riservato all'incauto Thrym, beffato e punito per la sua arroganza ed ingenuità.

Thor si scaglia contro thrym con il suo Mjóinir che proprio da lui era stato sottratto
Il
cielo rumoreggiava paurosamente e la terra era battuta da violenti temporali:
il carro di Thor, trainato dai fenomenali capri, stava
dirigendosi ancora una volta nella terra dei giganti. Spinti dalla noia,
Thor ed il suo inseparabile compagno di viaggi, Loki,
erano partiti da Asgardh alle prime luci dell'alba per
un'ennesima avventura. A sera, spossati dalla fatica del lungo viaggio, i due
divini viandanti giunsero nei pressi della casa di un umile contadino. Qui,
desiderosi solo di riposarsi e di rifocillarsi, decisero di passare la notte.
Poco più tardi - era quasi ora di cena - l'imponente signore del tuono prese i
suoi due magnifici capri e con un colpo secco li uccise. Dopo averli
accuratamente scuoiati con un affilatissimo coltello, badando a non intaccarne
la pelliccia, Thor li immerse in una enorme pentola, occupandosi personalmente
della loro cottura. Quando i due animali furono cotti a puntino, Thor invitò a
cenare con lui il contadino, sua moglie ed i loro due figli, Thialfi,
detto il «veloce», e Róskva. I commensali dei dio, che avevano
assistito a tutta la scena in un comprensibile stato di stupore frammisto a
paura, mangiarono con vigoroso appetito quella carne tenera e dolce come mai
in vita loro ne avevano assaggiata: fu davvero un banchetto divino, dono di un
dio potente, ma generoso e benevolo con i contadini suoi devoti. Dopo
mangiato, Thor stese le pelli caprine dinanzi al fuoco ed ordinò ai commensali
di adagiarvi sopra ogni singolo osso, anche il più minuscolo, senza
frantumarli o scheggiarli. Il misterioso ordine del dio venne eseguito
scrupolosamente e, così, illuminato dal chiarore del focolare, si vide un bel
mucchio di ossi ben spolpati. li giovane Thialfi, forse per
gustare il midollo, aveva inciso con la lama del suo coltello il fernore di un
animale, ma nessuno se ne era accorto. E i contadini, dopo aver ringraziato il
dio, andarono a dormire. L'indomani, prima che i passeri si alzassero in volo,
Thor si svegliò: afferrò il suo martello Mjólnir e si avvicinò
al cumulo d'ossi lasciato la sera prima. Avvolto nel solitario silenzio
mattutino, il dio iniziò a calpestare le pelli ed il loro carico osseo,
pronunziando delle incomprensibili e misteriose litanie. Un istante dopo, in
virtù di un inspiegabile prodigio, i cadavericì resti si animarono e due
splendidi animali balzarono in piedi, colmi di una magica vitalità. Uno dei
capri, però, zoppicava vistosamente: sicuramente qualche sciagurato commensale
non aveva seguito le istruzioni divine, compromettendo la completa riuscita
del rituale.
Colmo d'ira, addolorato per la menomazione di uno dei suoi amati capri,
Thor iniziò ad imprecare furiosamente ad alta voce. Le nocchie delle sue mani,
che stringevano rabbiosamente il corto manico di Mjólnir, erano
diventate bianchissime; i suoi occhi rossi emettevano scintille; il silenzio
mattutino fu squarciato da cupi rimbombi, sonora manifestazione dell'ira
divina. Il sonno dei contadini fu bruscamente interrotto: tremante e pallido,
temendo per la sua vita e per quella dei familiari, il povero capofamiglia si
gettò ai piedi di Thor, implorando il suo perdono e promettendogli tutti i
suoi averi. Il signore del tucno, dimostrando ancora una volta la sua
benevolenza nei confronti dei contadini, accettò, ma, prendendo alla lettera
le parole del vecchio, prese Thialfi e Rdskva che, da allora in poi, divennero
i suoi fedeli servitori. Lasciati i capri, ormai inutilizzabili, Thor e Loki
continuarono a piedi il loro viaggio verso l'estremo oriente: Thialfi, che era
il più veloce e forte, prese sulle sue spalle lo zaino con le provviste. Dopo
una giornata di estenuante cammino, i quattro giunsero in prossimità della
costa. Dinanzi a loro c'era l'immensa distesa oceanica: senza perdersi
