Napolidavedere

Un itinerario impossibile per vedere tutto in 7 giorni

Questa pagina, nata come un telegrafico elenco di cose da visitare e scritta di getto a più riprese, è diventata man mano un diario di cose viste e quindi una lavagna per schizzi e ricordi.
(28/V/2004) In vista dell'estate, pubblico una nuova versione notevolmente estesa ed arricchita anche se non sono riuscito a portare a termine una doverosa revisione (e omogeneizzazione) del testo.

  1. Napoli 1
  2. Napoli 2
  3. Isola a scelta
  4. Napoli 3
  5. Pompei, Ercolano e il Vesuvio
  6. Campi Flegrei
  7. Caserta
  8. Penisola sorrentina e costiera amalfitana

1° giorno: Napoli 1

Trasferimento

soluzione mattutina
(**)
soluzione pomeridiana
(*****)
6.52 Persiceto-Bologna14.03-14.25 Persiceto-Bologna
7.48-12.30 ES Bologna-Napoli14.48-17.30 ES Bologna-Roma
17.45-19:26 ES Roma-Napoli Mergellina (-15 minuti)
metropolitana linea 2, Piazza Garibaldi-Montesanto idem, Mergellina-Montesanto

"E uscimmo a riveder le stelle": ritornati in superficie dopo il breve spostamento sotterraneo, piazzetta Olivella rappresenta il primo contatto con la caotica vitalità di Montesanto. Ci lasciamo trasportare dal fiume umano verso la vicina piazza Montesanto, dove saremo un po' storditi dal fitto via-vai di gente e dal zig-zagare dei motorini. A destra la strada sale per un breve tratto per poi trasformarsi in maestosa e solitaria scalinata; più in alto, inaccessibile da questo versante, si innalza Castel sant'Elmo. Anche a sinistra, oltre la facciata della chiesa, la strada sale, ma questa volta è un salire effimero che, superato l'antico crinale, scende verso piazza Dante. Su piazza Montesanto, benché non tanto grande, si affacciano la chiesa di santa Maria a Montesanto, il capolinea della funicolare, la stazione della ferrovia Cumana, oltre alle aperture straripanti di mercanzia sul marciapiede dei caratteristici negozietti e agli ancor più caratteristici venditori ambulanti (la "bananara", Micciuvello "il più noto acquafrescaio di Napoli"). Ci incamminiamo lungo l'unico sfogo della piazza in leggera discesa, via Portamedina, per poi girare quasi subito sui basoli sconnessi di vico Rosario a Portamedina. In fondo alla via, oltre i gradini, ritagliata fra le due file di case in prospettiva, si intravede già la chiesa barocca di santa Maria del Rosario che, quasi sospesa non avendo l'occhio una linea continua di raffronto, si distingue per la facciata pulita e il grazioso portico trapezoidale. Saliti pochi gradini (e facendo attenzione ad attraversare la curva veloce di via Rosario a Portamedina), un po' di respiro al tessuto urbano è dato da piazzetta Rosario a Portamedina tagliata in due da una larga scalinata.

Il "residence"

Situato a Montesanto, subito a nord dei Quartieri Spagnoli, si trova nei vicoli già movimentati dalla ripida salita del pendio coronato da Castel sant'Elmo. A pochi passi dal centro antico, è situato in una zona verace e vitale di Napoli, a due passi dal variopinto e affollato mercato quotidiano della Pignasecca. Come raggiungerlo: c'è solo l'imbarazzo della scelta, trovandosi in un punto nevralgico dei trasporti napoletani. Dietro l'angolo c'è la stazione terminale della Cumana e Circumflegrea (con frequenti treni per Pozzuoli e Campi Flegrei), la funicolare di Montesanto (che porta su al Vomero) e la metropolitana (stazione Montesanto, che porta in 5 minuti alla stazione Centrale FS/Circumvesuviana o a Mergellina dall'altra parte, dove pure fermano alcuni Eurostar, poi Bagnoli e Pozzuoli). Il Molo Beverello con i traghetti per le isole (comprese Sicilia e Sardegna) è a circa 15 minuti a piedi.

Nota al sistema dei trasporti napoletano

Trattasi di sistema capillare ed efficiente, al contrario di quanto si può comunemente presumere. Non per niente la prima ferrovia italiana fu la Napoli-Portici (precisamente Napoli-Gragnaniello, 3 ottobre 1839), oggi primo tratto della Circumvesuviana.

Ferrovie Napoli è collegata a Roma da due linee ferroviarie: quella ordinaria si biforca nell'ultimo tratto a Villa Literno ricongiungendosi a Napoli Centrale o, meglio, incrociandosi, perché da Mergellina si arriva sottoterra a Napoli Piazza Garibaldi (che è sotto appunto Piazza Garibaldi, la piazza su cui si affaccia la stazione).
Appena lasciata Roma si osserva lo stratificarsi del tessuto urbano attorno all'acquedotto romano che poi riesce finalmente a rimanere indipendente e maestoso nei pressi della via Appia antica; quindi si scorge il regolare e preordinato tracciato della campagna di Latina (razionale fondazione di Mussolini; si noti verso il mare il massiccio del Circeo che si eleva solitario dalla circostante pianura); poi non possono passare inosservati i paesi arroccati di Monte san Biagio, Itri e Sessa Aurunca e gli aridi monti Aurunci fittamente punteggiati da massi affioranti; infine, prima di piombare nel misto di decadenza e ordinarietà (i terrazzini strapieni e i panni stesi) della fitta periferia napoletana (a partire da Aversa), il cuore si allarga mentre la vista si dispiega sulla distesa del mare che appare all'improvviso dietro un folto pendio poco prima di Formia, lasciando a destra il braccio ruvidamente posato sul mare del promontorio di Gaeta (se la visibilità è superlativa, sul lato opposto si scorge già, appoggiata sulla tavola del mare, la sagoma montuosa dell'isola di Ischia!). L'imminente arrivo a Napoli Centrale è preannunciato infine dalla famigliare sagoma del Vesuvio e del monte Somma.
La soluzione pomeridiana si distacca da quella mattutina a Villa Literno, all'ingresso nel territorio dei Campi Flegrei, quando le due cime di Ischia fanno capolino al di sopra della selvaggia collina dell'acropoli di Cuma, e rinuncia quindi alla periferia napoletana per attraversare l'antica caldera di Quarto, un movimentato catino verde in cui il treno entra ed esce attraverso due gallerie che penetrano l'alta ripa che lo delimita tutt'intorno. Dopo la prima galleria, se si fa attenzione, sulla sinistra si vede spuntare a pochi metri dalla massicciata ferroviaria la copertura a cuspide esagonale del monumento funerario romano detto "la Fèscina". Ovunque si volga lo sguardo, la sensazione è quella di trovarsi all'interno di un enorme cratere ricoperto dalla vegetazione e punteggiato da case. Mentre il treno attraversa la seconda galleria, poco più in là il tracciato stradale sfrutta invece la "montagna spaccata", un'imponente fenditura aperta dagli ingegneri e schiavi romani. Si sfiora poi il monte Barbaro, quindi ricompare il mare, e questa volta è lo splendido golfo di Pozzuoli sul fare del tramonto e, se prima da Formia le isole Pontine non si vedevano (troppo lontane e piccole), qui oltre Capo Miseno appare la sagoma di Procida con il castello d'Avalos che prolunga la parete verticale della scogliera verso il cielo bigio, mentre Capri giace maestosa dall'altra parte, e sembra quasi di poterla toccare. Ma il treno prosegue inesorabile la sua corsa e ci ritroviamo quasi senza accorgercene a Pozzuoli: si vede il porto e il promontorio del Rione Terra, con le case disabitate le cui finestre senza infissi danno sul buio. Poco più avanti gli imponenti relitti industriali di Bagnoli stridono con Nisida e lo strapiombo della falesia di Posillipo, mentre il treno attraversa Fuorigrotta. Il viaggiatore attento scorgerà sulla sinistra, poco prima che il treno si fermi e che l'aria in pressione apra le porte sbuffando, l'imbocco della galleria romana che unisce Piedigrotta a Fuorigrotta tagliando la falesia di Posillipo (e mettendo quindi in collegamento Napoli con Pozzuoli, imitata poi dalla galleria ferroviaria e da due tunnel stradali) e la bianca sagoma della tomba di Giacomo Leopardi. L'arrivo nella stazione rococò di Mergellina è decisamente più piacevole di quello della soluzione mattutina a Napoli Centrale (e per fortuna che si scende comunque subito nella metropolitana senza affacciarsi sull'enorme e caotica piazza Garibaldi).
L'altra linea ferroviaria, usata in caso di disagi sulla linea principale, è più lunga e lenta, e sembra di non arrivare mai. Il paesaggio, tutto nell'entroterra, è più selvaggio e solitario. In compenso, per un lungo tratto siamo accompagnati dal convento di Montecassino che ci vigila solitario dall'alto, mentre più tardi all'improvviso scorre sulla sinistra l'interminabile facciata della Reggia di Caserta (la stazione ferroviaria serviva proprio la reggia). Da Caserta a Napoli ci sono ancora una volta due linee diverse: per Aversa (che da lì si inserisce sulla linea ordinaria) e, simmetricamente rispetto al percorso in linea d'aria, per Acerra.

Ferrovie locali Sono sempre linee ferroviarie:

La Cumana dapprima sta più a nord, quindi poco prima di Bagnoli incrocia la linea 2 metropolitana passando più vicino alla costa, di modo che a Pozzuoli se si è al porto si prende la Cumana mentre se si arriva dalla Solfatara più a monte c'è la metropolitana.

Abbiamo poi quattro funicolari: da est a ovest, ancora Montesanto, poi la Centrale, Chiaia (attualmente chiusa per lavori) e Mergellina. Ognuna varrebbe un giro: Montesanto ha un bel panorama sul centro antico, Mergellina è per lo più in galleria e credo sia la più ripida. Tutte convergono grosso modo salendo verso il Vomero.

La metropolitana vera e propria è formata dalla linea 1 che, in attesa di prolungarsi fino a servire la parte meridionale della città (Duomo, piazzale Bovio, via Toledo, piazza Municipio: il percorso sotterraneo -non le stazioni- era stato attivato per i mondiali di calcio del 1990 per unire Napoli Centrale allo stadio; è stato gravemente danneggiato dal forte acquazzone del settembre 2001), parte dalla stazione di piazza Dante (inaugurata in maggio 2002 dal presidente della repubblica C.A. Ciampi), quindi il Museo Archeologico punto di intersezione con la linea 2 (anche il passaggio pedonale sotterraneo da un capo all'altro di piazza Cavour è stato aperto recentemente), Materdei (aperta nel luglio 2003) fino a piazza Vanvitelli, cuore del Vomero, da cui si scende e risale sui treni della metropolitana collinare. La linea 1 è la "metropolitana dell'arte": ogni stazione è stata progettata secondo uno stile avvenieristico ed espone nei vasti spazi sotterranei bizzarre e fantasiose opere d'arte. In agosto 2002 è stata di nuovo chiusa per lavori: è sempre meglio informarsi sugli orari, essendo ancora a binario unico nell'ultimo tratto verso piazza Dante.

Collegamenti marittimi Dal molo Beverello di Napoli (vicino al Maschio Angioino) e dal porto di Pozzuoli partono traghetti e aliscafi per le isole, Sorrento e costiera amalfitana, oltre che per Sicilia, Sardegna e Africa! La differenza tra traghetto e aliscafo è che l'aliscafo costa quasi il doppio, impiega 1/4 di tempo del traghetto in meno e, se è piccolo, bisogna stare seduti all'interno. Da luglio 2002 è attiva la linea MM "Metropolitana del Mare" su aliscafo: dopo un inizio traballante sembra che si sia messa a funzionare collegando comodamente tutte le principali località della costa campana, dai Campi Flegrei a nord fino al Cilento a sud. Da Napoli c'è un altro molo per aliscafi a Mergellina.

Se non bastasse, c'è anche (perfino sulle isole) un efficiente servizio di corriere. Nei Campi Flegrei e nell'area vesuviana c'è l'Archeobus che nel weekend tocca tutte le località di interesse storico-archeologico. Unico neo del sistema trasporti sono gli autobus cittadini: non esistono orari, neanche i conducenti li sanno e soprattutto non c'è modo di sapere ogni quanto tempo passano: l'unica cosa da fare è aspettare e non demoralizzarsi (e usarli il meno possibile).

Pomeriggio: la città dall'alto, la città alta

Napoli è una città dalla topografia molto complicata, sia per l'intrico serrato delle vie che per l'orografia movimentata e ripida su cui poggiano secolari stratificazioni umane. E' la stessa orografia che arricchisce la città con suggestivi e a volte inaspettati punti panoramici. Prima di infilarsi nei vicoli del centro antico è bene quindi farsi un'idea della città dall'alto. Basta prendere la funicolare di Montesanto dall'omonima piazza (partenze ogni 15 minuti). Non appena la fune si tende e la cabina si mette in movimento cigolando sui binari, davanti agli occhi inizia a sfogliarsi la storia abitativa della città: giardini pensili con palme, terrazze panoramiche e tetti piatti, balconi chiusi colmi di ogni mercanzia, moderni moduli di condizionamento e antichi elementi architettonici, alte mura a difendere la proprietà privata, strapiombi rinforzati dall'uomo, lunghe scalinate, cupole dai colori sgargianti, strade affollate. A sinistra (salendo; a destra stando seduti) rimane il muro di sostruzione del terrapieno panoramico del parco dei Quartieri Spagnoli (ricavato in una parte dell'enorme e abbandonato complesso dell'ex ospedale militare), poco prima della fermata intermedia se ne può vedere l'ingresso con la strada lastricata che fa il tornante e porta verso l'arcata di accesso. Arrivati al capolinea di via Morghen, si prende sulla sinistra via Ligorio poi via Caccavello. In pochi minuti si arriva a largo san Martino, all'ombra di Castel sant'Elmo e della Certosa.

In alternativa alla funicolare, varrebbe la pena considerare la possibilità di salire a piedi (una mezz'oretta per salire, pochi minuti per scendere). Parallela al primo tratto della funicolare sulla destra, la monumentale scala Montesanto, un tempo vitale punto di passaggio fra Vomero e centro antico, sale regolare e maestosa, biforcandosi e poi riunendosi, fino a corso Vittorio Emanuele, che si mantiene a mezza costa della collina. Arrivati al corso, si prosegue verso destra per una cinquantina di metri, finché sulla sinistra si apre una viuzza con un bel ciottolato che riprende a salire. E' la storica Pedamentina san Martino, probabilmente un antico tratturo, percorso per secoli dai pastori e poi dalle truppe spagnole che salivano a Castel sant'Elmo. Risistemata nella primavera 2003, la via sale a larghi gradini (qui i motorini non possono arrivare!) e con qualche tornante verso largo san Martino, sbucando proprio sotto la balconata che si affaccia sul centro antico. Percorrendola, a tratti circondati da una vegetazione folta e rigogliosa, si ha l'impressione di essere in montagna. A metà tragitto si può deviare per qualche metro lungo il vicolo che si biforca a destra, via Scura Pedamentina san Martino, soffermandosi nel cortiletto dell'ultima o penultima abitazione. Qui, in proprietà privata, si apre un vero e proprio gioiello architettonico, la stupenda scala ottagonale (sugli spicchi si alternano i pianerottoli e le rampe di gradini) della casa dell'abate della soprastante Certosa.

Dalla balaustra di largo san Martino si può ammirare un incredibile panorama sulla città, che sembra allo stesso tempo così vicina e così distante, effetto dello scosceso pendio della collina. Sulla sinistra si vede bene lo sperone di Capodimonte con la bella reggia che fa capolino fra le palme, poi le cupole dell'osservatorio astronomico; scendendo con lo sguardo e tornando un po' indietro, si vede il cupolone della Madonna del Buon Consiglio, quindi si intravede e intuisce il percorso rettilineo discendente di via santa Teresa degli Scalzi (su cui emerge la sommità della facciata dell'omonima chiesa), quindi l'enorme tetto del salone centrale del Museo Archeologico Nazionale, la sommità triangolare del duomo, il tozzo campanile di san Lorenzo Maggiore e quello esile del Gesù Nuovo sovrastato dalla vicina e massiccia torre squadrata di santa Chiara; più vicino, sotto, c'è la cupolona sul largo tamburo della chiesa dello Spirito Santo; un po' più a sinistra si vedono le terrazze rigurgitanti di verde del parco dei Ventaglieri; guardando il Vesuvio e i grattacieli del Centro Direzionale, perfettamente parallelo al nostro sguardo si apre il profondo taglio rettilineo di Spaccanapoli (il decumano inferiore della città greca tuttora arteria vitale della città moderna). Per poter godere del resto del panorama, bisogna entrare nella Certosa.

La Certosa di san Martino, fondata nel 1325 dai monaci certosini, è un luogo che unisce mirabilmente all'unicità dei quadri e oggetti esposti, una cornice architettonica maestosa e un panorama mozzafiato. La visita comincia con la sfarzosa chiesa barocca (si notino dietro l'altare le due botole che danno sulla sottostante cisterna, visibile anche dal chiostro), le tarsie lignee della sagrestia (da confrontare con quelle di sant'Anna dei Lombardi), la sala del Tesoro, gli affreschi della sala del Capitolo; quindi si sbuca nell'ampio e verde chiostro con il piccolo cimitero dei monaci delimitato da una balaustra con teschi; a questo punto consiglierei di prendere subito il lungo corridoio che porta al chiostro dei Procuratori, facendo una doverosa digressione nella sezione presepiale con il più grande presepio napoletano (donato da Michele Cuciniello, esposto già nel 1879, in uno spazio allestito appositamente per far filtrare con la giusta gradazione la luce esterna) e le raffinate statuine (ad es. quella del mendicante) modellate da artisti del calibro di Giuseppe Sanmartino (l'autore del Cristo Velato); dal chiostro dei Procuratori passiamo fra i cocchi e le carrozze reali (con le finiture in cuoio che hanno ormai perso tutta la loro elasticità) e facciamo una seconda digressione, romantica stavolta, sotto il pergolato del giardino; una volta risaliti entriamo nel raffinato Quarto del Priore, dal cui loggiato si può spaziare sul golfo di Mergellina (con piazza Plebiscito e Pizzofalcone che rimangono sulla sinistra); da qui possiamo ammirare anche il sottostante Giardinetto del Priore con l'armoniosa doppia scalinata che si attorciglia su stessa. A questo punto possiamo dedicare il tempo rimasto alla visita del museo vero e proprio, girando nei locali disposti attorno al chiostro: i quadri e le incisioni tracciano una storia figurativa della città, fra vedute, raffigurazioni di eventi storici (la famosa tavola Strozzi con il rientro della flotta aragonese dalla battaglia di Ischia nel 1465; i monaci con il cardinale che scampano alla peste rinchiudendosi proprio nella Certosa, tela di Micco Spadaro datata 1657, mentre don Lorenzo Colonna si prodiga tra gli appestati giù in città, guadagnandosi anch'egli un quadro ironicamente disposto dalla moderna disposizione museale proprio dirimpetto a quello dei monaci con il cardinale; il presunto ritratto del rivoltoso Masaniello) e accurate cartografie della città e del golfo. Lungo il percorso si aprono altri piccoli terrazzini con vari affacci sui Quartieri Spagnoli e sul porto. Non sono visitabili l'ala dei novizi (il braccio che sembra protendersi seppur malandato verso il Vesuvio) e i piani inferiori con i sotterranei.

Usciti dalla Certosa, si può fare una rapida ma doverosa visita a Castel sant'Elmo. Saliti in ascensore, sbuchiamo sull'enorme piazza d'armi lastricata con mattoni a spina di pesce. Non essendo possibile accedere al camminamento che corona le mura, dobbiamo accontentarci dei larghi finestroni all'imboccatura superiore della maestosa ed elaborata rampa d'accesso per carri e cavalli, che bisogna assolutamente percorrere scendendo. Dapprima è una galleria al coperto; quindi, dopo un paio di tornanti, sbuca all'esterno proprio a metà della fiancata del castello, attraversando un portale monumentale seguito da uno spazio di rispetto quasi sospeso nell'aria; infine scende al piano stradale lungo una rampa parallela alla mole del castello ma ben discosta da esso.

Ritornati al terminale della funicolare, scendiamo per via Scarlatti (si notino le scale mobili affiancate alle scalinate) fino a piazza Vanvitelli. Siamo nel cuore del Vomero, la Napoli elegante e ordinata, che fa da contrasto con il centro antico. Concediamoci una passeggiata nel parco di Villa Floridiana (con l'ombroso intrico di sentieri serpeggianti e il granuloso azzurro del golfo contornato dal verde rilucente e frusciante degli alberi), oppure per via Cilea e il viale alberato di via Giordano. Se non vogliamo camminare, con un autobus possiamo raggiungere piazza Medaglie d'Oro ed arrivare fino a piazzale Leonardo e via Santacroce. Da piazzale Leonardo si può prendere l'autobus (C44) per l'Eremo dei Camaldoli, il punto più alto (458m) della città con l'antico convento (dal 1999 passato alle suore di santa Brigida) da cui si gode uno straordinario panorama sui Campi Flegrei e il golfo di Pozzuoli, dominando tutto l'invaso irregolare di Fuorigrotta (con lo stadio ben visibile al centro e l'agglomerato distinto di Soccavo subito sotto) chiuso di fronte dallo sperone roccioso di Posillipo .

Sera

Pizza alla Vecchia Napoli, locale rustico frequentato da napoletani, di fronte alla funicolare di Montesanto.

Itinerari per il dopocena
  1. Si risale via Pasquale Scura, uno dei due estremi della lunghissima fenditura rettilinea detta Spaccanapoli, che si chiude scenograficamente contro la chiesetta di santa Maria dei Sette Dolori dal cui sagrato, volgendosi indietro e guardando attraverso l'inferriata, si ha un notevole colpo d'occhio; quindi si imbocca a destra via santa Lucia al Monte sbucando, dopo aver risalito i gradini, su corso Vittorio Emanuele.
    Alternativamente si può prendere per via Girardi e risalire la rampa di via santa Maria Francesca, oppure prendere i gradini di vico Congregazione dei Sette Dolori e all'altezza di vico Politi passare sotto l'archetto su cui è posta la lapide di palazzo Cilento (si noti anche la conchiglia scolpita sul fianco del palazzo più in alto), quindi utilizzare le scale interne (attenzione, è proprietà privata!) sbucando inaspettatamente sugli ultimi gradini di via santa Lucia al Monte.
    Da corso Vittorio Emanuele si gode una suggestiva visione notturna della città, con l'illuminazione soffusa della reggia di Capodimonte, la sagoma del Vesuvio e le pendici della penisola sorrentina tratteggiate dalle luci, la sommità triangolare abbagliante del duomo, i riflessi che filtrano dal cupola della galleria Umberto I, le luminarie sulle barche attraccate al porto o che solcano le acque del golfo su cui si intuisce pure la silhouette scura di Capri.
    Volendo prolungare la passeggiata si può proseguire verso sinistra lungo il corso fino a piazzetta Cariati, facendo attenzione ai vari scorci sulle maglie regolari dei Quartieri Spagnoli che lasciano avaramente gli alti palazzi sul lato mare, mentre a destra rimane la chiesetta del santo Sepolcro ai piedi di una ripida scarpata proprio sotto la Certosa di san Martino. Da piazzetta Cariati si prendano i gradini santa Caterina; da qui si aprono diverse alternative:
    • si può prendere a sinistra per salita Cariati, rimanendo poco più sotto il soprastante corso, e raggiungere vico Croce a Cariati con il famoso crocefisso posto in mezzo alla via; da qui si può scendere lungo vico della Tofa arrivando su via Toledo a poca distanza da piazza Plebiscito;
    • altrimenti si può scendere per via santa Caterina da Siena, e magari girare a sinistra su via santa Teresella degli Spagnoli, facilmente riconoscibile nel dedalo di viuzze perché sembra puntare dritto verso la cupola della galleria Umberto I;
    • continuando invece dritto per via santa Caterina da Siena si scende su via Chiaia, andando poi a sinistra verso piazza Plebiscito o a destra verso la zona di piazza dei Martiri e poi piazza Vittoria con il parco della Villa Comunale e il lungomare. A questo punto si può seguire l'itinerario B;
    • se da via santa Caterina da Siena si passa invece sulla parallela a destra via Nicotera, anziché scendere su via Chiaia si rimane in quota fino ad oltrepassarla attraversando il ponte di Chiaia. Dalla vicina piazza santa Maria degli Angeli possiamo scendere su piazza Plebiscito o proseguire verso il suggestivo belvedere di Pizzofalcone.
  2. Seguendo via Pignasecca, o la meno frequentata parallela via san Liborio se ci si vuol muovere più velocemente, si raggiunge piazza Carità. Da qui si prosegue fra le vetrine illuminate dell'elegante via Toledo fino a raggiungere piazza Trieste e Trento e la contigua piazza Plebiscito. Ci si può fermare qui, oppure:
    • attraversare la galleria Umberto I, passare davanti al teatro san Carlo e raggiungere gli imponenti bastioni del Maschio Angioino, risalendo poi per via Medina e via Battisti (passando davanti al moderno e vistoso edificio delle poste) fino a tornare in piazza Carità.
    • proseguire diritto lungo via Console e fermarsi al belvedere sul lungomare; proseguendo sul lungomare si raggiunge il Borgo Marinaro (preceduto dall'odore di frittura di pesce) puntinato dalle luci dei ristoranti e la mole di Castel dell'Ovo che si specchia sull'acqua; proseguendo ancora si arriva a piazza Vittoria (la chiesa ben illuminata che rimane di fronte in lontananza è sant'Antonio a Mergellina) e da qui si può tornare su piazza Plebiscito passando per piazza dei Martiri e via Chiaia;
    • prendere via santa Lucia, spaziosa laterale di via Console, e salire al belvedere di Pizzofalcone lungo il pallonetto santa Lucia;
    • salire sempre al belvedere di Pizzofalcone ma prendendo via Serra, subito a destra dell'emiciclo di piazza Plebiscito;
    • rientrare seguendo l'itinerario A alla rovescia.

2° giorno: Napoli 2

Mattino: chiese, piazze e decumani del centro antico

Partiamo (se siete particolarmente mattinieri potete premettere un rapido giro per i Quartieri Spagnoli) dalla rinascimentale chiesa di sant'Anna dei Lombardi sulla sommità della degradante piazza Monteoliveto. Attualmente in restauro, è però regolarmente aperta e con un po' di fortuna si può ammirare il gruppo scultoreo del compianto sul Cristo morto (del modenese G. Mazzoni, 1492, simile ma direi più espressivo di quello di san Pietro a Bologna), il bassorilievo dell'Annunciazione di Benedetto da Maiano (XV sec.), le tarsie lignee e i vivaci affreschi della sagrestia. Usciti dalla chiesa, scendiamo verso la fontana di Carlo II d'Asburgo (1668), raffigurato dodicenne, benché salito al trono a quattro anni, con lo sguardo assente e fisso nel vuoto di un bambino rivestito di troppa responsabilità.

Risaliamo quindi lungo calata Trinità, che ci dirige scenograficamente verso la piazza del Gesù Nuovo e la guglia dell'Immacolata. Se non ci lasceremo distrarre troppo dalla vistosa ma essenziale mole di santa Chiara, che già incombe su un lato della piazza, potremo goderci prima la bella facciata in bugnato a punta di diamante della chiesa del Gesù Nuovo. In alto c'è il finestrone ribassato (ovvero non sovrastato da un timpano o frontone), tipico di molte chiese napoletane, affiancato da due ampie volute in tufo grigio. Il candido portale barocco è opera di Bartolomeo e Pietro Ghetti (1695 circa), mentre un ulteriore contrasto fra chiaro e scuro è dato dalle due finestre laterali incorniciate in marmo bianco. La facciata è imponente e tozza, più lunga che alta, ed infatti originariamente la fabbrica era quella di un palazzo, di proprietà dei Sanseverino (1470), poi rilevata dai Gesuiti, come testimonia l'iscrizione sopra il portale. Sulla sinistra, una piccola lapide quadrata rappresenta l'unica violazione alla simmetria della facciata occupando lo spazio di una punta di diamante. L'interno è a croce greca e, in contrasto con la severa facciata, colpisce il visitatore per la ricchissima decorazione di marmi e affreschi. Sulla controfacciata è raffigurata la cacciata di Eliodoro dal tempio (2Maccabei 3) di Francesco Solimena (1725). Il cappellone di sinistra del transetto è dedicato a sant'Ignazio, con statue del re Davide e del gobbo profeta Geremia del Fanzago. Segue la cappella di san Ciro, con gli ex-voto in argento raffiguranti parti del corpo che ne ricoprono completamente le pareti e il soffitto; in una cappella dell'abside, sempre sul lato sinistro, sono schierati i reliquari a forma di busto dei rispettivi santi. Al centro, dietro l'altare maggiore, l'Immacolata si erge su un globo di lapislazzuli. Sul lato destro si trova la venerata tomba e lo studio di Giuseppe Moscati.

Lasciato l'interno sfarzoso del Gesù Nuovo e attraversata la strada un po' di sghembo, ci appropinquiamo alla sobrietà della chiesa di santa Chiara. Varcato il maestoso arco ad unghia, possiamo ammirarne la facciata in tufo giallo che si staglia contro il cielo azzurro. La visita dell'interno ampio e spoglio acquista maggior consapevolezza se preceduta da quella del complesso del retrostante chiostro maiolicato, raggiungibile dall'esterno girando intorno alla chiesa sulla sinistra. I quattro bracci perpendicolari del giardino del chiostro "sono scanditi dal susseguirsi di settantadue pilastri ottagonali tra i quali sono posti i sedili; tutto è completamente rivestito da una decorazione a maioliche, di scuola napoletana (XVIII sec.). Sui sedili sono rappresentate scene agresti, marine e folkloristiche [e di vita quotidiana nel monastero, come le monache che danno cibo ai gatti]; mentre i pilastri sono decorati con tralci di vite e glicine che si avvolgono a spirale sino al capitello, unico elemento in piperno a sostegno del pergolato. Si realizzò così una mimesi tra natura e architettura in quanto, le strutture architettoniche si smaterializzano a favore di un effetto di pura pittura. Sulle pareti degli ambulacri del chiostro vi sono affreschi seicenteschi con storie francescane" [Moccia & Caporali, p. 205]. Se il chiostro dovesse deludere, non essendone stato ripristinato un componente essenziale quale l'ombroso pergolato, all'interno del complesso si può visitare anche l'area archeologica di carattere termale (I sec. d.C.) e il piccolo ma raffinato Museo dell'Opera. Qui ci si soffermi davanti alle foto della chiesa nel restauro barocco del 1742-69 con il soffitto ribassato, prima del tragico incendio della seconda guerra mondiale (4 agosto 1943) da cui risorse nella veste gotica originaria; poi ci sono gli arredi sacri, la statua lignea dell'Ecce Homo (XVI sec.), i busti dei reliquari, i resti superstiti e ricostruiti dei fregi della chiesa. All'interno della chiesa, gli sfregi del crollo sono ben visibili nelle edicole dell'abside; nell'ultima cappella sulla sinistra erano ospitate le tombe dei Borboni delle quali resta solo quella di Filippo figlio di Carlo III. Tornati all'esterno, non può passare inosservata la torre campanaria.

Proseguendo su Spaccanapoli, dopo l'incrocio con via san Sebastiano, notiamo sulla sinistra palazzo Filomarino, in cui dimorò dal 1914 fino alla morte Benedetto Croce, come ricorda egli stesso nelle sue Storie e leggende metropolitane. Più avanti sulla destra troviamo il palazzo Carafa della Spina ai cui lati del sontuoso portale due mostri marini dalle fauci spalancate, ricavati da fusti di colonne romane, servivano a spegnere le fiaccole. Raggiungiamo quindi piazza san Domenico Maggiore, centro geometrico del centro antico di Napoli, su cui si affacciano il lungo prospetto di palazzo Casacalenda lungo Spaccanapoli, palazzo Petrucci alla nostra sinistra e, di fronte, palazzo Corigliano seguito, salendo, da palazzo Sangro di Sansevero. Sulla guglia al centro della piazza, costruita fra 1658 e 1737, poggia la statua di san Domenico accompagnato dal fedele cane. Il settecentesco palazzo Corigliano, facilmente riconoscibile per la facciata rossa che poggia su un basamento in piperno, è una delle sedi dell'università "L'Orientale", il più antico Istituto Orientale del mondo, fondato da Matteo Ripa nel 1732 con il nome di Collegio dei Cinesi. Varcato il grandioso portale del XVIII sec. e salita la magnifica scalea in pietra di Genova del XVII sec., l'interno si distingue per il gabinetto degli specchi rococò e gli stucchi dorati del soffitto della biblioteca di Studi Asiatici (quarto piano) dalle cui terrazze si gode un bel panorama che fa da sfondo all'elaborata guglia di san Domenico: si vede la stratificazione di palazzi sul pendio del Vomero, che si assottiglia a sinistra terminando con Castel sant'Elmo e, subito sotto, la mole squadrata e prominente verso il mare della certosa di san Martino; più vicino, in basso, c'è la monumentale torre campanaria di santa Chiara e il rettangolare campanile del Gesù Nuovo; sulla sinistra, sopra via Mezzocannone fa capolino il mare baluginante di riflessi a sua volta limitato in alto dalla penisola sorrentina. Dal cortile si accede ad un'aula sotterranea con i resti delle mura greche mentre un'altra aula è stata ricavata nell'antica scuderia. "Della costruzione originaria del '500 non rimane che il pianterreno con doppio basamento e il doppio cornicione in piperno; la parte superiore crollò con il terremoto del 1688, ma, come osserva il Celano, mentre «il tremuoto ne butto giù una parte... degli architetti, in quel tempo fecero più danno che il tremuoto stesso»" [Gleijeses p. 277]. L'elemento architettonico più caratteristico della piazza è sicuramente il retro della chiesa di san Domenico Maggiore con l'originale ingresso posto al di sotto dell'abside consistente in un atrio ottagonale da cui si diparte una doppia rampa curva che smonta proprio ai piedi dell'altare maggiore. Recentemente (dal 2003) l'ingresso alla chiesa dalla piazza avviene tramite l'ampia scalinata e attraverso il portale quattrocentesco della cappella di san Michele Arcangelo a Morfisa, che rappresenta il nucleo originario, successivamente inglobato nella chiesa, del complesso conventuale. La sagrestia settecentesca è "più unica che rara" [Gleijeses p. 270] e sul ballatoio di una sala interna sono allineate 45 arche a baule appartenenti a membri della famiglia reale aragonese. Nella seconda cappella della navata di destra, famosa perché padre Alfonso da Maddaloni (morto nel 1618) vi inaugurò la tradizione della novena di Natale, sono stati recuperati alcuni affreschi del XIV sec. di scuola umbro-giottesca con scene della vita di santa Maria Maddalena (si noti la donna avvolta nei capelli) sulla destra ed episodi del vangelo relativi a san Giovanni Evangelista e la crocifissione sul lato opposto. Uscendo da quello che sarebbe dovuto essere l'ingresso principale ci si ritrova in un vasto cortile quadrato; subito a sinistra c'è la misteriosa lapide di "Osiride". Sul cortile, nelle aule a pianterreno (la prima aula è di fronte alla chiesa), si svolgevano le lezioni della prima università di Napoli che qui ebbe sede dal 1515 al 1615. Nel complesso conventuale annesso alla chiesa visse e insegnò san Tommaso dei conti d'Aquino (1225/1226-1274; che non nacque ad Aquino ma a Roccasecca nei pressi di Cassino). Sul fondo a destra si esce su vico san Domenico Maggiore; discendiamo appena per imboccare a sinistra via De Sanctis.

Poco più avanti sulla sinistra, si erge discreta all'esterno la cappella Sansevero, forse l'ambiente più suggestivo di Napoli che, per essere compreso almeno superficialmente nel suo simbolismo e progetto unitario ideato dall'estroso e poliedrico Raimondo de Sangro (fu inventore -anche di una lampada perpetua-, uomo d'armi, letterato, alchimista), va visitato con la guida in mano: il famoso Cristo velato, il monumento a Cecco di Sangro che esce dalla bara (in realtà una semplice cassa con cui sfuggì all'assedio), la deposizione raffigurata nell'altare maggiore, gli altri marmi virtuosistici (il "Decoro" coperto dalla pelle di leone; il giogo di piume del matrimonio; la "Pudicizia" velata con la lapide spezzata, simbolo dell'esistenza troppo presto troncata della madre di Raimondo de Sangro cui la statua è dedicata; il "Disinganno" -a cui lo stesso autore dovette "passare la calce" perché i garzoni temevano di romperne la rete- dedicato al padre che in tarda età, aiutato simbolicamente da un angelo, lasciò la vita disordinata per quella religiosa), l'affresco della gloria del Paradiso sulla volta e un salto nella cripta esoterica con i misteriosi calchi del sistema circolatorio umano (neppure oggi si sa come furono realizzati: c'è chi dice che iniettò un liquido poi solidificatosi nelle vene).

Prendendo una delle parallele alla chiesa e salendo, arriviamo su via dei Tribunali (il decumano centrale) e prendiamo a destra. Sulla sinistra troviamo la chiesetta di santa Maria del Purgatorio ad Arco con le raffigurazioni di teschi a coronamento dei piloncini davanti alla gradinata esterna. Qui nel corso del XVII sec. si sviluppò la devozione per le anime del purgatorio e la pratica di adottarne una: allo sfarzoso interno barocco della chiesa superiore fa da contrappunto l'interno spoglio e preda dell'umidità della vasta cripta (vi si accede da una scala posta presso la porta della chiesa). Già lungo le pareti della cripta si trovano alcuni ossari in parte sfondati che lasciano intravedere cumuli d'ossa. Prendendo il corridoio sulla sinistra, si arriva ad una sala che è un vero e proprio cimitero sotterraneo: ai lati del passaggio centrale c'è la nuda terra usata per la sepoltura. A parte le ossa impolverate sparse alla rinfusa in ogni angolo, è tutta l'atmosfera che è surreale. La terra battuta, il pavimento di piastrelle sconnesse e differenti, le scritte cadenti, i santini spiegazzati e infilati in ogni fessura, i fiori secchi: ovunque si volga lo sguardo si coglie l'incredibile commistione di fede e superstizione e si percepisce la sovrapposizione stratigrafica della devozione e dei culti succedutisi ininterrottamente in questo strano anfratto napoletano.

Proseguendo su via dei Tribunali, a destra si apre il buio porticato (uno dei due portici di Napoli, l'altro è moderno in via san Giacomo) del gotico palazzo d'Angiò. Di fronte c'è la chiesetta di sant'Angelo a Segno. Arriviamo a piazza san Gaetano, dominata dalla chiesa di san Paolo Maggiore con la geometrica scalinata da cui si gode un bel colpo d'occhio sulla discendente via san Gregorio Armeno; la facciata è preceduta dalle due colonne superstiti del tempio romano dei Dioscuri; il soffitto della navata è stato gravemente danneggiato dai bombardamenti dell'agosto del 1943; nella sagrestia troviamo due grandi affreschi di F. Solimena, la conversione di san Paolo e la caduta di Simon Mago [Atti 8,9ss]; nella cripta a livello della piazza, ideata sempre da Solimena e ricca di marmi, troviamo la tomba di san Gaetano da Thiene. Di fronte, oltre la tozza statua di san Gaetano (a ringraziamento dopo la peste del 1656; il basamento è di C. Fanzago) e di sbieco, è la facciata della chiesa di san Lorenzo Maggiore, nel cui interno spoglio ed essenziale Boccaccio, a Napoli per far pratica in un banco fiorentino, incontrò la sua Fiammetta nel 1334 [Boccaccio, Filocolo; Regina pp. 141s]. Qui si ritirò in fervida preghiera F. Petrarca in occasione del terrificante maremoto del 1343 che colpì anche Amalfi [Gleijeses p. 313; Regina p. 142.146]. Annessa è l'area archeologica.

Da piazza san Gaetano, imbocchiamo la degradante via san Gregorio Armeno, attraversata dal caratteristico passaggio sopraelevato, la famosa via dei Presepi che si trasforma radicalmente durante il periodo natalizio. Il chiostro monumentale di san Gregorio Armeno (generalmente chiuso, ma se si suona è facile che le suore Crocefisse aprano) rappresenta un miscuglio di stili e ingredienti, a mezza via fra un romantico giardino, un silenzioso e luminoso chiostro, un orto lussureggiante. Vi si accede per una scalinata di bassi e larghi gradini in piperno, aperta sopra ma ben delimitata da alti muri che convergono leggermente verso il portone superiore. Al centro del giardino si trova una fontana con statue a grandezza naturale di Gesù e la Samaritana al pozzo [Giovanni 4,5ss]. Lo spazio rettangolare è in parte occupato da uno strano complesso di ambienti incastrati l'uno nell'altro creando passaggi, scale, finestrelle e percorsi indiretti: più bassa rispetto al piano di calpestio è la suggestiva cappella di santa Maria dell'Idria (idria è un termine greco che indica un vaso per l'acqua con due anse laterali, qui posto sotto i piedi della Madonna, simbolo di purezza [vedi anche Giovanni 4,5ss]); più avanti sopra due macine sono accatastate carrucole e antichi meccanismi di legno, testimoni del lavoro quotidiano delle monache di un tempo; girato l'angolo non passa inosservata la raccolta di massime e estratti dalla sacra Scrittura (fra cui Osea 2,16 che nella traduzione antica suona: "menala in un luogo solitario") che un tempo ammonivano le monache. Alzando lo sguardo notiamo i vari ordini di terrazze e finestre dell'imponente monastero. Non credo abbia nulla da invidiare a quello più famoso di santa Chiara, anzi; sembra un fazzoletto di terra siciliana trapiantato nel cuore di Napoli, ma questi paragoni dipendono solo da ciò che uno ha visto prima. Riprendendo a scendere per la via, incontriamo sulla destra la chiesa di san Gregorio Armeno (sempre parte del suddetto monastero) dove le reliquie di san Gregorio, patriarca dell'Armenia dal 257 al 331, riposano insieme al corpo della vergine Patrizia, nipote dell'imperatore Costantino. Vi si accede attraversando un ampio e profondo loggione, annerito dal tempo, quasi a prepararci per contrasto alla sfarzosa visione del dorato e traboccante interno barocco. Colpiscono subito le terrazze degli organi che debordano basse sulla navata come una cascata dorata; sopra l'altare notiamo l'altorilievo con l'estasi di santa Patrizia; sopra, dove si imposta la cupola, le grate segnalano la presenza della clausura delle monache. Prima dell'altare a destra, c'è la cappella rettangolare con l'urna di santa Patrizia, con il miracoloso prodigio dello scioglimento del sangue, cui fanno voti le prolifiche mamme napoletane. Se ci voltiamo indietro, scopriamo che sopra il loggiato si estende un vasto coro delle monache, i cui affacci sulla navata sono sempre protetti da delle grate. Uscendo, sulla parete di fondo a destra, c'è un bell'affresco con la scritta "tota pulchra es amica mea et macula non est in te" [Cantico 4,7] con la raffigurazione simbolica di alcune litanie (non necessariamente lauretane). Presso l'ingresso secondario (oggi deposito di legno di un presepiaro) su vico santa Luciella, una lapide ingiunge alle persone "disoneste" di non "habitare" nei pressi del "venerabile monastero".

