Mi è capitato di leggere nel luglio scorso (Famiglia Cristiana, n° 30 – luglio 2005) un interessantissimo articolo del noto fisico italiano Antonino Zichichi dal titolo inquietante e paradossale:“non è la chiesa -sulla scienza, oscurantista”. In esso il professor Zichichi intende difendere le posizioni della chiesa cattolica nell’attuale dibattito sull’evoluzionismo: la scienza (tutta intera, come precisa la virgola nel titolo) sarebbe appunto oscurantista, in quanto si ostina a propugnare le teorie di Charles Darwin.
Queste, se ho ben inteso le idee del celebre fisico, non possono godere dello statuto di teorie scientifiche poiché prive dei due requisiti fondamentali della scienza galileiana (oggi accolta e anzi difesa dalla chiesa): il linguaggio rigoroso della matematica e la verificabilità sperimentale. Solo attraverso questo metodo si perviene infatti alla conoscenza delle leggi di natura, che non contemplano alcuna casualità. Se l’uomo fosse figlio del caso infatti non esisterebbero queste leggi scientifiche, ma la loro esistenza, e anzi l’incontrovertibile successo di questo metodo, ci stanno a dimostrare esattamente il contrario. E qualora la scienza, quella vera, arrivasse a spiegare le leggi della materia vivente come ha fatto per quelle della materia non vivente, non sarebbe corretto estendere all’uomo questi risultati: egli infatti è dotato di un prvilegio unico, quello di possedere la ragione. Essa ci ha permesso di scoprire il linguaggio, la logica e, appunto, la scienza. Quest’ultima ci consente di capire l’intima logica che è stata usata per fare il mondo così come noi lo conosciamo. L’evoluzionismo pertanto non è scienza, e invece di perdere tempo a parlarne tanto, gli esponenti della cultura dominante, atea, farebbero meglio piuttosto a cercare di elevarlo al rango di teoria scientificamente valida.
La critica alla scientificità della teoria dell’evoluzione mi è parsa molto stimolante e feconda, eppure le tesi del professore mi hanno lasciato non poche perplessità.
Ridurre innanzitutto la conoscenza scientifica al linguaggio matematico e alla riproducibilità sperimentale mi pare un’arma a doppio taglio. La scienza per vivere ha bisogno di alcuni assunti fondamentali senza i quali non avrebbe neppure senso intraprendere alcuna avventura scientifica: occorre infatti ovviamente ritenere che il mondo naturale sia conoscibile, accessibile alla nostra ragione e perciò in qualche misura razionale, e che la realtà che indaghiamo non sia del tutto un’illusione, ovvero che al di là delle apparenze ingannevoli essa sia realmente vera, e che possiamo pervenire a questa verità attraverso il metodo dell’indagine scientifica (come quello proposto dal professor Zichichi, per esempio). Se non che questi assunti, sfortunatamente, è noto che non sono dimostrabili -né matematicamente né sperimentalmente.
Giungiamo allora al paradosso di dover ritenere che la scienza non è scientifica!
C’è qualcosa che non convince.
Mi ha colpito poi come dalla definizione di legge scientifica (implicitamente) presentata venga del tutto bandito il concetto, e persino l’idea, del caso. Gli ormai sbiaditi studi liceali mi ricordano che fu proprio la fisica moderna, nella prima metà del novecento, a far trionfare l’idea di casualità e di probabilità nelle scienze (e non solo), a partire dal principio di indeterminazione di Heisemberg: non è possibile conoscere contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella subatomica, e siamo condannati ad una conoscenza probabilistica. La certezza scientifica comincia allora a vivere (e, direi, a nutrirsi) della propria stessa incertezza. Al posto dell’algebra e dell’analisi, è la statistica il linguaggio matematico che descrive questo brusco cambiamento di prospettiva (una rivoluzione scientifica, avrebbe detto Khun). Il sentiero aperto allora è un lungo cammino che ha portato a descrizioni matematiche della realtà, come la teoria delle catastrofi, la teoria dei giochi o la logica fuzzy, dove l’indeterminatezza e la casualità entrano nella formulazione stessa delle leggi scientifiche. In altri termini si giunge, da allora, a ciò che oggi viene comunemente chiamata la complessità, variegato regno scientifico dove ormai imperano la non linearità, l’imprevedibilità, e il caso. E’ la scienza dei nostri giorni.
D’altronde se nel processo di origine dell’uomo non comparisse il caso, allora potremmo un giorno stabilire con esattezza tutte le cause che sono dietro a questo fenomeno e, come per un qualsiasi altro fenomeno fisico, date alcune condizioni iniziali potremmo prevedere tutte -o le principali- conseguenze, potremmo cioè prevedere il comportamento umano. Senza il caso, a questa razionalità non resta dunque altro che il determinismo, che è la chiara negazione del libero arbitrio: faccio ciò che le cause necessitano che io faccia, non ciò che io liberamente voglio. E’ certo anche questa un’ipotesi avvincente e degna di considerazione, ma lontana e anzi opposta al credo della chiesa cattolica, che confida tenacemente nel libero arbitrio.