d'animo, fabbricarono una barca e presero il lago. Non fu certo facile
governare il rudimentale vascello tra le gigantesche ondate; tuttavia, dopo
ore di perigliosa navigazione, avvistarono la costa e, animati da un tenace
spirito d'avventura, sbarcarono. Senza nemmeno un attimo di incertezza, i
quattro si incamminarono, proseguendo in quella terra sconosciuta il viaggio
verso oriente. Quasì senza accorgersene, tanto era il loro entusiasmo, dopo un
po' si trovarono circondati da giganteschi alberi, completamente accerchiati
dall'oscurità di una fittissinia foresta. Per quanto tentassero di scorgere il
cielo tra le chiome degli alberi, essi non riuscivano a vedere la luce del
sole. Marciarono per ore ed ore, fino a quando, esausti, pensarono di trovare
un rifugio per la notte. Scoperto un anfratto seminascosto dagli arbusti, vi
penetrarono: come d'incanto si trovarono al centro di un'immensa sala,
l'ideale per passare la notte. Ma non dormirono molto: verso mezzanotte
sentirono la terra tremare sotto i loro piedi come se fosse preda di un
violento terremoto. Le pareti della sala, che sembravano solidissime,
ondeggiavano come foglie al vento. In preda al panico, Thor e compagni si
alzarono di soprassalto, correndo in ogni direzione, nel disperato tentativo
di trovare una via d'uscita per sfuggire a quella micidiale trappola. Sulla
destra scorsero un'altra sala, un po' più piccola di quella da cui erano
fuggiti, e, visto che il terremoto sembrava finito, si accasciarono, stanchi
ed ancora impauriti, davanti alla sua entrata. Ma Thor, per tutta la notte,
non cessò di abbracciare il suo rnartello. La mattina dopo Thor si alzò e con
estrema cautela usci a perlustrare i dintorni. Fatti pochi passi, il dio si
accorse che, proprio vicino al loro rifugio notturno, stava dormendo un
gigante che russava come un colossale maiale. Thor, ascoltando quell'insolita
musica corporale, si rammentò degli strani rumori che aveva sentito durante la
notte insonne. Il dio capi che bisognava stare all'erta e, per prepararsi ad
ogni spiacevole evenienza, indossò la sua magica cintura. Proprio in quel
momento la terra fu scossa da un altro fortissimo terremoto: il gigante si era
svegliato! La sua indole ed imponenza spaventarono il pur maestoso dio dei
tuono che, con un fil di voce, gli chiese chi era e come si chiamasse. Il
gigante, un po' sorpreso, disse di chiamarsi Skrimir, «vasto», e
in tono scherzoso gli chiese, indicando la dimora notturna del dio, perché mai
avessero preso il suo guanto. Thor, sempre più stupefatto, capi che la
maestosa dimora nella quale avevano trovato riparo la notte altro non era che
il guanto del gigante e quella sala a destra era l'incavo per il pollice!

Thor, Loki Thialfi e Rdskva passano la notte nel guanto del gigante Skrimir
Thor era spaventatissimo: la sua forza e potenza gli sembravano ben poca cosa di fronte alla statura di un così maestoso gigante. E quando Skrimir propose loro di fare un tratto di strada insieme e di mettere in comune le provviste non gli rimase che accettare. Thialfi svuotò lo zaino divino nella bisaccia del gigante e, contrariati ma impotenti, ripresero la marcia. Skrimir, con le sue poderose falcate, era sempre davanti: i quattro, con il loro passo abituale, facevano doppia fatica solo a stargli dietro. Finalmente, dopo parecchie ore di quella tortura, il gigante si fermò e disse che voleva riposarsi un po'. Trovata una quercia di proporzioni adatte alla sua corporatura, Skrimir si sdraiò ai suoi piedi ed iniziò subito a ronfare, producendo quella musica terrificante che Thor e compagni ben conoscevano. Affamati e spossati, i quattro pensarono di aprire la bisaccia del gigante e di servirsi la cena. Ma i nodi fatti da Skrimir erano così stretti che, incredibile a dirsi, nemmeno la potenza del più forte tra gli dèi riuscì ad allentarli. Era veramente troppo! Thor, sentendosi