Risaliti a piazza san Gaetano, bisognerebbe assolutamente trovare un'oretta abbondante per scendere nel percorso di Napoli sotterranea attraverso scale scolpite nella roccia, grotte, cavità, acquedotti, condutture romane e cisterne. Proseguiamo lungo via dei Tribunali; nel passare notiamo a sinistra il complesso della bianca (e sempre chiusa) chiesa dei Girolamini (l'ordine dell'oratorio fondato da san Filippo Neri) e a destra la dismessa chiesa di santa Maria della Colonna, nonché i lunghissimi solchi perfettamente rettilinei delle viuzze laterali (ad es. vico dei Maiorani). Giunti all'incrocio con la trafficata via Duomo, uno dei principali cardi della città allargato durante il Risanamento, ci dirigiamo verso sinistra (dritto si arriverebbe alla piazzetta con la guglia di san Gennaro).

Duomo dell'Assunta, impropriamente detto di san Gennaro: a destra dell'altare maggiore c'è la cappella gotica Tocco o di sant'Aspreno (primo vescovo di Napoli battezzato da san Pietro; san Gennaro era vescovo di Benevento, solo dopo il martirio -e con la traslazione delle reliquie- il culto si diffuse a Napoli) affrescata nel XVI sec. con la vita del santo [Dovere pp. 34ss]; segue la cappella Minutolo, eccezionale monumento del tardo-gotico napoletano in cui Giovanni Boccaccio ambientò una scena della novella di Andreuccio da Perugia, direi non a caso visto lo sfarzo della variopinta arca del cardinale Enrico Minutolo (anche se Boccaccio si rifaceva al sarcofago di Filippo Minutolo, morto nel 1301, sul lato destro della cappella [Regina]) con colonne tortili poggianti su leoni stilofori che reggono un baldacchino a copertura ogivale; a metà della navata, a sinistra si trova la basilica originaria (fondata nella prima metà del IV sec. d.C. dall'imperatore Costantino, poi rimaneggiata pesantemente) di santa Restituta con il mosaico di santa Maria del Principio fra san Gennaro e santa Restituta, poi il percorso archeologico sotterraneo nonché l'antico fonte battesimale con la cupola a mosaico; di fronte c'è la luminosa e dorata cappella del tesoro di san Gennaro con le due ampolle contenenti il sangue del santo, oltre al bel pavimento e i famosi busti bronzei o argentei dei "compatroni" (in tutto sono 51, il primo fu san Tommaso d'Aquino proclamato tale nel 1605, l'ultima santa Rita che è del 1928); la sagrestia maggiore nel transetto di sinistra con gli ovali raffiguranti i vescovi di Napoli; nell'abside, l'Assunta in gloria di P. Bracci è ispirata alla "gloria" del Bernini nella basilica di san Pietro a Roma. Se è aperta, prendiamo l'uscita laterale con la monumentale scalinata contornata dall'edera che inquadra l'alta guglia di san Gennaro posta al centro della piazzetta Sisto Riario Sforza; dall'altro lato della piazza, è invece l'architettura del duomo a far da quinta alla guglia.

Ci sono luoghi ignorati dalle frettolose guide turistiche che rivelano però l'essenza di una città meglio di chiese e piazze monumentali. Fra questi a Napoli bisogna annoverare senza dubbio (oltre all'isolato di sant'Agostino alla Zecca) il decumano superiore, che io anteporrei anche a Spaccanapoli. Andrebbe percorso tutto essendo più movimentato e meno rettilineo degli altri. Usciti dal Duomo, continuiamo a salire lungo il cardo fino ad incrociare il decumano. Sulla destra ci sarebbe largo Donnaregina con la chiesa nuova e quella, in disparte, vecchia, cariche di storia e ricordi preservati quasi intatti dalla secolare clausura. Prendiamo invece a sinistra dove incontriamo subito la monumentale scalinata di san Giuseppe dei Ruffi (dove bisogna entrare in punta di piedi essendoci l'adorazione eucaristica continua); più avanti, mentre si inizia a sentire che la strada sale con apparente discrezione, c'è largo Proprio d'Avellino su cui, come ricorda una lapide, si affacciava la casa di Torquato Tasso.

Con il nome di via dell'Anticaglia, il decumano è tagliato in alto da due arcate massicce, murature romane di contenimento per il teatro, presto sfruttate come ulteriori spazi abitativi. Di fronte ad essi, mi tiro da parte e lascio la parola a Bartolommeo Capasso, insigne storico napoletano:

A chi non sappia che cosa essi ricordano, quei ruderi sono per lo meno importuni, perché rendono brutta e malagevole una via non larga e abbastanza tortuosa. Il cittadino che a caso o per necessità va per quella strada, se ignaro della propria storia, per fermo resta offeso del loro ingombro, e si meraviglia che il Municipio non abbia ancora obbligato i proprietari delle case, a cui si uniscono quegli archi, a coprire d'intonaco, a dare una mano di bianco a quei luridi e ammuffiti mattoni; e se è di coloro, che hanno sempre pronti in testa mille progetti per l'abbellimento della nostra città, e sono terribilmente e a qualunque costo appassionati dei rettifili, imprecano, guardandoli sdegnosamente, all'amministrazione municipale, che non li ha atti abbattere e distruggere.
Per me e per quanti amano le patrie glorie, quelle mura sono sacre; io le guardo sempre con religiosa venerazione. Passando sotto le basse volte di quegli archi, la mia fantasia attraversa i secoli e, come per incanto, si trasporta ai tempi che furono. Essa ricostruisce il diruto teatro, in cui Claudio fece rappresentare la sua commedia, e volle Nerone dar saggio della sua voce e dell'arte sua musicale. Ricostruisco il foro, le terme, il ginnasio, i tempii, portici, le mura: tutta l'antica città, insomma, si presenta come in un panorama alla mia memoria. Parecchie parti, in verità mancano nella dipintura, o sono evanide, incerte, malamente rappresentate; sono le scalcinature in un vecchio, ma prezioso affresco Pompeiano. Ciò nondimeno quel tanto che rimane del quadro basta a far più grande il dispiacere che si prova per quello che si è perduto; ma non vale a menomare l'impressione, che l'animo riceve dalla sua magnificenza e dalle sue molteplici bellezze. [Capasso, pp. XI-XII da Regina pp. 168.170]

Le viuzze laterali offrono colpi d'occhio inaspettati, ad esempio sulla sinistra il curvilineo vico san Paolo, vico Purgatorio ad Arco, via Atri, via del Sole. Lunghi rettilinei e sinuose curve insistono sui tracciati antichi della zona del foro e del teatro romano (dove recitò anche l'imperatore Nerone). Ad un certo punto il decumano prende il nome di via della Sapienza e scende leggermente fino allo slargo di santa Maria di Gerusalemme per poi sboccare come una laterale indistinguibile dalle altre sulla spaziosa via santa Maria di Costantinopoli.

Ci conviene comunque ritornare sul decumano centrale scendendo (salendo invece troveremmo gli imprevedibili saliscendi che portano con rampe e gradini a piazza Cavour; imprevedibili perché la parallela via santa Maria di Costantinopoli sale invece larga e regolare) per via del Sole in modo da arrivare all'altezza della piazzetta Pietrasanta. La piccola mole squadrata della cappella Pontano fu edificata nel 1492 per volere del famoso umanista napoletano Giovanni Gioviano Pontano, con gli originali motti latini e il bel pavimento maiolicato; di fronte si erge solitario il campanile della Pietrasanta [Regina p. 132, Moccia p. 278 per la storia della pietra santa]. Muovendoci in direzione opposta a piazza san Gaetano, superiamo sulla destra il complesso della Croce di Lucca (non visitabile) e raggiungiamo la chiesa di san Pietro a Maiella, contro cui si scontra il decumano perdendo irrimediabilmente la sua rettilinearità. La chiesa (uno dei due esemplari di gotico napoletano) è dedicata a san Pietro Angeleri da Morrone, eremita sulla Maiella, meglio noto come papa Celestino V, "colui che fece per viltade il gran rifiuto" [Dante, Inferno III, 59-60]. All'incrocio con la già citata via santa Maria di Costantinopoli c'è la raffinata piazza Bellini con un altro tratto delle mura greche. Attraversando port'Alba (si noti che il passaggio insiste su una cupola con occhiello che dà su un giardino pensile; cupola è mutilata da murature successive) si sbuca ai lati dell'emiciclo nella vasta piazza Dante. Di fronta ci sono le chiese di san Domenico Soriano (a sinistra) e santa Maria di Caravaggio (a destra; la tela è nella terza cappella a sinistra; Caravaggio dovrebbe essere la località lombarda vicino a Lodi in cui la madonna apparve nel 1472 ad una pastorella [Moccia p. 234]). Al centro ci sono gli ingressi della futuristica e artistica stazione della metropolitana che viene citata addirittura nei più recenti libri di architettura contemporanea.

Pomeriggio: andar per vicoli

Proponiamo una serie di itinerari alla scoperta delle "molte Napoli", luoghi "tipici e pittoreschi", vere e proprie città nella città. I due quarti meridionali del centro antico possono essere accorpati e visitati in una mezza giornata, magari prolungando ulteriormente l'itinerario con la visita dei Quartieri Spagnoli (che può essere effettuata proficuamente anche in un dopocena, essendo le chiese comunque chiuse spesso durante il giorno); la visita di Pizzofalcone (che raccomando particolarmente) può seguire quella del Palazzo Reale e piazza Plebiscito; il percorso nel quartiere Sanità (che pure raccomanderei) impegna invece una mezza giornata forse un po' scarsa.

Il quarto sud-est del centro antico

Da piazza san Domenico Maggiore raggiungiamo la contigua piazzetta Nilo con la statua sdraiata del Nilo in disparte (protetta da una pesante sostruzione nel caso la retrostante casa dovesse crollare). La piazzetta è delimitata per buona parte dalla mole aggraziata e rosso scuro della chiesa di sant'Angelo a Nilo. La cupola arabizzante che si intravede dietro appartiene alla chiesa di santa Maria Donnaromita. Seguiamo il gomito di vico Donna Romita e prendiamo via Paladino verso destra. Arrivati a largo san Marcellino troviamo la chiesa dei santi Severino e Sossio e quella dirimpetto dei santi Marcellino e Festo, sempre chiusa, il cui famoso interno bisogna vedere in foto, e già ci si rende conto della armonia degli spazi, della delicatezza delle decorazioni barocche e del raccoglimento del basso soffitto a cassettoni. Proseguendo su via Capasso, alla nostra sinistra si estende l'enorme complesso in parte dismesso dell'Archivio di Stato; a questo punto potremmo ritornare su Spaccanpoli passando per l'ossimorica piazzetta Grande Archivio con la fontana fatta erigere dagli spagnoli.

Alternativamente possiamo buttarci e lasciarci disorientare dalla movimentata morfologia abitativa che rimane alla nostra destra: l'abitato odierno e le sostruzioni antiche si impostano e sussistono dove un tempo erano valli scoscese e selvagge che puntavano verso il mare, oggi irrimediabilmente assimilate sotto le case, i vicoli in pendenza, i tornanti, i gradini, e attraversate da ponti e passaggi ormai mimetizzati dai piani alti delle case sottostanti. Scendiamo dunque per le tortuose rampe san Marcellino, quindi imbocchiamo la storica via san Biagio dei Taffettanari (gli artigiani che lavoravano la taffettà, una tela assai leggera di seta cotta), attraversiamo via Duomo e risaliamo via sant'Arcangelo a Baiano fino all'omonima piazzetta; di qui giriamo a destra verso piazzetta Trinchese e, scoraggiati dall'ampia gradinata discendente, giriamo ancora a destra scendendo per vico Croce sant'Agostino. Già da piazzetta Trinchese intuiamo che ci aspetta qualcosa lì in fondo alla via: potrebbe essere la decadente chiesa della Disciplina della Croce, sede di un'antica congrega napoletana, dal cui giardino degli agrumi partì la famosa congiura dei Baroni? Sì, se non fosse che ivi giunti lo sguardo si allarga su una piazza sgangherata posta sul fianco anziché dinanzi ad un'imponente chiesa, dai cui occhiuti finestroni che danno in alto sul cielo azzurro ci sentiamo quasi osservati dai secoli di splendori tramutati ora nel più solitario abbandono di una delle zone più densamente abitate del centro antico di Napoli. E' il complesso monumentale di sant'Agostino alla Zecca, di cui ci colpiscono anche il campanile squadrato e l'ampia e movimentata terrazza monumentale (oggi inaccessibile e ricoperta da verde erba) ai piedi della facciata, estremo tentativo di farsi spazio fra le case. A questo punto possiamo visitare la zona di piazza Mercato o risalire la rettilinea via sant'Agostino alla Zecca fino a via Forcella (dove Spaccanapoli si stanca di proseguire dritta e si divide in due).

Fra Spaccanapoli e via dei Tribunali, subito a destra salendo di via Duomo, si apre una grande voragine abitativa: è dovuta alla presenza del complesso archeologico termale di Carminiello ai Mannesi. L'accesso è dalla prima laterale a destra (direzione Castel Capuano) di via dei Tribunali ma è visitabile solo in rare occasioni.

Ritornati su Spaccanapoli, il decumano inferiore che taglia in linea retta la città, dirigiamoci verso piazza san Domenico Maggiore da dove siamo partiti. Dopo aver incrociato sulla destra l'estremità inferiore di via san Gregorio Armeno, , sulla sinistra un ampio cortile interno fa da cornice alla cappella del Monte di Pietà con la sagrestia affrescata e il museo con i preziosi arredi sacri. Da qui fino a piazzetta Nilo sembra tutto in miniatura. Incontriamo prima la chiesetta di san Giovanni all'Olmo con il bel pergolato, poi quella di san Biagio dei Librai con la caratteristica doppia scalinata curvilinea e l'ancor più caratteristico e debordante negozietto d'antiquariato alla rinfusa. Di fronte a noi, lontano e in cima ad una ripida erta, rimane sempre la facciata della chiesa di santa Maria ai Sette Dolori (ci si arriverebbe in non meno di 20 minuti) contro cui Spaccanapoli termina il suo secolare tracciato.

Il quarto sud-ovest del centro antico

Da piazza san Domenico scendiamo lungo l'antico cardo oggi via Mezzocannone, un tempo famosa per la sua ristrettezza [vedi Croce per l'origine del nome e Matilde Serao], radicalmente trasformata dagli interventi del Risanamento come ricorda una lapide posta all'incrocio con via Sedil di Porto, accanto all'altra famosa lapide associata dalla tradizione popolare alla fantastica storia di Nicolò Pesce [vedi le bellissime pagine del Croce]. Ma prima di arrivare al suddetto incrocio, e prima anche del bel colpo d'occhio sulle rampe di san Giovanni Maggiore, giriamo a sinistra su via de Marinis. Dopo il movimentato slargo di san Giovanni Maggiore, con il contrasto fra la gotica cappella Pappacoda (l'altro esemplare di gotico napoletano [vedi Regina per una descrizione del meraviglioso portale]) e la severa facciata di palazzo Giusso (altra sede dell'Orientale), iniziamo ad avventurarci in una delle zone più pittoresche del centro antico: piazzetta Eccehomo, la calata santi Cosma e Damiano e il vico san Geronimo dei Ciechi, quindi via Melofioccolo con il funzionale doppio ingresso al cortile sul gomito della via, via Sedil di Porto, interfaccia con i palazzi della città moderna, poi possiamo risalire per il pendino santa Barbara e girare su vico santa Maria dell'Aiuto; potremmo (sono tristemente impraticabili per lo sporco e il degrado) scendere di nuovo per i gradini della Piazzetta. Se non siamo scesi, o abbiamo voglia di risalire ancora, proseguiamo fino al complesso di santa Maria la Nova.

Quartieri Spagnoli

Per i Quartieri Spagnoli è bello girare senza un itinerario prefissato, affidandosi al proprio senso dell'orientamento (generalmente si sconsiglia al turista di farsi identificare facilmente estraendo una mappa della città), aiutati in questo dalla griglia regolare di questo intervento urbanistico pianificato da don Pedro de Toledo (l'odierna via Toledo fu aperta nel 1536) per acquartierare le truppe spagnole. Il famigerato e fitto dedalo di vie si estende alle spalle dell'elegante via Toledo fino alle pendici del colle di san Martino, compresa fra Montesanto a nord e via Chiaia a sud. Elenco un po' alla rinfusa da sud a nord alcune punti degni di un passaggio: vicolo Croce Cariati con la croce posta in cima alla scalinata, la chiesa della Trinità degli Spagnoli, il largo Baracche (in cui si vede l'impegno del comune per riqualificare la zona, ma le panchine sono sempre desolatamente vuote), la chiesa di Montecalvario protetta da un alto muro, l'isolato ancora vistosamente puntellato dopo il terremoto del 1980, il pergolato nell'ultima parte di via del Gelso, la chiesa di santa Maria dei Sette Dolori al culmine di via Pasquale Scura (ultimo nome ufficiale di Spaccanapoli nel suo attraversamento da est a ovest della città). Anche al visitatore più distratto risulterà evidente che i Quartieri, da sempre icona tipica della napoletanità più vivace, sono ormai fuggiti dagli stessi napoletani che hanno lasciato spazio per gli extracomunitari.

Pizzofalcone e monte Echia

Alle spalle di Castel dell'Ovo, oltre i lussuosi alberghi del lungomare, un inspiegabile vuoto architettonico su un lato dell'elegante via santa Lucia ci dà un improvviso spaccato sulle vecchie case del borgo santa Lucia, facendoci capire quanto sia stato pesante e impegnativo l'intervento costruttivo del Risanamento. Le case sembrano aggrappate al ripidissimo fianco dell'antica acropoli della prima città greca (paleo-polis in contrasto con la successiva fondazione di nea-polis) strategicamente posta sulla sommità del monte Echia. Più avanti, con un po' di attenzione, fra i palazzoni moderni scoviamo l'imbocco di un vicolo che ci porterà sulla collina di Pizzofalcone. Lo percorriamo in punta di piedi, anche se tutto intorno a noi è chiasso di vita: è il pallonetto di santa Lucia, dove la via pubblica si trasforma in propaggine casalinga, e sembra di entrare in casa d'altri. Con il suo gomito iniziale, la lenta salita e le manciate di ampi gradini, l'affaccio su via santa Lucia, è una delle strade più suggestive della città. A mezza via giriamo a sinistra su via Solitaria, poi subito di nuovo a sinistra su via santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone. A sinistra, oltre una vasta arcata, scorgiamo il cortile che dà respiro alla scalinata e facciata della chiesa di santa Maria Egiziaca. Ad un certo punto, sul lato sinistro scompaiono i palazzi e solo un alto muro ci separa ancora, preannunciandolo, dal panorama sul golfo e sulla città: lo sguardo, non trattenuto dai sottostanti palazzi moderni, domina su Castel dell'Ovo e spazia sul mare; il precipizio è tanto ripido da togliere la prospettiva e sembra quasi di poter carezzare la superficie dell'acqua con un dito; l'ora migliore è sicuramente sul far della sera quando le luci delle case sono già accese ma il cielo è ancora azzurro. Tornati indietro raggiungiamo piazza santa Maria degli Angeli soffermandoci nel raccoglimento e odor di legno dell'omonima chiesa, quindi riprendiamo attraversando il ponte di Chiaia, voluto da re Filippo di Spagna per scavalcare la sottostante via Chiaia, suscitando la gioia dei cittadini (immortalata nell'apposita lapide) che prima, scendendo da san Martino, dovevano poi risalire verso Pizzofalcone. Come capita altre volte a Napoli, all'improvviso e con un po' di attenzione, ci rendiamo conto di essere in alto, sopra un'infinita serie di stratificazioni abitative. Ad un incrocio, prendiamo a destra dove il profilarsi in fondo, oltre la schiena d'asino della via che poi scende ripida, della cupola di galleria Umberto I ci aiuta ad orientarci un po'.

Ai margini del centro antico

Da piazza Cavour (a fianco del Museo Archeologico Nazionale, facilmente raggiungibile con ambedue le linee della metropolitana) proseguiamo lungo via Forìa sul cui lato sinistro si adagia la lunga facciata (310m!) dell'Albergo dei Poveri (costruito per ospitare i senzafissadimora settecenteschi) preceduto dal rinomato Orto Botanico. Tornati sui nostri passi, giriamo su via Cirillo in direzione della stazione ferroviaria; a sinistra c'è la chiesa di san Giovanni a Carbonara con la scalinata ad emiciclo e il pavimento maiolicato. Più avanti sul lato opposto si erge la mole squadrata di Castel Capuano, introdotto dalla massiccia porta Capuana (nel medesimo stile architettonico del castello). Alle spalle c'è la chiesa di santa Caterina a Formiello con l'antica fonte. Nella quarto nord-est del centro antico, compreso fra Castel Capuano e il Duomo, mi limito a ricordare la caratteristica piazzetta Sedil Capuano (i "sedili" erano i luoghi di riunione dei nobili della zona) e via santa Sofia in cui l'immaginazione, ben guidata dal racconto del Croce [Croce pp. 318ss], può rievocare l'ingresso nella città assediata delle truppe di Alfonso di Aragona (+1442+) attraverso un condotto sotterraneo.

Continuando il periplo del centro antico in senso orario, dalla fin troppo vasta e caotica piazza Garibaldi (con la stazione dei treni) imbocchiamo il "rettifilo" ovvero corso Umberto I, chiamato da Matilde Serao [ne Il ventre di Napoli] "il sipario" in quanto le belle facciate costruite con il Risanamento nascondevano la miseria che permaneva nella zona del porto. Sulla destra si trova la chiesa di san Pietro in Aram dall'antica e misteriosa storia (la tradizione vuole che l'apostolo Pietro abbia fatto tappa qui; si noti la particolare collocazione urbanistica). Dirigiamoci poi verso piazza del Mercato, teatro dell'effimera insurrezione di Masaniello (1647; si veda la raffigurazione dei moti e quella presunta di Masaniello alla certosa di san Martino). La piazza (ah, se potessero scomparire nel nulla gli orribili condomini sul lato sud della piazza!) si trova a mezza via fra il suggestivo arco con orologio e la chiesa di san Eligio Maggiore (il terzo, ebbene sì, esemplare di gotico napoletano) da una parte e il Carmine Maggiore dal bel campanile in stile spagnolo e l'antica immagine della Vergine Bruna [Gleijeses pp. 373ss] dall'altra.

Da qui possiamo concludere il giro con un autobus fino a via Medina (con la fontana e la chiesa dell'Incoronata) oppure salire direttamente lungo via sant'Anna dei Lombardi e visitare la zona di piazza Dante.

Il quartiere Sanità

Da piazza Cavour vale la pena concedersi una lunga digressione nel pittoresco quartiere Sanità che non mancherà di sorprenderci. Si può salire lungo via santa Teresa degli Scalzi (sostando nell'omonima chiesa al culmine di una monumentale scalinata sulla destra) e poi buttarsi a sinistra e scendere per la discesa Sanità (si noti come il nome di "discesa" e non di "salita" rispecchi la percezione del quartiere rispetto al resto della città) oppure avventurarsi per i vicoli e le scalinate della Stella. La Sanità è una valletta profondamente incassata fra il centro antico e Capodimonte. L'impressione -come spesso capita a Napoli- è di essere catapultati improvvisamente in un'altra città, una città nella città: una città che la città ufficiale sembra ignorare e scavalca appositamente con il ponte della Sanità. Solo il passante attento, procedendo lungo via santa Teresa degli Scalzi verso Capodimonte, all'altezza dell'emiciclo Capodimonte capirà di trovarsi su un ponte; gli altri si limiteranno a notare al livello della strada l'immensa cupola di santa Maria della Sanità e l'immane distesa di tetti.

Proprio la grandiosa mole della chiesa di santa Maria della Sanità, apparentemente sacrificata in un luogo così poco panoramico (si pensi per contrasto alla chiesa della Madonna del Buon Consiglio sul fianco della collina di Capodimonte), ci fa capire l'importanza e la vitalità di questo quartiere nel corso degli ultimi secoli. All'interno della chiesa, da un succorpo sottostante alla balconata baroccamente rigurgitante in cui è collocato l'altare maggiore [Gleijeses p. 392ss], si può accedere alle catacombe di san Gaudioso. Nonostante le ossa siano state rimosse (e portate al vicino ossario delle Fontanelle), tranne quelle infisse nel muro a riprodurre scheletri umani maschili e femminili (con gonna dipinta!), i cunicoli conservano ancora il fascino nascosto delle riunioni degli antichi cristiani (V sec.) e quello macabro del culto ai morti settecentesco (gli scolatoi e gli affreschi). Anche qui, come nella chiesa del Purgatorio ad Arco, c'era l'uso di adottare un'anima del purgatorio prendendosi cura dei suoi resti mortali (le ossa) in cambio di una grazia; curiosa la lapide "per grazia da ricevere"!

Passando sotto il ponte della Sanità, avviamoci lungo la prima laterale a destra verso il complesso ospedaliero di san Gennaro dei Poveri, al cui interno nel maggio 2003 è stata resa agibile (prima era utilizzata come deposito ospedaliero) la navata dell'antica basilica paleocristiana di san Gennaro Extra Moenia ("fuori dalle mura") dove furono conservate in un primo tempo le reliquie di san Gennaro. La basilica è "sfondata" sulla destra entro alcune sale dei piani inferiori della catacombe di san Gennaro (questo era peraltro l'ingresso originario alle catacombe). Tristemente chiuse da alcuni anni in seguito ad un crollo (e normalmente accessibili dalla soprastante basilica del Buon Consiglio), queste sono le uniche sale visibili delle famose e vastissime catacombe. Sul fianco destro della sobria navata sono stati riportate alla luce le tracce di alcuni affreschi, fra cui uno con Cristo fra san Gennaro imberbe e sant'Agrippino con il Vesuvio sullo sfondo. La basilica è preceduta da un peristilio (come ad es. sant'Ambrogio a Milano) a cui si accede varcando una deliziosa loggia affrescata.

Tornati sotto il ponte della Sanità, avviamoci verso via Fontanelle. Questa zona è ricca di cavità naturali e artificiali (fra cui le catacombe di san Severo e di san Efebo [vedi per un elenco esaustivo Liccardo p. 80], la maggior parte delle quali purtroppo non è accessibile. Il rimpianto maggiore è sicuramente per lo straordinario Ossario delle Fontanelle dove in una serie di cavità furono riposte per diversi secoli le ossa di morti a causa di malattie e pestilenze. Famose sono le sale evocativamente chiamate la "biblioteca" (con gli scaffali rigurgitanti di ossa piamente suddivise per tipo") e il "tribunale" (con le tre croci piantate sui teschi).

Proseguendo su via Fontanelle arriviamo in vallone Gerolomini: sovrastato dal costone verde che unisce Capodimonte al Vomero, sembra di essere in un piccolo paesino di montagna costretto dalla conformazione orografica a snodarsi sul lato dell'unica via. Risalendo le ripide scale sulla sinistra ci ritroviamo rapidamente a Materdei. Girando su via Appulo, si apre improvvisamente piazza Ammirato dove, nell'ambito della costruzione della nuova stazione della metropolitana (aperta nel luglio 2003), è stato creato un surreale spazio post-moderno. Da qui ritorniamo su via santa Teresa degli Scalzi passando per piazzetta Materdei e via Materdei.

Un'altra curiosità è rappresentata dallo Scudillo dove, sotto i piloni della tangenziale, si trova una vasta cavità adibita a deposito giudiziario per automobili e motorini. Durante i lavori della tangenziale, dall'alto i tecnici trovarono la cavità e iniziarono a riempirla sconsideratamente di cemento armato. Ma la cavità non accennava a riempirsi, fino a ché arrivò un allarmato tecnico del comune: è tuttora visibile (anche se non facilmente visitabile) lo spesso strato di cemento solidificato in cui si ritrovarono immerse automobili e motorini, duraturo monumento alla stupidità umana.

Sera

Pizza in una delle due più rinomate pizzerie napoletane: Michele, al bivio fra via Sersale e via Pietro Colletta che, innestandosi perpendicolare su via Forcella, taglia il reticolato regolare in diagonale portando rapidamente a Castel Capuano, o Trianon, ancora su via Pietro Colletta all'altezza di piazza Calenda con i rimasugli di mura greche.

3° giorno: isola a scelta

Procida

L'itinerario che proponiamo comporta l'intero periplo a piedi dell'isola. Procida è infatti più da "girare" nella sua interezza che da "visitare" facendo tappa solo nei suoi aspetti più conclamati, cosa che potrebbe lasciare anche un po' deluso il visitatore più superficiale. Le sue ridotte dimensioni ci danno la possibilità di farlo mentre la sua forma lo rende estremamente vario e interessante. Se abbiamo poco tempo, magari vogliamo andare in spiaggia, o non abbiamo voglia di camminare, dalla piazzetta della Corricella, dopo essere saliti all'Abbazia di san Michele (direi però che non vale la pena per il visitatore superficiale andare all'abbazia se poi non scende nei sotterranei), si può prendere il bus che porta alla Marina di Chiaiolella tagliando in diagonale tutta l'isola (a piedi ci vorrebbe una mezz'oretta abbondante di buon passo), consci così di scampare sbrigativamente alle malìe dell'isola: l'odorosa intimità delle ombrose viuzze strette dall'abbraccio dei sinuosi muretti di tufo che con fatica trattengono la prosperosa vegetazione, la feconda terra giallastra dei sentieri che penetrano la rigogliosa macchia mediterranea per poi sbucare frantumandosi all'improvviso sull'orlo della scogliera corrugata, le case dalle forme morbide e sinuose appisolate sui lati delle strade quando i basoli sono spazzati dal sole meridiano. Dalla Marina di Chiaiolella, dopo una puntata a Vivara, per andare alla Cala del Pozzo Vecchio si è quasi costretti ad andare a piedi: per prendere l'autobus che porta al cimitero che protegge la cala dovremmo prima tornare alla Marina di Sancio Cattolico, perdendo un sacco di tempo nell'aspettare la coincidenza; a piedi ci vorranno tutto sommato una ventina di minuti di buon passo. Procida è infatti, grazie anche alle sue dimensioni, soprattutto da girare a piedi, più che da "visitare" facendo tappa solo nei suoi aspetti più eclatanti.

Per il ritorno mi sembra estremamente vantaggioso il rientro in traghetto per Pozzuoli, prendendo poi la Cumana (la stazione è subito alle spalle del porto) fino a Montesanto.

Sbarcati alla Marina di Sancio Cattolico (corruzione di "santo cattolico" [Actilio et al. p. 91]), con gli occhi ancora pieni dello sgargiante affastellarsi di case colto dal mare, veniamo subito avvolti nell'indaffarata vita quotidiana di un villaggio di pescatori. Ci avviamo lungo la banchina passando davanti al crocifisso del 1845 che ci colpirà senz'altro per la base rivestita di maioliche colorate e giungiamo alle spalle della candida chiesa di santa Maria della Pietà. Qui, dopo una veloce visita all'interno (si noti la statua di san Nicola con il secchio e i tre giovinetti), prendiamo la via a destra (prendendo nota che se fossimo andati dritto, il primo bar subito dopo il ristorante è famoso per la sua miscela di granita di limoni: lo terremo buono al ritorno in attesa di imbarcarci), detta "il canale" evidentemente perché quando piove diventa uno sfogo naturale per l'acqua. Risalendo, prendiamo poi la prima strada a sinistra che ci porta a piazza dei Martiri e alla graziosa chiesa di santa Maria delle Grazie. Da qui possiamo avere un primo assaggio della Marina di Corricella, antico borgo di pescatori (dove sono state girate alcune scene de Il Postino di M. Troisi), che potremo gustare appieno dal belvedere dei due cannoni lungo la salita Castello. Varchiamo l'arco dell'ex-penitenziario (dove furono internati anche molti prigionieri politici, come racconta nel suo libro di memorie l'attempato mons. L. Fusanaro), osserviamo sulla destra le fondazioni sulla roccia delle case della sovrastante Terra Murata, che raggiungeremo poco dopo varcando un secondo arco. Vale la pena percorrere la breve circonferenza ovale del borgo, guardando dall'alto le rovine di santa Margherita sulla sottostante punta dei Monaci, e girando intorno alla cisterna. Il castello d'Avalos a strapiombo sul mare, volto verso la terraferma, è purtroppo abbandonato a se stesso e non visitabile. La visione migliore si avrebbe dal mare, altrimenti ci si deve accontentare della vista dalla terrazza.

L'ascensione culmina con la visita della cinquecentesca abbazia di san Michele, la cui attrattiva più turistica è costituita dagli scheletri nei sotterranei (sotterranei rispetto al piano di calpestio, in realtà ben sopraelevati sul mare!). Qui infatti si svolgevano i macabri riti delle variopinte congregazioni segrete (i "turchini", i "bianchi") che esponevano i defunti in bare di vetro (o con buchi da cui sporgevano le mani da baciare) al fine di famigliarizzare i viventi con la morte. Pregna di vita e morti passate, inspiro con riverenza l'aria della cappella di sant'Alfonso (XVIII sec.), sentendomi fissato da immaginarie figure di austeri membri della congrega dei "Rossi" (fondata nel 1733 da sant'Alfonso Maria de' Liguori), ancora assisi sugli scanni dismessi dell'elegante coro ligneo. Eppure basta sporgersi dalle finestrelle quadrate per rimanere affascinati dallo strapiombo dell'azzurro del mare mosso dai riflessi del sole. La giovane ragazza che ci guida dà sfogo alla sua inflessione dialettale nel riportarci l'improperio napoletano "puozza sckulà", "possa tu scolare", cioè morire e lasciar uscire gli umori e i liquidi rinsecchendoti grazie all'aria marina. Incredibilmente ricca (8000 volumi, il più antico del 1534) è l'antica biblioteca, un tempo evidentemente unico polmone da cui attingere cultura per la piccola isola, i cui titoli più curiosi sono esposti ai visitatori. Per un percorso interno si arriva alla chiesa, la cui facciata esterna non sembra quasi in relazione con lo spazio interno. Caratteristici gli ammonimenti scritti a mano dal curato mons. Fasanaro che principiano invariabilmente con un vistoso "alt!" (i più recenti sono stampati con il computer!). Non è davvero necessario essere fortunati per incontrarlo o vederlo al lavoro attraverso la porta della sagrestia, mentre si aggira attorno a polverosi libroni tratti dalla biblioteca. In chiesa, non passi inosservata il monito della lapide del nobile tedesco Balthasar Aglaubitz: "Non ti sfugga, o passante, questo triste esempio di fragilità umana. Fermati!" che è il remoto prototipo dei moderni foglietti del curato. Sopra il coro si trovano quattro dipinti del napoletano Nicola Russo, tutti datati 1690, raffiguranti il sogno di Giacobbe, l'apparizione di san Michele sul Galgano, san Michele Arcangelo che protegge l'isola di Procida e l'apparizione dei tre angeli ad Abramo.

Ridiscesi alla Corricella, ci prepariamo a proseguire il nostro periplo dell'isola. I lati della strada sono un continuo susseguirsi di case, ma qualche portone lasciato aperto lascia intravedere i ricchi giardini e la macchia mediterranea che prende subito il sopravvento dietro di esse. Dal quadrivio di piazza dell'Olmo possiamo raggiungere Punta Pizzaco e l'insenatura di Carbogno prendendo a sinistra, la cala del Pozzo Vecchio a destra, mentre proseguiremmo più o meno diritto inoltrandoci nell'interno per dirigerci verso la costa opposta.

Chi avesse tempo di fare una digressione a Punta Pizzaco, prenda quindi la viuzza che si incurva a sinistra. Dopo poche decine di metri l'ininterrotto prospetto di case sulla sinistra viene sfondato come se, venuto a mancare il sostegno, fossero precipitate scomparendo silenziosamente nel mare: ci ritroviamo sul limitare della scogliera e dall'inaspettato squarcio appare già un buon colpo d'occhio sulla Corricella e sul complesso di Terra Murata secondo una visuale inusuale, opposta a quella che si ha, da ben più lontano, dalla terraferma dei Campi Flegrei o avvicinandosi in traghetto; al di sotto, la sottile striscia di sabbia scura della Chiaia è raggiungibile dalle scale inserite poco prima in una fenditura rocciosa perpendicolare alla costa, che sfocia in un piccolo stabilimento balneare. Saltiamo la prima laterale a sinistra che è chiusa e prendiamo quella subito dopo. Dapprima scorrono ai lati alcune ville con bei giardini e graziose soluzioni architettoniche, poi la strada si fa sterrata fino a diventare sentiero e alla polvere ocra segue la roccia della scogliera, che qui è a picco solo nell'ultima parte mentre nel primo tratto si mantiene su un ripido pendio ancora chiazzato dalla macchia mediterranea. La roccia chiara su cui poggiamo saldamente i piedi, il verde carico delle agavi e dei fichi d'India che si protendono o si ripiegano sullo stretto tracciato, l'azzurro intenso del mare e quello slavato del cielo, si stratificano e si alternano secondo un ritmo vivace che non ci fa invidiare più di tanto chi sfreccia sotto spavaldo a bordo dei motoscafi. Il sentiero prosegue a sinistra (siamo proprio sulla punta fra le due insenature) fra due muraglie di verde, a sinistra c'è il limitare della macchia mediterranea, mentre a destra si intuisce il ciglio della scogliera; poi torna ad aprirsi sull'insenatura della Corricella con una stupenda visuale anche su Punta dei Monaci (con le rovine diroccate della chiesa di santa Margherita) e la soprastante Terra Murata, coronata dall'Abbazia di san Michele. Ritornati indietro sulla strada, possiamo proseguire sul bordo dell'insenatura di Carbogno, e da qui si vede bene la scogliera di questo lato di punta Pizzaco che si getta diagonalmente in mare. Sulla sinistra si trova un piccolo parco, poco rigoglioso in estate ma non privo di una sua originalità, mentre a destra una strada sale e poi piega costituendo la via principale del borgo delle Centane; arrivati ad un incrocio, giriamo a sinistra, ritornando infine sull'insenatura di Carbogno per poi lasciarla imboccando ancora una strada che curva a destra che ci permetterà di arrivare dal fianco con una placida discesa sulle poche case della Marina di Chiaiolella, affacciata sulla bella insenatura oggi porto turistico.

Chi volesse evitare la suddetta digressione alla punta Pizzaco, al quadrivio di piazza dell'Olmo deve proseguire dritto. Dinanzi alla chiesa di sant'Antonio da Padova la strada si biforca: se andassimo a sinistra potremmo inoltrarci lungo i bei sentieri della punta di Solchiaro dopo aver attraversato il borgo solitario di Centane; prendiamo invece la destra che ci porta alla Marina di Chiaiolella.

Percorrendo la breve lingua di terra che separa la Marina dalla spiaggia del Ciracciello ci spingiamo verso l'isolotto di Vivara; ad un certo punto un sentiero sulla sinistra si inerpica verso la cima di santa Margherita, il piccolo ma impervio promontorio che separa l'insenatura di Chiaiolella dal golfo di Genito. Nonostante verosimilmente la calura del mezzogiorno a malapena mitigata dalla folta vegetazione, continuiamo l'effimera salita per poi scendere subito, varcando abusivamente il cancello e frenando a fatica l'entusiasmo: la vegetazione dirada e il sentiero di cubetti di porfido sembra un lungo scivolo rilucente che si proietta sul mare verde-azzurro catapultandoci verso Vivara, sulla cui erta propaggine risalente dalle acque un altro più severo cancello impedisce l'accesso all'incontaminata oasi naturale e agli scavi archeologici. Ci accontentiamo però dello spettacolo del golfo di Genito, cratere vulcanico semi affondato di cui il moderno ponte (sotto corrono i tubi dell'acquedotto) emula l'antica parete ormai sommersa o franata, congiungendo di nuovo il relitto di Vivara con Procida.

Quando ci decideremo a lasciare Vivara, possiamo arrancare lungo la spiagge del Ciracciello prima e del Ciraccio poi, separate da due un po' miseri rispetto a Capri ma sempre pittoreschi faraglioni. Alle spalle, un sentiero che ha conosciuto momenti migliori risale la scogliera verso quella che dovrebbe essere l'area archeologica dove, in seguito al dilavamento di un temporale (1950), vennero alla luce alcune tombe pre-romane. Forse un po' stanchi, dovremo aspettare che la scogliera si abbassi per imboccare via Salette e prendere poi sulla destra via Flavio Gioia fino al cimitero dell'isola, che cela e protegge l'indimenticabile cala del Pozzo Vecchio (dove pure è stata girata una memorabile scena del film "Il Postino"). Per raggiungerla, seguiamo il sentiero pavimentato a ridosso del muro destro del cimitero, la cui movimentata disposizione interna, sviluppata su più piani per sopperire alla morfologia del terreno, potremo osservare a tratti. Proprio quando il sentiero sembra finire contro un muretto che si sporge sull'infinito azzurro, compare dietro l'angolo a sinistra una spiaggetta incastonata in un'insenatura quasi circolare ben delimitata dall'alta scogliera. A sinistra ci sono alcune grotticelle mentre sull'altro lato c'è l'avventuroso passaggio verso la caletta degli Innamorati, dominata dalla sovrastante torre d'avvistamento.

Spiagge a Procida

Per fare il bagno, dopo la cala del Pozzo Vecchio e a parte la convenzionale spiaggia del Ciraccio e Ciracciello, ci sono le profonde acque di Vivara e la spiaggia Ghiaia nel golfo della Corricella. Le spiagge ai due lati della Marina di Sancio Cattolico mi sembrano davvero impraticabili per la sporcizia (forse quando le ho viste dovevano ancora essere bonificate in vista dell'estate).

