Testimonianze

Queste testimonianze sono state rese da protagonisti d'eccezione che hanno vissuto direttamente la terribile esperienza.

Ettore Angioni

Dalla prefazione del testo  "Cagliari: una città che non volle morire"

(Racconta della Cagliari del 1943)
[...] Per potersi calare appieno nel clima dell'immane tragedia, varrà la pena di ricordare come i corpi straziati di tanti cittadini, raccolti quotidianamente nei vari quartieri, venissero ammassati su dei camions e trasferiti poi in quel Cimitero di S. Michele, che - ironia della sorte - era stato inaugurato proprio in quei giorni!
Nella maggior parte dei casi neppure era possibile procedere alla identificazione dei cadaveri, tant'è che - per dare sepoltura ai miseri resti - ci si trovò costretti a scavare una grande fossa comune.[...]

In quella fossa, anni dopo, è stata sistemata una gigantesca scultura bronzea, opera dell'artista Tore Pintus, realizzata per onorare e ricordare le vittime civili dei bombardamenti. Alla base del monumento si trova una lapide, che reca inciso un brano del racconto effettuato nel dopoguerra da uno dei becchiniche avevano scavato l'anonima tomba; queste le esatte parole:"Quando venne il momento di calarli nella fossa cercammo almeno lenzuola per avvolgere quei corpi straziati. Non ne trovammo abbastanza. Allora le strappammo e ne facemmo riquadri come fazzoletti: li mettemmo sulle facce dei morti prima che calce e terra li ricoprissero per sempre."


Giuseppe Dessì

UNA GIORNATA DI PRIMAVERA

(Sardegna 1940-45. La guerra, le bombe, la libertà. I drammi e le speranze nel racconto di chi c'era)

[…] eravamo nella primavera del 1943 […]
[…] l'isola, quando scoppiò quella straordinaria primavera, era piena di soldati. Solo di tedeschi ce n'erano più di trentamila. Erano bene armati e bene equipaggiati. Gli italiani non si contavano. Non decine ma centinaia di migliaia, accasermati o accampati un po' dappertutto, con le scarpe sfondate e legate col fil di ferro, e dieci colpi a testa da sparare solo in caso di emergenza.

 I fucili erano quei vecchi "novantuno" che avevano fatto l'altra guerra. Quando si dice italiano si deve intendere sardi per la maggior parte. Infatti era stato deciso da chi comandava che tutti i sardi si trovavano sotto le armi, ufficiali e soldati di qualunque arma o specialità, affluissero e si concentrassero nella loro terra di origine.

Allora eravamo convinti che la Sardegna sarebbe stata occupata per prima, e soprattutto i capi. Nel diario di guerra dell'ammiraglio Dönitz si leggono queste parole :"Il Führer non è d'accordo che il punto più probabile di un'invasione sia la Sicilia. Secondo la sua opinione, i documenti anglosassoni scoperti confermano che l'attacco sarà diretto contro la Sardegna e il Peloponneso".

Si trattave di documenti fabbricati apposta dagli Inglesi e fatti arrivare ai comandi dell'Asse con uno stratagemma che sembra copiato da un racconto di Hitchcock, una beffa , più che un'azione di guerra, che permise agli Alleati di sbarcare indisturbati […]

 […] quando gli "Alleati" preannunciarono l'arrivo dei loro bombardieri con un lancio di manifestini invitando al popolazione ad evacuare la città […]

[...] nessuno prese alla lettera quel serio e, in fondo, onesto avvertimento. Pareva che in quel nome, "alleati", usato in modo così strano, ci fosse come un'intesa segreta, come una strizzatina d'occhio al di sopra delle linee, come nel "buonasera!" del colonnello Stevens. Alleati di chi? Di chi non era d'accordo con i fascisti, naturalmente.