beffato, afferrò il suo martello a due mani e, con rabbioso sdegno, colpi il gigante sulla testa. Skrimir, ricevuto il colpo che avrebbe frantumato qualsiasi cranio, si svegliò borbottando, un poco infastidito, che una foglia gli aveva disturbato il sonno andando a cadere proprio sulla sua testa. E vedendo i quattro svegli intorno a lui disse loro, indicando la bisaccia, di servirsi pure. A Thor ed ai suoi compagni non restò che avviarsi mogi mogi ai piedi di un albero e di rassegnarsi a dormire a stomaco vuoto. Ma Thor non poteva chiudere occhio: l'assordante ronfare del gigante gli rammentava l'insopportabile affronto subito. E, nel mezzo della notte, il dio ritornò alla carica: afferrò il martello e, con tutta la forza che aveva in corpo, colpi la nuca di Skrimir. Anche se aveva sentito chiaramente affondare il martello nella carne del gigante, Thor subì un'ulteriore umiliazione. Il solo deludente risultato fu di risvegliare il gigante che, questa volta, si lamentò perché, a suo dire, una ghianda gli era caduta sulla nuca, distogliendolo dai suoi sogni beati. Ancora una volta Thor aveva fallito miseramente: a nulla erano valsi la sua forza ed il suo consistente

Thor, Loki Thialfi e Rdskva in viaggio con il l gigante Skrimir
armamentario magico. Ma un dio non poteva arrendersi a nessuno, tanto meno ad un gigante: Thor aspettò che Skrimir riprendesse a russare per sferrare un terzo attacco. E quando, dopo un po', si riudì l'animalesco respiro, Thor, con tutta la forza rimastagli nei muscoli, vibrò un tremendo colpo sulle teinpie del gigante. li dio pensò di avercela finalmente fatta: aveva sentito il martello affondare fino al manico nel cranio del suo nemico. Ma con sommo stupore e disperazione Thor dovette assistere all'ennesimo smacco: Skrimir si destò, seccamente contrariato, lamentandosi che evidentemente non era possibile dormire in pace in quel posto, visto che ora degli uccelli gli avevano defecato in testa. Ormai albeggiava e, siccome doveva andare in un'altra direzione, il gigante si congedò dai quattro. Ma prima di proseguire per la sua strada, Skrimir rammentò loro che la terra verso la quale erano diretti era abitata da esseri ben più grandi di lui, che mal avrebbero sopportato l'insolenza di quattro nanerottoli: forse, aggiunse, era meglio se ritornavano sui loro passi. Benché fossero notevolmente spaventati, i quattro viandanti non persero il loro entusiasmo iniziale e, tirato un respiro di sollievo per la partenza di Skrimir, si rimisero in marcia. Trascorsero altre ore in mezzo alla foresta finché avvistarono una fortezza che si stagliava maestosa in mezzo ad una radura: non riuscivano a scorgere il tetto dell'imponente costruzione che, quasi come un nido d'aquila, era posta su un'altissima rocca. Impiegarono diverse ore ad arrivare ai piedi della rocca ed altrettante a scalarla, giungendo davanti alla porta principale stremati dalla fatica. L'accesso alla fortezza era sbarrato da una spessa inferriata che tentarono invano di smuovere: alla fine furono costretti a sgusciare come gatti tra le sbarre, penetrando poco valorosamente in uno sconfinato cortile. L'immenso spiazzo era dominato da un palazzo che proiettava la sua ombra fin oltre le mura della roccaforte. Indugiando, ma curiosi di scoprire a chi appartenesse, i quattro, approfittando di una porta socchiusa, vi entrarono: era la dimora del più potente re dei giganti, Utgardh-Loki, «Loki del recinto esterno». Sebbene si dessero da fare agitando freneticamente le braccia per rendere il dovuto omaggio al re, nessuno dei numerosi giganti che affollavano il salone regale li scorse. Solo dopo molti sforzi il re si accorse degli intrusi. Riconobbe dal martello e dal rosso dei capelli il signore del tuono ed espresse la sua meraviglia: possibile che quel minuscolo essere fosse il famoso Thor, il più forte degli dèi? Certamente le sue doti, pensava ad alta voce, si celavano