Rientrando verso la Marina di Sancio Cattolico -e premesso che tutte le stradine di questa zona, dove le case sono più rare e domina la macchia, meritano di essere percorse, ad es. via Scotto di Vettimo (dalla casa-torre) o la sinuosa e strettissima via Elleri- vale ancora una volta la pena avventurarsi nel reticolato regolare della contrada Pioppeto. Al termine di via Faro si arriva all'imboccatura di un bel sentiero a picco sul mare che termina ahimè contro una ben protetta proprietà privata.

Prima di imbarcarsi sul traghetto, raccomando di gustare la dolce "lingua di Procida" e una granita al succo dei rinomati limoni locali: non stupitevi se, dopo una giornata straordinaria come questa, sarà il gusto a prevalere sulla vista lasciandoci l'indelebile ricordo dell'armonia di limone fresco, sciroppo, zucchero, ghiaccio grezzo e fine della granita.

Ischia

Se si vuole avere il massimo anche dal percorso in mare, prendendo all'andata un traghetto che fa scalo a Procida e al ritorno il diretto Ischia-Napoli si ha modo di osservare tutto il perimetro di Procida, prima dal lato terraferma all'andata e poi dal lato mare aperto al ritorno.

Digressione panoramica dal traghetto

Partendo dal molo Beverello, alle spalle abbiamo il Maschio Angioino, poi si gira e rimane il Vesuvio; sulla destra man mano si susseguono: il palazzo reale, Castel dell'Ovo, lungomare Caracciolo e la villa (=parco) comunale, Mergellina con il porto turistico; la monocroma e traforata sagoma di palazzo Donn'Anna cui fanno da contrappunto i colorati ombrelloni della spiaggetta dirimpetto, le varie ville (Rosebery, Emma, Malatesta) di Posillipo; il borgo dei pescatori di Marechiaro da cui si distacca più sopra la piccola torre campanaria di santa Maria del Faro; cala san Basilio, l'isola di Gaiola e la grotta dei Tuoni, mentre in cima alla scogliera si intravedono nel verde le rovine dell'area archeologica e un pezzo -mi pare- del teatro romano; quindi cala Trentaremi con lo scoglio semi-sommerso e punta Cavallo che si protende dolcemente nel mare, sullo sfondo imponente dello sperone di tufo giallo di monte Coroglio, coronato dalla piattaforma alberata del parco Virgiliano con i tanti affacci a strapiombo sul mare; nella roccia si vede qualche puntino nero e dovrebbero essere le finestrelle ricavate nell'ultimo tratto della grotta di Seiano che dal primo tornante della discesa di Coroglio (dietro lo sperone roccioso sul lato terra) porta tuttora alle ville romane dell'odierna area archeologica; a questo punto il ciambellone di Nisida è sbucato già da un po' e fa ormai da quinta l'area industriale di Bagnoli; quindi è il turno di Pozzuoli con l'irregolare massa del Rione Terra che sporge sul mare mentre più sopra a destra si intuisce la sommità sbrecciata della caldera della Solfatara; il verde vulcano in miniatura del Montenuovo (il più basso, il più alto a destra è il monte Barbaro); la sagoma piatta e larga del castello aragonese di Baia, saldamente adagiata su un promontorio; capo Miseno dall'inconfondibile sagoma con il faro sopra e la grotta sotto; quindi la spiaggia di Miliscola (con un po' di fantasia sembra di vedere gli alberi delle triremi romani ormeggiate al riparo dalla sottile striscia di terra, se non addirittura la nave di Plinio il Vecchio che esce in mare per correre in soccorso degli abitanti di Pompei nonostante il buio delle ceneri) alle cui spalle fa capolino di nuovo il castello aragonese di Baia (stavolta dal lato terra); Monte di Procida con la propaggine dell'isolotto di san Martino; a questo punto passiamo sull'altro lato della nave dove rimarremo sorpresi nel trovare già Procida con il castello d'Avalos a picco sul mare, seguito poco dopo dalle variopinte case della Marina di Sancio Cattolico; dopo lo scalo appare imperdibile la cala del Pozzovecchio, poi la spiaggia del Ciraccio e finalmente la mezzaluna di Vivara; se abbiamo preso il diretto vediamo il lato opposto dell'isola con lo strapiombo sotto l'abbazia di san Michele, la Marina di Corricella, punta Solchiaro, la stretta imboccatura del porto di Chiaiolella, per concludere inevitabilmente con Vivara che sembra tendersi da Procida verso Ischia. In un modo o nell'altro ora abbiamo di fronte Ischia in tutta la sua vastità: man mano che ci avviciniamo prende forma e si distacca in primo piano l'isoletta ripida su cui si erge il castello aragonese.

Sbarcati a Ischia porto, se abbiamo già visto Procida e Capri, ci aspetteremmo un'impressione a mezza via, invece il mondo che si dischiude davanti a noi è ancora qualcosa di nuovo: Ischia è un'isola e quasi una terraferma. Lasciato il porto, seguiamo il lungo corso Vittoria (occhio alle chiese ai lati), poi via Pontano e via Luigi Mazzella fin sul ponte del castello aragonese. Mentre saliamo con l'ascensore ci ritroveremo stupidamente a rimuginare sul salatissimo biblietto di ingresso invece che prepararci spiritualmente a scoprire un labirinto di spazi abitativi costruiti a secco, ampi ambienti umidi e ombrosi, sentieri assolati, strapiombi mozzafiato sul mare, ulivi, terrazzi, piante grasse, cappelle, prigioni, rovine... L'itinerario più panoramico è quello di levante: dalla casa del Sole (i cui passaggi ricordano un po' certi quadri di Escher) saliamo alla chiesa di san Pietro a Pantaniello e proseguiamo attraverso il carcere borbonico, il terrazzo degli Ulivi, la chiesa di santa Maria delle Grazie (il cui utilizzo come sede per mostre di pittura stona con la sobrietà del luogo e il contesto naturale), l'assolato sentiero del Sole, il viale dell'Ailantus, i resti del tempio del Sole. Dell'itinerario di ponente ricordo il cimitero delle monache con i sedili su cui le monache morte scolavano sotto gli occhi delle compagne vive (avrete il coraggio di sedervi?) e la cattedrale dell'Assunta, crollata nel 1809 sotto le incuranti cannonate inglesi; sotto la chiesa c'è una cripta costruita fra XI e XII secoli con affreschi di scuola giottesca! Vale la pena scendere a piedi nella fresca penombra del tunnel coperto facendo una sosta alle minuscole sale del museo della tortura.

Un minitaxi può portarci ora alla spiaggia dei Maronti: si sale poi si scende, sembra di essere in montagna anche se il mare è sempre lì a due passi. Lungo la spiaggia ci dirigiamo verso l'isolotto di sant'Angelo, una specie di miniatura del castello aragonese. A mezza via ci si può anche avventurare in un stretto canyon che taglia lo sperone roccioso verso una fonte termale. Risaliamo verso sant'Angelo non senza aver fatto qualche suffumigio con il soffione esterno delle terme Aphrodite. Alla fermata dell'autobus, conviene prendere per Forio e Casamicciola Terme, così da completare il periplo dell'isola.

Capri

La posizione e la conformazione di Capri è tale che la sua silhouette rappresenta un elemento inconfondibile da qualsiasi punto del golfo di Napoli la si guardi. A sinistra si erge perpendicolare all'orizzonte del mare lo sperone del monte di Tiberio (335 m), a destra si innalza il largo tavolato roccioso di Anacapri (280 m) che raggiunge sui lati sud e est punte di 500 m di altitudine con i monti Cocuzzo, Solaro, Cappello e santa Maria (da ovest verso est). Fra questi due elementi si adagiano le case dell'abitato di Capri mentre alle loro spalle il terreno continua a salire verso il cocuzzolo del Castiglione (250 m) che sull'altro lato scende a picco sul mare. Se il monte di Tiberio digrada più dolcemente verso l'interno dell'isola, a est il pianoro di Anacapri è troncato all'improvviso da una parete verticale, così da formare l'unica scogliera dell'isola che non si affaccia sul mare. L'isola risulta quindi nettamente divisa in due parti: la parte ovest con Anacapri di pianta vagamente quadrangolare, la parte est più stretta con Capri, per tornare poi ad allargarsi un po' con il monte di Tiberio il quale si protende verso la punta della penisola sorrentina. Nello spigolo nord-ovest si apre la grotta Azzurra, mentre da quello sud-est si staccano i tre faraglioni. Poiché il lato est dell'isola è orientato diagonalmente seguendo il profilo della costiera amalfitana, da Positano è possibile ammirare in lontananza l'ampio fronte sul mare del monte di Tiberio con i tre faraglioni che si stagliano alla sua sinistra; se la visibilità è ottima (come accade raramente d'estate), del faraglione di Mezzo si scorge perfino l'apertura centrale da cui filtra la luce del cielo oltre l'orizzonte del mare.

L'isola condivide la storia geologica della penisola sorrentina di cui è un prolungamento, pur separata oggi dal braccio di mare detto Bocca Piccola (in riferimento al golfo di Napoli). Poi condivise con Ischia le vicende della colonizzazione greca. Nel 29 a.C., quando l'imperatore Augusto la visitò per la prima volta, pur facendo parte ormai da tempo dei possedimenti romani, si parlava ancora correntemente la lingua greca. L'apice della popolarità dell'isola, accompagnato da un notevole impegno costruttivo, risale all'imperatore Tiberio che vi si ritirò dal 26 o 27 fino alla morte nel 37 d.C. Da allora, Capri è stata rifugio di ospiti illustri, fra cui il più inaspettato potrebbe essere per alcuni Lenin, come ricorda un monumento nei giardini di Augusto.

Appena arrivati a Marina Grande, un'alternativa decisamente appetibile all'itinerario proposto consiste nel dedicare un paio d'ore al giro in barca dell'isola, con possibilità (se il mare non è mosso, pena dolorose zuccate all'atto di varcarne lo stretto pertugio) di entrare nella grotta Azzurra (riscoperta nel 1826, ben nota ai romani). Dal mare sono visibili numerose altre grotte e si può apprezzare molto bene lo sviluppo verticale dell'isola.

Sbarcati a Marina Grande, non dobbiamo lasciarci scoraggiare dall'impatto con la folla e la confusione generale: c'è gente dappertutto e l'isola non sembra capace di contenerla... in realtà, appena si abbandona la famosa Piazzetta, complice anche la natura impervia del luogo, ci si ritrova felicemente soli! Con la funicolare saliamo rapidamente alla Piazzetta, ufficialmente piazza Umberto I: l'intimità del luogo, strettamente delimitato dalle case, si può solo immaginare. Un lato è movimentato dalle graziose volte esterne delle cappelle laterali della chiesa di santo Stefano, di cui si intravede di sbieco la facciata barocca, raggiungibile tramite una gradinata che in basso si allarga sulla piazzetta; le forme attuali risalgono alla fine del XVII sec. ma la chiesa ha alle spalle una lunga storia come cattedrale del vescovado di Capri, poi soppresso nel 1818. Altro elemento caratteristico della Piazzetta è il solitario campanile, un tempo appartenente al convento di santa Sofia, ricoperto da una piccola cupola e arricchito da un orologio maiolicato.

Dalla Piazzetta, imboccando via Botteghe e poi seguendo le vie Fuorlovado e Croce arriviamo ad un quadrivio raggiungibile anche per le vie Longano e Sopramonte. Qui dobbiamo decidere se procedere con l'immancabile passeggiata all'Arco Naturale e ai faraglioni o se anteporvi la visita ai resti archeologici della villa dell'imperatore Tiberio.

Nella seconda ipotesi, prendiamo via Tiberio che sale incurvandosi verso destra, lasciando a sinistra la rustica costruzione della chiesetta di san Michele della Croce, a pianta rettangolare con volta a crociera e superstite di un piccolo complesso conventuale francescano. Da questo punto le case cominciano a diradarsi lasciando spazio a vigne, orti e prati bruciati dal sole. Man mano che si sale, muta il panorama sull'abitato di Capri, fiancheggiato dal Castiglione e sullo sfondo della parete rocciosa di Anacapri, in cui si ritaglia ben visibile il tracciato a zig-zag della scala fenicia; con piacere si riprende fiato volgendo lo sguardo all'indietro per ammirarlo. Dopo circa 20 minuti per una gamba allenata, quando la vegetazione torna a infoltirsi, saremo ormai giunti nei pressi dell'ingresso di villa Jovis. Dopo essere stata "frugata" in età borbonica (contemporaneamente alle prime scoperte a Pompei ed Ercolano), fu esplorata in maniera sistematica fra il 1932 e il 1935 dall'archeologo Amedeo Maiuri che la definì come "forse, lo scavo più inebriante che abbia avuto la ventura di fare". Architettonicamente il complesso si adatta con grande razionalità alla natura del suolo, sfruttando i dislivelli per la realizzazione di più piani. Il primo impianto (opera reticolata in tufo flegreo) risale all'età augustea, poi modificato per rispondere alle esigenze di Tiberio (opera incerta in calcare locale intramezzata di ricorsi in laterizio). La prima serie di ambienti visibile lungo il percorso di visita formava il settore termale, a sud dell'impianto di profonde cisterne che costituiva il centro del complesso. Prima di salire alla chiesetta di santa Maria del Soccorso, scendendo alcuni gradini e percorrendo una lunga rampa d'accesso, si accede al quartiere imperiale. Perpendicolarmente alla rampa, si estende quella che un tempo era una larga loggia. Prendendo a destra potremo sporgerci sullo strapiombo del cosiddetto "salto di Tiberio" (297 m); girando a sinistra ci avviamo invece verso i resti di una costruzione in opera reticolata con filari in laterizio che è stata identificata con lo specularium, l'osservatorio (specola) di corte in cui Trasillo studiava i movimenti degli astri al fine di trarne presagi per l'imperatore. Fra gli ambienti visibili sulla sinistra lungo il percorso, il più vasto era un triclinio. Tornati sui nostri passi, saliamo alla terrazza con la chiesetta di santa Maria del Soccorso, ampliamento della cappella medioevale dedicata ai santi Cristoforo e Leonardo. Il percorso prosegue quindi lungo l'emiciclo che delimitava un vasto ambiente di rappresentanza affacciato sulla scogliera. Ridiscesi verso l'ingresso dell'area archeologica, alle spalle dei locali della biglietteria si intravede la torre di segnalazione fatta erigere da Tiberio per ricevere e trasmettere messaggi. Lasciata l'area archeologica e avviandoci a tornare indietro, possiamo soffermarci nel solitario parco Astarita, il cui ingresso si trova ad un centinaio di metri dalla villa sulla sinistra. Il parco è ben ombreggiato e presenta una serie di stupendi affacci sul mare dove i necessari interventi dell'uomo per la messa in sicurezza si sono piacevolmente adeguati alle straordinarie forme con cui la natura ha plasmato la scogliera.

Tornati o rimasti al suddetto quadrivio, imbocchiamo via Matermània (proseguimento di via Sopramonte) così detta in riferimento ai culti della Grande Madre (Mater Magna), la dea Cibele*, che si tenevano nella grotta omonima. Arrivati ad un piccolo spiazzo con una fontana, alla biforcazione prendiamo la via di sinistra. Anche qui le case iniziano a diradarsi, ma più lentamente e lasciando scorrere ai lati una vegetazione fitta e rigogliosa nonostante la calura. Ben presto la viuzza inizia a scendere rapidamente, fino a trasformarsi in tortuosa scalinata avendo ormai dinanzi agli occhi la nostra meta, l'Arco Naturale, attraverso il quale rifulge il mare azzurro della cala di Matermània. Risaliti gli ultimi 121 gradini , prendiamo a sinistra la scalinata in discesa che conduce alla grotta di Matromania, forse adibita a ninfeo dall'imperatore romano Tiberio. Oltrepassata la grotta, gli scalini proseguono insinuandosi nel folto sottobosco: i tratti rettilinei sono spezzati da curve improvvise e pianerottoli che variano la direzione della discesa, nel tentativo ben riuscito dell'uomo di adattarsi alla morfologia/natura del suolo, per il resto tenuta ben separata dalla propria opera grazie a bassi e regolari muriccioli. La discesa può essere compiuta senza il pensiero di dover risalire l'infinita serie di scalini, in quanto la passeggiata è circolare e ci riporterà più gradualmente all'abitato di Capri per un'altra via (anche se alla fine quel che scenderemo dovremo recuperarlo se vogliamo ritrovarci nella piazzetta); per questo consigliamo caldamente di percorrerla in questo verso! Giunti sul limitare della scogliera, che in questo tratto è più bassa che altrove, il sentiero prosegue con lievi saliscendi e solo qualche manciata di gradini. Un primo tratto rimane avvolto nel fresco sottobosco che lascia comunque filtrare fra i tronchi il baluginare del mare; poi diventa più esposto, mentre un paio di altri sentieri se ne distaccano sulla sinistra: uno porta alla vistosa villa Malaparte pigramente e vistosamente adagiata su punta Massullo. Siamo in piena stagione turistica ma, nonostante la spettacolarità del percorso, incontriamo a malapena un paio di coppiette. Infine spuntano i tre faraglioni (così detti perché utilizzati come fari dai romani) e ci concediamo una doverosa sosta nell'apposito terrazzino. Sotto di noi si trova lo scoglio largo e basso (40 m) del Monacone. Se riusciamo a staccare lo sguardo dai faraglioni per guardare nella direzione opposta, vediamo la penisola sorrentina con punta Campanella e l'ingresso alla baia di Ieranto, Positano c'è ma è di sbieco mentre il paesotto più evidente dovrebbe essere Vettica Maggiore. Ripreso il cammino, possiamo decidere di scendere verso i faraglioni, ovvero alla spiaggia senza sabbia e con acque profonde (come avverte un cartello maiolicato) di Tragara. Fra i due stabilimenti balneari a pagamento si trova un'area libera, priva però di accesso al mare. Dal basso, l'imponenza dei tre faraglioni è ancora più appariscente: il faraglione di Terra è alto 111 m, quello di Mezzo 81 m, mentre quello di Fuori 105 m. Il faraglione di Terra è di fatto una propaggine dell'isola; il faraglione di Mezzo ha un'apertura a livello dell'acqua che da qui si percepisce solo vedendo una qualche imbarcazione che entra da una parte ed esce dall'altra. E' anche possibile scalarli con un'arrampicata abbastanza impegnativa e l'appoggio di una barca. Risaliti più velocemente di quel che avremmo potuto immaginare i numerosi gradini, ritornati sul sentiero principale, raggiungiamo velocemente via Tragara e da qui, dopo una sosta al belvedere e una granita al limone, via Camerelle che ci porta, girando a destra su via Vittorio Emanuele, di nuovo alla Piazzetta.

Avendo tempo, girando invece a sinistra su via F. Serena (o poco prima su via Cerio) possiamo concederci una digressione alla Certosa di san Giacomo. Edificata nel XIV sec. ebbe alterne vicende (fra cui il rifiuto di ricoverare gli appestati del 1656), fino alla soppressione inglese del 1806. Si compone di due chiostri affiancati da una chiesa con il catino absidale riccamente affrescato; caratteristici sono il campanile con la campana sostenuta da quattro bracci di pietra che si ricongiungono in cima e il morbido incrociarsi delle volte a botte della chiesa viste dall'esterno. Dal chiostro grande, sul far del pomeriggio e nonostante il sole d'agosto, l'impressione di serenità e pace si fonde con quella dell'abbandono e della solitudine. Isolata dalle case, se ne può apprezzare la struttura e la collocazione in una sella fra il picco del Castiglione e il monte Tuoro dalle terrazze dei vicini giardini d'Augusto (che non sono un sito archeologico!), raggiungibili seguendo via Matteotti. Le terrazze si sussegueno su diversi piani variando i punti di vista, oltre che sulla Certosa, sui faraglioni, sulle case morbide e colorate che chiazzano il rigoglioso pendio verde del monte Tuoro e, dall'altra parte, sulla Marina Piccola con lo scoglio delle Sirene e, più oltre, sulla punta del Mulo. Sazi di panorami, ci scopriamo immersi in un giardino curatissimo, ricco di aiuole e fiori colorati. Un ponticello scavalca l'inizio di via Krupp, dono a Capri dell'industriale tedesco Alfred Krupp, realizzata nel 1902 su ardito progetto dell'ingegnere Emilio Mayer (lo stesso che aprì la strada provinciale per Anacapri). La via si aggrappa formidabilmente alla roccia per scendere dolcemente fino al mare, avvolgendosi su se stessa in ben 8 tornanti e proseguendo poi verso Marina Piccola. Lungo il percorso, nella roccia, si apre l'antro artificiale di fra' Felice. Se ci siamo avventurati lungo via Krupp fino a Marina Piccola possiamo risalire lungo via Marina Piccola fino al quadrivio Due Golfi e da qui prendere l'autobus di cui sotto, altrimenti dovremo tornare sui nostri passi e raggiungere la Piazzetta.

Un'ulteriore digressione potrebbe portarci al castello del Castiglione (risalente alle prime scorrerie arabe, poi potenziato da Roberto d'Angiò nella prima metà del XIV sec., oggi proprietà privata) o al parallelo belvedere del Cannone, raggiungibile seguendo via Madre Serafina di Dio.

Anacapri

Dalla Piazzetta, prendiamo via Roma fino al piccolo spiazzo dove è stato ricavato un ingegnoso capolinea degli autobus con percorsi obbligati onde evitare litigi sulla priorità degli aspiranti passeggeri. Inseriamoci nella fila per Anacapri e attendiamo pazientemente l'arrivo del minibus (le corse si susseguono ogni 15 minuti circa). Oltrepassato il quadrivio Due Golfi (prendendo a destra saremmo discesi a Marina Grande), dopo una serie di tornanti circondati da una fitta vegetazione, sulla destra si dispiega uno splendido panorama su Marina Grande e su Capri. Anacapri significa infatti in greco "sopra Capri". Scesi a Capodimonte (piazza Vittoria all'inizio dell'abitato), imbocchiamo a piedi via G. Orlandi; la seconda laterale sulla destra (la prima è via Timpone) dovrebbe già lasciare intravedere la facciata bianca ed equilibrata della chiesa di san Michele Arcangelo. Costruita per volere di madre Serafina di Dio fra il 1698 e il 1719, a struttura centrale con cupola su pianta ottagonale, quattro absidi maggiori negli assi allungati della croce e quattro archi minori negli assi diagonali terminanti con absidi rotonde. "Per il gusto degli stucchi, l'alternato ritmo degli archi e delle nicchie, i lievi raccordi in curva, il biancore discreto, che conferisce la massima visibilità al colore" rappresenta secondo Roberto Pane uno dei più pregevoli esempi di architettura settecentesca napoletana. Il progetto architettonico è attribuito ad Antonio Domenico Vaccaro, autore della chiesa della Concezione a Montecalvario in Napoli. In questa cornice (e non in senso figurato!) è collocato l'eccezionale pavimento maiolicato raffigurante la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre. Datato al 1761, fu eseguito da Leonardo Chiaiese, uno dei migliori maiolicari abruzzesi operanti a Napoli. Al centro risalta l'angelo con la spada infuocata che scaccia Adamo ed Eva; dietro il diavolo sotto forma di serpente è attorcigliato al tronco dell'albero; sullo sfondo il sole, la luna e le stelle; vicino all'ingresso in primo piano sono raffigurati gli animali domestici, che poi lasciano spazio, fra ciuffi d'erba e rigogliosi corsi d'acqua, a quelli esotici fra cui non poteva mancare il leggendario unicorno. Il contrasto fra la drammatica disperazione dell'uomo e della donna e il placido ruminare degli animali, connota ulteriormente la scena, insieme al contrasto con il bianco luminoso delle pareti interne della chiesa. Dopo aver apprezzato i singoli particolari girando intorno al pavimento, è possibile salire sul balcone dell'organo per godere della visione d'insieme. [ampi stralci adattati da Congrega dell'Immacolata Concezione, Chiesa monumentale di san Michele in Anacapri, Padova 1998]

Da Anacapri è possibile compiere diverse passeggiate:

Tornati a piazza Vittoria da cui avevamo iniziato la visita di Anacapri, concludiamo la nostra giornata caprese con una passeggiata fino alla vicina villa san Michele, raggiungibile al termine dell'omonima via, stretta fra le mercanzie dei debordanti negozi. Axel Munthe (1857-1949, svedese) elesse questa villa quale sua residenza, restaurando e ampliando i resti di precedenti costruzioni, originariamente forse una stazione di sosta romana al termine della scala fenicia. Anche qui, dal famoso terrazzino con la sfinge, si gode di un panorama mozzafiato.

Per rientrare a Marina Grande, suggeriamo, anziché un autobus affollato, di percorrere a piedi la scala Fenicia. Proibitiva in salita, permette di arrivare al porto in una ventina di minuti. A dispetto del nome, il percorso intagliato nella roccia è probabilmente di origine greca e, fino all'apertura nel 1874 della strada oggi asfaltata, rappresentava l'unico modo per salire ad Anacapri (a dire il vero lo sperone roccioso che taglia l'isola in due è superato anche dall'impegnativo sentiero del Passetiello che da santa Maria a Cetrella scende al quadrivio Due Golfi). La scala si imbocca proseguendo oltre villa san Michele e varcando la porta della differentia. Poco dopo attraversa con un sottopassaggio la strada provinciale e inizia a zig-zagare lungo lo strapiombo, formando il caratteristico intaglio ben visibile da Marina Grande (o salendo verso villa Jovis). Lungo il percorso incontriamo subito la cappella di sant'Antonio (290 m). 536 gradini, "una eterna scala di Giacobbe" per il Gregorovius, un tempo affollata da chi portava pesi e merci ad Anacapri. Alla base si trova la chiesa di san Costanzo (50 m), dove prendiamo la strada principale verso sinistra; dopo due tornanti arriviamo subio a Marina Grande.

* In realtà sembra non vi sia alcun fondamento per questa asserzione, tanto che Eduardo Federico intitola 'La "grande madre" di Matermania. La leggenda moderna di Cibele a Capri' [enfasi mia] un circonstanziato articolo sull'argomento cui rimando [in Casaburi & Lacerenza, pp. 93-114].

Sera

Pizza rustica (tavoli senza tovaglia) da Di Matteo in via dei Tribunali.

4° giorno: Napoli 3

Mattina: castelli, musei e residenze reali

Con l'autobus R4 risaliamo rapidamente via santa Teresa degli Scalzi e via Capodimonte fino alla fermata del trivio con via di Miano. Possiamo proseguire sia lungo via Capodimonte che per via di Miano, fino a raggiungere uno degli ingressi del parco della Reggia di Capodimonte, così vasto da essere chiamato anche Bosco di Capodimonte. Dall'ingresso di via Capodimonte ci troviamo subito sull'estremità meridionale (quella affacciata sulla città) dello sperone roccioso su cui si erge la reggia; il parco si estende poi sproporzionatamente allargandosi verso nord. Dalla terrazza semicircolare davanti alla reggia si gode un magnifico panorama sulla città, con la Sanità in primo piano in basso mentre la collinetta di Materdei ricoperta dai moderni palazzi si staglia davanti al colle di san Martino. I vialetti e gli ombrosi sentieri sono infiniti e il modo migliore per visitare il parco è munirsi di una bicicletta. La reggia ospita un ricchissimo museo.

Lasciata la reggia, scendiamo per via Capodimonte. Possiamo fare il tornante e dare un'occhiata alla basilica di santa Maria del Buon Consiglio (che promette molto dall'esterno ma non mantiene molto all'interno; da un lato del piazzale si gode di una bella veduta sulla complesso di san Gennaro Extra Moenia) e soprattutto per visitare le vastissime catacombe di san Gennaro. L'ingresso attuale non corrisponde a quello originario; appena entrati ci si ritrova in un dedalo di cunicoli, gallerie e vasti saloni. Una curiosità è rappresentata dal cippo con un'iscrizione ebraica che fece adibire la stanza in cui fu ritrovato a mitreo (luogo dove si praticavano i culti al dio Mitra); in realtà, come è stato brillantemente dimostrato da G. Lacerenza, si tratta di una burla +settecentesca+ [Lacerenza ++]. Tuttavia, poiché le catacombe sono purtroppo chiuse già da alcuni anni in seguito alla caduta di massi dal soffitto, possiamo tagliare per la bella scalinata che costituisce la quinta scenografica al sottostante tondo di Capodimonte (il giardino è stato ottimamente risistemato nel maggio 2003) e avviarci lungo via santa Teresa degli Scalzi.

La prossima tappa è il Museo Archeologico Nazionale dove possiamo ammirare i dipinti di Pompei (fra cui l'ampio mosaico raffigurante la battaglia di Isso fra un giovane Alessandro e il persiano Dario III), il gabinetto erotico, la didatticissima esposizione della collezione numismatica e le enormi statue della collezione farnese (fra cui il famoso toro farnese). La sala centrale, con una meridiana solare (guardando la facciata all'esterno si nota l'apertura da cui filtra la luce solare), è costituita da un salone enorme; per un certo periodo fu trasformata in biblioteca e il bibliotecario di un tempo lamentava di perdercisi. A lato si trova piazza Cavour con la nuova stazione della metropolitana.

Con un autobus scendiamo verso piazza del Municipio. Possiamo fermarci poco prima, lungo via Medina dove troviamo la bella fontana sulla sinistra e sul lato opposto la chiesa dell'Incoronata, la cui antichità risulta evidente confrontando il dislivello rispetto moderno piano di calpestio. Alle spalle, poco lontana, si trova la chiesa ortodossa dei greci. Piazza Municipio è dominata (dopo gli interventi di sfoltimento urbano del Risanamento) dal Maschio Angioino o Castel Nuovo (tale rispetto a Castel dell'Ovo e Castel Capuano), con il vistoso impatto di una cannonata su un fianco. Varcato il portale monumentale (si tratta di una copia realizzata a Bologna), l'ampio cortile interno è movimentato dalla facciata della cappella Palatina, originariamente dipinta da Giotto fra 1328 e 1333, delle cui pitture rimangono purtroppo solo alcune decorazione sugli sguanci delle finestre; si noti il bel tabernacolo di Giovanni della Pila, con angeli adoranti e la raffigurazione sulla base dell'ultima cena, che con grande efficacia invita all'adorazione. A fianco della cappella, passando sotto la base a piramide rovesciata del balcone della soprastante sala dei Baroni, possiamo visitare un'area archeologica che, al di là degli scavi, dà la forte emozione di camminare su un pavimento trasparente per di più perfettamente lindo: ci vuole un po' a convincere il cervello che ci si può passare sopra tranquillamente (mi sembra la seconda prova di "Indiana Jones e l'ultima crociata"). Dal cortile, una bella scala esterna tipicamente spagnola ci invita a salire verso la sala dei Baroni, così chiamata in seguito all'arresto ivi avvenuto dei congiurati dell'omonima congiura (1485): la stupenda volta (opera di Guillermo Sagrera) con oculo da cui dipartono sedici costoloni che si impostano sulla base quadrata dell'ampia sala (oggi adibita alle sedute del consiglio comunale) calamita il nostro sguardo tanto che non so se ne sarebbe rimasto per gli affreschi di Giotto raffiguranti gli uomini e le donne illustri dell'antichità oggi perduti; si notino anche i palchetti incavati per i suonatori. Sullo stesso piano, sono esposti gli affreschi staccati dal castello del Balzo di Casaluce noti come "del maestro di Casaluce". Nel museo civico segnalo la Crocifissione di Antonio Stabile con lo scheletro di Adamo sotto la croce, il dipinto "Dinanzi al bello ogni ferocia è spenta" di Teofilo Patini (Castel di Sangro 1840 - Napoli 1906; olio su tela 90 x 180), il dipinto "messa in casa" in cui si intravede forse il sacerdote mentre i fedeli confabulano o si appisolano annoiati e la raffigurazione verista della donna napoletana che si acconcia i capelli in un vicolo della zona del porto. Vi si trova esposto anche l'originale del portale del castello, con la palla di cannone ancora infissa in un'anta; ma nessuno sparò mai cannonate contro la porta del castello... la pesante porta fu presa come bottino da Carlo VIII ma, durante il trasporto in nave al largo di Rapallo, fu colpita (probabilmente distesa sulla tolda) dalla cannonata di un veliero genovese (1495); gli stessi genovesi pare si siano poi premurati di riconsegnare la porta trafugata! Anche se gli ascensori dovessero essere guasti, vale la pena salire al terrazzo panoramico: oltre al moderno grattacielo del Jolly Hotel, al visitatore attento non sfuggiranno, da sinistra a destra, la cupola della chiesa dello Spirito Santo, il campanile del Gesù Nuovo, il maestoso tetto la torre campanaria di santa Chiara, l'abside di san Domenico Maggiore, il tozzo campanile di san Lorenzo Maggiore, la sommità triangolare della facciata del Duomo, la parte terminale della facciata e il campanile squadrato di sant'Agostino alla Zecca (la cui monumentalità si intuisce molto bene) e, a pochi passi ormai dalla linea di costa, il campanile spagnoleggiante della chiesa del Carmine (il visitatore meno attento si accontenterà della Certosa, della reggia di Capodimonte e, alzandosi in punta di piedi sull'altro lato, la caratteristica sagoma dell'isola di Capri).

Oltre gli Spalti del Maschio Angioino, la colma di un antica valletta come si intuisce ancora oggi dal camminamento posto sulle arcate, troviamo il lussureggiante giardino del Palazzo Reale, quindi il teatro san Carlo e, di fronte, la galleria Umberto I, inaugurata nel 1890 con la cupola vetrata alta 56m (simile a quella di Milano). Sbuchiamo assieme a via Toledo su piazza del Plebiscito, racchiusa dal bell'emiciclo culminante nella chiesa-pantheon di san Francesco da Paola, fatta erigere nella prima metà del 1800 da Ferdinando di Borbone come segno di ringraziamento per la conquista del regno dopo la sconfitta di Napoleone. Nel Palazzo Reale soffermiamoci sullo scalone monumentale che fa venire nostalgia di quello ben più riuscito della reggia di Caserta; meritano una menzione il teatro di corte, la sala con il trono ben imbottito, il giardino pensile sul lato mare con bella veduta anche su piazza Plebiscito, la cappella palatina con lo straordinario altare in colorate pietre dure di Dioniso Lazzari (1674); fra i tanti quadri (in particolare vedute e raffigurazioni di eventi storici), oggetti e mobili, accenno alla serie di quadretti con "proverbi" della bottega di F. Zuccari (XVI sec.), il geniale leggio ruotante (una specie di giostra verticale in cui i "sedili" si posano man mano su un sottostante tavolino), i modellini della reggia realizzati dagli stessi architetti per ottenere l'approvazione del sovrano. Subito dopo l'unificazione dell'Italia, i Savoia elessero la reggia a loro dimora.

Seguendo via Console degradante verso il lungomare raggiungiamo un grazioso giardino con belvedere sul golfo. Proseguiamo quindi sul lungomare verso il Borgo Marinaro, preannunciato dall'odore di frittura di pesce proveniente dai tipici ristoranti. Il borgo, dominato dalla mole massiccia di Castel dell'Ovo, è in realtà un isolotto collegato alla terraferma da un lungo ponte. Attraversato il ponte, si apre di fronte a noi l'ingresso a Castel dell'Ovo. Un lungo percorso interno sale verso un complesso sistema di terrazze; la più alta è quella verso la terraferma, con un bel panorama su Pizzofalcone mentre dalle feritoie dei cannoni puntati ora sugli alberghi del lungomare si può apprezzare l'altezza a cui ci troviamo. Sono visitabili anche alcuni locali sotterranei. Suggestivi gli affacci sul mare, soprattutto quelli verso Mergellina quando il sole nel tardo pomeriggio scompare dietro Posillipo.

Ma quanti sono gli esemplari di gotico napoletano?

Li elenco qui per il lettore disattento (che non si accorgerà quindi che alcuni non li avevo effettivamente citati): san Lorenzo Maggiore, san Pietro a Maiella, san Eligio Maggiore, cappella Pappacoda (solo l'esterno), la cappella palatina del Maschio Angioino (dopo i recenti restauri), santa Maria dell'Incoronata in via Medina, santa Chiara (dopo il crollo e i restauri), il duomo originariamente (la facciata ricostruita è neo-gotica, cappella Minutolo ad esempio è tardo-gotica), palazzo d'Angiò in via dei Tribunali. La chiesa dismessa della Crocelle ai Mannesi (incrocio fra via Duomo e Spaccanapoli, di fronte a san Giorgio Maggiore) è neo-gotica: fu costruita nel XIX sec. dopo che la precedente chiesa era stata distrutta per ampliare via del Duomo nell'ambito degli interventi del Risanamento.

Pomeriggio: Mergellina e Posillipo

Se siamo ancora a Castel dell'Ovo, riprendiamo a percorrere il lungomare fino a piazza Vittoria. Qui possiamo fare una piacevole sosta nella Villa (cioè parco) Comunale. Alle spalle del parco si estende l'elegantissima e lussureggiante zona residenziale compresa fra Chiaia e Mergellina: la rinomatissima riviera di Chiaia con villa Pignatelli; via dei Mille che sale fino alla tranquilla e verde piazza Amedeo (in cui ferma la metropolitana); palazzo Cellammare e la chiesa di santa Teresa. Se abbiamo poco tempo possiamo raggiungere la stazione rococò di Mergellina con un autobus. Se non veniamo da Castel dell'Ovo, possiamo raggiungerla direttamente con la metropolitana.

Di qua dalla stradona che porta alla galleria Quattro Giornate, si trova la chiesa di santa Maria di Piedigrotta, famosa per l'immagine della Madonna e la caratteristica festa di settembre che affonda le sue radici in antichi riti pagani. La viuzza subito a sinistra della chiesa ci porta alle panoramiche rampe di sant'Antonio a Posillipo, coronate dall'omonima chiesa, ben visibile e riconoscibile dal lungomare di Mergellina. Dirigendosi invece verso la galleria Quattro Giornate, oltre il ponte sotto la ferrovia, sulla sinistra si trova l'ingresso del parco Virgiliano (da non confondere con l'omonimo di capo Posillipo). Il percorso disegna un paio di tornanti per risalire il triangolare fazzoletto di terra franata ai piedi della falesia. Una doppia lunghissima iscrizione latina elogia le virtù curative delle acque termali della zona; dopo il secondo tornante troviamo la bianca sagoma della tomba di Giacomo Leopardi (sepolto a Napoli perché morto a Napoli, ospite del suo grande amico Antonio Ranieri); subito dopo rimaniamo stupiti dinanzi all'ingresso alla Crypta (tunnel) Neapolitana, purtroppo non percorribile, il tunnel romano cavato nel tufo di Posillipo che collega Piedigrotta a Fuorigrotta, ovvero Napoli a Pozzuoli, di cui parlano scrittori antichi -ad es. Seneca- e moderni -Leopardi stesso lo ricorda certo non immaginando che sarebbe stato sepolto lì a pochi passi-; ampliato in altezza dai Borboni (il livello di calpestio era a livello della suddetta lunga iscrizione, come si vede dalle foto d'epoca), franò inevitabilmente (il tufo non regge grossi carichi) nella parte bassa tornando a riempirsi di terra, cosa che i romani avevano evitato limitando l'altezza al necessario; il puntino bianco in fondo è la luce che entra dall'estremità opposta (visitabile al termine di via Vecchia Fuorigrotta, stazione della Cumana Fuorigrotta, per circa 50 metri). Stavo in piedi davanti al tunnel, investito dalla folata di aria umida e fresca, desideroso di poterlo percorrere, emozionato al pensiero che lì, proprio lì, erano inequivocabilmente passati personaggi famosi di tutti i tempi, da Seneca a Virgilio, da Leopardi a Dumas, dai reali di Napoli a Garibaldi (nel 1860). A destra della grotta, un po' più indietro, degli stretti e ripidi scalini, sfiorati da siepi e fiori aggrappati alla parete, ci portano alla tomba di Virgilio, il poeta che cantò pascoli, campi e condottieri come recita l'antica iscrizione. Al primo pianerottolo, possiamo fare una brevissima escursione nel condotto dell'acquedotto romano fino a vedere di fronte e dall'alto l'affresco della Madonna dell'Idria piamente posto all'ingresso del tunnel. Il parco è un vero gioiello, con tanto di panorama sul golfo di Mergellina, Castel dell'Ovo e Pizzofalcone sullo sfondo.

Ritornati all'incrocio davanti alla stazione di Mergellina, scendiamo verso piazza Sannazaro da cui possiamo prendere l'autobus 140 che, raggiunto il lungomare di Mergellina inizia a salire man mano che la linea di costa si fa scoscesa lungo il fianco del promontorio di Posillipo (più diretto ma meno panoramico, se non nell'ultimo tratto ma sul versante opposto, l'autobus 21). Sulla sinistra incontriamo subito palazzo Donn'Anna (con la prospiciente spiaggetta), protagonista di molte cartoline napoletane. Seguono varie e famose ville più o meno antiche. Sulla destra troviamo poi il curioso Mausoleo di Schilizzi in stile neo-egizio, trasformato poi in mausoleo per i caduti della prima guerra mondiale [Gleijeses p. 149]. Si arriva quindi alla graziosa piazza Salvatore Di Giacomo con la chiesa di santa Maria di Bella Vista; a sinistra, via Russo porta alla piccola insenatura di Rivafiorita, cui seguono i meravigliosi giardini di famose ville fra cui ricordo villa Rosebery.

Lasciamo l'autobus una volta arrivati al giardinetto semicircolare del Quadrivio del Capo. Da qui si può scendere a Bagnoli lungo Discesa Coroglio, si può salire per due vie a Capo Posillipo e si può scendere verso l'antico villaggio di pescatori di Marechiaro. Scegliamo quest'ultima opportunità e avviamoci per la strada stretta e tortuosa (autobus 11 ma vale la pena scendere a piedi tagliando un paio di tornanti per assaporare i colori e i profumi). Oltrepassata la chiesuola di santa Maria del Faro, la strada termina e si continua a scendere lungo una gradinata che poi si biforca una volta arrivati nel porticciolo. Prendendo a destra possiamo contemplare la famosa "fenestrella" mentre dal pelo dell'acqua affiorano i resti romani detti "palazzo degli spiriti". Terminata la visita dobbiamo risalire per la stessa strada, essendo troppo scoscesa la costa per permettere ulteriori passaggi (se non via mare).