Né potrebbe salvarci dalle maglie della necessità (contro la volontà) la superba illusione di esserne al di fuori perché dotati di un qualche privilegio rispetto agli altri animali: come la ragione stessa ad esempio, caratteristica unica ed irripetibile della nostra specie.
Al di là di considerare che non si capisce perché l’uomo dovrebbe possedere questo privilegio, ci sono appunto ragionevoli dubbi nel ritenerla una caratteristica peculiare della nostra specie, come dimostrano gli stessi studi scientifici sulle facoltà dei nostri antenati più prossimi. Questi sono in grado di avere forme di linguaggio primigenio, di trasmettere conoscenze - fino a creare delle “tradizioni” culturali-, di usare utensili in senso molto ampio, e così via.
E d’altronde se pure la ragione fosse un dono peculiare dell’uomo, come potremmo pretendere di farne il perno che lo eleva al di sopra della natura (determinata e meccanica)?
Allo stesso modo un pipistrello potrebbe reclamare la sua superiorità (perchè di questo si tratta!) in nome del suo radar, o il ghepardo per la sua velocità, o il leone per la sua forza, l’elefante per la sua memoria, la formica per il suo senso civico –ciascuno per una sua caratteristica prevalente, o unica.
Se la polemica contro la teoria dell’evoluzione pretende di ristabilre la superiorità dell’uomo contro quel teologo protestante e scienziato –Darwin- che lo ha ricollocato in mezzo al creato, allora essa non è altro che una delle innumervoli manifestazioni della superbia dell’essere umano, di questo animale che di unico ha forse solo questo.
Se invece ci si vuole soffermare sui problemi che la teoria dell’evoluzione solleva, allora è opportuno cambiare toni, e non rispondere ad uno schiaffo con uno schiaffo (sempre poi che non si abbia cominciato per primi, come forse proprio il povero Galilei ci ricorderebbe).
La teoria dell’evoluzione, dicevamo dunque all’inizio, si presenta priva di una veste matematica. Come mai? La prima e più semplice risposta sembra essere: perché non le serve. Le idee alla base della teoria sono in realtà piuttosto semplici (mutazioni casuali+selezione naturale=evoluzione), e come tali vengono mostrate. Forse potremmo anche sbizzarrirci a inventare un’abito matematico prestigioso per queste semplici idee, ma non faremmo certo buona scienza: somiglieremmo piuttosto agli avvocati, che abbondano di parole quando hanno poche idee, o agli economisti, che per la stessa ragione abbondano di numeri.
Ma forse oggi, dopo la mappatura genetica dell’uomo e con i potenti mezzi di calcolo a disposizione, una versione statistica della teoria dell’evoluzione sarebbe pure immaginabile (non so quanto utile): avendo la mappa genetica si può fare il calcolo (enorme) delle possibili mutazioni, e poi confrontarlo con un modello delle condizioni ambientali ipotizzate. L’interazione fra le continue mutazioni genetiche e il modello ambientale mostrerebbe le possibili evoluzioni, in versione ovviamente semplificata. Sempre che sia un giorno possibile questo non sarebbe altro che lo sviluppo di ciò che fino a oggi la teoria non ha potuto che esprimere con poche parole. Era perciò scienza o no? Io penso di si, nella misura in cui la teoria è stata in grado di mettere insieme efficacemente diverse osservazioni e risultanze separate. D’altronde molte scienze (biologia, geologia, geografia fisica…) nascono come scienze descrittive con un basso contenuto di fornalizzazione matematica, eppure difficilmente potremmo screditarle dal rango di scienze, nemmeno ai loro primi passi.
In quanto all’impossibilità di compiere esperimenti diretti che dimostrino la validità della teoria dell’evoluzione occorre appunto ricordarci che essa è una teoria, e non confonderla con una legge, né con una osservazione o con un risultato di laboratorio. In altre parole una teoria (ogni teoria) è una rete che tiene insieme diverse leggi e risultati sperimentali e osservazioni, e si allontana perciò dalla realtà fisica immediata. Essa può essere confutata a partire proprio da quello che tiene insieme e su cui si fonda: cioè quando si osserva qualcosa di incompatibile con la teoria, o si ottiene un importante risultato in laboratorio, o ancora di più quando si giunge ad una vera e propria legge in contraddizione con l’impianto della teoria. E’ allora che essa inizia a vacillare, fino a che non è sostituita da una nuova teoria in grado di tenere assieme i nuovi risultati, e i precedenti rimasti validi.
Viceversa per la teoria dell’evoluzione esistono continue conferme sperimentali (appunto inevitabilmente indirette): penso ad esempio all’”evoluzione” dei batteri che diventano resistenti agli antibiotici, appunto per selezione naturale, o agli insetti che diventano resistenti agli insetticidi, e così via. Tutto ciò è ormai sufficientemente documentato.
Certo, anche in questi casi non potremo mai smettere di chiederci come mai, perché avviene la variazione casuale, e perché il caso finisca per generare qualcosa di così armoniosamente finalizzato alla sopravvivenza e alla crescita. Qui vi è la scienza, quello strano gioco che non ammette il terrore di camminare nel buio, e che procede animata da una incrollabile curiosità.
Al di fuori di qui c’è solo la battaglia ideologica, il potere, la superbia -in altre parole: la barbarie.
Bruno Moscogiuri
6 ottobre 2005