sotto l'apparente debolezza: in ogni caso presto avrebbe potuto mostrarle. Il re spiegò ai visitatori che era usanza locale allietare la corte con prove di coraggio e quindi chiese loro di lanciare delle sfide ai suoi campioni. Il primo a farsi avanti fu Loki che, pensando di non avere rivale in tale specialità, sfidò chiunque a mangiare più in fretta di lui un'enorme quantità di cibo. Utgardh-Loki ritenne la proposta abbastanza divertente, anche se non era una vera e propria gara di coraggio, e fece venire un suo suddito, Logi, «fuoco selvaggio». Seduti uno dì fronte all'altro ad una tavola riccarnente imbandita, i due campioni diedero inizio alla gara, trangugiando a più non posso decine di portate. In breve tempo sulla tavola non rimase più nulla di commestibile, ma mentre Loki aveva mangiato tutta la carne lasciando solo gli ossi spolpati, il suo sfidante aveva divorato anche le ossa e, se non lo avessero fermato, avrebbe mangiato anche il tavolo e le suppellettili. Tutta la maestria di Loki nell'imbastìre tranelli e tendere trappole non era servita a nulla: umiliato dall'evidente sconfitta, il dio si ritirò, senza dire una parola, in un angolo. Il giovane Thialfi, pensando che non a caso era famoso con il soprannome di «veloce», chiese al re se uno dei suoi campioni era disposto a correre contro di lui in una gara di velocità. Utgardh-Loki, nonostante che la sfida provenisse da un ragazzo, convocò Hugi, «pensiero», ordinandogli di misurarsi con Thialfi. Poco più tardi, il re con tutta la sua fastosa corte ed i quattro ospiti si trasferirono su di una magnifica pista, creata apposta per simili competizioni: si stabili di fare tre prove, cosieché venisse premiata anche la resistenza. La prima gara fu vinta da Hugi che surclassò il giovane, infliggendogli una clamorosa sconfitta. La seconda volta, incitato dai suoi compagni e volendo riparare alla precedente sconfitta, Thialfi impegnò tutte le sue energie. Ma anche questa volta Hugi arrivò primo al traguardo e, tanto era il suo vantaggio, si fermò ad attenderlo. L'ultima prova dimostrò definitivamente che Hugi era di gran lunga il più veloce: tagliato il traguardo il campione reale ebbe il fiato per tornare indietro ed incitare Thialfi che ancora non si era mosso. Utgardh-Loki si rivolse, con il tono beffardo del vincitore, a Thor chiedendogli in quale prova desiderasse cimentarsi per mostrare le sue doti. Il signore del tuono, irritato per tanta insolenza, stava per mettere mano al suo martello: ma, ricordandosi delle magre figure fatte contro Skrimir, disse che nessuno sarebbe stato in grado di bere più di lui. Allora il re fece portare il corno dal quale era solito bere nelle occasioni ufficìali. Porgendolo a Thor disse che, in quella terra, era considerato un buon bevitore chi riusciva a scolarne il contenuto in un sol colpo; chi aveva bisogno di due manches era un semplice bevitore: ma, aggiunse, anche i bambini tracannavano l'intero contenuto in tre volte. Thor afferrò l'insolito calice: a prima vista non sembrava molto capace, ma era di lunghezza eccezionale. Il dio prese a bere con foga e smise solo quando sentì mancargli il respiro: era convinto di aver tracannato tutto il liquido contenuto nel corno. Ma con enorme stupore dovette constatare, su invito del sempre più divertito re, che il livello dei liquido era lo stesso di prima. Senza riposarsi un attimo, Thor afferrò di nuovo il corno e bevve più che potè. Quando si fermò era convinto di averlo definitivamente prosciugato: invece il liquido era ancora tutto lì dentro. Il re continuava a prendersi gioco di Thor, stuzzicandolo con apprezzamenti certo poco onorevoli. Punto nell'orgoglio, il dio non si lasciò prendere dallo sconforto e con caparbietà riprese a bere spasmodicamente, deciso a farla finita: "a fine guardò il corno e, accortosi che il livello del liquido era sceso solo di qualche linea, lo gettò lontano con rabbia.