Dal Quadrivio del Capo, con l'autobus 31 o 27 o a piedi per via Boccaccio (un ponte varca la profonda fenditura in cui passa la Discesa di Coroglio) o -meglio- via Tito Caro (qui potremmo fare una piacevole digressione verso l'isola della Gaiola scendendo per l'omonima via) raggiungiamo il parco Virgiliano, recentemente (giugno 2002) risistemato con un vasto intervento di bonifica ambientale che lo ha riportato, per quanto possibile, agli splendori che gli antichi romani erano soliti tributare a questa zona. Il parco si sviluppa su più livelli ricoprendo tutta la sommità praticabile di Capo Posillipo che emerge alto e scosceso dal mare. Ovunque ci volgiamo vediamo fiori, siepi rigogliose, viali alberati, terrazzamenti a degradare delimitati da muretti in tufo giallo e sopra tutto il mare e il cielo azzurro pieni dei riflessi del sole. Spostandosi lungo il perimetro più o meno circolare si susseguono cangianti visuali mozzafiato: lo strapiombo sulla cala Trentaremi (con conseguente invidia per chi si trova sulle sottostanti barche), lo scoglio sommerso e la penisoletta di Punta Cavallo; dalla terrazza più bassa a sud (131.8m, il resto è sui 154m) invece la prospettiva è la seguente: in primo piano a destra la visuale è delimitata dal pendio ripido di Posillipo, a sinistra dal basso verso l'alto e da vicino a lontano: il pandoro di Nisida, Capo Miseno, Procida (più a sinistra) che scompare e riappare poi dietro Capo Miseno, quindi Ischia le cui vette superano le sommità della terraferma; sull'altro lato il panorama cambia radicalmente ma non è meno sorprendente, con i residuati industriali di Bagnoli e le moderne abitazioni di Fuorigrotta, che crescono come funghi attorno allo stadio san Paolo; seguendo la linea di costa si vede Pozzuoli con il Rione Terra, il Monte Nuovo, la sagoma del castello aragonese di Baia che giganteggia sull'esile profilo del promontorio dei Campi Flegrei. Generalmente la visibilità migliore si ha nelle terse giornate autunnali, quando il sole è ancora caldo e il capo è spazzato dal vento; d'estate spesso si fatica già a vedere il Vesuvio.

Se non ci siamo attardati troppo, possiamo compiere riusciamo a lasciare il parco in tempo utile per proseguire l'itinerario, possiamo ritornare al Quadrivio del Capo e imboccare la Discesa Coroglio. Quando solo due tornanti ci separano dal lido di Pola sempre battuto da forti onde a causa delle correnti, si trova l'imboccatura della grotta di Seiano, un lungo (800m) camminamento sotterraneo (nell'ultimo tratto è possibile percorrere un tunnel d'areazione che si affaccia sulla cala Trentaremi) che conduce all'area archeologica di capo Pausilypon (alla greca: "dove terminano le preoccupazioni") con il teatro e la villa romana di Pollione (personaggio inviso a Cicerone che ne parlava male). Tornati alla Discesa Coroglio, scendiamo e percorriamo il ponte per Nisida: l'isola è sotto la sorveglianza penitenziaria ed è aperta alle visite solo per la manifestazione "Maggio dei monumenti". Lungomare di Bagnoli: l'ex complesso industriale ILVA di Bagnoli, il rivoluzionario complesso didattico di Città della Scienza, il museo della bonifica dell'area industriale.

In alternativa, usciti dal parco, possiamo rientrare prendendo l'autobus 31 o 27 che, anziché scendere verso Mergellina, percorrono il costone di Posillipo lungo il lato interno. Poco più avanti si trova il terminale della funivia Posillipo-Fuorigrotta, di cui oggi rimangono solo i ciclopici piloni con le braccia protese nel vuoto (ci si passa vicino con la linea 2 della metropolitana). Si potrebbe anche fare subito una prima tappa nell'antico villaggio di san Strato di Posillipo con l'antica omonima chiesa. Tornando sull'autobus, una volta passata l'antica torre Ranieri (subito seguita sulla sinistra dall'omonima villa con la caratteristica torretta traforata ben visibile anche da Fuorigrotta) a tratti lo sguardo spazia ancora una volta su Fuorigrotta, mentre di fronte si erge il monte dei Camaldoli coronato dal convento, di cui è ben visibile la sagoma chiara. Più avanti desta stupore l'ardito raccordo con la tangenziale che si annoda e intreccia sospeso nel vuoto su esili colonne di cemento. Arrivati a piazza Vanvitelli possiamo raggiungere il terminale della funicolare centrale o di quella di Montesanto. L'autobus 27 ci lascerà invece in piazza Amedeo, da cui si può prendere la metropolitana. Volendo fare un giro anche sulla funicolare di Mergellina si può scendere un po' prima; dal terminale inferiore si può poi raggiungere la metropolitana o prendere un altro autobus.

Sera

Se ci siamo attardati al parco di Capo Posillipo vale la pena prendere in considerazione la possibilità di cenare in un ristorante di Marechiaro.

5° giorno: Pompei, Ercolano e il Vesuvio

Mattina: Pompei

Grazie alla metropolitana e alla Circumvesuviana, possiamo raggiungere la stazione Pompei Villa dei Misteri nel giro di un'oretta (3/4 d'ora sulla Circumvesuviana). Usciti dalla stazione, l'ingresso è a pochi metri sulla destra. Chi, apprestandosi a visitare Pompei, pensa ai soliti scavi archeologici non immagina minimamente quale "nuovo" mondo sta per dischiudersi davanti a lui non appena varcata Porta Marina. Si è catapultati nel passato, con la città che sembra rivivere, anche se popolata solo da turisti e cani randagi: il tessuto delle case, i basoli delle strade, i binari delle ruote dei carri, il foro triangolare sopraffatto dalla natura incipiente, i teatri, il penoso spettacolo dei calchi dei fuggiaschi nell'omonimo orto, la praedia (possedimento) di Giulia Felice con gli antichi vitigni, il percorso panoramico sulle mura, le necropoli immerse nel verde, le pitture, i graffiti, le fontane, le terme, l'anfiteatro, il lupanare... Se i calchi di gesso dei corpi dei fuggiaschi hanno fermato l'ultimo e più drammatico istante di una vita, i calchi delle ante a soffietto di legno della villa dei Misteri (o quello della porta con catenaccio della bottega IX 7,10 lungo via dell'Abbondanza [De Vos, p. 109]) mi danno un senso di quotidianità, immortalate nella precisa posizione in cui erano state aperte quella mattina. Oltre agli scavi (e non si dimentichi la Villa dei Misteri) c'è anche il venerato santuario della Madonna di Pompei, non lontano dall'uscita degli scavi nei pressi dell'anfiteatro.

Pomeriggio: archeologia e natura a scelta

Ercolano

Dopo un'abbondante mezza giornata a Pompei, un'escursione agli scavi di Ercolano potrebbe sembrare superflua. In realtà Ercolano meriterebbe ben di più, almeno una mezza giornata rilassata, magari dopo un'escursione mattutina al Vesuvio. A chi ha poco tempo la raccomanderei, scartando casomai Pompei. Le dimensioni ridotte degli scavi rendono Ercolano molto più familiare e meglio esplorabile rispetto a Pompei, senza contare che sono molte di più le case aperte al pubblico (mentre a Pompei si contano sulle dita di una mano a causa della carenza di personale, come mi ha spiegato un gentilissimo custode cercando di sopperirvi [situazione estate 2002 e 2003]). Il momento migliore per la visita è sicuramente il tardo pomeriggio, quando la luce obliqua e giallastra del sole accarezza i muri e le case lasciando in piacevole ombra i basoli delle vie.

Dopo l'esplorazione per cunicoli dell'area del teatro (1710-1711), gli scavi iniziarono nel 1738 sempre per cunicoli sotterranei e pozzi di aerazione. Gli scavi a cielo aperto furono autorizzati nel 1828 e proseguirono fino al 1875. I lavori ripresero nel 1927 con il grande archeologo Amedeo Maiuri che li condusse fino al 1958. Templi, edifici pubblici, il foro sono ancora nelle zone non scavate. Scendendo la lunga rampa di accesso si percepisce molto bene lo sprofondarsi nel materiale eruttivo accumulatosi nel 79 d.C. nel giro di pochi giorni; l'area archeologica è infatti adagiata in una profonda trincea incisa fra le case dell'abitato moderno (su due lati) e la campagna (su un altro) . A Pompei, più grande e più scavata, si percepisce appena quando, passeggiando lungo via dell'Abbondanza verso la zona dell'anfiteatro, si scorge in alto sulla sinistra una villa posata sull'erba che scivola fino sul ciglio delle struttura antiche. Del resto fu radicalmente diversa anche la dinamica e l'impatto dell'eruzione: Ercolano fu sommersa da piroclasti solidificatisi per un'altezza di 16m, fatto che "ha determinato un fenomeno di conservazione assolutamente originale e privo di confronti a Pompei, restituendoci reperti organici (vegetali, stoffe, arredi e parti struttive degli edifici in legno, la stessa barca recuperata nel 1982 sull'antica marina), ma soprattutto i piani superiori degli edifici e con essa un'idea precisa dei volumi e delle tecniche di costruzione" [dalla guida distribuita ai visitatori]. Con un po' di attenzione il visitatore troverà quindi i resti incrostati delle inferriate alla finestra, travi annerite, letti nella stessa posizione in cui si trovavano 2000 anni fa.

Sporgendosi dal ponte slanciato subito dopo la biglietteria si vede la vasca della palestra a sinistra e il decumano massimo a destra. Scendendo lungo la rampa che abbraccia due lati della voragine, già dalla curva si possono vedere in basso i fornici scavati nel 1980 che si innalzavano lungo l'antica linea di spiaggia. Il percorso inizia proprio da qui con una ripida discesa sotterranea nel materiale eruttivo per sbucare in una rigogliosa palude, strano ricordo dell'antica spiaggia. Il percorso aggira la terrazza di M. Nonio Balbo, con l'ara al centro e le terme suburbane su un lato. Giunti sul cardo V inferiore, a sinistra si apre subito la Casa dei Cervi, con il bel padiglione da cui si vedeva il mare e il giardino circondato da un criptoportico con sessanta quadretti raffiguranti scene di amorini, nature morte con frutta; dodici sono ancora sul posto, le altre al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Il nome deriva dal ritrovamento nel giardino di due statue rappresentanti due cervi assaliti da cani e il noto satiro con otre. Nella zona della Palestra si apre una specie di grotta che fa rivivere le emozioni dei primi scavatori. La Casa del Bel Cortile conserva ancora un terrazzino sporgente sulla strada con tavolino mentre ballonzolando sugli alti marciapiedi non è difficile imbattersi in basi di colonne e porticati. Come suggerisce il nome moderno, nell'atrio della Casa del Tramezzo di Legno si può ammirare, per quanto mal conservato con l'umidità imprigionata tra i vetri, uno squisito manufatto in legno utilizzato per separare gli ambienti interni. Molto raffinata è la decorazione della Sede degli Augustali lungo il decumano massimo che rappresenta il limite settentrionale degli scavi. Non mancano scorci particolarmente suggestivi: nella Casa dell'Alcova, con l'ambiente pavimentato con intarsi marmorei, il minuscolo giardinetto con porticato, i resti in legno di un letto e le inferriate alle finestre sulla strada; nelle terme, con il susseguirsi di ambienti coperti e decorati; sul giardino della Casa del Genio e Casa d'Argo dall'incrocio oltre il thermopolium, ai piedi della voragine su cui sbocca un tunnel dei primi scavatori.

A parte c'è la villa dei Papiri, prezioso scrigno di antichi testi, preservati da quella stessa eruzione che tante persone condannò. La villa fu scavata solo in parte a cielo aperto, per il resto venne attraversata con cunicoli; dalla primavera 2003 è visitabile su prenotazione.

Fra Ercolano e Portici bisognerebbe infine menzionare le ville vesuviane, testimonianze dei fasti di una vita ormai lontana: villa Campolieto, villa Ruggiero e villa Favorita.

Il Vesuvio

Dal piazzale della stazione della Circumvesuviana di Ercolano Scavi si può salire al Vesuvio (1279 m). La corriera di linea fa pochissime corse e impiega un sacco di tempo per non far concorrenza agli appositi taxi che accorciano furbescamente il tragitto accordandosi sull'attraversamento di una proprietà privata. La funicolare del Vesuvio il cui ricordo sopravvive nella canzone "Funiculì - Funicolà" di Peppino Turco e Luigi Denza (in concomitanza con l'inaugurazione del 1880) non è stata più ripristinata dopo i danni subiti nell'eruzione del 1944; da Napoli si vede la chiara sagoma della stazione inferiore a mezzo pendio del vulcano.

La strada sale con tornanti fra gli scuri blocchi di lava colata nell'eruzione del 1944. Quando la strada inizia a salire più dolcemente, si varca l'Atrio del Cavallo che apre la valle del Gigante, ricavata fra il monte Somma (la cui punta più alta è la Punta del Nasone, 1132 m) e l'attuale cratere del Vesuvio. Sul fondo scorre un fiume pietrificato di lava grigia prodotta sempre all'eruzione del 1944. Tutt'intorno però la vegetazione cresce spontanea e rigogliosa sulle stratificazioni eruttive. Il Monte Somma altro non è che un frammento del bordo della caldera detta appunto del Somma, spezzata con la formazione dell'attuale cratere del Vesuvio. L'altra estremità della valle è detta Valle dell'Inferno. Quando la strada carrozzabile termina nel piazzale adibito a parcheggio e stracolmo di bus turistici, rimane un ultimo tratto da percorrere a piedi pagando l'apposito biglietto (6 euro comprendente una "guida vulcanologica") in circa 20 minuti di buon passo che sale con decisione verso l'orlo del cratere. In questo tratto la vegetazione è quasi scomparsa. Arrivati alla sommità del Gran Cono, la vista della voragine del cratere è impressionante ed è difficile immaginare quanto dovesse essere impressionante la vista della caldera del Somma. Il diametro è di circa 600m, la profondità 200 m. Dall'orlo si distaccano lingue di frane che convergono verso il centro trascinando grossi massi. Le pareti nord ed est (opposta al mare e verso Napoli) sono costituite da un pacco di colate di lava accumulata tra il 1913 e il 1944 nell'edificio craterico del 1906 che era almeno tre volte più grande; è particolarmente suggestivo osservarle da vicino, simili a grossi massi modellati dalla millenaria azione dell'acqua ai piedi di una cascata. Le pareti sud ed ovest sono invece costituite da scorie del vecchio cono vulcanico. Le pareti interne sono costituite da un'alternanza di colate di lava e di cuscini di scorie. La parte superiore è costituita da una ventina di metri di scorie rosse che sono attribuite all'eruzione del 1944. Al di sopra, sulla parete est, si trova materiale piroclastico sottile e grossolano sciolto. Qua e là si possono notare scorie ricoperte di incrostazioni bianche e gialle testimoni di un'antica attività fumarolica. Nella parete est esiste una fumarola che ha ancora una temperatura abbastanza elevata di circa 500° C. Se il cielo è terso la visibilità può spingersi su tutto il golfo di Napoli, isole comprese; in basso è ben visibile il molo di Torre Annunziata; Pompei è poco più avanti.

Secondo A. Rittmann nell'VIII sec. il vulcano raggiungeva una quota di 3000m. Fino al 1944 era ben diversa la morfologia del cratere: un piccolo conetto all'interno del cratere assicurava la normale degassazione del vulcano, lasciando in aria il classico pennacchio di fumo che compare in tante vedute napoletane. La caldera del Somma si formò in seguito all'eruzione del 79 d.C. Una bocca preistorica eccentrica è rappresentata dalla Collina di sant'Alfonso (185 m) o di Camaldoli della Torre con il settecentesco convento camaldolese ben visibile dalla Circumvesuviana. Connessa al vulcanesimo vesuviano è anche la fonte Salutare di Pompei, una sorgente fredda bicarbonato-alcalino-ferrosa.

La villa di Oplontis, Stabia e il monte Faito, Boscoreale

Venendo da Napoli, la stazione della Circumvesuviana che precede quella di Pompei è Torre Annunziata. La desolazione della città assolata e chiusa per ferie, aumentata nel nostro caso da un tentativo di trovare qualcosa da mangiare inoltrandoci nei vicoli, invita il turista a dedicarsi esclusivamente alla visita della grande villa imperiale romana di Oplontis, ritenuta proprietà di Poppea, moglie di Nerone. Dalla stazione si prenda via dei Sepolcri dirigendosi verso il mare.

Il complesso archeologico merita sicuramente una visita, alla pari di Ercolano e direi quasi, se costretti dal tempo, a scapito di Pompei. Qui il percorso segue la permeabilità antica, gli ambienti sono tutti visitabili, il fraseggio del susseguirsi delle camere interne ben evidente, le pitture ricchissime (nel triclinio 14 e salone 15) e gli spazi esterni ben curati nel tentativo di riprodurre le sensazioni di un tempo. La cucina ha ben 7 forni in ottimo stato di conservazione; in un ambiente (zona 82 e 84) era posto il torchio del vino; impressionante il calco in gesso delle porte in legno di foggia perfettamente identica a quelle che si trovano tuttora nelle nostre case (fra 15 e 19); ci si soffermi nell'intimità dell'alcova con stucchi e fessura nel calco dell'imposta; nei due giardinetti interni simmetrici affrescati (87 e 61) lo sguardo può indugiare sulle visioni scenografiche attraverso pareti parallele a finestroni sfalsati che danno su una fontana con colombe dipinte sulla lontana parete di fondo; si notino infine la rampa di gradini in angolo che permette l'accesso al fondo della grande vasca e i calchi delle radici degli alberi fissate nel loro sviluppo alla data dell'eruzione.

Castellamare di Stabia

L'Antiquarium purtroppo è chiuso e le ville romane visitabili sono state spogliate appunto per arricchirlo. Non è facile raggiungere le ville dell'antica Stabia: uscendo e prendendo a destra dalla stazione della Circumvesuviana di Stabia Porta Nocera conviene prendere l'autobus, a piedi ci vorranno almeno 20 minuti chiedendo informazioni più volte (e suscitando almeno nella metà dei casi espressioni interrogative sui volti di ignari cittadini). L'ingresso a Villa san Marco è decisamente sconsolante: il portale d'ingresso originario con la bella copertura è stato danneggiato dal terremoto del 1980 e si deve accedere all'area archeologica dal retro attraverso l'aia di un contadino e facendosi strada fra maiali e panni stesi. I resti sono imponenti e l'atmosfera è suggestiva, tanto più per lo stato d'abbandono che fa percepire tutto il trascorrere dei secoli e le contraddizioni della nostra civiltà. In una delle diete si trova l'unico affresco rimasto in loco, raffigurante Perseo e Cassandra; in un ambiente sul lato opposto è esposto all'umidità generale uno sgangherato carro in legno. Da Villa san Marco, basta continuare a seguire la strada principale per raggiungere in circa 15 minuti (comunque più di quanto ritenuto ragionevole da un turista impaziente e un po' disorientato) a piedi Villa Arianna che rimane sempre sulla sinistra. Sul registro ospiti le nostre firme si aggiungono a soli altri tre nomi, nonostante sia tardo pomeriggio in piena stagione turistica. Un custode volenteroso e ben informato interrompe la partita a carte per farci da guida. Gran parte del complesso è ancora ben visibilmente da scavare. Dagli antichi locali affacciati sulla sommità della falesia, che di lì scende a picco una volta sul mare, oggi su una larga fetta di terra irta di alti condomini, si percepisce appieno il contesto ambientale che spinse i romani a innalzare questi stupendi complessi dedicati all'agricoltura e all'ozio. Usciti dalla villa e proseguendo sempre tenendo la destra, dalla collina di Varano scendiamo lunga una viuzza con muretto in tufo che scende serpeggiando fra i rami penzolanti dall'alto nella verde penombra; di colpo il tufo è sostituito dal cemento e ci si ritrova improvvisamente nella città moderna: prendendo a destra sulla via su cui si arriva quasi parallelamente scendendo, poi ancora a destra e a destra ancora ritorniamo sulla via tagliata dal passaggio a livello della Circum -che qui è a un solo binario- da cui potremmo ripercorrere il nostro giro circolare se continuassimo ancora dritto. Giunti a questo punto (e saliti rocambolescamente sul treno dopo un pomeriggio ad un altro ritmo -e che molti definirebbero senz'altro turisticamente deludente), ci siamo resi conto che forse valeva la pena muoversi lungo l'itinerario in senso contrario, e forse da Villa san Marco ritornare indietro tornando sui propri passi ripassando per Villa Arianna.

A fianco della stazione della Circumvesuviana di Castellamare, c'è ben visibile il terminale della lunga funivia del monte Faito che, con i suoi 1131m (non è però il più alto, monte sant'Angelo arriva ai 1443m), domina il golfo e la penisola sorrentina.

Rimane infine da visitare l'Antiquarium di Boscoreale (prendendo il bus per Villa Regina dalla fermata della Circum Boscotrecase): il percorso espositivo termina con la visita di una fattoria romana, Villa Regina, completamente scavata in ottimo stato di conservazione, specializzata nella produzione di vino.

Sera

Frittura mista (raccomando le zeppole fritte e le zeppole di mare) e patate al forno alla tavola calda Fiorenzano. Caffè nel rinomato e antico caffè della Scimmia; gelato prelibato da Fantasia Gelati su via Toledo.

6° giorno: Campi Flegrei

I Campi Flegrei affiancano ai siti archeologici le bellezze naturali. In uno spazio ristretto dalla morfologia complessissima la natura e l'uomo hanno concentrato mille diverse emozioni. Di questi luoghi esiste una documentazione scritta e pittorica secolare e ricchissima, a partire dagli autori romani che venivano qui per godersi l'otium, poi i "medici" medioevali interessati ai fenomeni termali e i viaggiatori e pittori rinascimentali.

Conca d'Agnano e cratere degli Astroni

Da Napoli prendiamo la linea 2 della metropolitana in direzione Pozzuoli e scendiamo a Bagnoli/Conca d'Agnano; passiamo sotto la ferrovia e risaliamo davanti al comando NATO lungo l'ampio viale della Liberazione; giriamo poi alla seconda laterale sinistra, via Nuova di Agnano, che si trasforma poi in via Agnano agli Astroni. In una decina di minuti a piedi (ma ci sono anche degli autobus che entrano proprio nelle terme) saremo arrivati ad una specie di valico inquadrato da due pendii verdi e scoscesi: mentre la strada prende a scendere, si stende davanti a noi la conca d'Agnano, a sinistra il ripido e selvaggio monte Spina, in parte dietro e poi sullo sfondo c'è il cratere degli Astroni; si vede bene dove l'uomo ha ritenuto opportuno crearsi dei percorsi (la tangenziale sopra tutti) o dei luoghi di lavoro ma tutto sommato l'impressione è che il verde prevalga. Abbiamo appena attraversato il bordo rialzato dell'antico cratere di cui possiamo seguire visivamente quasi tutta la circonferenza. Il fuoco, ormai quietatosi da tempo, aveva lasciato posto all'acqua verso il 1000, e quindi alle malattie, finché l'area venne bonificata per il 1870, riportando alla luce 75 sorgenti termali e ipertermali (fino a 68°) prima sommerse nel lago.

All'altezza del rudere che segnalava l'ingresso delle terme di fine ottocento, dall'altro lato della strada si trova un cancello che dà accesso alle rovine delle rinomate terme romane (per visitarle è bene accordarsi con l'associazione Conca d'Agnano, come pure per la visita della Grotta del Cane), abbarbicate alla parete interna del cratere e alimentate un tempo dal calore prodotto dalla stessa terra. Oltre ai resti di varie aule rettangolari e absidate, più avanti si trova un lungo contrafforte ai cui piedi si trova un cunicolo che si insinua nella montagna: era il condotto che si allacciava all'acquedotto del Serino.

Tornati sulla strada, sul lato opposto un altro cancello ci immette sul sentiero ricavato alle spalle del muro delle terme moderne che ci porta rapidamente davanti all'ingresso della grotta del Cane che secondo le guide non è "più visibile" (?) [Liccardo, p. 140; cfr. Amalfitano et al. p. 61]: era caratterizzata da una piccola fuga di anidride carbonica che si manteneva sotto i 30cm da terra, per cui i viaggiatori settecenteschi e ottocenteschi ammiravano l'oscuro fenomeno per cui mentre loro respiravano senza problemi il cane appositamente portato ansimava e finiva per morire se non riportato subito all'aria aperta, come ricorda una poesiola di Emmanuele Bidera (1844):

Ecco l'antro omicida. Antico rito
Fido veltro vi trae: l'aer pesante
Lo colpisce, lo preme, e tramortito
Cade all'istante.
[...]

La riscoperta della grotta del Cane

(31/V/2003) Le antiche fonti oggi sono comprese nel perimetro del moderno complesso termale, a pochi passi dalle vasche sagomate della fangaia di fine ottocento; dalle sorgenti l'acqua sgorga fumante rivestendo i bordi e il fondo delle polle di mille sfumature color ruggine. L'acqua però scorre ancora, fuma, le sorgenti sono sparse e recintate a pochi metri l'una dall'altra. E io avevo già iniziato a stupirmi per l'ennesima meraviglia di questa terra.

Ci avviamo verso il bordo interno del cratere e iniziamo a risalirlo. Lo scenario è surreale: subito di là dal bordo sappiamo che si estende una delle città più grandi d'Italia e più caotiche del mondo; di qua invece è un'oasi naturale quasi incontaminata, la natura -vinta la malaria e le malattie con la bonifica, poi passata la necessità delle coltivazioni- si sta impadronendo di nuovo della terra strappata al fuoco e all'acqua. Dal piano cosparso dai resti di vigneti, il sentiero sembra essere letteralmente scavato nella sterpaglia del bosco ceduo. La rotta è antica, il perimetro dell'antico lago, ma quanto devono aver lavorato per riguadagnarla! E' un vero e proprio tunnel, sotto un'arcata di rami e rovi. Ad un certo punto una finestrella sulla sinistra ci offre una magnifica vista sul vecchio cratere in pensione. Il crollo di un muro di contenimento ci costringe a ritornare sulla strada asfaltata per raggiungere le rovine delle terme romane, interrompendo l'idillio con la natura. Ma era solo un'interruzione breve dopo la quale sarebbe tornata a meravigliarci.

Alle rovine delle terme romane siamo accolti da un gruppo di ragazzi in costume romano -colpo di scena, chi se l'aspettava- che cercano lodevolmente -anche se poco verosimilmente- di far rivivere la vita degli antichi locali appoggiati alla roccia e oggi sventrati. Le uniche terme -ci dicono- in cui non c'era bisogno di scaldare l'acqua perché ci pensava la natura a fare il lavoro che altrove dovevan fare gli schiavi. Nel frattempo inizio a preoccuparmi: "e la grotta del cane? non sarà una mezza fregatura?". Ma la guida non se l'era scordata, anzi, era la ciliegina finale.

Attraversata la strada, ci spostiamo a ridosso del muro di contenimento del moderno impianto termale. Non ci vuole molto ad intuire in che stato potesse essere un tale luogo prima dell'intervento dell'associazione organizzatrice. Ed eccola lì, vista in tante incisioni, la grotta del cane, riportata al suo antico e meraviglioso stupore. Che fosse lei non c'era dubbio: uno spesso strato di gas ben visibile aleggiava sulla soglia dell'ingresso. Nel marzo del 2001, seguendo le testimonianze dei vecchi del luogo, viene ritrovato l'ingresso perduto della grotta, che però era quasi completamente ostruito. Come e precisamente quando una tale meraviglia possa essere caduta in oblio nessuno sa dirlo. Fatto sta che di tutto ci fu cacciato dentro, e notevoli sono stati gli sforzi per l'intervento di disostruzione. Il problema è che, come ho avuto modo di provare in prima persona, pochi metri entro l'apertura, scendendo lubricamente il cunicolo nella terra, l'aria caldissima è irrespirabile vomitando la grotta anidride carbonica. Lo speleologo Rosario (che pure presente per caso ho avuto modo di conoscere) ci conferma le difficoltà: la continua necessità di rinfrescarsi, oltre al lavoro in tuta e respiratore. Al termine della breve discesa c'è una stanza rettangolare, che solo Rosario ha potuto vedere, probabilmente una specie di piscina quando ancora evidentemente non doveva esserci -scavata probabilmente in età romana- la mofeta che vomitava anidride carbonica. Mettendosi sull'ingresso la prima sensazione è di un forte calore alle gambe sotto le ginocchia. Poi tenuto saldamente per mano dalla guida, mi ha sporto entro i primi metri in discesa del cunicolo. Abbassando la testa, ho provato l'emozione di non poter respirare: il naso si tappa immediatamente, rimane l'eccitazione nasale prodotta come dal seltz. Subito istintivamente ti ritrai e non fatichi a immaginare che qualcuno abbia usato la grotta come camera a gas: se vieni spinto giù per il ripido cunicolo non vedo proprio come puoi risalire non potendo respirare. D'altronde pensavo al fatto che l'attività della mofeta non doveva essere stata stabile nel tempo; oppure dai tempi dei cavatori e primi utilizzatori romani nessuno aveva più potuto discendere nella camera, tranne i pochi si spera che non ne erano più risaliti. Solo noi moderni abbiamo oggi le necessarie -e comunque non del tutto sufficienti- attrezzature per violarne il segreto. Sulle pareti un forte strato di umidità -che è poi direi l'anidride stessa- segna incisivamente il limite al di sopra del quale è l'ossigeno (la fiamma di un fiammifero si spegne nell'istante stesso in cui ci passa sotto), ma il cunicolo scende ripido e in pratica è tutto umido se non nell'ultimo metro e mezzo in cui si innesta nell'ingresso (a proposito, se dalla soglia si guarda in alto si vede un foro di areazione sopra la propria testa che dà dopo qualche metro su dei rami verdi) e qui appunto si traccia la netta linea di demarcazione perfettamente orizzontale che per quel che ricordo direi è qualche centimetro sopra il livello della soglia. Approfittando del fatto che la guida era una gentile e giovanile signora la quale pure asseriva che l'aria del cunicolo poteva avere effetti "simili al nostro Viagra" un anziano ma ben messo signore ha indugiato nel cunicolo, cercando di trascinarsi dietro la guida, la quale lo teneva per mano visibilmente in difficoltà, essendo il signore evidentemente poco conscio del rischio che stava correndo e facendo correre se la guida fosse scivolata. Effettivamente un po' più di sicurezza non sarebbe guastata. Comunque almeno così ho potuto provare. Emozionato per il ritrovamento di un luogo perduto di cui tante antiche testimonianze avevo letto, lascio la ridente conca e ritorno alla metropolitana.

Proseguendo lungo via Agnano agli Astroni con un mezzo pubblico raggiungiamo oltre la tangenziale l'ingresso dell'oasi naturale del cratere degli Astroni, ricca di un'intricata vegetazione.

Pozzuoli

A Pozzuoli con la metropolitana linea 2. Usciti dalla stazione, a destra poi subito a sinistra risalendo via Solfatara. Ci sono gli autobus ma possiamo anche andare a piedi. All'incrocio seguiamo la curva della strada principale verso destra; volendo possiamo fare una capatina sul ponte a sinistra per vedere dall'alto l'area archeologici dell'antica via romana Pozzuoli-Napoli (credo, ci sarebbero anche le due belle necropoli di via Celle e via Vecchia Vigna): la strada romana e le case sono in ottimo stato di conservazione. Più avanti, sulla sinistra, troviamo l'ingresso della Solfatara (seguire il cartello del campeggio). Se andassimo dritti altri 100m arriveremmo al luogo del martirio di san Gennaro, decapitato qui sulla strada Pozzuoli-Napoli nel 305 d.C. durante la persecuzione di Diocleziano, su cui è edificata la chiesetta oggi affidata ai frati cappuccini (all'interno si venera la pietra su cui avvenne secondo la tradizione il martirio: alcune macchie grigie sono considerate sangue del santo e cambiano colore in concomitanza alla liquefazione del sangue nelle due famose ampolle).

Varcato l'ingresso della solfatara, se il vento è (s)favorevole siamo subito colti dall'acre odore di zolfo. Il percorso prevede una specie di cerchio all'interno del cratere ancora in attività (l'ultima eruzione documentata dovrebbe risalire al 1198). Non si capisce bene come si possa aver avuto l'idea di farci un camping, ad ogni modo è molto originale. Prendiamo a destra, dove troviamo subito il pozzo di acqua minerale, la fanghiera centrale ribollente ("nata" nel 1913), le fumarole (poco più avanti ce n'è qualcuna non protetta: portate con voi un accendino -le guide usano anche vere e proprie torce davanti alle sfufe di cui sotto-, usatelo vicino ad una fumarola e vedrete subito condensarsi il vapore acqueo; il fenomeno della ionizzazione aumenta man mano lo tenete acceso. Sperimentate anche l'impressionante rimbombo, testimone della porosità e cavità delle rocce sottostanti, provocato dalla caduta anche di un semplice sasso -se lasciate cadere qualche cosa di più consistente, sentirete letteralmente tremare il suolo, anche ad una ventina di metri di distanza) e, ormai compiuto mezzo giro, le stufe in muratura nelle cui due nicchie raccomando di entrare: meno si sta piegati, più l'aria è calda e occhio alle gocce brucianti che colano dalla volta, ad ogni modo la sensazione è piacevole. La Solfatara rappresenta un ecosistema molto particolare: oltre alle piante, vi prosperano particolari batteri resistenti alle alte temperature, fra cui il rarissimo sulfolobus solfataricus, utilizzato anche nell'industria alimentare. L'attività della Solfatara è in continua variazione: nell'agosto 2003 era molto diminuita rispetto all'anno precedente tanto che la fangaia era quasi immobile.

Terminata la visita, ritorniamo sui nostri passi e scendiamo per via Solfatara, proseguendo dritto al bivio della stazione. Poco dopo troviamo sulla sinistra l'imponente anfiteatro e ne seguiamo il perimetro fino all'ingresso (il biglietto vale anche per gli scavi di Cuma e l'area archeologica di Baia). E' il terzo per grandezza (poteva contenere circa 40'000 spettatori) dopo il Colosseo (che forse precede di qualche anno) e l'arena di Capua, usato anche per naumachie (battaglie navali inondando l'arena), con i sotterranei famosi per l'ottimo stato di conservazione (in alcuni punti si vedono le sedi dei perni e delle leve dei meccanismi per far scendere e salire le gabbie). Uscendo, attraversiamo la strada tornando indietro per qualche metro, quindi prendiamo la strada che scende a destra. Sulla destra rimane il bel parco di villa Avellino (l'ingresso è in fondo alla strada sulla destra) con il complesso residenziale voluto dal viceré don Pedro de Toledo per rivitalizzare Pozzuoli dopo la tremenda eruzione del Monte Nuovo (29-30 settembre 1538). Possiamo fermarci per pranzare al sacco.

Continuando a scendere, sulla destra dopo un tornante prendendo il ponte (i gradini li prenderemo dopo per andare al Serapeo) arriviamo al rione Terra. Si tratta del nucleo dell'antica Puteoli, un promontorio di tufo improvvisamente abbandonato nel 1970 per gli effetti devastanti del bradisismo sulle vecchie e cadenti murature. Successivamente fu abusivamente abitato da extracomunitari; oggi da città fantasma è divenuta una piccola Pompei: la visita all'area archeologica sotterranea è sorprendente, con le vie romane perfettamente conservate. La visita si conclude con la vista dell'antico duomo di san Procolo, per ora solo dall'esterno, che, bruciato in un incendio nel 1964 (ho avuto anche la fortuna di sentire il racconto di un testimone), ha sorprendentemente rivelato dietro la muratura caduta la struttura portante di un tempio romano praticamente intatto.

Riattraversato il ponte, giriamo a sinistra scendendo i gradini e, nella piazza, prendiamo la prima strada a destra. Proseguendo dritti per Corso Garibaldi e poi via Sacchini (a sinistra c'è il porto, a destra troviamo la stazione della Cumana) arriviamo al cosiddetto Serapeo, così detto perché vi fu ritrovata una statua del dio egiziano, in realtà si tratta di un tipico macellum cioè mercato dei commestibili di età antonina (II sec. d.C.). E' famoso in quanto rappresenta la prova tangibile del bradisismo: oggi l'acqua ristagna sul lastricato ma le intaccature dei litodomi a metà dei fusti delle tre colonne più alte rivelano che in passato l'acqua si era spinta fino a quell'altezza, ovvero il suolo si era abbassato a tal punto. Generalmente la fase di innalzamento prelude ad un evento sismico-vulcanico, come la famosa eruzione del monte Nuovo nel 1538. Da qui non c'è bisogno di risalire: basta prendere la Cumana anziché la metropolitana.

Baia, Bàcoli, Miseno, Fusaro, Cuma, lago d'Averno, Monte Nuovo

L'itinerario che proponiamo può essere facilmente effettuato al contrario.

Baia

Prendiamo la Cumana alla stazione di Pozzuoli. Ci potrebbe portare fino a Torregaveta, oltre il lago Fusaro, dove si ricongiunge con la Circumflegrea. Scendiamo a Lucrino: da un lato si esce direttamente sulla spiaggia dello stabilimento balneare "lido di Napoli", dall'altro sulla strada oltre la quale si estende il piccolo e placido lago di Lucrino. Attraversata la strada, prendiamo la coincidenza con la corriera per Baia. Lungo il tragitto si sale verso i cosiddetti Bagni di Nerone a Tritoli per poi schivarli curvando sulla storica Punta Epitaffio; da qui la strada scende verso il centro di Baia, località amata e stimatissima dai nobili romani. Le acque prospicienti Baia nascondono infatti una vera e propria "Pompei sottomarina", costituita dalle ricche ville degli antichi romani che il bradisismo ha fatto "scivolare" sotto il livello del mare (per chi ha il brevetto da sub, è possibile eseguire immersioni guidate). A Baia scendiamo nella piazzetta sulla destra e prendiamo la lunga scalinata che conduce all'ingresso dell'area archeologica. La straordinarietà di questi scavi consiste nella posizione scenografia sul pendio della collina di fronte al mare, che rimane bene in vista anche se è separato dalla strada e dalla sottile striscia dell'abitato. Il panorama sul golfo di Pozzuoli è superbo. Rispetto alle foto delle mie guide, l'erba è cresciuta selvaggiamente. Particolarmente suggestivo è l'interno del cosiddetto Tempio di Mercurio, con l'acqua che riflette sia la luce del sole che filtra dall'occhiello nella volta sia le onde sonore contro la cupola creando una sorprendente amplificazione anche del più impercettibile rumore. Il settore della Sosandra si dispiega armoniosamente su più livelli, sovrapponendo al vasto cortile quadrato un largo emiciclo. Al di là della strada, fuori dal complesso archeologico, si scorgono le imponenti rovine del cosiddetto Tempio di Venere, che si erge al di sopra delle moderne abitazioni.

Tornati alla piazzetta, bisogna aspettare la prossima corriera in modo da salire rapidamente verso l'imponente Castello Aragonese arroccato sul mare; la corriera si ferma proprio di fronte alla rampa di accesso. Il castello ospita il museo archeologico dei Campi Flegrei, di recente costituzione e molto ben curato, ma al di là dei pur notevoli reperti (fra cui quelli provenienti dal sacello degli augustali di Miseno) è impressionante per la costruzione in sé e per la collocazione geografica. Si tratta infatti di un vero e proprio capolavoro di architettura militare da cui si controlla tutto il golfo di Pozzuoli. E' tutto un susseguirsi di vaste terrazze panoramiche collegate da passaggi interni coperti, lunghe e dolci scalinate fatte per essere percorse a cavallo. Sono tre i pezzi di mare visibili dal castello: il più vasto è il golfo di Pozzuoli in tutta la sua estensione; poi, interrotto da Capo Miseno, c'è il tratto verso le isole di Procida e Ischia; infine, interrotto da Monte di Procida, il Mar Tirreno oltre Cuma. Ma non solo il mare, anche la terraferma: da questa posizione privilegiata si può comprendere meglio anche la complessa morfologia dei Campi Flegrei, di cui si individuano facilmente i resti degli antichi crateri e delle strutture vulcaniche.

Bacoli e Miseno

Riprendiamo la corriera di fronte al castello in modo da arrivare rapidamente a Bàcoli (essendo vicino e in discesa si potrebbe anche andare a piedi, diciamo una ventina di minuti fino alle Cento Camerelle). Ad un certo punto la strada si biforca, la corriera rimane sulla destra (quella a sinistra è la via principale del paese); proseguiamo per un paio di fermate (in corrispondenza del campanile della chiesa che rimane discosto sulla sinistra) poi scendiamo, attraversiamo la strada e cerchiamo di raggiungere la chiesa, posta sul pendio di una cresta che dietro dà a strapiombo sul mare; arrivati alla chiesa con la bella scalinata di accesso, prendiamo la viuzza che sale subito sul fianco destro; proseguiamo per quanto possibile in linea retta; quando la viuzza inizia a minacciare di terminare, sulla destra ci si presenta un bel panorama sul Mare Morto di Miseno con Procida dietro mentre a sinistra una lapide su un architrave segnale l'ingresso alle Cento Camerelle (per entrare chiamare la custode -che tutti conoscono- che abita un paio di case prima). Si tratta di un complesso su due livelli eterogenei risalenti all'età romana: quello superiore è una cisterna a quattro navate con volta a botte, attualmente sfondata su un lato tanto da presentarsi come una specie di ampio loggiato del colore della sabbia; uno spaccato, una profonda fenditura incavata nella roccia si inabissa verso un mondo sotterraneo costituito da una fitta rete di cunicoli, le "camerelle", angusti e lunghi passaggi, di cui solo una piccola parte è visitabile. Nelle prime filtra ancora la luce esterna, poi è buio totale; le ultime camerelle terminano inaspettatamente a metà del costone roccioso affacciandosi a picco sul mare.

Tornati alla chiesa, prendiamo a sinistra lungo la via principale. Seguendo la segnaletica arriviamo alla Piscina Mirabilis (attenzione, la custode abita una cinquantina di metri prima sulla sinistra), il terminale ipogeico dell'acquedotto del Serino. L'impressione è indescrivibile, e la si percepisce bene proprio nello scendere la rampa di scale che porta al piano della cisterna con la luce che filtra grigia ma copiosa dall'alto. Moria! Quella sala colonnata, enorme, dal soffitto altissimo, di cui il film del Signore degli Anelli mi aveva fatto rimpiangere di essere solo il parto della fantasia di uno abile scrittore prima e di un altrettanto abile scenografo poi, esisteva davvero ed era lì davanti ai miei occhi. La sala è lunga 70 x 25 metri, con 4 file di colonne alte 15m. Purtroppo non si può percorrere liberamente la sala ma solo la prima navata laterale per tutto il lato lungo. E' solo una cisterna, la più grande mai cavata dai romani, anche se sembra avere tutta la sacralità di una chiesa sotterranea.