E coi fascisti, potenzialmente, nessuno era d'accordo. Erano rimasti in pochi a vantarsi dei bombardamenti di Londra e Coventry. La prima volta vennero di domenica. I cagliaritani, devoti, oltre che di Efisio e della Madonna di Bonaria, di molti altri santi e sante, chi per una ragione, chi per l'altra vanno tutti in chiesa, la domenica. Era una bella giornata di sole.[…]

[…]Vennero su dalla parte degli stagni in formazioni triangolari come tante piccole croci nere, schiacciate. Ingigantirono a vista d'occhio puntando diritti sulla città. Le sirene tacevano sulle torri. Per un momento non ci fu che quel rombo concorde, quasi armonioso, che si avvicinava. E le sirene tacevano ancora.

Poteva essere una delle tante parate militari a cui ci avevano abituati. Decine e decine di migliaia di facce alzate seguivano il progresso di quell'avanzata concorde, quel rombo che riempiva il cielo e che le montagne di Capoterra e dei Sette Fratelli rimandavano nell'aria serena, e senza un grido. Prima che si levasse il tardivo allarme, la città intera fu percossa da un presentimento di morte.

Nessuno scappò. Le donne si presero in braccio i bambini, continuando a tenere gli occhi fissi alle fortezze volanti che occuppavano ordinate e lente metà del cielo, oramai quasi allo zenit. Quando poi furono allo zenit cominciò la pioggia degli spezzoni. Spezzoni, non bombe, quella prima volta.[…]


Giuseppe Fiori

Avevamo vent'anni

(Sardegna 1940-45. La guerra, le bombe, la libertà. I drammi e le speranze nel racconto di chi c'era)

Ci dissero che avremmo dovuto renderci utili scavando le macerie. E noi (vent'anni tondi, allievi ufficiali il sabato e la domenica, universitari e basta per il resto della settimana, poi mobilitati civili tutti i giorni) noi lo facemmo, sottilmente inorgogliti dalla delicatezza dell'incarico e insieme con ripugnanza.

Vedere la carne sfatta, toccare i brandelli di un uomo, sentirsi le mani e gli abiti fisicamente impregnati di morte, scoprire sotto i calcinacci un'esistenza spenta: ed adattarsi, vincendo l'istinto, a quello spettacolo di rovina. Questo avremmo dovuto fare, noi di una generazione indotta a superare l'angoscia nell'assuefazione e qualche volta nell'indifferenza.

Così afferrammo i picconi e le pale. A sera i nostri consuntivi erano lugubri: elencavamo i morti dissepolti, vincevamo il disgusto con la fredda puntualizzazione delle nostre esperienze. Avevamo vent'anni, la prima volta che uscimmo dalla caserma pala e piccone in mano; avevamo vent'anni e in poche ore li smarrimmo: mai più li abbiamo ritrovati.[...]


Paolo De Magistris

La vita pulsava flebile

(Sardegna 1940-45. La guerra, le bombe, la libertà. I drammi e le speranze nel racconto di chi c'era)

Tra gli eventi che hanno determinato il corso della storia per la città di Cagliari, sicuramente nessun altro è stato così incisivo d decisivo come quello che è connesso alla pesante serie di bombardamenti aerei nel corso della Seconda guerra mondiale e segnatamente nella concentrazione drammatica avvenuta dal febbraio al maggio del 1943.[…]

[…]All'improvviso, nel primo pomeriggio del 17 (febbraio 1943), il sereno cielo cagliaritano fu attraversato da una formazione aerea. L'avvistamento fu tardivo e quando le sirene fischiarono gli aerei erano già sui quartieri occidentali dal centro storico (Castello e Stampace) e avevano iniziato il mitragliamento e, mentre una vera folla si accalcava nel fatale ingresso della Cripta irresponsabilmente adibita a rifugio, scaricavano un micidiale nugolo di spezzoni che, frammentandosi in mille schegge, fecero una vera e propria strage: si contarono alcune centinaia di morti e altrettanti feriti.

Tra le vittime, in gran parte donne e bambini, di quella anonima e pacifica popolazione di Stampace, un illustre della cultura cagliaritana: Tarquinio Sini, pittore, estroso poeta, brillante giornalista.[…]