Thor beve dal corno fatato di Utgard il
Anche il
più forte degli dèi, il difensore di Asgardh, aveva fallito, ma non si dava
per vinto: chiese al re di dargli un'altra possibilità per dimostrare il suo
valore. Il re, che provava sempre più gusto nell'umiliare Thor e compagni, gli
parlò di un passatempo a cui erano dediti i ragazzi del posto: sollevare il
suo gatto. Utgardh-Loki gli indicò un gatto grigio, piuttosto grosso, che se
ne stava placidamente su una tavola al centro dei salone. Immediatamente Thor
si avvicinò al tavolo e tentò di sollevare il felino regale, quasi non
prendendo sul serio quella prova. Ma dopo quel primo approccio semiserio, Thor
impegnò tutte le sue energie: per quanti sforzi facesse, il gatto rimaneva
saldamente ancorato al suo piedistallo. L'unico risultato delle fatiche divine
fu che, alla fine, il gatto sollevò una zampa. Ormai fuori di sé, Thor si
dimenava furiosamente come un leone ferito: voleva fare a pugni con qualcuno,
sfogare la sua rabbia. Il re, continuando nella sua sapiente opera di
demolizione psicologica, osservò che, dopo il suo fallimento anche in un gioco
da ragazzi, nessuno avrebbe ritenuto onorevole battersi contro di lui. Ed
aggiunse, tormentandolo ulteriormente, che forse solo una donna, ed anziana
per di più, avrebbe potuto competere con lui. Apparve allora nella sala una
vecchia zoppicante, smunta e miseramente abbigliata: era l'anziana nutrice
Elli, «vecchiaia». Indispettito per il nuovo pesante affronto, Thor
si scagliò con violenza contro la vecchia, dimenticando le sacre regole dei
duelli. Ma i suoi colpi, i suoi disperati attacchi, non fecero indietreggiare
di un millimetro la vecchia che, anche se con un passo lento, veniva avanti
senza curarsi dei pugni,e dei calci di Thor. Infine si assistette ad uno
spettacolo davvero inconsueto: il più potente degli dèi piegato in ginocchio
davanti ad una vecchia decrepita. Tutte le sfide erano state perse, l'onore
definitivamente compromesso: ai quattro non rimase altra scelta che
accomiatarsi e far ritorno a casa.
Il re, dimostrando la sua magnanimità regale, si offrì come loro guida fino al
confine. Giunti fuori del territorio dei giganti, il re chiese a Thor se era
soddisfatto del viaggio che aveva fatto. Ovviamente il dio rispose che si
sentiva declassato e che ciò non poteva certo fargli piacere. Allora
Utgardh-Loki abbandonò il suo abituale tono di scherno e, quasi volendo
chiedere scusa, confessò d'aver usato dei trucchi per vincere le gare. E,
stupendo l'incredulo Thor, aggiunse che aveva stregato lui ed i suoi compagni
ricorrendo a dei potenti sortilegi, cosicché avevano preso per vero ciò che,
in realtà, era solo il prodotto di allucinazioni indotte magicamente.
Innanzitutto il gigante da loro incontrato nella foresta non era Skrimir, ma
lui stesso che, saputo dell'avvicinarsi di Thor, gli era andato incontro per
saggiarne la forza e studiare una possibile difesa del suo regno. I nodi che
invano avevano tentato di sciogliere erano stati fatti coli un filo di ferro
fatato e sigillati con formule misteriche. E quando Thor credeva di colpire il
gigante, il suo martello si abbatteva sul terreno, provocando spaventosi
terremoti e creando valli e dirupi che avevano modificato l'antico paesaggio.
Anche i compagni del dio erano stati vittime della scaltrezza e della sapienza
magica del re dei giganti. Cosi Loki era stato battuto dalla personificazione
del fuoco selvaggio che, come si sa, divora ogni cosa, senza lasciare nulla.
Il giovane Thialfi poi, sebbene fosse più veloce del vento, non poteva certo
competere con Hugi che altro non era che la materializzazione del pensiero
uìnano. Thor, infine, aveva bevuto da un corno la cui punta era immersa
nell'oceano, cosicché la sua sete non avrebbe mai potuto prosciugare le
distese oceaniche. Tuttavia, con sommo stupore dei giganti, il dio era
riuscito ad abbassare notevolmente il livello del mare, dando origine al
fenomeno delle maree. E naturalmente il gatto non era un gatto, ma il famoso
«serpe del mondo», il gigantesco rettile che avvolgeva nelle sue spire il
globo terrestre: fu un'impresa davvero eccezionale riuscire a fargli sollevare
una zampa. Infine, concluse Utgardh- Loki, la vecchia decrepita contro la
quale si era battuto Thor nell'ultima sfida non poteva certo essere sconfitta:
era la vecchiaia. E contro l'inesorabile passare degli anni si può anche
lottare, ma sempre invano, perché nessuno potrà sfuggire al lento decadimento
fisico. Dopo aver svelato i suoi stratagemmi, il re disse che, ora che
conosceva la forza di Thor, non gli avrebbe mai più permesso di entrare nel
suo regno. Proprio nell'attimo in cui il signore del tuono gli scagliò contro
il suo martello, Utgardh-Loki si volatilizzò, scomparendo nel nulla grazie ad
un ennesimo incantesimo.