Altri resti archeologici da visitare a Bacoli, anche se un po' fuori mano rispetto a dove ci troviamo ora (bisognava andarci subito appena arrivati alla chiesa), sono i resti del cosiddetto sepolcro di Agrippina.

(31/V/2003) Non so perché mi ero fatto una strana idea dei Campi Flegrei: una natura stupenda terribilmente contaminata dall'uomo. Un posto bello sporco. Al ché ci penso un po' e alla fine mi dico: se ci dovessi stare, meglio un posto mediocre ma pulito. Ma che avevo visto finora dei Campi Flegrei? Sì, la desolata periferia di Pozzuoli e i selvaggi -ma non sporchi, però selvaggi, e uno associa lo sporco visto prima e immagina chissà quali imboscate o delitti nell'ombra- dintorni di Cuma. Soprattutto il parco del Fusaro mi aveva fatto l'impressione di uno parco splendido travolto da un tornado... magari era piovuto davvero, ma la bella casina sul lago era immersa nei rifiuti, ma non qui e là, bensì uno strato continuo da riva a riva. Beh, comunque sia, Bacoli è una città bella, suggestiva e affascinante. Sembra Napoli, ma senza traffico e tutta linda linda. Sembra Napoli perché i vicoli e i basoli sono gli stessi. Ma anche la gente sembra diversa, più rilassata e tranquilla. Un signore rosso in volto è contentissimo di darmi indicazioni e mi chiede se sono di Milano: dice che devo andare da "'sta mano accà" e si tocca la destra.

Se proseguiamo lungo la strada che fa un gomito dopo l'ingresso della Piscina Mirabilis, dovremmo arrivare sullo scosceso promontorio di Capo Miseno, dove si trova un'altra cisterna romana sotterranea, detta della Dragonara, purtroppo inaccessibile e ancora in larga parte da scavare. Scendendo invece da dove siamo venuti e riprendendo la via principale arriviamo quasi senza accorgercene alle sponde del Mare Morto di Miseno. Qui era stato ricavato il principale porto militare romano, ma solo per pochi anni in quanto si insabbiò presto. Ad ogni modo, qui Plinio il Vecchio comandava la flotta e da qui partì in soccorso delle città minacciate dall'eruzione del Vesuvio: impressionante il racconto fatto da Plinio il Giovane, allora ragazzo, che attese invano il ritorno dello zio.

Da qui è possibile fare una digressione all'estremità del promontorio dei Campi Flegrei, dove si trova il paese di Monte di Procida, con le case placidamente disposte nel verde sul mare di fronte all'isola di Procida.

Fusaro e Cuma

Con una corriera (la fermata è a pochi passi: dalla via principale giriamo a destra seguendo il lago, poi prendiamo la prima a destra) raggiungiamo Fusaro. A qualche metro dalla fermata si trova l'ingresso del parco affacciato sulle sponde dell'omonimo lago, riserva di caccia dei Borbone, proprio di fronte alla famosa casina reale del Vanvitelli. Non molto distante si trova la fermata della Cumana che potrebbe riportarci a Montesanto.

Riprendiamo invece la corriera e prepariamoci ad immergerci nella solitaria e sibillina area archeologica di Cuma. Si sale subito all'acropoli, sulla destra più in basso c'è un monumentale spazio in parte coperto che conduce alla vasta città bassa (purtroppo non visitabile; scavi in corso dell'Orientale) mentre a sinistra si apre con la caratteristica sezione il lungo (132m) corridoio ipogeico detto antro della sibilla. Percorrerlo è davvero emozionante, specie se si pensa agli immortali versi di Virgilio nel VI libro dell'Eneide [vv. 42ss]; tornati fuori si sale sulla terrazza dell'acropoli da cui si sovrasta tutto il litorale cumano fino a Monte di Procida e poi Ischia: la spiaggia senza alcun ombrellone o bagnante si distende all'infinito, fagocitata solo dalla prospettiva e dalla lontananza, parallelamente al tracciato della ferrovia, su cui si direbbe che i treni non passino più da anni, quasi assediato dal verde scuro ininterrotto e impenetrabile della vegetazione; non ricordo se si vede Procida, ad ogni modo la sagoma del monte Epomeo di Ischia è ben visibile e facilmente riconoscibile. Sul lato opposto, il crinale del monte Grillo è traforato dall'Arco Felice, un'imponente struttura romana che permette di risparmiare un bel tratto di ripida salita ai carri una volta e alla corriera oggi (ci passeremo sotto per tornare a Pozzuoli): per i romani era una zona di interesse militare e strategico, quindi la rete stradale doveva essere funzionale ed efficiente.

Il percorso prosegue sfiorando il tempio di Apollo (occhio alle vespe!) in cui è degno di nota il battistero ottagonale del VI-VII sec. d.C. testimone del successivo utilizzo cristiano, per arrivare sulla cima dove si trova circondato dalla fitta vegetazione il tempio detto di Giove; anche qui c'è un fonte battesimale, prova evidente di una consistente comunità cristiana. Un ultima particolarità: se si traguarda attraverso la "V" lasciata fra i profili di Capo Miseno e Monte di Procida si intravede l'isola di Capri. Complice forse anche la giornata nuvolosa e ventosa, ci si sente circondati da una natura selvatica e incontaminata.

Da Cuma si potrebbe fare una digressione all'area archeologica di Villa Literno, altrimenti raggiungibile con la linea 2 della metropolitana o con la Circumflegrea. Se rientriamo a Montesanto con la Circumflegrea, vale la pena fermarsi a Quarto (che prende nome dalla distanza in miglia da Pozzuoli) per visitare il tumulo detto "la Fescina" e la Montagna Spaccata ovvero il taglio operato dai romani (si noti il muro di contenimento in opus reticolatum) nell'alto bordo dell'antico cratere per facilitare i collegamenti da Pozzuoli al congiungimento con l'Appia, ancor oggi utilizzato dalla strada statale.

Lago d'Averno e Monte Nuovo

Da Cuma, con un po' di fortuna perché non passa spesso (è meglio sincerarsi degli orari prima e regolare la visita di Cuma di conseguenza), prendiamo la corriera per Pozzuoli. Il percorso è particolarmente suggestivo: dapprima si passa attraversa l'Arco Felice Vecchio (per distinguerlo dal "nuovo" che è un sobborgo di Pozzuoli in cui ferma la Cumana) sul Monte Grillo, poi si passa alle spalle del lago d'Averno e del Monte Nuovo.

Il lago d'Averno, selvaggiamente adagiato sul fondo di un antico cratere e circondato in parte da un ripido bordo rilevato, era considerato dai romani l'ingresso dell'inferno per via della scarsa vegetazione e fauna a causa delle esalazioni mefitiche. E' facilmente raggiungibile a piedi dalla stazione della Cumana di Lucrino. Sulle rive, fra le canne, emergono le rovine del cosiddetto tempio di Apollo (in realtà un aula termale) mentre anticamente erano percorribili due tunnel romani, la grotta di Cocceio e la Crypta della Sibilla; quest'ultima è visitabile chiedendo gentilmente al custode.

Il Monte Nuovo (raggiungibile in 15 minuti a piedi dalla fermata della Cumana Arco Felice, quindi proseguendo verso Lucrino, poi strada laterale che risale sulla destra), oggi area naturalistica protetta e visitabile lungo appositi sentieri, è così chiamato perché sorto nello spazio di una notte nel 1538: è il monte più recente d'Europa. Incredibili i racconti nelle cronache dell'epoca, soprattutto la lettera di Simone Porzio al viceré Pedro de Toledo. Nell'eruzione scomparì il villaggio di Tripergole (famoso per i bagni termali) e i resti della villa di Cicerone. La conformazione geologica ha provocato lo sviluppo di una vegetazione particolare in cui vale davvero la pena di immergersi risalendo il ripido pendio. Il sentiero ricavato sulla sommità dell'orlo quasi perfettamente circolare (e percorribile tutto all'intorno) del cratere è circondato da una vegetazione fitta, che rimane tale anche se rinsecchita in estate: scostandola però appare da una parte lo specchio di mare in cui si intuiscono le strutture romane della cosiddetta "Pompei sottomarina", dall'altra i terreni ondulati chiusi dalla prospettiva del monte Grillo traforato dall'Arco Felice vecchio, mentre risalgono dalle spiagge sottostanti gli echi della vita marittima. All'interno, il cratere (in cui è possibile scendere, consci del fatto che arrivati in fondo non c'è altra via d'uscita se non l'ardua risalita) è profondamente incavato, una specie di panettone rovesciato e in negativo. Lungo il pendio esterno sul lato mare, poco sotto l'orlo, si trova una zona priva di vegetazione a causa di un gruppo di fumarole.

Da Pozzuoli, la Cumana nell'altro senso ci riporta direttamente in piazza Montesanto.

Riepilogo dei tunnel romani

Gli antichi romani si diedero molto da fare per rendere veloci e scorrevoli le comunicazioni stradali fra Napoli, le località dei Campi Flegrei e Roma, sia per motivi commerciali, che militari e, per così dire, turistici, visto che molti patrizi avevano qui le loro ville. L'orografia li costrinse spesso a tagliare nel friabile tufo giallo oscuri tunnel e lunghe gallerie. Provo a fare un riepilogo: a Napoli abbiamo la Crypta Neapolitana (non percorribile ma visibile dal parco con la tomba di Virgilio) che collega Fuorigrotta con Piedigrotta; a Posillipo abbiamo il cosiddetto tunnel di Seiano (percorribile su prenotazione, cosa che raccomando caldamente) che facilitava l'accesso alle ville sul mare al di qua del capo; a Cuma abbiamo il cosiddetto Antro della Sibilla e il tunnel che collega l'acropoli con la città bassa; la grotta di Cocceio che collegava il lago d'Averno (allora sede del portus Iulius) con Cuma traforando il monte Grillo non è visitabile in seguito ai danni recati dallo scoppio di armi in essa nascoste durante la seconda guerra mondiale; la cosiddetta Crypta della Sibilla (da non confondere con quella di Cuma) metteva il lago d'Averno in diretto contatto con il bacino di Lucrino. [Per maggiori dettagli e foto rimando a 23]

7° giorno: Caserta

Mattina: la reggia di Caserta

Giardini

Si arriva comodamente in treno. Usciti dalla stazione siamo già nei vasti spazi della reggia. Su questo lato, opposto ai giardini, due mezzi emicicli abbracciano una vasta zona verde attraversata dalla moderna viabilità. Impazienti attraversiamo l'asse centrale del palazzo per visitare gli spazi geometrici del parco italiano. Dopo la fontana Margherita, proseguiamo sempre in linea retta incontrando la vasca e fontana dei Delfini, quindi risaliamo la rampa che abbraccia la fontana di Eolo con le statue dei venti; dopo la vasca e fontana di Cerere, tutte popolate da vistosi pesci, ci sono le cascatelle che nascono dalla fontana di Venere o Adone. Il percorso visitabile lungo il rettilineo si chiude con il gruppo scultoreo di Diana e Atteone, ma l'occhio può correre avanti ancora inseguendo alla rovescia il percorso dell'acqua dove il pendio si fa più accentuato e la vegetazione ancora più folta. Qui l'artificio umano ha ricreato con grande efficacia i tracciati casuali dell'acqua in natura. A destra della fontana, si entra nel romantico mondo del giardino inglese. L'accostamento complementare dei due giardini, quello italiano e quello inglese, ci riporta al fastoso mondo di corte, dove la disponibilità economica e di mano d'opera quasi gratuita sembra non avere limiti. I percorsi rettilinei scompaiono, lasciando spazio a sentieri sinuosi. Visitiamo subito l'Aperia (ora teatro all'aperto) protetta da vistosi contrafforti, quindi le finte rovine del tempio dorico arricchite da piante di ogni specie, il maestoso cedro del Libano, e siamo ormai al limite superiore del cuore del giardino: l'indescrivibile complesso del bagno di Venere e del criptoportico. Qui ci avventuriamo riverenti nei cunicoli fatti di vistosi massi a vista che si biforcano e si aprono attorno ad uno stagno in cui si prepara al bagno una pudica statua di Venere, nel desiderio di percorrere tutti possibili percorsi ci imbattiamo nel criptoportico in stile ruinistico, dagli intonaci volutamente cadenti e dalle mura sbrecciate, con l'ampia fenditura nel soffitto a cassettoni da cui filtra la luce solare. A malincuore lasciamo questo spazio incantato seguendo il canale inferiore, emissario dello stagno, e arriviamo ad un laghetto più aperto con isolette e ruderi. Più a sud, troviamo il tempietto e circolare ex-labirinto. Ritorniamo verso l'ingresso passando per il vivaio, le serre e il casino inglese. Attenzione, se piove o c'è ghiaccio (!), il parco inglese viene chiuso.

Appartamenti

Solo una piccola parte della reggia è visitabile, il resto è comprensibilmente adibito ad un qualche uso pratico (una democrazia gestisce con difficoltà simili spazi... la monarchia ci abiterebbe e basta!). La reggia si sviluppa con impianto regolare attorno a quattro cortili rettangolari. Un geniale scalone d'accesso, all'incrocio dei due assi centrali della reggia, ci introduce al primo piano. Si noti la cupola con il soppalco per i suonatori "invisibili", quindi i cassettoni a spirale. Fra le varie stanze, ricordo la sala di Alessandro e i vari quadri di paesaggi e vedute che ci trasmettono visioni del passato. Uscendo dalla reggia, se ci si volta indietro per un attimo, si ha un colpo d'occhio spettacolare perché il loggiato centrale "buca" la villa lasciando correre lo sguardo lungo il rettilineo delle fontane fino al declivio lontano della collina, solcato nel verde dai rigagnoli d'acqua. Ottimo il ristorante self-service interno.

Pomeriggio: Casertavecchia

Come raggiungere Casertavecchia Prima bastava prendere l'apposito autobus dallo stazionamento di fronte alla stazione dei treni. Dall'estate 2003 l'Azienda Casertana Mobilità e Servizi ha pensato di riordinare gli itinerari dei propri autobus con i seguenti risultati: (1) le linee hanno nomi tipo "Red line 10 dx" (e non pensate che ci sia anche una versione italiana); (2) per raggiungere Casertavecchia bisogna prendere l'autobus nel parcheggio sottostante il giardino antistante la reggia, quindi scendere davanti al cimitero dopo un lungo zig-zag per le strade del centro e aspettare una coincidenza poco tempestiva con l'autobus per Casertavecchia; (3) l'autobus per il ritorno arriva solo se giù al cimitero c'era qualcuno che doveva salire; (4) gli autisti non hanno divisa ma vestono tutti casual e sono indistinguibili da qualsiasi altro simpaticone che possa gironzolare per le vie di una grande città; (5) a Casertavecchia non esiste un cartello che segnali la fermata; (6) tantomeno esistono orari affissi (che del resto effettivamente non servirebbero proprio a niente, come risulta dal seguente aneddoto). Ad ogni modo regolate il tempo di permanenza a Casertavecchia sugli orari delle corse di ritorno, che è bene domandare sia al momento di fare il biglietto che all'autista una volta arrivati.

(Luglio 2004) Nulla è cambiato (e rimane particolarmente vero il suddetto punto 3), ma almeno è stato ripristinato il collegamento diretto con "Cevecchia" dalla stazione FS. Consiglio comunque di utilizzare il servizio di trasporto privato con partenza da piazza Mercato.

Le case del borgo di Casertavecchia si stringono insieme coagulandosi su uno spoglio cocuzzolo (401m) dei monti Tifatini a pochi chilometri in linea d'aria da Caserta ma in uno scenario naturale radicalmente diverso. Dalla piana, ad esempio dall'estremità sinistra (tenendo il palazzo alle spalle) del giardino all'italiana della Reggia di Caserta guardando sulla destra, il borgo è ben visibile, tirato verso il cielo dalle tre sagome (da destra verso sinistra) del massiccio torrione rotondo della rocca, del campanile e del tiburio del duomo. Qui la vita, attestata almeno dall'861 d.C., si è fermata verso il 1400 quando con la dinastia aragonese le sedi amministrative e le attività produttive iniziarono a spostarsi verso la sottostante pianura. Nel 1642 la residenza episcopale passava a Falciano mentre nel 1752 la posa della prima pietra della Reggia di Caserta sanciva definitivamente la presenza dell'aggettivo presente nel toponimo.

Salendo da Caserta, lungo il tragitto si viola la tranquillità di un paio di piccoli centri abitati, e dal finestrino è bello guardare i volti corrugati degli anziani seduti in fila sulle panche ai bordi della strada, i ragazzi che si affrettano a fermare il pallone, i capannelli sguaiati di mamme con bambini. Dal capolinea dell'autobus nei pressi della Cappella di san Rocco, la salita attraverso la pineta è il modo migliore per avvicinarsi ai ritmi dell'abitato medioevale. Sulla destra si erge la rocca, la cui costruzione risale appunto all'861, con il maschio di 10m di diametro; la grandiosità del complesso si può cogliere appieno girandoci intorno dall'esterno dalla parte della pineta. Dalla piazzetta su cui termina momentaneamente la salita si domina tutta la pianura che sembra quasi essersi formata in funzione della grandiosità del complesso della reggia, come attorno a quest'ultima si è effettivamente sviluppata la città moderna; la collina che rimane a destra, alta 152m (Caserta è a 71m d'altitudine), è quella da cui prende avvio il percorso d'acqua che domina la sezione longitudinale del parco della reggia. Svoltando forzatamente a destra, si passa sotto il pesante arco della Cappella di sant'Andrea, oggi trasformata in bar, di cui si può intuire a malapena l'abside in piperno tufaceo.

Proseguendo silenziosamente lungo via Torre (piena di invitanti trattorie), dopo la piega verso sinistra, giriamo su via Annunziata. Qui lo sguardo corre impaziente al fornice del campanile del duomo, la cui navata rimane appoggiata al fianco destro della viuzza. Prima però, nel ristretto spazio ricavato dallo sbocco di Vicolo Fatta, si affaccia il loggiato della chiesa dell'Annunziata risalente al 1300; il portale esterno barocco è del 1737; l'interno gotico è spoglio essendo in larga parte ricostruito dopo crollo cui sopravvissero solo la facciata e il campanile. Nel bar sul lato opposto si può gustare un'ottima pastiera fatta in casa, facilmente individuabile perché esposta in una finestrella adibita a vetrina. Facendo qualche passo indietro su Vicolo Fatta si può ammirare il tiburio del duomo movimentato da due ordini di nicchie finemente decorati; al gioco di luci e ombre creato dagli elementi architettonici si mescola la bicromia del tufo giallo e grigio. Varcato il fornice del campanile, accompagnato su un lato da un lungo sedile, si apre l'intimissima e candida Piazza Vescovado. Di fronte si trova l'antico seminario, a sinistra il palazzo vescovile, a destra la casa canonica il cui portale dà su un cortile e dietro sul verde selvaggio della collina dirimpetto. Probabilmente però ci saremo già voltati per vedere la facciata del duomo alle nostre spalle, indietreggiando magari un po' verso il centro della piazza. Alla base degli stipiti del portale centrale si trovano le figure di un mollusco e di una tartaruga marina che invitano gli uomini a salvarsi aderendo alla chiesa; in alto invece sporgono due protomi leonine. Sulla sinistra della facciata fa capolino la cupola coperta (allo stesso modo di quella impostata sul tiburio) con ripiani concentrici di tegole sporgenti della cappella del Rosario; sulla destra si sporge sulla piazza la mole quadrata del campanile, alto 32m e ornato con bifore. Sopra la bifora del penultimo ripiano sul lato nord (quello in angolo con la facciata del duomo) c'è una figura umana intera con un colombo in mano. L'ultimo ripiano è ottagonale con torrette circolari agli spigoli, ciascuna con sommità conica; il corpo centrale, prima di essere colpito da un fulmine, terminava a piramide. Se siamo fortunati, l'armonia volumetrica del campanile si staglia sopra un cielo azzurro solcato da veloci cumuli bianchi.

La costruzione del duomo avviene nel corso del XII sec.; l'interno a tre navate è ritornato all'essenzialità dello stile romanico originario dopo che furono asportati gli stucchi di età barocca; le due file di colonne monolitiche costituiscono materiale di spoglio proveniente da templi romani, come pure i capitelli in stile corinzio (tranne il primo a destra che è ionico). Appena entrati, subito a destra si trova la vasca battesimale in travertino, inserita in una cappella addossata nel XIV sec. (come testimonia lo stile gotico) alle pareti della navata al fine forse di promuovere il culto dei santi Cristoforo e Michele affrescati sullo sfondo. Il leone del XIII sec. che sostiene oggi la pila con l'acqua lustrale (l'acquasantiera) in origine era posto alla base di una delle colonnine degli amboni. Sul pavimento nel mezzo della navata principale si trova la lapide di tal Giacomo Celiano che non voleva fossero seppellite insieme a lui le donne di famiglia. Lungo la navata destra troviamo il pulpito che è stato riarrangiato nel 1600 ma i pezzi, fra cui gli stupendi pannelli musivi, sono originali dell'inizio del 1200; i due capitelli protesi sulla navata centrale sono decorati sui quattro lati con soggetti diversi: il primo con un satiro, un arciere, un uomo che si asciuga con un lenzuolo, un leone che azzanna un montone mentre negli spigoli è raffigurato un uccello che becca; il secondo con un uccello che becca uva su tre lati e sul quarto un antilope sotto la luna; sul retro del pulpito, due figure a rilievo rappresentano un ebreo morso da un serpente e il profeta Geremia, accompagnato dalla scritta ORACIO JEREMIAE PROPHETAE: RECORDARE DOMINE "preghiera del profeta Geremia: ricordati, Signore". senza parlare dell'armonia delle colonne e del soffitto. Sul pilastro a sinistra dei gradini che portano al transetto destro si è preservato un delicatissimo affresco di scuola senese del tardo 1300. Nel presbiterio, sotto la maestosa cupola romanica, risplendono i mosaici del pavimento (del 1213) e del paliotto dell'altare maggiore. Nella parte sinistra del transetto è stato spostato il massiccio supporto per il cero pasquale acceso dal diacono stando sull'ambone. Lungo la navata sinistra, verso il fondo, si apre la cappella del Rosario, unico residuo della fase barocca del duomo; su una parete si trova il ciborio (forse del 1300) trasformato successivamente in custodia gli oli sacri ("sacra olea"); la tela con san Domenico, promotore della pia pratica, accompagnato dal fedele cane inginocchiato davanti alla Madonna del Rosario risale al 1700.

Usciti dal duomo si può prolungare la visita concedendosi una passeggiata per il borgo che si misura con pochi passi e si può girare senza un itinerario preciso. Scendendo per via san Michele si incontra sulla sinistra casa Ferraiuolo che si affaccia sulla strada con una stupenda bifora del XII sec. (un'altra si trova sul cortile interno); forse originariamente era una chiesa. Via Fontana sulla destra ci porta sul ciglio del borgo rivolto su una valle selvaggia e disabitata. Sulla destra di via san Michele si ripiega all'indietro via Uzzi in fondo alla quale, dopo un'ansa su cui si innesta via Vescovado, si trova casa Masella. Giriamo a destra seguendo il fabbricato di casa Masella e scendiamo alla sottostante piazzetta; da qui proseguiamo su via Torre. Sulla sinistra si apre subito lo scorcio di via della Valle attraverso cui si intravede la piazza del duomo. Pochi passi e, sullo stesso lato, sono le case infilate lungo via Annunziata ad inquadrare stringendola la facciata dell'omonima chiesa. Proseguendo sempre su via Torre, poco più avanti sulla destra incontriamo la cappella della Madonna Addolorata; l'affresco sulla volta raffigura san Michele Arcangelo (copia da Guido Reni) mentre quello sopra l'altare ha lo Spirito Santo sotto forma di colomba contornato da cherubini; sulla sinistra c'è un antico supporto per acquasantiera in tufo. Ai piedi della discesa della pineta, sul crocevia delle strade da Caserta e Casola, oggi un po' desolata così circondata da un nastro d'asfalto, si trova l'antica cappella di san Rocco dalla caratteristica architettura con il porticato sulla destra: la porta aperta dietro l'inferriata chiusa ci permette comunque di vederne l'interno ma permette anche ad altri di buttarci dentro un po' di tutto; all'esterno, a sinistra della porta, si trova un'iscrizione che invita il passante a fermarsi.

Guida alla mano, ci sarebbero varie altre case antiche e cappelle da segnalare. Dopo la visita del borgo, riemergendo dalla pineta fra qualche abitazione moderna e la campagna brulla e secca, rimane un senso di spaesamento, di contrasto, anche un po' di amarezza per un patrimonio che forse andrebbe valorizzato di più.

8° (ehm) giorno

Penisola Sorrentina e costiera Amalfitana

L'ideale sarebbe fare un anello con l'andata via Circumvesuviana (fino a Sorrento) e corriera (da Sorrento fino ad Amalfi) e il ritorno via mare (da Amalfi a Sorrento o addirittura fino a Napoli con il Metrò del Mare). Alternativamente si potrebbe prendere un treno per Salerno, magari partendo da Mergellina o Napoli Piazza Garibaldi, e da qui prendere la corriera passando per Vietri sul Mare, Maiori (dove c'è una bella villa romana) e Minori in modo da vedere anche l'ultimo tratto della costiera dopo Amalfi.

Pur avendo come elemento unificatore la posizione a ridosso di mare, terra e cielo (per via della ripidità della terra), ogni paese della costiera mantiene una propria originalità e peculiarità, avendo saputo rispondere in maniera diversa alle sollecitazioni dell'ambiente.

Digressione sul percorso della statale 163

Dopo Castellamare di Stabia, dominato dalla massiccia mole del Monte Faito (1131 m) nella cui sopravveste verde e compatta si apre un solco il tracciato della funivia, la Circumvesuviana avanza nella Penisola Sorrentina inoltrandosi in una vegetazione rigogliosa, punteggiata da piantagioni di limoni e interrotta a tratti da squarci improvvisi e sfuggenti sul mare. A Sorrento, le corriere stazionano proprio davanti alla stazione della Circumvesuviana. Vale la pena prendere la corriera all'andata in quanto percorre la corsia esterna della statale 163, quella lato mare, e vale la pena sedere ad un finestrino di destra. La costruzione della statale, costata enormemente in termini di progettazione, realizzazione ed impegno umano, rivoluzionò la vita della costiera ed è in se stessa un capolavoro dell'ingegneria stradale. E' l'unica via di comunicazione per molte città della costiera.

Dopo le case del borgo di san Pietro, la strada inizia a scendere ripida con una serie di tornanti e appare improvvisamente il mare, azzurro, luccicante, tremendamente lontano anche se sotto di noi. Nel mare riposa placidamente lo scoglio Vetara (detto anche Galluzzo) e più avanti i tre isolotti de Li Galli. Da qui la statale si dipana rimanendo saldamente in equilibrio sulla costiera rocciosa. Dopo diversi chilometri, la prima località che fa capolino dietro l'ennesima piega della strada è Positano, dominata in alto dalla cupola ribassata della Chiesa Nuova e coagulata in basso attorno alla chiesa di santa Maria Assunta che si affaccia sulla spiaggia. La statale attraversa il paese rimanendo in quota e seguendo il profilo della gola in cui si inserisce il paese, con i grappoli di case simili ad una colata lavica o di fango che scende da una scarpata raccogliendosi in basso. Sulla sinistra si distacca in alto il bastione del monte Pertuso, la cui apertura ovale può essere percepita di mattina grazie ai raggi di sole che la attraversano stampando una chiazza luminosa sull'ombroso pendio verde della montagna.

Mentre le case di Positano si appoggiano l'una sull'altra con un certo senso di scomposta gaiezza, il borgo seguente, Praiano, si appoggia sul pendio verde lasciando le case più sparse e isolate. Sotto la scogliera è alta e non c'è uno sbocco sul mare. Sulla sinistra, a lato della strada, alcuni presepi sono stati ricavati nelle rientranze della roccia. Segue la larga gola dal fondo piatto della spiaggia di Praia. Più avanti la statale attraversa con un viadotto lo sbocco sul mare del "fiordo" di Furore (secondo alcuni l'unico fiordo del Mediterraneo) che trafigge la scogliera penetrandola sul lato sinistro della strada. A Conca dei Marini, la scogliera finalmente si abbassa lasciando sporgere sul mare una bassa penisoletta coronata da una torre di guardia. Nei pressi, un ascensore a lato della strada permette di discendere nella grotta dello Smeraldo (scoperta nel 1934 e raggiungibile anche via mare), che è allo stesso tempo una grotta carsica e una grotta marina. Poco prima di Lone, frazione di Amalfi abbarbicata sulla scogliera, sulla sinistra in alto la parete verticale della roccia è sfondata in un'orrida cavità naturale. Solo ad Amalfi la statale scende a livello del mare, allargandosi nello spiazzo del porto e costeggiando la striscia di spiaggia; poco dopo risale, si contorce a gomito sullo sperone davanti alla Torre di Amalfi, e compare Atrani, il comune più piccolo (per superficie) d'Italia. Subito dopo Atrani, sulla sinistra c'è il bivio che sale a Ravello. Più avanti troviamo Minori e Maiori, quindi Cetara e infine Vietri sul Mare.

Sulla statale si sa quando si parte ma non quando si arriva: due auto che si sfiorano, un banale incidente può bloccare completamente la carreggiata per ore. Può capitare anche di trovarsi dietro un pullman turistico il cui autista non ha mai messo ruote sulla costiera e procede quindi con cautela maniacale nella paura di segnare il mezzo che gli è stato affidato; se invece capita di incrociarlo, emerge la netta superiorità degli autisti della SITA, costretti a cavarsela da soli mentre l'altro autista rimane inebetito a guardare e a sudare.

Sorrento

Situata su una balconata tufacea a picco sul mare e incalzata alle spalle dalle onde debordanti delle terrazze di agrumeti e limonaie, Sorrento è priva di quei saliscendi così caratteristici di Positano e Amalfi. L'aria è fresca e l'atmosfera tranquilla, ed è piacevole passeggiare per le eleganti vie del centro e gli stretti vicoli con le case che sembrano appoggiarsi l'una contro l'altra nonostante la spinta degli archetti di supporto. E' particolarmente suggestiva l'immagine della città che si percepisce dal mare: la scogliera sale ripida, interrotta dalla profonda e stretta spaccatura in cui si inserisce la strada che con un ardito tornante scende al porto e da improvvisi pennacchi di verde e fiori, coronata dalle balaustre degli affacci sul mare dietro le quali sono ancora gli alberi e i colori dei fiori a catturare il nostro sguardo. Ai piedi si trovano invece le file colorate di sdrai degli stabilimenti balneari ricavati su palafitte di legno.

Su piazza Tasso, cuore della cittadina, si affaccia la sagoma raffinata della chiesa di santa Maria del Carmine, nel cui interno si ammirano un pregevole tabernacolo del XVIII sec. ed una pittura allegorica sul soffitto di soggetto carmelitano. Nel vasto e arioso loggiato affrescato del Sedile Dominova si riuniva nel 1400 l'aristocrazia sorrentina. Il duomo, accompagnato dal campanile a ripiani via via più stretti si slancia verso l'alto, è di ispirazione rinascimentale e risale al XV sec. La chiesa settecentesca dedicata a san Francesco sorge nelle adiacenze della Villa Comunale, un piacevole giardino ombreggiato da palme e affacciato sul golfo di Napoli. Particolarmente suggestivo e raccolto è il chiostro di san Francesco: due lati del chiostro sono scanditi da pilastri ottagonali culminanti in eleganti capitelli che sostengono archi a tutto sesto; gli altri due hanno un intreccio di archi acuti, colonnine e lunette di età trecentesca e con un chiaro influsso arabo. Non sono riuscito a ritrovare la fonte romana che visitai quando ero piccolo, mio precedente unico ricordo della città.

I dintorni sono ricchi di mete naturalistiche, fra cui segnalo Capo Sorrento, da cui si può raggiungere il Bagno della Regina Giovanna, un'insenatura protetta dal mare da un arco naturale di roccia; nei pressi si trovano, secondo la tradizione, i resti della villa di Pollio Felice menzionata dall'autore classico Stazio. Nell'entroterra di Vico Equense, oggi inglobato nell'agriturismo Villa Giusso, si trovava un eremo dei monaci camaldolesi, configurato secondo il classico schema con il reticolato a maglie larghe di piccole casette autonome. Se si fosse un po' più autonomi, bisognerebbe fermarsi a sant'Agata sui Due Golfi da cui, come dice il nome, si vedono sia il golfo di Napoli sia quello di Salerno; da Nerano si può procedere a piedi fino all'incontaminata baia di Ieranto.

Positano

Non sono le parole a poter descrivere Positano. Dovrebbero farlo gli occhi, se potessero esprimere con il linguaggio della loro percezione ciò che hanno veduto. Città a sviluppo verticale, non sono i singoli monumenti ma la morfologia del pendio, le case colorate, l'intrico di viuzze e scalinate, la funzione di raccordo fra montagna e mare a pretendere un ampio spazio nel mio ricordo. La statale rimane in quota disegnando un'ampia U che segue la morfologia della fenditura che, allargandosi sul mare, si prestò bene a stabilirvi un nucleo abitativo.

Il servizio pubblico SITA effettua due fermate principali a Positano: venendo da Sorrento, la prima sulla curva in cui si inserisce via Pasitea (a pochi passi dall'ostello Brikette; fermata Chiesa Nuova), l'altra nel punto in cui risale dalla parte bassa dell'abitato via Colombo. La discesa alla Spiaggia Grande è più diretta dalla seconda fermata, mentre dalla prima dovremmo percorrere una lunga serie di scalinate, a volte ripide e costrette nei vicoli, a volte più larghe e panoramiche, con sempre nuovi scorci sulla terra, sulle case e sul mare. A parte la statale (che qui prende il nome di via Marconi), l'unica altra strada carrozzabile è via Pasitea che scende alle spalle della Spiaggia Grande per poi risalire e ricongiungersi con la statale sotto il nome di via Colombo (più in alto della statale corre invece via mons. Cinque che arriva al monte Pertuso). Su questo percorso in senso orario opera anche un servizio interno di autobus (ditta Flavio Gioia) che si paga al momento della salita; dall'imbocco di via dei Mulini (uno degli accessi alla Spiaggia Grande) alla seconda delle due suddette fermate SITA permette di risparmiare sì e no un quarto d'ora a piedi (diverso il discorso se dal molo degli aliscafi con dei bagagli si desidera raggiungere l'ostello Brikette: meglio prendere l'autobus e scendere all'imbocco di via Pasitea!).

Alle spalle dell'ostello Brikette, salendo una delle tante strette e ritorte scalinate nei pressi dell'incrocio fra la statale e via Pasitea, si può arrivare in pochi minuti alla Chiesa Nuova, la cui sagoma cilindrica corona la colata di case sul fianco sinistro di Positano; la chiesa, a pianta centrale, ha un pregevole pavimento maiolicato purtroppo in cattivo stato di conservazione. Accanto si trova una gradevole piazzetta con sedili maiolicati affacciati sulle case digradanti e sulla tavola del mare incorniciati dai profili dei monti Lattari.

La Spiaggia Grande è accessibile solamente a piedi (o in nave): se scendiamo per gli scalini che tagliano a più riprese i tornanti di via Pasitea, ci arriveremo dall'alto quasi all'improvviso, sbucando ai piedi della chiesa di santa Maria Assunta; da via Colombo dovremo invece infilarci sotto l'affollato pergolato di via dei Mulini che conduce sul fianco della chiesa di santa Maria Assunta, che potremo aggirare su ambedue i lati per arrivare alla Spiaggia Grande. A ridosso della spiaggia, è tutto un brulicare di negozi e locali alla moda. All'interno della chiesa di santa Maria Assunta, sull'altare maggiore, si venera una tavola lignea del XIII sec. che ritrae una Madonna con bambino dalla pelle scura. All'esterno, non passerà inosservata la cupola ricoperta di formelle di maiolica; sulla porta di accesso al campanile si trova una lastra di marmo bianco raffigurante un pistrice, un mostro marino, superstite dell'abbazia medioevale, a sua volta costruita sulle rovine di una villa romana esplorata da Amedeo Maiuri.

Il fronte sul mare di Positano è modulato dalle tre antiche torri di guardia. Da est verso ovest (da sinistra verso destra guardando dal mare), la prima è quella del Fornillo cui segue l'omonima spiaggia, separata dalla Spiaggia Grande dalla torre Trasìta; sul lato opposto troviamo infine la torre Sponda, oltre la quale c'è un'altra piccola spiaggia.

Positano è un ottimo punto di partenza per una serie di passeggiate panoramiche sulle pendici dei monti Lattari, prima fra tutto quella che porta al monte Pertuso.

Amalfi

Come Positano, Amalfi si sviluppa a partire dallo sfogo sul mare di una perpendicolare valletta, che si restringe man mano che la si risale, fino alla pittoresca valle dei Mulini, dove si trovano immerse in una natura rigogliosa le rovine delle antiche cartiere e di qualche ferriera. Al capolinea della corriera, ci dirigiamo subito verso l'interno, varcando l'arco (si noti la citazione: "per gli amalfitani che andranno in paradiso il giorno del giudizio sarà un giorno come tanti altri"; in realtà nei secoli passati qua la vita non era per niente facile, il territorio scosceso e arroccato è di per sé inospitale) che ci porta sulla piazza del Duomo. Una scalinata di 57 gradini realizzata nel 1728 ci guida prepotentemente verso l'ampio loggiato della facciata, purtroppo crollata nel 1861 e quindi ricostruzione moderna. Il percorso a pagamento prevede prima la visita del chiostro del Paradiso con gli affreschi di scuola giottesca, i suggestivi archi intrecciati e il colpo d'occhio sul campanile arabizzante costruito a cavallo del 1200. Si procede quindi nella Basilica del Crocifisso, oggi sede del museo del Duomo e in parte adibita a discutibili mostre di fotografie che stonano con l'ambiente luminoso e raccolto allo stesso tempo; si noti il paliotto d'altare in argento con la raffigurazione ad altorilievo del miracolo della manna. Scendendo l'ampia scalinata ci avviamo verso la cripta di sant'Andrea dove troviamo la tomba del primo apostolo e, sul retro, l'urna in cui viene raccolta la manna (una specie di olio) nella ricorrenza della festa del santo; si veda anche l'affresco sulla parete di fronte alla tomba. Giunti infine nella navata sfarzosa del duomo, notiamo il soffitto a cassettoni con le tele della crocifissione a X di sant'Andrea e del miracolo della manna; sopra la porta della navata destra una grande tela raffigura i santi Andrea e Matteo che salvano Amalfi dalla minaccia del terribile pirata Khair-ed-Din "Barbarossa".

Generalmente la visita alla città si esaurisce qui. Invece bisogna assolutamente girare a casaccio per le viuzze: ad esempio il "supporto" coperto che passa sotto la scalinata e continua fino al largo della Zecca; qui possiamo prendere subito a sinistra e continuare a salire fino ad arrivare all'ex monastero di san Lorenzo del Piano, oggi il cimitero, dalle cui ordinate arcate che dominano sul porto c'è un belvedere sulla città. Lungo il percorso ci sembrerà più volte di entrare in casa di qualcuno, come se una via passasse per la propria scala del condominio. Avevo contato pedantemente i gradini ma non mi ricordo più! Sul lato opposto dell'insenatura c'è il complesso della chiesa di san Pietro alla Canonica. Ricordo anche la scalinata nel verde di via Montetillo.

Ravello

Giunto il momento di lasciare Amalfi, prendiamo una delle frequenti corriere per Ravello. Alcune fanno percorsi leggermente diversi, facendo tappa a Scala o Pontone. Da villa Cimbrone si vede bene come si sviluppa la valle, ma non ho ancora identificato con sicurezza le tre chiese che si vedono in sequenza lungo il pendio, tutte abbastanza grandi, testimoni di un passato insediativa più sviluppato di oggi. Dimenticavo: si segue la statale fino ad Atrani (che meriterebbe una visita) in una valletta parallela a quella di Amalfi; qui si gira a sinistra risalendo la suddetta valletta. Ai piedi del promontorio roccioso che separa Atrani da Amalfi si nota la chiesetta di san Sebastiano, in cima c'è il torrione dello Ziro (sull'altro versante, tanto per intenderci, c'è san Lorenzo). Tornando alle tre chiese, la cartina ne segnala già tre a Pontone, la seconda sono sicuramente i ruderi di sant'Eustachio, si vede bene la possente abside con le finestrelle che danno sul cielo, la terza in alto è o santa Maria Annunziata di Minuta la cattedrale di Scala.

Ma arriviamo a Ravello. Prima della prima galleria, a destra si arriva alle tre absidi di santa Maria a Gradillo. Una seconda orribile galleria (capisco le necessità della viabilità, sarebbe bastato qualche fiore, una verniciatura consona, qualche luce) ci introduce nel centro storico di Ravello a partire da piazza del Duomo. Sulla sinistra rimane l'ingresso di villa Rufolo, che occupa buona parte dell'antico borgo le cui viuzze ne intersecano l'ampio parco (la parte più bella non è visitabile) il quale le scavalca con piccoli ponti e se ne isola con alti muri. E' bene visitare prima Villa Rufolo e poi Villa Cimbrone, perché la sua straordinaria bellezza sarebbe offuscata dalle incredibile emozioni appena vissute sulla terrazza di villa Cimbrone. Dalla terrazza della Villa si vedono la tipica architettura arabizzante della chiesa di santissima Annunziata e più sotto (o viceversa) di santa Maria delle Grazie (varrà poi la pena arrivarci divertendosi e sudandosi nei saliscendi e girotondi delle viuzze gradinate). Ricordo solo la torre Maggiore e il "chiostro". Questa villa ha ospitato una lista infinita di personaggi e musicisti famosi, fra cui ricordo Wagner che qui suonò all'aperto.

Riprendiamo la visita del centro storico, passando per il duomo, la chiesa di san Giovanni al Toro, il giardino del belvedere Principessa di Piemonte. Ci avviamo quindi verso la chiesa di san Francesco con il bel portico chiuso sulla facciata che si attraversa dai lati e il chiostro. Passando oltre iniziamo ad avere sulla destra un'ampia veduta della vallata di Scala. La strada termina contro villa Cimbrone, che occupa il piano superiore di un vasto promontorio roccioso; la vista spazia comodamente in almeno tre direzioni. Dopo il primo assaggio di giardino, varchiamo il portone di legno: a sinistra c'è il piccolo ed elegante chiostro, scendendo le scale arriviamo alla "cripta", sfondata interamente su un lato per permettere la vista della costiera verso Salerno; a imitazione di non so quale famosa cripta inglese, è caratterizzata dalle larghe colonne a fasci che si irraggiano sul soffitto sostenendolo. Già qui uno è tentato di fermarsi. Ma è meglio percorrere subito il viale principale (se volete date prima un'occhiata alle varie lapidi all'esterno della casa, una delle quali ricorda le ore di non poi così tanto segreta felicità di Greta Garbo) verso il tempio di Cerere e la terrazza dell'infinito. Qui non aggiungo altro perché le parole svaniscono e la mente si perde nel ricordo anche solo dinanzi al semplice ricordo dell'intensa emozione che dà il trovarsi così sospeso a mezz'aria fra il verde (siamo a circa 330m sul mare, ma lo strapiombo termina prima sui vigneti, poi c'è la statale e il mare; comunque lo strapiombo è talmente alto che tutta la prospettiva è schiacciata, si percepisce solo l'ebbrezza di un'altezza non quantificabile) e l'azzurro. Si noti anche il terrazzino del sottostante bar. Riprendo quindi subito con il poggio di Mercurio: la lapide cita la seguente frase di D.H. Lawrence di cui ho trovato traduzioni disparate:

Lost to a world in which I crave no part
I sit alone and commune with my hearth
Pleased with my little corner of the earth
Glad that I came not sorry to depart.

che io tradurrei invece così: "perduto (rispetto) ad un mondo in cui non ambisco avere alcuna parte / siedo solo e comunico con il mio cuore / compiaciuto del mio piccolo angolo della terra / felice di essere venuto, non dispiaciuto di dover ripartire". Il punto cruciale è l'ultimo verso, a me come viaggiatore piace intenderlo così anche se probabilmente Lawrence si riferiva alla dipartita terrena, la morte (traduzione della guida: "contento di non sentire tristezza per la dipartita"). Dopo l'intimo poggio, c'è la rotonda di Bacco. Sull'architrave circolare è applicata la scritta:

O quid solutis est beatius curis cum mens onus reponit ac peregrino labore fessi venimus larem ad nostrum desideratoque acquiescimus lecto.

"che cosa vi è di più bello di quando, terminati i lavori, con la mente libera da ogni preoccupazione e stanchi per la fatica a pro di altri, ritorniamo alle nostre case e ci adagiamo, per riposare, sul bramato letto" [traduzione non perfetta per me] cui penso molti si dimostreranno d'accordo (il verso è di Orazio). C'è poi la grotta di Eva, sorpresa al tramonto dai raggi del sole, il terrazzo con le speciali rose di Ravello, la meridiana, le statue di Flora, Leda e il cigno, Damosseno e Grucante (due lottatori greci). La lapide questa volta è tratta dai versi dell'astronomo e matematico persiano Omar Khayyam (XI sec.):

Ah moon of my delight that knows no wane
the moon of heaven is resing once again
how oft hereafter rising shall she look
throught this same garden after us in vain

"Oh luna della mia delizia che non conosce declino / la luna del cielo sta sorgendo una volta ancora / così come sorgendo ancora in seguito spierà / attraverso questo stesso giardino cercando noi invano". Ricordo infine la curiosa Tea room e il pozzo in ferro battuto.

Sera

Pizza all'antica pizzeria dell'Angelo (piazzetta Nilo) con bordo farcito (ricotta, crema 5 formaggi, crema prosciutto a scelta). Successo garantito!

Tutte le mattine babà, zeppole e sfogliatelle (al forno o grinze/ricce) da Pasquale Scaturchio.

Il rientro non è previsto.

Altre escursioni

Documenti

Prospetto storico

[liberamente tratto da http://www.munaciello.com/Quartieri/Quartiere%20Pendino.htm]

Le lapidi di via Ninni

Queste lapidi testimoniano l'operosità dell'arciconfraternita della santissima Trinità, fondata nel 1578 a sostegno dei pellegrini e dei bisognosi in transito per Napoli, e precedono la costruzione della chiesa della santissima Trinità realizzata da Carlo Vanvitelli fra 1792 e 1796 all'interno dell'ospedale.

Lapide posta all'angolo con piazza Montesanto, sul lato opposto rispetto all'ospedale.

VIAM·IN·PRIVATO·SOLO
QVADRATA·SILICE·PRIVATA·PECVNIA·STRATAM
E·TEMPLO·HVC·VSQVE·DEDVCTAM
NOVISQVE·EXTRVCTIS·AEDIBVS·ORNATAM
PEREGRINANTIBVS·RELIGIONIS·CAVSA
HOSPITIO·TRINOCTIVM·EXCIPIENDIS
FOVENDISQVE·RECENS·VALETVDINI·RESTITVTIS
EX·MAIORVM·INSTITVTO·ADDICTI
VSVI·PVBLICO
QVOAD·PRIVATO·NON·OBSIT
DESTINAVERVNT
AN·CI*I*CCLIV

Lapide posta all'altezza di via Sciuti, lungo i muri esterni dell'ospedale.

SODALITAS·SS·TRINITATI·DICATA
VIAM·PVBLICAM·AC·CVRRIBVS·PERVIAM
IN·PROPRIO·SOLO·PECVNIA·FACIVNDAM·CVRAVIT
PER·EGESTOS·TERRENOS·AGGERES
AC·PER·EXCISVM·AMPLVM·VRBIS·MVRVM
VT·EXPEDITIOR·ESSET·AD·TEMPLVM·ADITVS
ET·AD·EXCITANDAM·MAGIS·PIETATEM
ILLAMQVE·OMNI·AEDILITIO·VIALIQVE·IVRE
IMMVNEM·ESSE·DECRETO·CAVIT
AMPLIATOQVE·HOSPITIO·ET·AREA
OB·PEREGRINORVM·FREQVENTIAM
AC·PROXIMAS·AEDES·AD·LOCI·ORNATVM
ET·PRO·CIVIVM·COMMODO·CONDVCENDAS
EXTRVI·FECIT
ANNO·MDCCLIV

Lapide posta all'altezza di via Pellegrini, sul retro dell'ospedale.

VIAM·HANC
AB·SODALIBVS·SVB·TVTELA·SS·TRINITATIS
IN·PRIVATO·SOLO·STRATAM
VIIVIRI·STERNENDARVM·MVNIENDARVMQ·VIARVM
NVLLO·SIBI·IVRE·RESERVATO
PRIVATAM·ESSE·DEFINIVERVNT
OMNIQVE·AEDILITIA·IVRISDICTIONE·IMMVNEM
AEDILIS·DECRETO·CAVTVM
AN·CI*I*CCLIV

VIIVIRI: da metà della prima V alla I seguente tratto orizzontale superiore.
* = "C" specchiata, a formare l'ultima gamba della "m" e la curva della "D".

La lapide di piazza Carità

(Foto 26/VII/2003, trascritta 28/VII) Lapide posta sopra l'ingresso del ristorante in angolo con via san Liborio, a sinistra della chiesa di san Liborio.

DI REGAL ORDINE FATTE DEMOLIRE DAL REGIO TRIBUNALE DELLA PORTOLANIA LE BARACCHE DI FABBRICA
ESISTENTI IN QUESTO LARGO DELLA CARITÀ O PADRONI DE' CIRCONVICINI EDIFICJ SON RIMASTI OBBLIGATI SECON
DO LA RESPETIUA CLASSIFICAZIONE APPROVATA DAL RE (D·G·) AL PESO DELL'ANNUALE COMPENSO DOVUTO A
PROPRIETARI DI QUELLE MA FRA GLI ARTICOLI CONTENUTI NEL REGAL DISPACCIO VI È IL SEGUENTE=
DICHIARA IL RE CHE NON DEBBA MAI PIÙ PERMETTERSI DI SITUARE POSTI DI VENDITORI O GALESSIERI IN QUE
STA PIAZZA VOLENDO CHE LA PORTOLANIA VIGILI ALLA ESECUZIONE DI QUESTO FINE CÕSERVI LA MEMORIA IN
VNA LAPIDE DOVE TUTTO CIÒ SIA DESCRITTO E LA QUALE DOVRÀ RIMANERE PERPETUAMENTE IN DETTA PIA
ZZA·DI REAL ORDINE IO PARTECIPO A COTESTO TRIBUNALE DELLA PORTOLANIA ACCIÒ NE DISPONGA L'ESATTO
ADEMPIMENTO·PALAZZO 30 GIUGNO 1802·GIUSEPPE ZURLO=
QVINDI SI È DOVUTO INCIDERE IN LAPIDE TALE SOVRANA DETE*RMINAZIONE ACCIÒ NIUNO ARDISCA GIAMMAI DI
OCCUPARE IN QUALSIUOGLIA MODO IL PRESENTE PUBBLICO LARGO SOTTO PENA DI DUCATI XXIV RESTANDO AL
TRESÌ VIETATO IN PERPETUO A MEDESIMI REGJ PORTOLANI DI ACCORDARVI QUALUNQUE SIASI CONCESSIONE PER
QUANTO È AD ESSI CARA LA GRAZIA DEL RE N.S. NAPOLI 12 LUGLIO 1802

IL REGIO TRIBUNALE DELLA PORTOLANIA
MARCHESE FRIGNANO PORTOLANO
DUCHINO S. VALENTINO
DUCA LAURINO
AGOSTINO CAR?VITA ???C??NO

* "T" ed "E" scritte attaccate con il tratto verticale e il tratto orizzontale superiore in comune.
L'ultima riga è illeggibile a causa della sottostante sporgenza.

Galleria Umberto I

Lapide posta sul fianco dello stipite sinistro del varco di fronte al teatro san Carlo.

A
FRANCESCO PAOLO BOVBÈE
INGEGNERE INNOVATORE
CHE NELLA CVPOLA DI QVESTA GALLERIA
PIEGÒ ALL'ARMONIA DELLE LINEE
IL RIGORE DEL FERRO
IL COMVNE, I COLLEGHI, I DISCEPOLI
POSERO
XIX SETTEMBRE MCMXXIII

Vico santa Luciella
sul fianco della chiesa di san Gregorio Armeno

PHILIPPVS DEI GRATIA REX
PER ORDINE DEL REGIO CONS:RO FRANCESCO
ROCCO COMMISS:RIO DELLE CAVSE DEL VENERAB:
MONASTERIO DI S.LIGORIO STA ORDINATO CHE
INTORNO À DETTO MONAST:RIO NON VI POSSANO
ABITARE PERSONE DISONESTE ET CHE PERSONA
ALCVNA DI QVALSIVOGLIA STATO Ò CONDITIONE
SI SIA NON POSSA GIOCARE INTORNO DETTO
MONASTERIO À QVALSIVOGLIA GIOCO
SOTTO PENA DI ONZE 2S DI ORO FISCO REGIO.
                            FRANCISCVS ROCCO
DE MARTINO ACTORVM MAGISTER
                            SCHEMA SCRIBA

Questa lapide, come altre in questa pagina, l'ho copiata personalmente, recandomi sul posto munito di taccuino e biro. E' uno dei modi privilegiati per incontrare gli abitanti del luogo e scoprire, magari dietro una +sdrulcita+ tuta da lavoro, l'amore e la profonda conoscenza della propria città dei napoletani. Qui si è fatto discretamente avanti un "presepiaro" che mi ha messo alla prova chiedendomi se intendevo il vero e profondo significato della lapide. Egli non la considera, come facevo invece io con il taccuino in mano, una reliquia del passato pur degna di una qualche attenzione ma, lavorando quotidianamente in quella stessa via all'ombra della chiesa, un monito tuttora valido per sé e la propria attività.

Fontana della piazzetta grande archivio

PHILIPPO III REGE CATHOLICO
D. INDICVS VELEZ DE GVEVARA, ET TASSIS.
COMES DE OÑATE. ET VILLAMEDIANA, PRO REX & C.
HANC APERVIT VIAM,
QVI FELICI PACI, ET CONCORDIAE TRIVMPHO
IVSTITIÆ, PACI, ET PVBLICÆ QVIETI HVIVS REGNI
VIAM APERVIT.
PERVIAM CIVILI COMMODO EX INVIO ANGVLO
PLATEAM HANC FECIT.
QVI FAMIS ANGVSTIÃ LABORANTEM POPVLVM
MIRABILITER REFECIT.
PRÆFECTI SVNT ALII, VT GVBERNARENT REGNVM:
PRÆFECTVS HIC, VT STABILIRET REGNVM, QVOD GVBERNARET.
NEC MIRVM, QVOD OCCLVSAM GRESSIBVS EXPEDIERIT VIAM,
PLVS EST, QVOD CIVIVM ANIMIIS
PACIS, ET PROSPERITATIS VIAM
APERVIT, MVNIIT, SERVAVIT,
SAGACI INDVSTRIÃ,
FELICI INDVLGENTIÃ
MIRABILI VIRTVTE.

ANNO          MDCL

San Domenico Maggiore

Lapide tombale in san Michele a Morfisa

MIRO IMPAVIDO
LA MORTE
PERCHE ERA SECO
L'AUTOR
DELLA VITA

Resto architettonico iscritto

MORPHISIA

L'epigrafe sibillina di san Domenico Maggiore

(28/V/2003) Ovvero reminescenze cultuali egizie nel rinascimento napoletano.
Posta nel cortile d'ingresso della chiesa di san Domenico Maggiore a Napoli.

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NIMBIFER ILLE DEO MICHI SACRVM INVIDIT OSIRIM
IMBRE TVLIT MVNDI CORPORA MERSA FRETO
INVIDA DIRA MINVS PATIMVR FVSAMQVE SVB AXE
PROGENIEM CAVEAS TROIVGENAMQVE TRVCEM

VOCE PRECOR SVPERAS AVRAS ET LVMINA CELO
CRIMINE DEPOSITO POSSE PARARE VIAM
SOL VELVTI IACVLIS ITRVM RADIANTIBVS VNDAS
SI PENETRAT GELIDAS IGNIBVS ARET AQVAS

In questo atrio, precisamente sul muro tra la porta della chiesa e quella del monastero, vi è una lastra in marmo sulla quale è incisa una strana, sibillinaa epigrafe che traduciamo per comodità del lettore: [Vittorio Gleijeses, La guida di Napoli e dei suoi dintorni, Napoli: la Botteguccia, 1973, 19935, p. 263]

1 Nimbifer ille deo mi<<c(GPB)>>hi [micai(MC)] sacrum invidit Osirim
MC Il Tempestoso invidiò al divino seme il sacro Osiride.
VG Quell'apportatore di sventure mi invidiò il Sole sacro a Dio
GPB Quell'apportatore di nembi mi invidiò l'Osiride sacro a dio

2 Imbre tulit mundi corpora mersa freto
MC Con una tempesta sprofondò i corpi celesti nel mare.
VG e con la pioggia trasportò via i corpi che erano sommersi nelle acque del mare.
GPB con la pioggia portò sommersi i corpi del mondo (=tramonto dei corpicelesti??) dal flutto.

3 Invida dira minus patimur fusamque sub axe
MC Noi non subiamo del tutto (tali) ostili azioni funeste.
VG Ora soffriamo di meno le feroci calamità;
GPB Le calamità ostili soffriamo meno e la sparsa sotto l'asse (del mondo)...

4 Progeniem caveas troiugenamque trucem
MC Guardati (però) dall’ampia e truce progenie che è sotto il cielo.
VG e stai attento alla cattiva progenie troiana che trovasi sotto il cielo.
GPB ...progenie temi e il truce (fiero, duro) troiano.

5 Voce precor superas auras et lumina c<a(MC)>elo
MC Prego a piena voce che le superne luci e i lumi, rimessa
VG Con la mia voce prego gli spiriti i superiori lumi
GPB Con (alta) voce prego gli spiriti superiori e i lumi

6 Crimine deposito posse parare viam
MC In cielo la colpa, possano preparare la via
VG affinché tolto il peccato possano spianare la via verso il Cielo.
GPB di, rimesso il crimine, poter preparare la via verso il cielo.

7 Sol veluti iaculis it<e(GPB)>rum radiantibus undas
MC Sì come il sole con fulgide saette tra le onde
VG Come il Sole raggiando novellamente i suoi strali
GPB Come il sole [se] di nuovo con gli strali (frecce) irraggianti le onde

8 Si penetrat gelidas ignibus aret aquas
MC Penetra e con le fiamme solca le gelide acque
VG se penetra le acque dissolve col suo calore le acque gelide.
GPB se penetra, dissolve col suo calore le gelide acque.

Commento a cura di Massimiliano Contatore

v. 1) Ho tradotto Nimbifer con Tempestoso, letteralmente sarebbe "Portatore di Pioggia o Nubi".
Micai è un dativo arcaico di prima declinazione.
Ho tradotto Invidit con invidiò per mantenere le funzioni logiche di Micai e Osirim.

v. 2) Letteralmente il verso sarebbe: "Con una tempesta portò i corpi del cielo (o universo) immersi nel mare".

v. 3) Sub axe vuol dire “sotto l’asse celeste”.

v. 4) Troiugenam è aggettivo che raramente si incontra ed è sempre riferito alla stirpe dei romani di discendenza troiana, a te le dovute considerazioni.

v. 6) E’ un ablativo assoluto, ma di quale colpa parla... ne possiamo solo avere un’idea.

vv. 7-8) Meravigliosa metafora nel migliore stile, nulla da dire, non ci resta che attendere per parlarne. Ah dimenticavo, ho trattato Itrum come fosse Inter, non vedo altre possibilità.

Tutta l’epigrafe ha una strana scansione: i primi 2 versi sembrano descrivere una situazione primordiale con l’utilizzo di appropriati perfetti; poi, con i successivi due, si passa a descrivere la condizione attuale di coloro cui è indirizzata l’epigrafe, e si utilizzano quindi due presenti (il primo nel modo della realtà, l’indicativo, il secondo con un congiuntivo esortativo). A questi 4 versi ne succedono altri 4 anch’essi suddivisi in 2 coppie. Si tratta di una preghiera che dall’alto si prepari la via ( i primi 2 versi ) seguita da un’immaginifica metafora che ne esplica il senso ( se così si può dire ).

Tante le domande...

Note di GPB

Matilde Serao (1856-1927), Leggende napoletane
Il Cristo morto

Da www.liberliber.it. Digitalizzato da Maria Di Siena, rivisto da Gennaro Casciello.

La cappella è glaciale. Pavimento di marmo, marmo alle pareti, tombe di marmo, statue di marmo alle pareti, tombe di marmo, statue di marmo. Un marmo scuro, che ha preso una tinta malaticcia ed umida pel tempo che è trascorso, pel sole che manca, per la scialba luce che piove dalle vetrate. Non ornamenti di oro, non candelabri, non lampade votive, non fiori: invece fregi, ornamenti, mosaici, iscrizioni, palme, volute, capitelli in pietra bianca, grigia o nera, non altro che pietra. Tutto vi è gelido, tranquillo, serenamente sepolcrale. Altrove è vita la voce del prete che prega, la tenue fiammella delle candele, lo squillo del campanello, lo scricchiolio di una sedia, il fumo sottile dell'incenso; qui non si prega, non ardono lumi, non sedie, non suonano campanelli, non fumano incensi. Non si vive per pregare, si muore nello sfinimento della preghiera che s'arresta sulle fredde labbra. Non è una chiesa, è una tomba.

- Volete vedere il Cristo morto? - chiede la guida, con la sua voce strascicata
Quella voce umana e volgare mi scuote. Eppure mi parla ancora di morte.
- Vediamo la prima cappella - mormoro, quasi vergognandomi di parlare.

Coloro che vi giacciono, quieti ed immobili, le braccia in croce sul cuore morto, appartengono alla nobilissima fra le famiglie; Grandi di Spagna di prima classe, due volte principi, due volte duchi, tre volte conti, cinque o sei volte marchesi. Sulla porta di entrata è la tomba dell'antichissimo antenato che andò alle crociate: ferito o svenuto in un combattimento, fu creduto morto e portato a seppellire, ma risvegliatosi d'un tratto, saltò fuori dalla bara più animoso e sbaragliò e sconfisse il gruppo dei nemici. Tombe dappertutto. Pompose iscrizioni latine in cui il sentimento ed il carattere s'affogano nella monotona convenzionalità dell'elogio. Solo le cifre hanno un malinconico significato: la vita non è lunga nella nobile casa Vi muoiono presto le fanciulle, vi muoiono presto i giovanetti. Ogni tomba ha la statua grande di colui che vi è sepolto, o almeno un medaglione su cui si disegnano e si rilevano certi profili soavi, certe linee serenamente altiere, certi ondeggiamenti marmorei di chiome disciolte. Nella famiglia è tradizionale una pura bellezza, più d'espressione che di plastica. Ogni tomba ha la sua statua, ogni tomba ha il suo medaglione.

- Volete vedere il Cristo morto? - insiste il custode.
- Finiamo di veder la cappella - ripeto io, singolarmente infastidita e colpita da quella insistenza.

Fra una tomba e l'altra, statue e gruppi allegorici, sempre in quell'interno e freddo marmo. Ecco il Pudore col volto coperto da un velo, ecco la Fortezza, ecco la Temperanza, ecco la Gloria, ecco l'Educazione, ecco l'Amor filiale, vuote allegorie che non chiudono più alcuna idea. Ultimo, poeticamente ultimo, è il Disinganno, un uomo che cerca con uno sforzo supremo districarsi da una fitta rete che l'avviluppa tutto. Singolare chiusura della vita, termine singolare di tutte le sublimità, di tutte le passioni, di tutti gli amori. Il Disinganno - e più altro.

- Perché questa tomba non ha medaglione? - domando al custode.
Egli non m' ha udita, perché ricomincia a dire:
- Il Cristo morto...
- Vediamo l'altar maggiore - ripeto io, ostinandomi.

Sì, l'ultima tomba a dritta non ha medaglione. Manca il ritratto della nobile principessa che vi è sepolta, che è morta anch'essa così giovane. Il medaglione è liscio, vuoto, bianco, come se ne avesse raspata, cancellata l'immagine. Ed è triste come nella sala ducale, a Venezia, il ritratto di Faliero, coperto da un velo nero. L'altar maggiore è nudo, severo. Sulla parete, in fondo, n alto v'è un quadro, una Vergine della Pietà, scolorita, che sostiene sulle ginocchia il livido corpo di Gesù.

La pittura è guasta, bruna, tetra; un sorcio ha fatto un buco nero nel costato di Gesù. Più giù, proprio dall'altar maggiore, un grande gruppo in marmo che rappresenta la Deposizione della Croce. Sempre lo stesso soggetto, sempre la morte.

- Ed ecco - ripete trionfalmente il custode, staccandosi dall'altar maggiore - il Cristo morto.

Sta ai piedi dell'altar maggiore, a sinistra. Sopra un largo piedistallo è disteso un materasso marmoreo; sopra questo letto gelato e funebre giace il Cristo morto. È grande quanto un uomo, un uomo vigoroso e forte. Nella pienezza dell'età. Giace lungo disteso, abbandonato, i piedi diritti, rigidi, uniti, le ginocchia sollevate lievemente, le reni sprofondate, il petto gonfio il collo stecchito, la testa sollevata sui cuscini, ma piegata, sul lato diritto, le mani prosciolte. I capelli sono arruffati, quasi madidi del sudore dell'agonia. Gli occhi socchiusi, alle cui palpebre tremolano ancora le ultime e più dolorose lagrime. In fondo, sul materasso, sono gettati, con una spezzatura artistica, gli attributi della Passione, la corona di spine, i chiodi, la spugna imbevuta di fiele, il martello. Sul piedistallo, sotto i cuscini, questa iscrizione: Joseph Sammartino, Neap., fecit, 1753. E più nulla. Cioè no: sul Cristo morto, su quel corpo bello ma straziato, una religiosa e delicata pietà ha gettato un lenzuolo dalle pieghe morbide e trasparenti, che vela senza nascondere, che non cela la piaga ma la molce, che non copre lo spasimo ma lo addolcisce. Sopra un corpo di marmo, che sembra di carne, un lenzuolo di marmo che la mano quasi vorrebbe togliere. Niente manca, dunque, in questa profonda creazione artistica: e vi è il sentimento che fa palpitare la pietra, turbando il nostro cuore, e v'è l'audacia del creatore che rompe ogni regola, e v'è il magistero di una forma eletta, pura, squisita. Quel corpo morto era poc'anzi vivo, si contorceva nelle angosce di un'agonia spaventosa, giovane e robusto si ribellava al male, si ribellava alla morte. Non vi era sfinimento, non vi era abbattimento: le fibre non volevano morire, il corpo non voleva morire. Ma sotto le pieghe del lenzuolo la testa ha un carattere stupendo: la fronte liscia ha un vasto pensiero; piangono gli occhi, è vero, pel cruccio fisico, ma le labbra schiuse hanno una traccia di sorriso che è una indefinita speranza. È vero. è vero, il dolore è passato dal corpo all'anima; è vero, l'anima è contristata, ma non è disperazione, ma non è desolazione. L'anima come la bocca è abbeverata di fiele, ma una goccia di consolazione vi è stata. Tutto quel Cristo è un dolore supremo, ma è anche una suprema speranza; ma il mistero di quella testa divina è così grandioso, ma l'ammirazione per la meravigliosa opera d'arte è così sconfinata, ma la pietà del bellissimo estinto è così invadente che il pensatore si scuote e non frena più le acute indagini dalla sua mente, l'artista s'inchina nella esaltazione del suo spirito ed il credente non può che abbandonarsi, piangendo, sui piedi del morto, cospargendoli di lagrime e di baci.

Singolare anima d'artista doveva esser quella dello scultore che ha dato all'arte questo Cristo morto. Nell'opera sua vi è tutto il suo spirito. Uno spirito dove sorgevano uguali, immensi, due amori: quello per una donna, quello per l'arte. Infelicissimo, terribilmente doloroso il primo.

Solamente chi ha conosciuto il furore acuto di una sofferenza senza nome può far passare tutta la poesia di questa sofferenza nel marmo senza vita; solamente chi è vissuto nelle lagrime, nell'angoscia, nella esaltazione di un'anima innamorata e solitaria, può infondere nel marmo il solitario e cupo dolore di questo Cristo. Lo scultore ha saputo, ha sentito. Ha saputo, ha sentito che cosa fosse il tormento sottile che stride come una sega piccina ed inesorabile; la desolazione grigia, lunga, monotona, dove tutto è cenere, tutto è nausea, tutto è disgusto: la disperazione larga e vasta e lenta come una fiumana di pianto; la disperazione fragorosa e tumultuante come un torrente che tutto trascina.

Chi ha fatto quel Cristo ha spasimato d'amore; ha amato ed ha pianto; ha amato ed un fremito mortale gli ha travolto le fibre; ha amato ed una convulsione ha contorta e spezzata la sua vita; ha amato senza speranza, senza gioia, senza diletto, abbruciando la propria esistenza nella tormentosa voluttà del dolore. Solo un uomo che ama può creare quel Cristo morto; solo colui che soffre col trasporto, con la passione delle sofferenze, può mettere in una statua tutta la sublime epopea del dolore. Ogni colpo di scalpello che scheggiava, rompeva, carezzava, curvava, ammorbidiva il marmo, era una parola, un gemito, un lamento, un grido, uno scoppio furente di questo amore. La passione dell'uomo vivo creava la passione del Cristo morto. E ne veniva fuori un'anima d'artista che imprimeva il suo carattere in un capolavoro dell'arte.

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- Perché quella tomba non ha ritratto? - chiesi di nuovo uscendo dalla chiesa, mentre il custode faceva tintinnire le chiavi.
- Lo scultore non ebbe tempo di finirlo...
- Quale scultore?
- Il Sammartino.
- Ah!...
- ...Morì prima di finirlo. Fu trovato in una straduccia buia, di notte, con un pugnale nel petto.
- Fu ucciso o s'uccise?
- Si crede che si fosse ucciso.

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Come nello strazio dell'ignota agonia, la testa del morto scultore doveva rassomigliare a quella del Cristo morto!

Iscrizioni e ammonimenti nel chiostro di san Gregorio Armeno

Iscrizione sullo stipite destro della porta all'incirca di fronte alla cappella della Madonna dell'Idria.

LA SEGONNA SETTIMANA DI DECEMB[parte di un tratto verticale poi crepa]
LI TRE GIORNI CHE NON SI FA PANE
IL FORNO GRANNE E PICCOLO
E DELLA SIGNRA ABBADESSA

Cartelli con ammonimenti appesi nel vano aperto di una delle costruzioni interne del chiostro, lato chiesa.

DISPREZZO DI
SE STESSO

LA MENERÒ NEL=
LA SOLITUDINE,
E PARLERÒ AL CUO=
RE DI LEI. OSEA.

NOI MORIAMO A POCO
A POCO, BISOGNA PARI-
MENTI DI GIORNO IN
GIORNO FAR MORIRE
CON ESSO NOI, LE NO-
STRE IMPERFERZIONI.

San Lorenzo Maggiore

G. Boccaccio, Filocolo

[...] mi trovai in un grazioso e bel tempio in Partenope, nominato da colui che per deificarsi sostenne che fosse fatto di lui sacrificio sopra la grata, e quivi con canto pieno di dolce melodia ascoltava l'ufficio che in tal giorno si canta, celebrato daì sacerdoti successori di colui che prima la corda cinse umilmente esaltando la povertade e quella seguendo. Ove io dimorando, e già essendo, secondo che il mio intelletto stimava, la quarta ora del giorno sopra l'orientale orizzonte passata, apparve agli occhi miei la mirabile bellezza della prefata giovane, venuta in quello loco a udire quel che io attentamente udiva; la quale sì tosto com'io ebbi veduta, il cuore incominciò sì forte a tremare, che quasi quel tremore mi rispondeva per li menomi polsi del corpo smisuratamente; e non sappiendo per che, né ancora sentiendo quello che egli già s'immaginava che avvenire gli doveva per la nuova vista, incominciai a dire: «Ohimè! o che è questo»; e forte dubitava non altro accidente noioso fosse.

Ma dopo alquanto spazio, rassicurato un poco, presi ardire, e intentivamente cominciai a rimirare ne' begli occhi dell'adorna giovane; ne quali io vidi, dopo lungo guardare, Amore in abito tanto pietoso, che me, il quale lungamente a mia instanzia aveva risparmiato, fece tornare desideroso d'essergli per così bella donna soggetto. [da Regina]

F. Petrarca,
lettera del 26/XI/1343 a Giovanni Colonna

Ero ancora nel dormiveglia quand'ecco, di colpo, tremare con orribile fragore le finestre e le mura, pur costruite a volta su salde fondamenta di pietra; e il lume da notte che ho sempre l'abitudine di tenere acceso mentre dormo, si spegne. Balziamo dal letto e al posto del sonno ci invade la paura della morte vicina. Mentre nel buio ci chiamiamo a vicenda e alla terribile luce dei lampi riusciamo appena a vederci e a farci forza con voce tremante, i monaci di cui siamo ospiti e il loro santissimo priore David (che nomino per fargli onore), levatisi secondo l'abitudine per recitare le notturne lodi a Cristo, atterriti da quell'improvviso cataclisma, armati di croci e reliquie di santi e implorando a gran voce la misericordia divina, irrompono nella mia camera potando avanti le fiaccole. Mi rincuorai un poco. Ci affrettiamo tutti verso la chiesa, e qui giunti, perplessi, pernottiamo nel pianto, certi ormai che la fine fosse imminente e che ogni cosa attorno rovinasse. Troppo lungo sarebbe voler abbracciare con parole tutto l'orrore di quella notte infernale, e per quanto assai lontana dal vero, la mia esposizione trascenderà la fiducia nel vero. Pioggia, vento, fulmini, tuoni, scosse telluriche, tempeste marine, ululati d'uomini! E quando finalmente, dopo una notte che, per magico prodigio ci parve doppia, giungemmo in tale stato all'aurora e riuscimmo a indovinare più con il cuore che dalla luce il prossimo spuntare del giorno, vestiti dei sacri paramenti i sacerdoti celebrano la messa e noi, senza ancora osare di guardare il cielo, ci prostrerniamo sull'umida e nuda terra. [da Regina]

Lapide posta nella prima cappella absidale a sinistra

(21/III/2003) Nella prima cappella radiale a sinistra sul deambulatorio dell'abside, si trova questa lapide posta (se non sbaglio) sul sepolcro di Leone Folliero [Moccia & Caporali p. 341]:

QVID OMNIA
QVID OMNIA NIHIL
SI NIHIL CVR OMNIA
NIHIL VT OMNIA

Iscrizioni poste nella navata laterale destra di san Paolo Maggiore

(4/V/2003) Nella navata laterale destra della chiesa di san Paolo Maggiore, all'altezza della IV cappella dedicata alla Madonna della Purità, si trovano affrontate quattro sculture raffiguranti le virtù cardinali opera di Andrea Falcone e dei suoi allievi [Moccia & Caporali p. 286]. Sopra e sotto ogni scultura si trovano degli intarsi marmorei iscritti.

Sopra la statua: una bilancia a sospensione con due piatti. Nel cartiglio:

INVIOLATA FIDES

Statua della giustizia, personificata come donna con una bilancia in mano di cui è rimasta solo l'anella di sospensione.
Sotto la statua: sole che sorge dietro la sommità di un monte dal profilo triangolare. Nel cartiglio:

DIVIDENS ORBI DIEM

Sopra la statua: al centro un uccello nel nido con le ali spiegate, in alto a sinistra un piccolo sole. Nel cartiglio:

PVRIS VT GIGNAM

Statua della prudenza, personificata come donna che tiene un serpente dal volto umano nella mano destra.
Sotto la statua: una colomba +??+. Nel cartiglio:

PRVDENTIOR QVIA SIMPLICIOR

Sopra la statua: un albero dritto fra due nuvole antropocefale che soffiano contro di esso. Nel cartiglio:

VALIDO CVM ROBORE

Statua della fortezza, personificata come donna con un'alta lancia nella mano destra e uno scudo appoggiato a terra lungo il fianco sinistro.
Sotto la statua: un diamante bianco posto fra un incudine e un martello. Nel cartiglio:

NVLLO VIOLABILIS ICTV

Sopra la statua: una losanga di colore marrone posta orizzontalmente al centro, +forse il ceppo di Daniele 4,12??+. Nel cartiglio:

RORE CŒLI CONTENTA

Statua della temperanza, presentata come donna con un orologio a edicola nella mano sinistra.
Sotto la statua: un fiore dallo stelo alto e dritto. Nel cartiglio:

SAT MIHI FLORES

Il motto affrescato nella sagrestia della cappella del Monte di Pietà

ARS PIETASQ: SIMUL CERTANT HIC; CERTAT
ET AURUM
MONS MAGNUS CERTAT MAGNA
REFERRE DEO

La lapide posta sotto la statua sdraiata del Nilo
piazzetta Nilo

VETUSTISSIMAM NILI STATUAM
AB ALEXANDRINIS OLIM UT FAMA EST
IN PROXIMO HABITANTIBUS
VELUT PATRIO NUMINI POSITAM
DEINDE TEMPORUM INJURIA
CORRUPTAM CAPITEQUE TRUNCATAM
AEDILES QUIDEM ANNI MDCLXVII
NE QUAE HUIC REGIONI
CELEBRE NOMEN FECIT
SINE HONORE JACERET
RESTITUENDAM CONLOCANDAMQUE
AEDILES VERO ANNI MDCCXXXIV
FULCIENDAM NOVOQUE EPIGRAMMATE
ORNANDUM CURAVERE
PLACIDO PRINC. DENTICE PRAEF.
FERDINANDUS SANFELICIUS
MARCELLUS CARACCIOLUS
PETRUS PRINCEPS DE CARDANAS
PRINC. CASSAN. DUX CARINAR.
AUGUSTINUS VIVENTIUS
ANTONIUS GRATIOSUS. AGNELL. VASSALLUS SEC.

Gli edili dell'anno 1667 provvidero a restaurare e ad installare l'antichissima statua del Nilo, già eretta (secondo la tradizione) dagli Alessandrini residenti nel circondario come ad onorare una divinità patria, poi successivamente rovinata dalle ingiurie del tempo e decapitata, affinché non restasse nell'abbandono una statua che ha dato la fama a questo quartiere. Gli edili dell'anno 1734 provvidero invece a consolidarla e a corredarla di una nuova epigrafe, sotto il patronato del principle Placido Dentice [...]. [Regina p. 101]

La lapide all'interno della cappella Pontano

VIVUS DOMUM HANC MIHI PARA-
VI IN QUA QUIESCEREM MORTUUS
NOLI OPSECRO INIURAM MORT-
UO FACERE VIVENS QUAM FECER-
IM NEMINI SUM ETENIM IOANNES
IOVIANUS PONTANUS QUEM AMA-
VERUNT BONAE MUSAE SUSPEXE-
RUNT VIRI PROBI HONESTA VER-
UNT REGES DOMINI SCIS IAM QUI
SIM AUT QUI POTIUS FUERIM EGO
VERO TE HOSPES NOSCERE IN TE-
NEBRIS NEQUEO SED TE IPSUM
UT NOSCAS ROGO VALE.
[Regina p. 131]
VIVO MI APPARECCHIAI QUESTA DIMORA PER RIPOSARVI MORENDO
CHIEGGO NON MI FACCIATE INGIURIA
CH'IO MORENDO NON NE FECI AD ALCUNO
SONO GIOVANNI GIOVIANO PONTANO
CHE LE BUONE MUSE EBBERO CARO,
GLI UOMINI VIRTUOSI RAGGUARDARONO,
I RE DEL SIGNORE ESALTARONO.
SAI ORA CHI MI SONO O CHI PIUTTOSTO SIA STATO;
IO DALLE TENEBRE NON TI POSSO CONOSCERE O PASSEGGIERO,
MA PRIEGOTI CH TU CONOSCA TE STESSO!
ADDIO
[C. Celano, Notizie del bello, dell'antico e del curioso della città di Napoli per i signori forestieri, 1856]

L'iscrizione sul monumento al re Umberto I
all'Emiciclo Capodimonte

A Pordenone si fa festa,
a Napoli si muore:
vado a Napoli

La frase fu pronunciata dallo stesso re Umberto I [Gleijeses p. 405].

Lapide di Balthasar Aglaubitz

Lungo la navata sinistra dell'abbazia di san Michele, Procida.

TRISTE FRAGILITATIS HVMANAE EXEMPLVM NE TE PRAETEREAT VIATOR SISTE HIC OSSA CVBANT BALTHASARIS AGLAVBITZ NOBILIS GERMANI QVEM DVM NEAPOLIM PETIT BREVE QVATRIDVVM IN FLORENTE AETATE ET LAETVM VIDIT ET LETHO ABSVNTVM TV ABI ET VIVE MEMOR LETHI

OBIIT III NON SEXTII I CI*I*C

* = "C" specchiata, a formare l'ultima gamba della "m" e la curva della "D".

Non ti sfugga, o pellegrino, il triste esempio di fragilità umana.
Fermati! Qui giacciono le ossa del nobile tedesco Baltasar Aglaubitz
che, mentre si dirigeva a Napoli, quattro brevi giorni lo videro nel fiore
dell'età sia lieto sia morto.
Tu vai e vivi memore della morte.
Morì il 3 agosto 1600. [mia traduzione, grazie ad Andrea Risi]

Capri

La lapide di via Krupp

Lapide posta all'inzio di via Krupp sotto il ponticello dei giardini di Augusto.

LA MVNIFICENZA DI FEDERICO ALFREDO KRVPP
AVSPICE IL COMVNE DI CAPRI
CONSENTÌ
ALL'INGEGNERE EMILIO MAYER
LA REALIZZAZIONE
DI QVESTA ARDIMENTOSA E MIRABILE STRADA
CHE FACILITÒ
IL GODIMENTO DI SCOSCESE BELLEZZE DELL'ISOLA

Lapide revisionista in onore dell'imperatore Tiberio

Lapide posta sopra l'arcata di ingresso al passaggio coperto che porta alla funicolare dalla piazzetta ai piedi della torre campanaria.

IMP. TIBERIO CAESARI AUG.
QUI SENECTUTEM SECURAM HIC AGEBAT
SENATUS POPULUSQUE CAPREENSIS
INFAMES POSTERORUM FABULAS DETESTATI
OPTIMO PRINCIPI VIRO GRAVISSIMO H.M.B.M.P. A.D. MCMXII

Ma che ne può sapere uno dopo 2000 anni che personalità aveva Tiberio? E poi a che serve una lapide dedicata ad un potente morto 2000 anni fa? A chi giova questo "revisionismo"? Certo, fa la gioia di un collezionista di lapidi insolite. Più viva è la memoria di Lenin a Capri, ma non più comprensibili sono il monumento nei giardini di Augusto sopra via Krupp o la lapide altisonante posta sulla casa dove alloggiò lo statista sovietico durante le sue vacanze a Capri (mica scemo!)...

Lapidi alla tomba di Virgilio

QVI CINERES TVMVLI HÆC VESTIGIA CONDITUR OLIM
ILLE HOC QVI CECINIT PASCVA RVRA DVCES
CAN REG M D L IIII

Di chi sono queste ceneri? Queste sono le vestigia di un sepolcro, è sepolto colui che un tempo cantò i pascoli i canti i condottieri [Baldi p. 208]

SISTE·VIATOR·PAVCA·LEGITO
HIC·VERGILIVS·TVMVLVS·EST

Fermati viaggiatore, leggi queste poche cose: questa è la tomba di Virgilio. [Baldi]

Qui si trovava secondo la tradizione la lapide con i famosi versi Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecinit pascua, rura, duces ovvero "Mantova mi generò, la Calabria mi rapì, mi tiene ora Napoli, cantai i pascoli, i campi, i condottieri".

Descrizioni della Crypta Neapolitana

Secondo misurazioni compiute da Amedeo Maiuri la crypta neapolitana è lunga m. 700, larga dai m. 3,20 ai m. 2,80 e ha un’altezza massima di m. 5,60. E’ perfettamente rettilinea, tanrto che in un giorno del mese di giugno, all’imbocco di Napoli si scorgeva il sole che tramontava dal lato opposto, verso Pozzuoli. [da www.hermescuole.na.it/scuole/nacd39/Crypta/Crypta.htm].

Vedi www.campnet.it/stampe/indice2.htm per vedere come si presenta la Crypta nelle stampe antiche.

Leopardi

o se a Napoli presso, ove la tomba
pon di Virgilio un'amorosa fede,
vedeste il varco che del tuon rimbomba
spesso che dal Vesuvio intorno fiede,
colà dove all'entrar subito piomba
notte in sul capo al passegger che vede
quasi un punto lontan d'un lume incerto
l'altra bocca onde poi riede all'aperto

G. Leopardi, Paralipomeni, III canto

Seneca, Epistole LVII

SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

[1] Cum a Bais deberem Neapolim repetere, facile credidi tempestatem esse, ne iterum navem experirer; et tantum luti tota via fuit ut possim videri nihilominus navigasse. Totum athletarum fatum mihi illo die perpetiendum fuit: a ceromate nos haphe excepit in crypta Neapolitana. [2] Nihil illo carcere longius, nihil illis facibus obscurius, quae nobis praestant non ut per tenebras videamus, sed ut ipsas. Ceterum etiam si locus haberet lucem, pulvis auferret, in aperto quoque res gravis et molesta: quid illic, ubi in se volutatur et, cum sine ullo spiramento sit inclusus, in ipsos a quibus excitatus est recidit? Duo incommoda inter sc contraria simul pertulimus: eadem via, eodem die et luto et pulvere laboravimus.

[3] Aliquid tamen mihi illa obscuritas quod cogitarem dedit: sensi quendam ictum animi et sine metu mutationem quam insolitae rei novitas simul ac foeditas fecerat. Non de me nunc tecum loquor, qui multum ab homine tolerabili, nedum a perfecto absum, sed de illo in quem fortuna ius perdidit: huius quoque ferietur animus, mutabitur color. [4] Quaedam enim, mi Lucili, nulla effugere virtus potest; admonet illam natura mortalitatis suae. Itaque et vultum adducet ad tristia et inhorrescet ad subita et caligabit, si vastam altitudinem in crepidine eius constitutus despexerit: non est hoc timor, sed naturalis affectio inexpugnabilis rationi. [5] Itaque fortes quidam et paratissimi fundere suum sanguinem alienum videre non possunt; quidam ad vulneris novi, quidam ad veteris et purulenti tractationem inspectionemque succidunt ac linquuntur animo; alii gladium facilius recipiunt quam vident. [6] Sensi ergo, ut dicebam, quandam non quidem perturbationem, sed mutationem: rursus ad primum conspectum redditae lucis alacritas rediit incogitata et iniussa. Illud deinde mecum loqui coepi, quam inepte quaedam magis aut minus timeremus, cum omnium idem finis esset. Quid enim interest utrum supra aliquem vigilarium ruat an mons? nihil invenies. Erunt tamen qui hanc ruinam magis timeant, quamvis utraque mortifera aeque sit; adeo non effectu, sed efficientia timor spectat.

[7] Nunc me putas de Stoicis dicere, qui existimant animam hominis magno pondere extriti permanere non posse et statim spargi, quia non fuerit illi exitus liber? Ego vero non facio: qui hoc dicunt videntur mihi errare. [8] Quemadmodum flamma non potest opprimi - nam circa id diffugit quo urgetur -, quemadmodum aer verbere atque ictu non laeditur, ne scinditur quidem, sed circa id cui cessit refunditur, sic animus, qui ex tenuissimo constat, deprehendi non potest nec intra corpus effligi, sed beneficio subtilitatis suae per ipsa quibus premitur erumpit. Quomodo fulmini, etiam cum latissime percussit ac fulsit, per exiguum foramen est reditus, sic animo, qui adhuc tenuior est igne, per omne corpus fuga est. [9] Itaque de illo quaerendum est, an possit immortalis esse. Hoc quidem certum habe: si superstes est corpori, opteri illum nullo genere posse, [propter quod non perit] quoniam nulla immortalitas cum exceptione est, nec quicquam noxium aeterno est. Vale.

Nessun carcere più lungo di quello, nessuna fiaccola più fosca di quelle che ci si paravano innanzi agli occhi non per rischiarare le tenebre, ma per far rimirare se stesse. E del resto, anche se un pò di chiarore si fosse avuto, il polverume ce l'avrebbe tolto; sì denso e molesto era da ottenebrare anche un luogo aperto! Che dire poi di quel luogo dove in se stesso si rivolge e dove, per non essere mosso da alcun fiato di vento ricade su quelli che lo sollevano?

FRAGMENTA PETRONII QVAE QVIBUS IN LOCIS REPONENDA SINT, INCERTVM EST, Frag. XIII.

Nam comtum me vernales alucitae molestabant -- Postquam ferculum allatum est -- Tot regum manubiae penes fugitiuum repertae -- Satis constat, eos nisi inclinatos, non solere transire cryptam Neapolitanam -- Petauroque iubente modo superior -- Adfer nobis alabastrum Cosmianum -- Suppes -- Tullia.

Alexandre Dumas, Le corricolo
Chapitre XXVIII
La grotte de Pouzolles. La grotte du Chien

Il diario di viaggio di Dumas padre è scaricabile in formato PDF all'indirizzo
http://mapage.noos.fr/dumaspere/pages/feuilletons/corricolo/corricolo.html.
Il libro, composto da 48 capitoli di agevole e piacevole lettura, contiene molti altri capitoli interessanti, dedicati alla visita di Pompei, ad una dotta disquisizione su quale battaglia sia raffigurata nel famoso mosaico di Alessandro, alla festa di Piedigrotta, san Gennaro, la tomba di Virgilio, Pozzuoli, il lago d'Averno, Baia etc.

Pendant cette exploration, notre cocher, que notre longue absence ennuyait, était entré dans un cabaret pour se distraire. Lorsque nous redescendîmes vers Chiaïa, nous le trouvâmes ivre comme auraient pu l'être Horace ou Gallus. Cette petite infraction aux règles de la tempérance retomba sur nos pauvres chevaux, qui, excités par le fouet de leur maître, nous emportèrent au triple galop vers la grotte de Pouzoles. Nous eûmes beau dire que nous voulions nous arrêter à l'entrée de cette grotte et la traverser dans toute sa longueur : notre automédon qui croyait son honneur engagé à nous prouver, par la manière pimpante dont il conduisait, qu'il n'était pas ivre, redoubla de coups, et nous disparûmes dans l'ouverture béante comme si un tourbillon nous emportait.

Malheureusement, à peine avions-nous fait cent pas dans ce corridor de l'enfer que nous accrochâmes une charrette. Le cocher, qui se tenait debout derrière nous, sauta par-dessus notre tête, nous sautâmes par-dessus celle des chevaux. Les chevaux s'abattirent ; une roue du corricolo continua sa route, tandis que l'autre, engagée dans le moyeu de la charrette, s'arrêta court avec le reste de l'équipage. Je crus que nous étions tous anéantis. Heureusement le dieu des ivrognes, qui veillait sur notre cocher, daigna étendre sa protection jusqu'à nous, si indignes que nous en fussions : nous nous relevâmes sans aucune égratignure ; les traits seuls du bilancino étaient cassés. On se rappelle que le bilancino est le cheval qui galope près du timonier enfermé dans les brancards.

Notre conducteur nous déclara qu'il lui fallait un quart d'heure pour remettre en ordre son attelage ; nous le lui accordâmes d'autant plus volontiers qu'il nous fallait, à nous, le même temps pour visiter la grotte.

Du temps de Sénèque, où il n'y avait pas de chemins de fer, et où par conséquent on ne perçait pas les montagnes, mais où l'on montait tout simplement par-dessus, la grotte de Pouzoles était une grande curiosité. Aussi s'en préoccupe-t-il plus que de nos jours le ferait le dernier ingénieur des ponts et chaussées, et, poétisant cette espèce de cave, qui n'est pas même bonne à mettre du vin, l'appelle -t-il une longue prison, et disserte-t-il sur la force involontaire des impressions. Quant à nous, je ne sais si la cabriole que nous venions de faire avait nui à notre imagination ; mais, n'en déplaise à Sénèque, nous ne fûmes impressionnés que par l'abominable odeur d'huile que répandaient les soixante-quatre réverbères allumés dans ce grand terrier. Malgré ces soixante-quatre réverbères, il y a une telle obscurité dans la grotte de Pouzoles, que ce ne fut que guidés par la voix avinée de notre cocher que nous parvînmes à retrouver notre corricolo. Nous remontâmes dedans, notre cocher remonta derrière, et, comme pour prouver à nos malheureux chevaux que ce n'était pas lui qui avait tort, il débuta par le plus splendide coup de fouet que jamais chevaux aient reçu depuis les coursiers d'Achille, qui pleurèrent si tendrement leur maître, jusqu'aux mules de don Miguel, qui faillirent si irrespectueusement casser le cou au leur.

Le bilancino et le timonier firent un bond qui manqua de démantibuler la voiture ; mais, à notre grand éto nnement, et quoique tous deux parussent faire des efforts inouïs pour remplir leur devoir, nous ne bougeâmes pas de place. Le cocher redoubla, en accompagnant cette fois le cinglement de la lanière de ce petit sifflement habituel aux cochers italiens, et avec lequel ils semblent galvaniser leurs chevaux. Les nôtres, à cette double admonestation, redoublèrent de soubresauts et de piétinements, mais ne firent ni un pas en avant ni un pas en arrière.

Cependant, comme, selon toutes les règles de la dignité humaine, ce n'est jamais aux animaux à deux pieds à céder aux animaux à quatre pattes, notre homme s'entêta et allongea à son équipage un troisième coup de fouet en accompagnant ce coup de fouet d'un juron à faire fendre le Pausilippe. L'impression fut grande sur les malheureux quadrupèdes ; ils se cabrèrent, hennirent, firent des écarts à droite, firent des écarts à gauche ; mais d'un seul pas en avant, il n'en fut pas question. Il y avait évidemment quelque mystère là-dessous. J'arrêtai le bras de Gaetano , levé pour un quatrième coup de fouet, et je l'invitai à aller s'assurer à tâtons des causes qui nous enchaînaient à notre place ; car de voir avec les yeux, il n'y fallait pas songer. Gaetano voulut résister et prétendit que les chevaux devaient partir et qu'ils partiraient. Mais à mon tour j'insistai en lui disant que, s'il ajoutait un mot, je l'enverrais promener lui et son attelage. Gaetano, menacé dans ses intérêts pécuniaires, descendit.

Au bout d'un instant, nous l'entendîmes pousser des soupirs, puis des plaintes, puis des gémissements.

- Eh bien ! lui demandai-je, qu'y a-t-il !
- O Eccellenza !
- Après ?
- O malora !
- Quoi ?
- Ho perdato la testa del mio cavallo.
- Comment ! vous avez perdu la tête de votre cheval ?
- L'ho perduta !

Et les plaintes et les gémissements recommencèrent.

- Et duquel des deux avez-vous perdu la tête ? demandai-je en éclatant de rire.
- Del povero bilancino, Eccellenza.
- Ce gredin-là est ivre mort, dit Jadin.
- Eh bien ! demandai-je après un moment de silence, est-elle retrouvée ?
- O non si trovrerà più... mai ! mai ! mai !
- Voyons, attendez, je vais l'aller chercher moi-même.

Je sautai à bas du corricolo ; je fis à tâtons le tour de l'attelage et je trouvai mon homme qui serrait désespérément dans ses bras la croupe de son cheval. Il l'avait attaché à l'envers.

On comprend le résultat naturel de cette combinaison : à chaque coup de fouet nouveau, le porteur tirait au nord et le bilancino au midi. Or, comme c'est une règle invariable que deux forces égales opposées l'une à l'autre se neutralisent l'une par l'autre, il en résultait que, plus nos chevaux faisaient d'efforts pour avancer, l'un vers l'entrée de la grotte l'autre vers la sortie, plus solidement nous restions comme amarrés à la même place.

J'annonçai à Gaetano que la tête de son cheval était retrouvée, je lui en donnai la preuve en lui mettant la main dessus, et je lui signifiai que, de peur de nouveaux accidents, nous irions à pied jusqu'à la grotte du Chien, où il était invité à nous rejoindre, si toutefois il en était capable.

Il y a cependant des jours où cette grotte est splendidement éclairée, ce sont les jours d'équinoxe ; comme le soleil se couche exactement en face d'elle, il la transperce de son dernier rayon et la dore merveilleusement de l'une à l'autre de ses extrémités.

Il nous était arrivé tant d'encombres dans cette malheureuse grotte que ce fut avec un certain plaisir que nous retrouvâmes la lumière. Afin sans doute de dédommager le voyageur de la perte qu'il a faite momentanément, la nature, à la sortie de ce long et sombre corridor, se présente coquette, animée, et pleine de fantasques accidents. Cependant, comme un effroyable soleil dardait sur nos têtes, nous ne nous arrêtâmes pas trop à les détailler, et sur l'indication d'un passant, laissant la route, nous prîmes un petit chemin qui conduit au lac d'Agnano.

Gaetano s'était piqué d'honneur ; au bout d'un instant, nous entendîmes derrière nous le bruit des roues d'une voiture et le pétillement des sonnettes de deux chevaux : c'était notre corricolo et notre cocher qui nous rejoignaient, le corricolo parfaitement rafistolé à l'aide de cordes, de ficelles et de chiffons, le cocher à peu près dégrisé.

Comme nous étions en nage, nous ne nous fîmes pas prier pour reprendre nos places ; et cette fois, grâce à l'harmonie de notre attelage, nous reprîmes notre allure habituelle, c'est-à-dire que nous allâmes comme le vent.

Au bout d'un instant, deux chiens se mirent à courir devant notre corricolo, et un homme monta derrière. D'où sortaient-ils ? D'une pauvre chaumière située à gauche de la route, je crois. Des deux quadrupèdes, l'un était nankin et l'autre noir. Au bout d'un instant, le quadrupède nankin donna des signes visibles d'hésitation. Il s'arrêtait, s'asseyait, restait en arrière, puis reprenait son chemin, toujours plus lentement. Son maître commença par le siffler, puis l'appela, puis enfin, voyant des signes de rébellion marquée, descendit, le coupla avec le chien noir, et, au lieu de remonter derrière nous, marcha à pied. Je demandai alors quels étaient cet homme et ces chiens ; on nous répondit que c'était l'homme qui avait la clé de la grotte, et les deux chiens sur lesquels on faisait successivement les expériences, c'est-à-dire le grand prêtre et les victimes.

Le mot successivement m'éclaira sur les terreurs du chien nankin et sur l'insouciance du chien noir. Le chien noir descendait de garde, le chien nankin était de faction. Voilà pourquoi le chien nankin voulait à toute force retourner en arrière, et pourquoi il était indifférent au chien noir d'aller en avant. A la première visite d'étrangers, les rôles changeraient.

A mesure que nous approchions, les terreurs du malheureux chien nankin redoublaient. Il opposait à son camarade une véritable résistance ; et comme ils étaient à peu près de la même taille, et par conséquent de la même force, que l'un n'avait que le désir d'obéir à son maître, tandis que l'autre avait l'espérance d'y échapper, le sentiment de la conservation l'emporta bientôt sur celui du devoir, et, au lieu que ce fût le chien noir qui continuât d'entraîner le chien nankin vers la grotte, ce fut le chien nankin qui commença de ramener le chien noir vers la maison. Ce que voyant, le propriétaire des deux animaux jugea son intervention nécessaire, et se mit en marche pour les rejoindre. Mais à mesure qu'il approchait d'eux, tandis que le chien nankin redoublait d'efforts pour fuir, le chien noir, qui n'était pas bien sûr d'avoir fait tout ce qu'il pouvait pour retenir son camarade, donnait à son tour des signes d'hésitation, de sorte que, lorsque le maître étendit le bras, croyant mettre la main sur eux, tous deux partirent au grand galop, reprenant la route par laquelle ils étaient venus.

L'homme se mit à trotter après eux en les appelant ; inutile de dire que, plus il les appelait, plus ils couraient vite. Au bout d'un instant, homme et chiens disparurent à un tournant de la route.

Milord avait regardé toute cette scène avec un profond étonnement : en voyant apparaître deux individus de son espèce, il avait d'abord voulu se jeter dessus pour les dévorer, mais quelques coups de pied de Jadin l'avaient calmé, et il s'était décidé, quoique avec un regret visible, à devenir simple spectateur de ce qui allait se passer.

Ce qui devait arriver arriva : les deux chiens s'arrêtèrent à la porte de leur chenil. Leur maître les y rejoignit, passa une corde au cou du chien nankin, siffla le chien noir, et, dix minutes après sa disparition, nous le vîmes reparaître précédé de l'un et traînant l'autre.

Cette fois, il n'y avait pas à s'en dédire ; il fallait que la malheureuse bête accomplit le sacrifice. En arrivant à la porte de la grotte, il tremblait de tous ses membres ; la porte de la grotte ouverte, il était déjà à moitié mort. A la porte de la grotte étaient cinq ou six enfants si déguenillés qu'à part les indiscrétions des vêtements, il était fort difficile de reconnaître leur sexe : chacun tenait un animal quelconque à la main, l'un une grenouille, l'autre une couleuvre, celui-ci un cochon d'Inde, celui-là un chat. Ces animaux étaient destinés aux plaisirs des amateurs qui ne se contentent pas de l'évanouissement et qui veulent la mort. Les chiens coûtent cher à faire mourir : quatre piastres par tête, je crois ; tandis que pour un carlin on peut faire mourir la grenouille, pour deux carlins la couleuvre, pour trois carlins le cochon d'Inde, et pour quatre carlins le chat. C'est pour rien, comme on voit. Cependant un vice-roi, qui sans doute n'avait pas d'argent dans sa poche, fit entrer dans la grotte deux esclaves turcs et les vit mourir gratis.

Tout cela est bien hideusement cruel, mais c'est l'habitude. D'ailleurs, les animaux en meurent, c'est vrai, mais aussi les maîtres en vivent, et il y a si peu d'industries à Naples, qu'il faut bien tolérer celle-là.

La grotte peut avoir trois pieds de haut et deux pieds et demi de profondeur.

J'introduisis la tête dans la partie supérieure, et je ne sentis aucune différence entre l'air qu'elle contenait et l'air extérieur ; mais, en recueillant dans le creux de la main l'air inférieur et en le portant vivement à ma bouche et à mon nez, je sentis une odeur suffocante. En effet, les gaz mortels ne conservent leur action qu'à la hauteur d'un pied à peu près du sol. Mais là, en quelques secondes, ils asphyxieraient l'homme aussi bien que les animaux.

Le tour du malheureux chien était venu. Son maître le poussa dans la grotte sans qu'il opposât aucune résistance ; mais une fois dedans, son énergie lui revint, il bondit, se dressa sur ses pieds de derrière pour élever sa tête au-dessus de l'air méphitique qui l'entourait. Mais tout fut inutile ; bientôt un tremblement convulsif s'empara de lui, il retomba sur ses quatre pattes, vacilla un instant, se coucha, raidit ses membres, les agita comme dans une crise d'agonie, puis tout à coup resta immobile. Son maître le tira par la queue hors du trou ; il resta sans mouvement sur le sable, la gueule béante et pleine d'écume. Je le crus mort.

Mais il n'était qu'évanoui : bientôt l'air extérieur agit sur lui, ses poumons se gonflèrent et battirent comme des soufflets ; il souleva sa tête, puis l'avant-train, puis le train de derrière, demeura un instant vacillant sur ses quatre pattes comme s'il eût été ivre ; enfin, ayant tout à coup rassemblé toutes ses forces, il partit comme un trait et ne s'arrêta qu'à cent pas de là, sur un petit monticule, au sommet duquel il s'assit, regardant tout autour de lui avec la plus prudente et la plus méticuleuse attention. Je crus que c'était fini et que son maître ne le rattraperait jamais. Je lui fis même part de cette observation ; mais il sourit de l'air d'un homme qui veut dire : - $$Allons, allons, vous n'êtes pas encore fort sur les chiens ! Et tirant un morceau de pain de sa poche, il le montra au patient, qui parut se consulter quelques secondes, retenu entre la crainte et la gourmandise. La gourmandise l'emporta. Il accourut en remuant la queue et dévora sa pitance comme s'il avait parfaitement oublié ce qui venait de se passer.

Le chien noir avait regardé cette opération gravement assis sur son derrière, en tournant la tête, et ayant l'air de dire à part soi, comme l'ivrogne de Charlet : - Voilà pourtant comme je serai dimanche !

Quant à Milord, il était fourré sous la banquette du corricolo, où il paraissait n'avoir qu'une crainte, celle d'être découvert.

Je demandai le nom des deux infortunés quadrupèdes dont la vie était destinée à s'écouler en évanouissements perpétuels : ils s'appelaient Castor et Pollux, sans doute en raison de ce que, pareils aux deux divins gémeaux, ils sont condamnés à vivre et à mourir chacun à son tour.

J'eus quelque envie d'acheter Castor et Pollux. Mais je songeai que si je leur donnais la liberté, ils deviendraient enragés, et que si je les gardais, ils ne pouvaient pas manquer d'être dévorés un jour ou l'autre par Milord. Je me décidai donc à ne rien changer à l'ordre des choses, et à laisser à chacun le sort que la nature lui avait fait. Quant à la grenouille, à la couleuvre, au cochon d'Inde et au chat, nous déclarâmes que nous n'étions aucunement curieux de continuer sur eux les expériences, et que celle que nous avions faite sur Castor nous suffisait.

Cette décision fut accompagnée d'une couple de carlins que nous distribuâmes à leurs propriétaires pour les aider à attendre patiemment des voyageurs plus anglais que nous.

Le lapidi dei bagni

Quisquis es, sive indigena, sive advena, sive convena, ne insolitus praetereundo horribile hoc antrum, in Phlegraeis Campanis campis naturae obrigescas portentis, vel humanae temeritatis obstupescas prodigiis: siste gradum, lege; nam stupori, et admirationi assuesces Neapolitanae et Puteolanae ac Baianae telluris balnea, ad morbos fere omnes profligandos experta, apud omnes olim gentes, apud omnes aetates celeberrima, hominum incuria, medicorum invidia, temporis iniuria, incendiorum eruptione, dispersa, confusa, diruta, obrutaque hactenus adeo fuere; ut vix eorum unius, aut alterius incerta speressent vestigia. Nunc Carlo II Austriaco regnante: Petri Antonii Aragonii regni proregis vigilantia, Charitas, providentia, pietas, investigavit, distinxit, reparavit, restituit. Siste adhuc paulisper, et substrati lapidis in literas intuere; balneorum enim loca, nomina et virtutes habebis, ac laetior abibis? P(osuit) P(etrus) A(nno) D(omini) MDCLXIIX.

Chiunque tu sia, indigeno, straniero, forestiero, non spaventarti , tu che non sei abituato, nell'attraversare questo terribile antro, di fronte ai portenti della natura (che avvengono) nei Campi Flegrei della Campania, e non stupirti per i prodigi dell'umana avventatezza: ferma il passo, leggi; infatti ti abituerai allo stupore e alla ammirazione per la terra di Napoli, di Pozzuoli e Baia, bagni adatti a debellare quasi tutti i mali, celeberrimi una volta presso tutte le genti in ogni epoca, per l'incuria degli uomini, per l'invidia dei medici, per l'ingiuria del tempo, per lo scoppio di incendi fino ad oggi a tal punto sono stati dispersi, confusi, distrutti e danneggiati che a stento di loro restano incerte vestigia dell'uno e dell'altro. Ora, regnando Carlo II d'Austria, la cura, la carità, la provvidenza, la religiosità di Pietro Antonio d'Aragona, Viceré del regno li ha ricercati, distinti, riparati e restaurati. Fermati ancora un poco e guarda verso gli scritti nella lapide inferiore; infatti avrai i luoghi i nomi e le virtù dei bagni e te ne andrai più lieto. Pietro (Antonio d'Aragona) pose (questa lapide) nell'anno del Signore 1668. [da Baldi]

[...]

Qui si trovano i nomi, i luoghi e le virtù dei bagni oltre Pozzuoli; le altre (notizie) che si desiderano, possono essere lette ampiamente nel volume della Termologia d'Aragona redatto da Sebastiano Bartolo Filiatro, direttore di tutte le opere, e stampato a Napoli nello stesso anno 1668. Perprima c'è il Bagno Secco, ossia il Sudatorio di S. Germano sull'argine del lago di Agnano. [...] [da Baldi]

La lapide della grotta di Seiano

C.I.L. X 1488; in minuscolo le parti integrate.

viam a proMONTORIO
villaE PAVSILIP
diu nEGLECTAM
...RATVS V C CAMP
cons usui PVBLICO REDDIDIT

La novella di Andreuccio da Perugia
Giovanni Boccaccio, Decameron

Seconda giornata, novella quinta.
Da www.fauser.it/biblio/decamero/02_05.htm.
Riporto tutta la novella perché contiene diversi aspetti napoletani, come ha magistralmente dimostrato e dettagliatamente e storicamente spiegato Benedetto Croce in un memorabile capitolo delle sue Storie e leggende napoletane.

Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi accidenti soprapreso, da tutti scampato con un rubino si torna a casa sua

Le pietre da Landolfo trovate - cominciò la Fiammetta, alla quale del novellar toccava - m'hanno alla memoria tornata una novella non guari meno di pericoli in sé contenente che la narrata dalla Lauretta, ma in tanto differente da essa, in quanto quegli forse in più anni e questi nello spazio d'una sola notte addivennero, come udirete:

Fu, secondo che io già intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli, messisi in borsa cinquecento fiorin d'oro, non essendo mai più fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n'andò: dove giunto una domenica sera in sul vespro, dall'oste suo informato la seguente mattina fu in sul Mercato, e molti ne vide e assai ne gli piacquero e di più e più mercato tenne , né di niuno potendosi accordare , per mostrare che per comperar fosse, sì come rozzo e poco cauto più volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa sua borsa de'fiorini che aveva. E in questi trattati stando, avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana bellissima, ma disposta per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui e la sua borsa vide e subito seco disse: - Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei? - e passò oltre.

Era con questa giovane una vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide Andreuccio, lasciata oltre la giovane andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il che la giovane veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle parti la cominciò a attendere. Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e conosciutala, le fece gran festa, e promettendogli essa di venire a lui all'albergo, senza quivi tenere troppo lungo sermone, si partì: e Andreuccio si tornò a mercatare ma niente comperò la mattina. La giovane, che prima la borsa d'Andreuccio e poi la contezza della sua vecchia con lui aveva veduta, per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver quelli denari, o tutti o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse o donde e che quivi facesse e come il conoscesse. La quale ogni cosa così particularmente de'fatti d'Andreuccio le disse come avrebbe per poco detto egli stesso, sì come colei che lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e similmente le contò dove tornasse e perché venuto fosse.

La giovane, pienamente informata e del parentado di lui e de'nomi, al suo appetito fornire con una sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione, e a casa tornatasi, mise la vecchia in faccenda per tutto il giorno acciò che a Andreuccio non potesse tornare; e presa una sua fanticella, la quale essa assai bene a così fatti servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò all'albergo dove Andreuccio tornava. La qual, quivi venuta, per ventura lui medesimo e solo trovò in su la porta e di lui stesso il domandò. Alla quale dicendole egli che era desso, essa, tiratolo da parte, disse: - Messere, una gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri -.

Il quale ve vedendola, tutto postosi mente e parendogli essere un bel fante della persona, s'avvisò questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che era apparecchiato e domandolla dove e quando questa donna parlargli volesse. A cui la fanticella rispose: - Messere, quando di venir vi piaccia, ella v'attende in casa sua-.

Andreuccio presto, senza alcuna cosa dir nell'albergo, disse: - Or via mettiti avanti, io ti verrò appresso -.

Laonde la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in una contrada chiamata Malpertugio, la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra. Ma esso, niente di ciò sappiendo né suspicando, credendosi in uno onestissimo luogo andare e a una cara donna, liberamente, andata la fanticella avanti, se n'entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella già sua donna chiamata e detto - Ecco Andreuccio -, la vide in capo della scala farsi a aspettarlo.

Ella era ancora assai giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita e ornata assai orrevolemente; alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da tre gradi discese con le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi da soperchia tenerezza impedita; poi lagrimando gli basciò la fronte e con voce alquanto rotta disse: - O Andreuccio mio, tu sii il ben venuto!-

Esso, maravigliandosi di così tenere carezze, tutto stupefatto rispose: - Madonna, voi siate la ben trovata!-

Ella appresso, per la man presolo, suso nella sua sala il menò e di quella, senza alcuna cosa parlare, con lui nella sua camera se n'entrò, la quale di rose, di fiori d'aranci e d'altri odori tutta oliva , là dove egli un bellissimo letto incortinato e molte robe su per le stanghe, secondo il costume di là , e altri assai belli e ricchi arnesi vide; per le quali cose, sì come nuovo, fermamente credette lei dovesse essere non men che gran donna. E postisi a sedere insieme sopra una cassa che appiè del suo letto era, così gli cominciò a parlare:

- Andreuccio, io sono molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie lagrime, sì come colui che non mi conosci e per avventura mai ricordar non m'udisti. Ma tu udirai tosto cosa la quale più ti farà forse maravigliare, sì come è che io sia tua sorella; e dicoti che, poi che Idio m'ha fatta tanta grazia che io anzi la mia morte ho veduto alcuno de' miei fratelli, come che io disideri di vedervi tutti, io non morrò a quella ora che io consolata non muoia. E se tu forse questo mai più non udisti, io tel vo' dire. Pietro, mio padre e tuo, come io credo che tu abbi potuto sapere, dimorò lungamente in Palermo, e per la sua bontà e piacevolezza vi fu e è ancora da quegli che il conobbero amato assai. Ma tra gli altri che molto l'amarono, mia madre, che gentil donna fu e allora era vedova, fu quella che più l'amò, tanto che, posta giù la paura del padre e de' fratelli e il suo onore, in tal guisa con lui si dimesticò, che io ne nacqui e sonne qual tu mi vedi. Poi, sopravenuta cagione a Pietro di partirsi di Palermo e tornare in Perugia, me con la mia madre piccola fanciulla lasciò, né mai, per quello che io sentissi, più né di me né di lei si ricordò: di che io, se mio padre stato non fosse, forte il riprenderei avendo riguardo alla ingratitudine di lui verso mia madre mostrata (lasciamo stare allo amore che a me come a sua figliola non nata d'una fante né di vil femina dovea portare), la quale le sue cose e sé parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse, da fedelissimo amor mossa rimise nelle sue mani. Ma che è? Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo più agevoli a riprendere che a emendare: la cosa andò pur così. Egli mi lasciò piccola fanciulla in Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca donna era, mi diede per moglie a uno da Gergenti, gentile uomo e da bene, il quale per amor di mia madre e di me tornò a stare a Palermo; e quivi, come colui che è molto guelfo cominciò a avere alcuno trattato col nostro re Carlo. Il quale, sentito dal re Federigo prima che dare gli si potesse effetto, fu cagione di farci fuggire di Cicilia quando io aspettava essere la maggior cavalleressa che mai in quella isola fosse; donde, prese quelle poche cose che prender potemmo (poche dico per rispetto alle molte le quali avavamo), la sciate le terre e li palazzi, in questa terra ne rifuggimmo, dove il re Carlo verso di noi trovammo sì grato che, ristoratici in parte li danni li quali per lui ricevuti avavamo, e possessioni e case ci ha date, e dà continuamente al mio marito, e tuo cognato che è, buona provisione, sì come tu potrai ancor vedere. E in questa maniera son qui, dove io, la buona mercé di Dio e non tua , fratel mio dolce, ti veggio -.

E così detto, da capo il rabbracciò e ancora teneramente lagrimando gli basciò la fronte.

Andreuccio, udendo questa favola così ordinatamente, così compostamente detta da costei, alla quale in niuno atto moriva la parola tra'denti né balbettava la lingua, e ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per se medesimo de' giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e veggendo le tenere lagrime, gli abbracciari e gli onesti basci, ebbe ciò che ella diceva più che per vero: e poscia che ella tacque, le rispose: - Madonna, egli non vi dee parer gran cosa se io mi maraviglio: per ciò che nel vero, o che mio padre, per che che egli sel facesse, di vostra madre e di voi non ragionasse giammai, o che, se egli ne ragionò, a mia notizia venuto non sia, io per me niuna coscienza aveva di voi se non come se non foste; e emmi tanto più caro l'avervi qui mia sorella trovata, quanto io ci sono più solo e meno questo sperava. E nel vero io non conosco uomo di sì alto affare al quale voi non doveste esser cara, non che a me che un picciolo mercatante sono. Ma d'una cosa vi priego mi facciate chiaro: come sapeste voi che io qui fossi?"

Al quale ella rispose: - Questa mattina mel fè sapere una povera femina la qual molto meco si ritiene, per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica, lungamente e in Palermo e in Perugia stette, e se non fosse che più onesta cosa mi parea che tu a me venissi in casa tua che io a te nell'altrui, egli ha gran pezza che io a te venuta sarei -.

Appresso queste parole ella cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi parenti nominatamente, alla quale di tutti Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo quello che meno di creder gli bisognava.

Essendo stati i ragionamenti lunghi e il caldo grande, ella fece venire greco e confetti e fè dar bere a Andreuccio; il quale dopo questo partir volendosi, per ciò che ora di cena era, in niuna guisa il sostenne, ma sembiante fatto di forte turbarsi abbracciandol disse: - Ahi lassa me, ché assai chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a pensare che tu sii con una tua sorella mai più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui venendo, smontato esser dovresti, e vogli di quella uscire per andare a cenare all'albergo? Di vero tu cenerai con esso meco: e perché mio marito non ci sia, di che forte mi grava, io ti saprò bene secondo donna fare un poco d'onore -.

Alla quale Andreuccio, non sappiendo altro che rispondersi, disse: - Io v'ho cara quanto sorella si dee avere, ma se io non ne vado, io sarò tutta sera aspettato a cena e farò villania.

Ed ella allora disse: - Lodato sia Idio, se io non ho in casa per cui mandare a dire che tu non sii aspettato! benché tu faresti assai maggior cortesia, e tuo dovere, mandare a dire a'tuoi compagni che qui venissero a cenare, e poi, se pure andare te ne volessi, ve ne potresti tutti andar di brigata -.

Andreuccio rispose che de' suoi compagni non volea quella sera, ma, poi che pure a grado l'era, di lui facesse il piacer suo. Ella allora fè vista di mandare a dire all'albergo che egli non fosse atteso a cena; e poi, dopo molti altri ragionamenti, postisi a cena e splendidamente di più vivande serviti, astutamente quella menò per lunga infino alla notte obscura; ed essendo da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò in niuna guisa sofferrebbe , per ciò che Napoli non era terra da andarvi per entro di notte, e massimamente un forestiere; e che come che egli a cena non fosse atteso aveva mandato a dire, così aveva dello albergo fatto il somigliante. Egli, questo credendo e dilettandogli, da falsa credenza ingannato, d'esser con costei, stette. Furono adunque dopo cena i ragionamenti molti e lunghi non senza cagione tenuti; e essendo della notte una parte passata, ella, lasciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse nulla, con le sue femine in un'altra camera se n'andò.

Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimasto, subitamente si spogliò in farsetto e trassesi i panni di gamba e al capo del letto gli si pose; e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre, dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell'uno de' canti della camera gli mostrò uno uscio e disse: - Andate là entro -.

Andreuccio dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla contraposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era ; per la qual cosa capolevando questa tavola con lui insieme se n'andò quindi giuso: e di tanto l'amò Idio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto, ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno, s'imbrattò. Il quale luogo, acciò che meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi mostrerò. Egli era in un chiassetto stretto, come spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l'una casa e l'altra posti, alcune tavole eran confitte e il luogo da seder posto, delle quali tavole quella che con lui cadde era l'una.

Ritrovandosi adunque là giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso, cominciò a chiamare il fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l'ebbe cadere, così corse a dirlo alla donna. La quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni v'erano; e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non fidandosi mattamente sempre portava addosso, avendo quello a che ella di Palermo, sirocchia d'un perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo, più di lui non curandosi prestamente andò a chiuder l'uscio del quale egli era uscito quando cadde.

Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a chiamare: ma ciò era niente. Per che egli, già sospettando e tardi dello inganno cominciandosi a accorgere salito sopra un muretto che quello chiassolino dalla strada chiudea e nella via disceso, all'uscio della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se n'andò, e quivi invano lungamente chiamò e molto il dimenò e percosse. Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea la sua disavventura, cominciò a dire: - Oimè lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella! -

E dopo molte altre parole, da capo cominciò a battere l'uscio e a gridare; e tanto fece così che molti de'circunstanti vicini, desti, non potendo la noia sofferire, si levarono; e una delle servigiali della donna, in vista tutta sonnocchiosa, fattasi alla finestra proverbiosamente disse: - Chi picchia là giù ?-

- Oh! - disse Andreuccio - o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso -.

Al quale ella rispose: - Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi e tornerai domattina; io non so che Andreuccio né che ciance son quelle che tu dì ; va in buona ora e lasciaci dormir, se ti piace -.

- Come- disse Andreuccio - non sai che io mi dico? Certo sì sai; ma se pur son così fatti i parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine si dimentichino, rendimi almeno i panni miei li quali lasciati v'ho, e io m'andrò volentier con Dio -.

Al quale ella quasi ridendo disse: - Buono uomo, e' mi par che tu sogni -, e il dir questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu una cosa. Di che Andreuccio, già certissimo de' suoi danni, quasi per doglia fu presso a convertire in rabbia la sua grande ira e per ingiuria propose di rivolere quello che per parole riaver non potea; per che da capo, presa una gran pietra, con troppi maggior colpi che prima fieramente cominiciò a percuotere la porta. La qual cosa molti de'vicini avanti destisi e levatisi, credendo lui essere alcuno spiacevole il quale queste parole fingesse per noiare quella buona femina, recatosi a noia il picchiare il quale egli faceva, fattisi alle finestre, non altramenti che a un can forestiere tutti quegli della contrada abbaiano adosso, cominciarono a dire: - Questa è una gran villania a venire a questa ora a casa le buone femine e dire queste ciance; deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a far con lei, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine stanotte -.

Dalle quali parole forse assicurato uno che dentro dalla casa era, ruffiano della buona femina, il quale egli né veduto né sentito avea, si fece alle finestre e con una boce grossa, orribile e fiera disse: - Chi è laggiù ?-

Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender potè, mostrava di dovere essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al volto, e come se del letto o da alto sonno si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi: a cui egli, non senza paura, rispose: - Io sono un fratello della donna di là entro-.

Ma colui non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido assai che prima disse: - Io non so a che io mi tegno che io non vegno là giù, e deati tante bastonate quante io ti vegga muovere, asino fastidioso e ebriaco che tu dei essere, che questa notte non ci lascerai dormire persona -; e tornatosi dentro serrò la finestra.

Alcuni de'vicini, che meglio conoscieno la condizion di colui, umilmente parlando a Andreuccio dissono: - Per Dio, buono uomo, vatti con Dio, non volere stanotte essere ucciso costì : vattene per lo tuo migliore -.

Laonde Andreuccio, spaventato dalla voce di colui e dalla vista e sospinto da'conforti di coloro li quali gli pareva che da carità mossi parlassero, doloroso quanto mai alcuno altro e de'suoi denar disperato, verso quella parte onde il dì aveva la fanticella seguita, senza sa per dove s'andasse, prese la via per tornarsi all'albergo. E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui veniva, disideroso di volgersi al mare per lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via chiamata la Ruga Catalana si mise. E verso l'alto della città andando, per ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in mano venieno li quali temendo non fosser della famiglia della corte o altri uomini a mal far disposti, per fuggirli, in un casolare, il qual si vide vicino, pianamente ricoverò. Ma costoro, quasi come a quello proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n'entrarono; e quivi l'un di loro, scaricati certi ferramenti che in collo avea, con l'altro insieme gl'incominciò a guardare, varie cose sopra quegli ragionando. E mentre parlavano, disse l'uno: - Che vuol dir questo? Io sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire -; e questo detto alzata alquanto la lanterna, ebbe veduto il cattivel d'Andreuccio, e stupefatti domandar: - Chi è là? -

Andreuccio taceva, ma essi avvicinatiglisi con lume il domandarono che quivi così brutto facesse: alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente. Costoro, imaginando dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero fra sè: - Veramente in casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo -.

E a lui rivolti, disse l'uno: - Buono uomo, come che tu abbi perduti i tuoi denari, tu molto a lodare Idio che quel caso ti venne che tu cadesti né potesti poi in casa rientrare: per ciò che, se caduto non fossi, vivi sicuro che, come prima adormentato ti fossi, saresti stato amazzato e co' denari avresti la persona perduta. Ma che giova oggimai di piagnere? Tu ne potresti così riavere un denaio come avere delle stelle del cielo: ucciso ne potrai tu bene essere, se colui sente che tu mai ne facci parola -. E detto questo, consigliatisi alquanto, gli dissero: - Vedi, a noi è presa compassion di te: e per ciò, dove tu vogli con noi essere a fare alcuna cosa la quale a fare andiamo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti toccherà il valere di troppo più che perduto non hai -.

Andreuccio, sì come disperato, rispuose ch'era presto.

Era quel dì sepellito uno arcivescovo di Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo, era stato sepellito con ricchissimi ornamenti e con uno rubino in dito il quale valeva oltre cinquecento fiorin d'oro, il quale costoro volevano andare a spogliare; e così a Andreuccio fecer veduto. Laonde Andreuccio, più cupido che consigliato, con loro si mise in via; e andando verso la chiesa maggiore, e Andreuccio putendo forte, disse l'uno: - Non potremmo noi trovar modo che costui si lavasse un poco dove che sia, che egli non putisse così fieramente?- Disse l'altro: - Sì , noi siam qui presso a un pozzo al quale suole sempre esser la carrucola e un gran secchione; andianne là e laverenlo spacciatamente. Giunti a questo pozzo trovarono che la fune v'era ma il secchione n'era stato levato: per che insieme diliberarono di legarlo alla fune e di collarlo nel pozzo, e egli là giù si lavasse e, come lavato fosse, crollasse la fune e essi il tirerebber suso; e così fecero.

Avvenne che, avendol costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria, li quali e per lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a quel pozzo venieno a bere: li quali come quegli due videro, incontanente cominciarono a fuggire, li famigliari che quivi venivano a bere non avendogli veduti. Essendo già nel fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro assetati, posti giù lor tavolacci e loro armi e lor gonnelle, cominciarono la fune a tirare credendo a quella il secchion pien d'acqua essere appicato.

Come Andreuccio si vide alla sponda del pozzo vicino così, lasciata la fune, con le mani si gittò sopra quella. La qual cosa costoro vedendo, da subita paura presi, senza altro dir lasciaron la fune e cominciarono quanto più poterono a fuggire: di che Andreuccio si maravigliò forte, e se egli non si fosse bene attenuto, egli sarebbe infin nel fondo caduto forse non senza suo gran danno o morte; ma pure uscitone e queste arme trovate, le quali egli sapeva che i suoi compagni non avean portate, ancora più s'incominciò a maravigliare. Ma dubitando e non sappiendo che, della sua fortuna dolendosi, senza alcuna cosa toccar quindi diliberò di partirsi: e andava senza saper dove.

Così andando si venne scontrato in que' due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano; e come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del pozzo l'avesse tratto. Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era avvenuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo. Di che costoro, avvisatisi come stato era, ridendo gli contarono perché s'eran fuggiti e chi stati eran coloro che su l'avean tirato. E senza più parole fare, essendo già mezzanotte, n'andarono alla chiesa maggiore, e in quella assai leggiermente entrarono e furono all'arca, la quale era di marmo e molto grande; e con lor ferro il coperchio, ch'era gravissimo, sollevaron tanto quanto uno uomo vi potesse entrare, e puntellaronlo.

E fatto questo, cominciò l'uno a dire: - Chi entrerà dentro?-
A cui l'altro rispose: - Non io -.
- Nè io- disse colui - ma entrivi Andreuccio -.
- Questo non farò io- disse Andreuccio.
Verso il quale ammenduni costoro rivolti dissero: - Come non v'enterrai? In fè di Dio, se tu non v'entri, noi ti darem tante d'uno di questi pali di ferro sopra la testa, che noi ti farem cader morto -.

Andreuccio temendo v'entrò, e entrandovi pensò seco: - Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi, per ciò che, come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io penerò a uscir dall'arca, essi se ne andranno pe'fatti loro e io rimarrò senza cosa alcuna- . E per ciò s'avisò di farsi innanzi tratto la parte sua; e ricordatosi del caro anello che aveva loro udito dire, come fu giù disceso così di dito il trasse all'arcivescovo e miselo a sè; e poi dato il pasturale e la mitra è guanti e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che più niente v'avea. Costoro, affermando che esser vi doveva l'anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso rispondendo che non trovava e sembiante facendo di cercarne, alquanto li tenne ad aspettare. Costoro che d'altra parte eran sì come lui maliziosi ,dicendo pur che ben cercasse preso tempo, tirarono via il puntello che il coperchio dell'arca sostenea, e fuggendosi lui dentro dall'arca lasciaron racchiuso. La qual cosa sentendo Andreuccio, qual egli allor divenisse ciascun sel può pensare.

Egli tentò più volte e col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava: per che da grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il morto corpo dell'arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente avrebbe conosciuto chi più si fosse morto, o l'arcivescovo o egli. Ma poi che in sé fu ritornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio all'un de' due fini dover pervenire: o in quella arca, non venendovi alcuni più a aprirla, di fame e di puzzo tra' vermini del morto corpo convenirlo morire, o vegnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sì come ladro dovere essere appiccato. E in così fatti pensieri e doloroso molto stando, sentì per la chiesa andar genti e parlar molte persone, le quali sì come gli avvisava, quello andavano a fare che esso co'suoi compagni avean già fatto: di che la paura gli crebbe forte. Ma poi che costoro ebbero l'arca aperta e puntellata, in quistion caddero chi vi dovesse entrare, e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione un prete disse: - Che paura avete voi? credete voi che egli vi manuchi? Li morti non mangian uomini: io v'entrerò dentro io -. E così detto, posto il petto sopra l'orlo dell'arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe per doversi giuso calare.

Andreuccio, questo vedendo, in piè levatosi prese il prete per l'una delle gambe e fè sembiante di volerlo giù tirare. La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e presto dell'arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati, lasciata l'arca aperta, non altramente a fuggir cominciarono che se da centomilia diavoli fosser perseguitati.

La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per quella via onde era venuto se ne uscì dalla chiesa; e già avvicinandosi al giorno, con quello anello in dito andando all'avventura, pervenne alla marina e quindi al suo albergo si abbattè ; dove li suoi compagni e l'albergatore trovò tutta la notte stati in sollecitudine de'fatti suoi. A'quali ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per lo consiglio dell'oste loro che costui incontanente si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente e a Perugia tornossi, avendo il suo investito in uno anello, dove per comperare cavalli era andato.

Le lettere di Plinio il Giovane sull'eruzione del Vesuvio

Scritte nel 105 d.C. [Nazzaro].

C. PLINII CAECILII SECVNDI EPISTVLARVM LIBER SEXTVS, 16

C. PLINIUS TACITO SUO S.

(1) Petis ut tibi avunculi mei exitum scribam, quo verius tradere posteris possis. Gratias ago; nam video morti eius si celebretur a te immortalem gloriam esse propositam. (2) Quamvis enim pulcherrimarum clade terrarum, ut populi ut urbes memorabili casu, quasi semper victurus occiderit, quamvis ipse plurima opera et mansura condiderit, multum tamen perpetuitati eius scriptorum tuorum aeternitas addet. (3) Equidem beatos puto, quibus deorum munere datum est aut facere scribenda aut scribere legenda, beatissimos vero quibus utrumque. Horum in numero avunculus meus et suis libris et tuis erit. Quo libentius suscipio, deposco etiam quod iniungis.

Mi chiedi che io ti esponga la morte di mio zio, per poterla tramandare con una maggiore obiettività ai posteri. Te ne ringrazio, in quanto sono sicuro che, se sarà celebrata da te, la sua morte sarà destinata a gloria immortale. Quantunque infatti, egli sia deceduto nel disastro delle più incantevoli plaghe, come se fosse destinato a vivere sempre -insieme a quelle genti ed a quelle città- proprio in virtù di quell'indimenticabile sciagura, quantunque abbia egli stesso composto una lunga serie di opere che rimarranno, tuttavia alla perennità della sua fama recherà un valido contributo l'immortalità dei tuoi scritti. Personalmente io stimo fortunati coloro ai quali per dono degli dei fu concesso o di compiere imprese degne di essere scritte o di scrivere cose degne di essere lette, fortunatissimi poi coloro ai quali furono concesse entrambe le cose. Nel novero di questi ultimi sarà mio zio, in grazia dei suoi libri e in grazia dei tuoi. Tanto più volentieri perciò accolgo l'incombenza che tu mi proponi, anzi te lo chiedo insistentemente.

(4) Erat Miseni classemque imperio praesens regebat. Nonum Kal. Septembres hora fere septima mater mea indicat ei apparere nubem inusitata et magnitudine et specie. (5) Usus ille sole, mox frigida, gustaverat iacens studebatque; poscit soleas, ascendit locum ex quo maxime miraculum illud conspici poterat. Nubes - incertum procul intuentibus ex quo monte; Vesuvium fuisse postea cognitum est - oriebatur, cuius similitudinem et formam non alia magis arbor quam pinus expresserit. (6) Nam longissimo velut trunco elata in altum quibusdam ramis diffundebatur, credo quia recenti spiritu evecta, dein senescente eo destituta aut etiam pondere suo victa in latitudinem vanescebat, candida interdum, interdum sordida et maculosa prout terram cineremve sustulerat.

Era a Miseno e teneva personalmente il comando della flotta. Il 24 agosto, verso l'una del pomeriggio, mia madre lo informa che spuntava una nube fuori dell'ordinario sia per la grandezza sia per l'aspetto. Egli dopo aver preso un bagno di sole e poi un altro nell'acqua fredda, aveva fatto uno spuntino stando nella sua brandina da lavoro ed attendeva allo studio; si fa portare i sandali e sale in una località che offriva le migliori condizioni per contemplare il prodigio. Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna [si seppe poi che era il Vesuvio]: nessun'altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la forma. Infatti slanciatosi in su in modo da suggerire l'idea di un altissimo tronco, si allargava poi in quelli che si potrebbero chiamare dei rami, credo che il motivo risiedesse nel fatto che, innalzata dal turbine subito dopo l'esplosione e poi privata del suo appoggio quando quello andò esaurendosi, o anche vinta dal suo stesso peso, si dissolveva allargandosi; talora era bianchissima, talora sporca e macchiata, a seconda che aveva trascinato con sè terra o cenere.

(7) Magnum propiusque noscendum ut eruditissimo viro visum. Iubet liburnicam aptari; mihi si venire una vellem facit copiam; respondi studere me malle, et forte ipse quod scriberem dederat. (8) Egrediebatur domo; accipit codicillos Rectinae Tasci imminenti periculo exterritae - nam villa eius subiacebat, nec ulla nisi navibus fuga -: ut se tanto discrimini eriperet orabat. (9) Vertit ille consilium et quod studioso animo incohaverat obit maximo. Deducit quadriremes, ascendit ipse non Rectinae modo sed multis - erat enim frequens amoenitas orae - laturus auxilium. (10) Properat illuc unde alii fugiunt, rectumque cursum recta gubernacula in periculum tenet adeo solutus metu, ut omnes illius mali motus omnes figuras ut deprenderat oculis dictaret enotaretque.

Nella sua profonda passione per la scienza, stimò che si trattasse di un fenomeno molto importante e meritevole di essere studiato più da vicino. Ordina che gli si prepari una liburnica e mi offre la possibilità di andare con lui se lo desiderassi. Gli risposi che preferivo attendere ai miei studi e, per caso, proprio lui mi aveva assegnato un lavoro da svolgere per iscritto. Mentre usciva di casa, gli venne consegnata una lettera da parte di Rettina, moglie di Casco, la quale, terrorizzata dal pericolo incombente (infatti la sua villa era posta lungo la spiaggia della zona minacciata e l'unica via di scampo era rappresentata dalle navi), lo pregava che la strappasse da quel frangente così spaventoso. Egli allora cambia progetto e ciò, che aveva incominciato per interesse scientifico, affronta per l'impulso della sua eroica coscienza. Fa uscire in mare delle quadriremi e vi sale egli stesso, per venire in soccorso non solo a Rettina ma a molta gente, poichè quel litorale in grazia della sua bellezza, era fittamente abitato.

Si affretta colà donde gli altri fuggono e punta la rotta e il timone proprio nel cuore del pericolo, cosi immune dalla paura da dettare e da annotare tutte le evoluzioni e tutte le configurazioni di quel cataclisma, come riusciva a coglierle successivamente con lo sguardo.

(11) Iam navibus cinis incidebat, quo propius accederent, calidior et densior; iam pumices etiam nigrique et ambusti et fracti igne lapides; iam vadum subitum ruinaque montis litora obstantia. Cunctatus paulum an retro flecteret, mox gubernatori ut ita faceret monenti 'Fortes' inquit 'fortuna iuvat: Pomponianum pete.'

Oramai, quanto più si avvicinavano, la cenere cadeva sulle navi sempre più calda e più densa, vi cadevano ormai anche pomici e pietre nere, corrose e spezzate dal fuoco, ormai si era creato un bassofondo improvviso e una frana della montagna impediva di accostarsi al litorale. Dopo una breve esitazione, se dovesse ripiegare all'indietro, al pilota che gli suggeriva quell'alternativa, tosto replicò:
- "La fortuna aiuta i prodi; dirigiti sulla dimora di Pomponiano".

(12) Stabiis erat diremptus sinu medio - nam sensim circumactis curvatisque litoribus mare infunditur -; ibi quamquam nondum periculo appropinquante, conspicuo tamen et cum cresceret proximo, sarcinas contulerat in naves, certus fugae si contrarius ventus resedisset. Quo tunc avunculus meus secundissimo invectus, complectitur trepidantem consolatur hortatur, utque timorem eius sua securitate leniret, deferri in balineum iubet; lotus accubat cenat, aut hilaris aut - quod aeque magnum - similis hilari.

Questi si trovava a Stabia; dalla parte opposta del golfo (giacchè il mare si inoltra nella dolce insenatura formata dalle coste arcuate a semicerchio); colà, quantunque il pericolo non fosse ancora vicino, siccome però lo si poteva scorgere bene e ci si rendeva conto che, nel suo espandersi era ormai imminente, Pomponiano aveva trasportato sulle navi le sue masserizie, determinato a fuggire non appena si fosse calmato il vento contrario. Per mio zio invece questo era allora pienamente favorevole, cosi che vi giunge, lo abbraccia tutto spaventato com'era, lo conforta, gli fa animo, per smorzare la sua paura con la propria serenità, si fa calare nel bagno: terminata la pulizia prende posto a tavola e consuma la sua cena con un fare gioviale o, cosa che presuppone una grandezza non inferiore, recitando la parte dell'uomo gioviale.

(13) Interim e Vesuvio monte pluribus locis latissimae flammae altaque incendia relucebant, quorum fulgor et claritas tenebris noctis excitabatur. Ille agrestium trepidatione ignes relictos desertasque villas per solitudinem ardere in remedium formidinis dictitabat. Tum se quieti dedit et quievit verissimo quidem somno; nam meatus animae, qui illi propter amplitudinem corporis gravior et sonantior erat, ab iis qui limini obversabantur audiebatur. (14) Sed area ex qua diaeta adibatur ita iam cinere mixtisque pumicibus oppleta surrexerat, ut si longior in cubiculo mora, exitus negaretur.

Nel frattempo dal Vesuvio risplendevano in parecchi luoghi delle larghissime strisce di fuoco e degli incendi che emettevano alte vampate, i cui bagliori e la cui luce erano messi in risalto dal buio della notte. Egli, per sedare lo sgomento, insisteva nel dire che si trattava di fuochi lasciati accesi dai contadini nell'affanno di mettersi in salvo e di ville abbandonate che bruciavano nella campagna. Poi si abbandonò al riposo e riposò di un sonno certamente genuino. Infatti il suo respiro, a causa della sua corpulenza, era piuttosto profondo e rumoroso, veniva percepito da coloro che andavano avanti e indietro sulla soglia. Senonchè il cortile da cui si accedeva alla sua stanza, riempiendosi di ceneri miste a pomice, aveva ormai innalzato tanto il livello che, se mio zio avesse ulteriormente indugiato nella sua camera, non avrebbe più avuto la possibilità di uscirne.

Excitatus procedit, seque Pomponiano ceterisque qui pervigilaverant reddit. (15) In commune consultant, intra tecta subsistant an in aperto vagentur. Nam crebris vastisque tremoribus tecta nutabant, et quasi emota sedibus suis nunc huc nunc illuc abire aut referri videbantur. (16) Sub dio rursus quamquam levium exesorumque pumicum casus metuebatur, quod tamen periculorum collatio elegit; et apud illum quidem ratio rationem, apud alios timorem timor vicit. Cervicalia capitibus imposita linteis constringunt; id munimentum adversus incidentia fuit.

Svegliato, viene fuori e si ricongiunge al gruppo di Pomponiano e di tutti gli altri, i quali erano rimasti desti fino a quel momento. Insieme esaminano se sia preferibile starsene al coperto o andare alla ventura allo scoperto. Infatti, sotto l'azione di frequenti ed enormi scosse, i caseggiati traballavano e, come se fossero stati sbarbicati dalle loro fondamenta, lasciavano l'impressione di sbandare ora da una parte ora dall'altra e poi di ritornare in sesto. D'altronde all'aperto cielo c'era da temere la caduta di pomici, anche se erano leggere e corrose; tuttavia il confronto tra questi due pericoli indusse a scegliere quest'ultimo. In mio zio una ragione predominò sull'altra, nei suoi compagni una paura s'impose sull'altra. Si pongono sul capo dei cuscini e li fissano con dei capi di biancheria; questa era la loro difesa contro tutto ciò che cadeva dall'alto.

(17) Iam dies alibi, illic nox omnibus noctibus nigrior densiorque; quam tamen faces multae variaque lumina solvebant. Placuit egredi in litus, et ex proximo adspicere, ecquid iam mare admitteret; quod adhuc vastum et adversum permanebat. (18) Ibi super abiectum linteum recubans semel atque iterum frigidam aquam poposcit hausitque. Deinde flammae flammarumque praenuntius odor sulpuris alios in fugam vertunt, excitant illum. (19) Innitens servolis duobus assurrexit et statim concidit, ut ego colligo, crassiore caligine spiritu obstructo, clausoque stomacho qui illi natura invalidus et angustus et frequenter aestuans erat.

Altrove era già giorno, là invece era una notte più nera e più fitta di qualsiasi notte, quantunque fosse mitigata da numerose fiaccole e da luci di varia provenienza. Si trovò conveniente di recarsi sulla spiaggia ed osservare da vicino se fosse già possibile tentare il viaggio per mare; ma esso perdurava ancora sconvolto ed intransitabile. Colà, sdraiato su di un panno steso a terra, chiese a due riprese dell'acqua fresca e ne bevve. Poi delle fiamme ed un odore di zolfo che preannunciava le fiamme spingono gli altri in fuga e lo ridestano. Sorreggendosi su due semplici schiavi riuscì a rimettersi in piedi, ma subito stramazzò, da quanto io posso arguire, l'atmosfera troppo pregna di cenere gli soffocò la respirazione e gli otturò la gola, che era per costituzione malaticcia, gonfia e spesso infiammata.

(20) Ubi dies redditus - is ab eo quem novissime viderat tertius -, corpus inventum integrum illaesum opertumque ut fuerat indutus: habitus corporis quiescenti quam defuncto similior.

Quando riapparve la luce del sole (era il terzo giorno da quello che aveva visto per ultimo) il suo cadavere fu ritrovato intatto, illeso e rivestito degli stessi abiti che aveva indossati: la maniera con cui si presentava il corpo faceva più pensare ad uno che dormisse che non ad un morto. Frattanto a Miseno io e mia madre... ma questo non interessa la storia e tu non hai espresso il desiderio di essere informato di altro che della sua morte. Dunque terminerò.

(21) Interim Miseni ego et mater - sed nihil ad historiam, nec tu aliud quam de exitu eius scire voluisti. Finem ergo faciam. (22) Unum adiciam, omnia me quibus interfueram quaeque statim, cum maxime vera memorantur, audieram, persecutum. Tu potissima excerpes; aliud est enim epistulam aliud historiam, aliud amico aliud omnibus scribere. Vale.

Aggiungerò solo una parola: che ti ho esposto tutte circostanze alle quali sono stato presente e che mi sono state riferite immediatamente dopo, quando i ricordi conservano ancora la massima precisione. Tu ne stralcerai gli elementi essenziali: sono infatti cose ben diverse scrivere una lettera od una composizione storica, rivolgersi ad un amico o a tutti. Stammi bene.

C. PLINII CAECILII SECVNDI EPISTVLARVM LIBER SEXTVS, 20

C. PLINIUS TACITO SUO S.

(1) Ais te adductum litteris quas exigenti tibi de morte avunculi mei scripsi, cupere cognoscere, quos ego Miseni relictus - id enim ingressus abruperam - non solum metus verum etiam casus pertulerim.

'Quamquam animus meminisse horret, ...
incipiam.'

Mi dici che la lettera che io ti ho scritta, dietro tua richiesta, sulla morte di mio zio, ti ha fatto nascere il desiderio di conoscere, dal momento in cui fui lasciato a Miseno (ed era precisamente questo che stavo per raccontarti, quando ho troncato la mia relazione), non solo quali timori ma anche quali frangenti io abbia dovuto affrontare. "Anche se il semplice ricordo mi causa in cuore un brivido di sgomento... incomincerò".

(2) Profecto avunculo ipse reliquum tempus studiis - ideo enim remanseram - impendi; mox balineum cena somnus inquietus et brevis. (3) Praecesserat per multos dies tremor terrae, minus formidolosus quia Campaniae solitus; illa vero nocte ita invaluit, ut non moveri omnia sed verti crederentur. (4) Irrupit cubiculum meum mater; surgebam invicem, si quiesceret excitaturus. Resedimus in area domus, quae mare a tectis modico spatio dividebat. (5) Dubito, constantiam vocare an imprudentiam debeam - agebam enim duodevicensimum annum -: posco librum Titi Livi, et quasi per otium lego atque etiam ut coeperam excerpo. Ecce amicus avunculi qui nuper ad eum ex Hispania venerat, ut me et matrem sedentes, me vero etiam legentem videt, illius patientiam securitatem meam corripit. Nihilo segnius ego intentus in librum.

Dopo la partenza di mio zio, spesi tutto il tempo che mi rimaneva nello studio, dato che era stato proprio questo il motivo per cui mi ero fermato; poi il bagno, la cena ed un sonno agitato e breve. Si erano già avuti per molti giorni dei leggeri terremoti, ma non avevano prodotto molto spavento, essendo un fenomeno ordinario in Campania, quella notte invece le scosse assunsero una tale veemenza che tutto sembrava non muoversi, ma capovolgersi.

Mia madre si precipita nella mia stanza: io stavo alzandomi con il proposito di svegliarla alla mia volta nell'eventualità che dormisse. Ci mettemmo a sedere nel cortile della nostra abitazione: esso con la sua modesta estensione separava il caseggiato dal mare. A questo punto non saprei dire se si trattasse di forza d'animo o di incoscienza (non avevo ancora compiuto diciotto anni!): domando un libro di Tito Livio e, come se non mi premesse altro che di occupare il tempo, mi dò a leggerlo ed a continuare gli estratti che avevo incominciati.

Ed ecco sopraggiungere un amico di mio zio, che era da poco arrivato dalla Spagna per incontrarsi con lui; quando vede che io e mia madre ce ne stiamo seduti e che io attendo niente meno che a leggere, fa un'energica paternale a mia madre per la mia inettitudine e a me per la mia noncuranza. Con tutto ciò io continuo a concentrarmi nel mio libro come prima.

(6) Iam hora diei prima, et adhuc dubius et quasi languidus dies. Iam quassatis circumiacentibus tectis, quamquam in aperto loco, angusto tamen, magnus et certus ruinae metus. (7) Tum demum excedere oppido visum; sequitur vulgus attonitum, quodque in pavore simile prudentiae, alienum consilium suo praefert, ingentique agmine abeuntes premit et impellit. (8) Egressi tecta consistimus. Multa ibi miranda, multas formidines patimur. Nam vehicula quae produci iusseramus, quamquam in planissimo campo, in contrarias partes agebantur, ac ne lapidibus quidem fulta in eodem vestigio quiescebant. (9) Praeterea mare in se resorberi et tremore terrae quasi repelli videbamus. Certe processerat litus, multaque animalia maris siccis harenis detinebat. Ab altero latere nubes atra et horrenda, ignei spiritus tortis vibratisque discursibus rupta, in longas flammarum figuras dehiscebat; fulguribus illae et similes et maiores erant.

Il sole era già sorto da un'ora e la luce era ancora incerta e come smorta. Siccome le costruzioni che ci stavano all'intorno erano ormai malconce, anche se eravamo in un luogo scoperto -che era però angusto- c'era da temere che, qualora crollassero, ci portassero delle conseguenze gravi e ineluttabili. Soltanto allora ci parve opportuno di uscire dalla cittadina; ci viene dietro una folla sbalordita, la quale -seguendo quella contraffazione dell'avvedutezza che è tipica dello spavento- preferisce l'opinione altrui alla propria e con la sua enorme ressa ci incalza e ci spinge mentre ci allontaniamo.

Una volta fuori dell'abitato ci fermiamo. Là diventiamo spettatori di molti fatti sbalorditivi, ci colpiscono molti particolari che incutono terrore. Così i carri che avevamo fatto venire innanzi, sebbene la superficie fosse assolutamente livellata, sbandavano nelle più diverse direzioni e non rimanevano fermi al loro posto neppure se venivano bloccati con pietre. Inoltre vedevamo il mare che si riassorbiva in se stesso e che sembrava quasi fatto arretrare dalle vibrazioni telluriche. Senza dubbio il litorale si era avanzato e teneva prigionieri nelle sue sabbie asciutte una quantità di animali marini. Dall'altra parte una nube nera e terrificante, lacerata da lampeggianti soffi di fuoco che si esplicavano in linee sinuose e spezzate, si squarciava emettendo delle fiamme dalla forma allungata: avevano l'aspetto dei fulmini ma ne erano più grandi.

(10) Tum vero idem ille ex Hispania amicus acrius et instantius 'Si frater' inquit 'tuus, tuus avunculus vivit, vult esse vos salvos; si periit, superstites voluit. Proinde quid cessatis evadere?' Respondimus non commissuros nos ut de salute illius incerti nostrae consuleremus. (11) Non moratus ultra proripit se effusoque cursu periculo aufertur. Nec multo post illa nubes descendere in terras, operire maria; cinxerat Capreas et absconderat, Miseni quod procurrit abstulerat. (12) Tum mater orare hortari iubere, quoquo modo fugerem; posse enim iuvenem, se et annis et corpore gravem bene morituram, si mihi causa mortis non fuisset. Ego contra salvum me nisi una non futurum; dein manum eius amplexus addere gradum cogo. Paret aegre incusatque se, quod me moretur.

A questo punto si rifà avanti l'amico spagnolo e ci incalza con un tono più inquieto e più stringente:

- "Se tuo fratello, se tuo zio vive, vi vuole incolumi, se è morto, ha voluto che voi gli sopravviveste. Perciò perchè indugiate a mettervi in salvo?".

Gli rispondiamo che noi non avremmo mai accettato di provvedere alla nostra salvezza finchè non avevamo nessuna notizia della sua. Egli non perde tempo, ma si getta in avanti correndo a più non posso si porta fuori dal pericolo. Poco dopo quella nube calò sulla terra e ricoperse il mare: aveva già avvolto e nascosto Capri ed aveva già portato via ai nostri sguardi il promontorio di Miseno. Allora mia madre a scongiurarmi, ad invitarmi, ad ordinarmi di fuggire in qualsiasi maniera; diceva che io, ancora giovane, ci potevo riuscire, che essa invece, pesante per l'età e per la corporatura avrebbe fatto una bella morte se non fosse stata causa della mia. Io però risposi che non mi sarei salvato senza di lei; poi presala per mano, la costringo ad accelerare il passo. Mi ubbidisce a malavoglia e si accusa di rallentare la mia marcia.

(13) Iam cinis, adhuc tamen rarus. Respicio: densa caligo tergis imminebat, quae nos torrentis modo infusa terrae sequebatur. 'Deflectamus' inquam 'dum videmus, ne in via strati comitantium turba in tenebris obteramur.' (14) Vix consideramus, et nox - non qualis illunis aut nubila, sed qualis in locis clausis lumine exstincto. Audires ululatus feminarum, infantum quiritatus, clamores virorum; alii parentes alii liberos alii coniuges vocibus requirebant, vocibus noscitabant; hi suum casum, illi suorum miserabantur; erant qui metu mortis mortem precarentur; (15) multi ad deos manus tollere, plures nusquam iam deos ullos aeternamque illam et novissimam noctem mundo interpretabantur. Nec defuerunt qui fictis mentitisque terroribus vera pericula augerent. Aderant qui Miseni illud ruisse illud ardere falso sed credentibus nuntiabant. (16) Paulum reluxit, quod non dies nobis, sed adventantis ignis indicium videbatur. Et ignis quidem longius substitit; tenebrae rursus cinis rursus, multus et gravis. Hunc identidem assurgentes excutiebamus; operti alioqui atque etiam oblisi pondere essemus. (17) Possem gloriari non gemitum mihi, non vocem parum fortem in tantis periculis excidisse, nisi me cum omnibus, omnia mecum perire misero, magno tamen mortalitatis solacio credidissem.

Incomincia a cadere cenere, ma è ancora rara. Mi volgo indietro: una fitta oscurità ci incombeva alle spalle e, riversandosi sulla terra, ci veniva dietro come un torrente.
- "Deviamo, le dico, finchè ci vediamo ancora, per evitare di essere fatti cadere sulla strada dalla calca che ci accompagna e calpestati nel buio".

Avevamo fatto appena a tempo a sederci quando si fece notte, non però come quando non c'è luna o il cielo è ricoperto da nubi, ma come a luce spenta in ambienti chiusi. Avresti potuto sentire i cupi pianti disperati delle donne, le invocazioni dei bambini, le urla degli uomini: alcuni con le grida cercavano di richiamare ed alle grida cercavano di rintracciare i genitori altri i figli, altri i coniugi rispettivi; gli uni lamentavano le loro sventure, gli altri quelle dei loro cari taluni per paura della morte, si auguravano la morte, molti innalzavano le mani agli dei, nella maggioranza si formava però la convinzione che ormai gli dei non esistessero più e che quella notte sarebbe stata eterna e l'ultima del mondo. Ci furono di quelli che resero più gravosi i pericoli effettivi con notizie spaventose che erano inventate e false. Arrivavano di quelli i quali riferivano che a Miseno la tale costruzione era crollata, che la tal altra era divorata dall'incendio: non era vero ma la gente ci credeva.

(18) Tandem illa caligo tenuata quasi in fumum nebulamve discessit; mox dies verus; sol etiam effulsit, luridus tamen qualis esse cum deficit solet. Occursabant trepidantibus adhuc oculis mutata omnia altoque cinere tamquam nive obducta. (19) Regressi Misenum curatis utcumque corporibus suspensam dubiamque noctem spe ac metu exegimus. Metus praevalebat; nam et tremor terrae perseverabat, et plerique lymphati terrificis vaticinationibus et sua et aliena mala ludificabantur.

(20) Nobis tamen ne tunc quidem, quamquam et expertis periculum et exspectantibus, abeundi consilium, donec de avunculo nuntius.

Ci fu una tenue schiarita, ma ci sembrava che non fosse la luce del giorno ma un preannuncio dell'avvicinarsi del fuoco. Il fuoco c'era davvero, ma si fermò piuttosto lontano; poi di nuovo il buio e di nuovo cenere densa e pesante. Tratto tratto ci alzavamo in piedi e ce la scuotevamo di dosso; altrimenti ne saremmo stati coperti e saremmo anche rimasti schiacciati sotto il suo peso. Potrei vantarmi che, circondato da così gravi pericoli, non mi sono lasciato sfuggire nè un gemito nè una parola meno che coraggiosa, se non fossi stato convinto che io soccombevo con l'universo e l'universo con me: conforto disperato, è vero, ma pure grande nella mia qualità di essere soggetto alla morte.I1 Finalmente quella oscurità si attenuò e parve dissiparsi in fumo o in vapori, ben presto sottentrò il giorno genuino e risplendette anche il sole, ma livido, come suole apparire durante le eclissi. Agli occhi ancora smarriti tutte le cose si presentavano con forme nuove, coperte di una spessa coltre di cenere come se fosse stata neve. Ritornati a Miseno, e preso quel po' di ristoro che ci fu possibile, passammo tra alternative di speranza e di timore una notte ansiosa ed incerta. Era però il timore a prevalere; infatti le scosse telluriche continuavano ed un buon numero di individui, alienati, dileggiavano con spaventevoli profezie le disgrazie loro ed altrui.

Noi però, quantunque avessimo provato personalmente il pericolo e ce ne aspettassimo ancora, non venimmo nemmeno allora alla determinazione di andarcene prima di ricevere notizie dello zio.

Haec nequaquam historia digna non scripturus leges et tibi scilicet qui requisisti imputabis, si digna ne epistula quidem videbuntur. Vale.

Ti mando questa relazione perchè tu la legga, non perchè la scriva, dato che non s'addice affatto al genere storico; attribuisci poi la colpa a te -evidentemente in quanto me l'hai richiesta- se non ti parrà addirsi neppure a quello epistolare. Stammi bene.

Orazio, Epistole I, I.V.83, elogio di Baia

Lapide posta all'ingresso del parco archeologico di Baia.

NVLLVS
IN ORBE
SINVS
BAIIS
PRAELVCET
AMOENIS
HORATI EPIST. I,I.V.83

Enea dalla Sibilla a Cuma
Virgilio, Eneide VI

Traduzione e note del prof. Giuseppe Bonghi, che ringrazio per la gentile concessione.
[da www.fausernet.novara.it/fauser/biblio/dante1/eneide6a.htm]

vv. 1-13 Cuma e il tempio di Apollo

Sic fatur lacrimans, classique immittit habenas
et tandem Euboicis Cumarum adlabitur oris.
obuertunt pelago proras; tum dente tenaci
ancora fundabat nauis et litora curuae
praetexunt puppes. iuuenum manus emicat ardens 5
litus in Hesperium; quaerit pars semina flammae
abstrusa in uenis silicis, pars densa ferarum
tecta rapit siluas inuentaque flumina monstrat.
at pius Aeneas arces quibus altus Apollo
praesidet horrendaeque procul secreta Sibyllae, 10
antrum immane, petit, magnam cui mentem animumque
Delius inspirat uates aperitque futura.

Così dice, lacrimando, e allenta le briglie [1] alla flotta e finalmente approda alle spiagge Euboiche [2] di Cuma [3]. Girano le prore verso il mare; allora con dente tenace l'àncora teneva ferme le navi e le curve poppe coprono i lidi. Una schiera di giovani ardente balza sul lido Esperio; parte cerca i semi della fiamma nascosti nelle vene della selce, parte percorre le selve, folti rifugi di fiere e segnala i fiumi trovati. Il pio Enea si avvia verso la rocca [4], che l'alto Apollo [5] protegge, e lontano verso i luoghi segreti, antro smisurato, dell'orrenda Sibilla, cui il vate Delio [6] infonde la sua grande conoscenza e la sua volontà e svela il futuro.

vv. 14-33 Dedalo e le porte del tempio

iam subeunt Triuiae lucos atque aurea tecta.
Daedalus, ut fama est, fugiens Minoia regna
praepetibus pennis ausus se credere caelo 15
insuetum per iter gelidas enauit ad Arctos,
Chalcidicaque leuis tandem super astitit arce.
redditus his primum terris tibi, Phoebe, sacrauit
remigium alarum posuitque immania templa.
in foribus letum Androgeo; tum pendere poenas 20
Cecropidae iussi (miserum!) septena quotannis
corpora natorum; stat ductis sortibus urna.
contra elata mari respondet Cnosia tellus:
hic crudelis amor tauri suppostaque furto
Pasiphae mixtumque genus prolesque biformis 25
Minotaurus inest, Veneris monimenta nefandae,
hic labor ille domus et inextricabilis error;
magnum reginae sed enim miseratus amorem
Daedalus ipse dolos tecti ambagesque resolui
t, caeca regens filo uestigia. tu quoque magnam 30
partem opere in tanto, sineret dolor, Icare, haberes.
bis conatus erat casus effingere in auro,
bis patriae cecidere manus. quin protinus omnia

Dedalo [7], come è noto, fuggendo dal regno Minoico [8], su penne veloci osò affidarsi al cielo, e per l'insolito cammino volò fino alle gelide Orse e leggero infine si fermò sulla rocca calcidica. E qui, appena toccata la terra, a te, o Febo, consacrò le ali ed eresse un tempio immane. Sulle porte era raffigurata la morte di Androgeo [9], quindi i Cecropidi [10] obbligati - miserando tributo - a dare come pena ogni anno sette corpi di figli e sta raffigurata l'urna da cui si estraevano le sorti. Di contro compare la terra di Cnosso elevata sul mare: qui vi è il crudele amore del toro e Pasifae posta sotto al toro con un'astuzia [11] e il Minotauro [12], razza mescolata e prole biforme, segno di un amore scellerato [13]; qui la casa, opera famosa [14] col suo inestricabile errare; ma in verità lo stesso Dedalo, preso da pietà per il grande amore della regina [15] sciolse l'inganno dei giri e rigiri nel Labirinto guidando con un filo i ciechi passi [16]. Tu pure, o Icaro [17], avresti una parte importante in questo grande lavoro, se lo permettesse il dolore. Due volte aveva tentato di raffigurare l'evento [18] nell'oro, due volte caddero le paterne mani.

vv. 33-41 davanti all'antro della Sibilla

perlegerent oculis, ni iam praemissus Achates
adforet atque una Phoebi Triuiaeque sacerdos, 35
Deiphobe Glauci, fatur quae talia regi:
'non hoc ista sibi tempus spectacula poscit;
nunc grege de intacto septem mactare iuuencos
praestiterit, totidem lectas ex more bidentis.'
talibus adfata Aenean (nec sacra morantur 40
iussa uiri) Teucros uocat alta in templa sacerdos.

Certo cogli occhi avrebbero esaminato immediatamente ogni cosa se già Acate, mandato innanzi, non fosse tornato ed insieme a lui Deifobe [19] figlia di Glauco, sacerdotessa di Febo e di Diana Trivia [20], che tali cose dice al re:
- Il tempo presente non richiede per sé questi spettacoli; ora sarà meglio immolare sette giovenchi di un'intatta mandria e altrettante pecore di due anni scelte secondo il rito.
Dopo aver detto queste cose ad Enea, - né gli uomini si attardano davanti ai sacri ordini, - la sacerdotessa chiama i Teucri nell'alto tempio.

vv. 42-53 la Sibilla invasata

Excisum Euboicae latus ingens rupis in antrum,
quo lati ducunt aditus centum, ostia centum,
unde ruunt totidem uoces, responsa Sibyllae.
uentum erat ad limen, cum uirgo 'poscere fata 45
tempus' ait; 'deus ecce deus!' cui talia fanti
ante fores subito non uultus, non color unus,
non comptae mansere comae; sed pectus anhelum,
et rabie fera corda tument, maiorque uideri
nec mortale sonans, adflata est numine quando 50
iam propiore dei. 'cessas in uota precesque,
Tros' ait 'Aenea? cessas? neque enim ante dehiscent
attonitae magna ora domus.' et talia fata

L'immenso fianco della rupe Euboica s'apre in un antro, dove si può entrare per cento larghi accessi, per cento porte, donde erompono altrettante voci, i responsi della Sibilla. Erano giunti all'ingresso, quando la vergine disse:
- È tempo di chiedere i Fati: il dio, ecco il dio!
E a lei che così parlava, si tramutarono all'improvviso il volto e il colore e le composte chiome; il petto è ansante e il cuore selvaggio si gonfia di furore e sembra più grande e non ha voce mortale, perché ispirata dalla volontà ormai vicina dio. E Disse:
- Indugi nei voti e nelle preghiere, Troiano Enea? Indugi? Né si apriranno prima le grandi porte dalla casa invasata dal dio.

vv. 53-76 preghiera di Enea ad Apollo
promessa: costruire un tempio e istituire feste in onore di Apollo

conticuit. gelidus Teucris per dura cucurrit
ossa tremor, funditque preces rex pectore ab imo: 55
'Phoebe, grauis Troiae semper miserate labores,
Dardana qui Paridis derexti tela manusque
corpus in Aeacidae, magnas obeuntia terras
tot maria intraui duce te penitusque repostas
Massylum gentis praetentaque Syrtibus arua: 60
iam tandem Italiae fugientis prendimus oras.
hac Troiana tenus fuerit fortuna secuta;
uos quoque Pergameae iam fas est parcere genti,
dique deaeque omnes, quibus obstitit Ilium et ingens
gloria Dardaniae. tuque, o sanctissima uates, 65
praescia uenturi, da (non indebita posco
regna meis fatis) Latio considere Teucros
errantisque deos agitataque numina Troiae.
tum Phoebo et Triuiae solido de marmore templum
instituam festosque dies de nomine Phoebi. 70
te quoque magna manent regnis penetralia nostris:
hic ego namque tuas sortis arcanaque fata
dicta meae genti ponam, lectosque sacrabo,

E dette queste parole, tace. Un gelido timore corre per le dure ossa dei Teucri e il re effonde preghiere dal profondo petto:
- O Febo, che hai sempre avuto pietà dei gravi affanni di Troia e hai diretto le armi Dardane e la mano di Paride contro il corpo dell'Eacide [21] e sotto la tua guida penetrai in tanti mari che circondano vaste terre e fra le genti dei Massili, cacciate in profondità lontano dalle coste e nei campi distesi dinanzi alle Sirti, finalmente ora teniamo le spiagge della sfuggente Italia; che solo fin qui ci abbia seguito la malasorte Troiana! Voi pure ormai è giusto che risparmiate la gente Pergamea [22], DEI e DEE, tutti, ai quali si oppose Ilio e la grande gloria della Dardania. E tu, o santissima Sibilla, presaga dell'avvenire, concedi, - non chiedo regni non dovuti dai miei Fati, - che i Teucri e gli erranti DEI Penati e i travagliati DEI di Troia si stanzino nel Lazio. Allora innalzerò a Febo e a Trivia un tempio [23] di solido marmo e giorni di festa [24] dal nome di Febo. Anche te grandi penetrali attendono nel nostro regno: qui, infatti, io conserverò i tuoi responsi e gli arcani destini, predetti al mio popolo e consacrerò, o divina, uomini eletti. Solo: non affidare i tuoi responsi alle foglie [25], affinché confusi non volino nel gioco dei venti: ti prego di svelarli colla tua stessa voce.

E pose fine con la bocca al parlare.

vv. 77-97 il responso della Sibilla
parallelismo tra: la guerra Troiana e la guerra che Enea dovrà sostenere nel Lazio;
nozze straniere

alma, uiros. foliis tantum ne carmina manda,
ne turbata uolent rapidis ludibria uentis; 75
ipsa canas oro.' finem dedit ore loquendi.

At Phoebi nondum patiens immanis in antro
bacchatur uates, magnum si pectore possit
excussisse deum; tanto magis ille fatigat
os rabidum, fera corda domans, fingitque premendo. 80
ostia iamque domus patuere ingentia centum
sponte sua uatisque ferunt responsa per auras:
'o tandem magnis pelagi defuncte periclis
(sed terrae grauiora manent), in regna Lauini
Dardanidae uenient (mitte hanc de pectore curam), 85
sed non et uenisse uolent. bella, horrida bella,
et Thybrim multo spumantem sanguine cerno.
non Simois tibi nec Xanthus nec Dorica castra
defuerint; alius Latio iam partus Achilles,
natus et ipse dea; nec Teucris addita Iuno 90
usquam aberit, cum tu supplex in rebus egenis
quas gentis Italum aut quas non oraueris urbes!
causa mali tanti coniunx iterum hospita Teucris
externique iterum thalami.
tu ne cede malis, sed contra audentior ito, 95
qua tua te Fortuna sinet. uia prima salutis
(quod minime reris) Graia pandetur ab urbe.'

Ma non ancora in stato di esaltazione [26] per opera di Febo, gigantesca nell'antro la veggente infuria come una Baccante nel tentativo di scacciare dal petto il grande dio, tanto più Apollo tormenta la bocca rabbiosa, domando l'indomito cuore, e docile la rende stringendola con forza. E già le cento grandi porte dell'antro si spalancano da sole e portano per l'aria i responsi della veggente:
- O scampato finalmente ai grandi pericoli del mare, - ma restano quelli più gravi di terra, - nel regno di Lavinio giungeranno i Dardanidi, allontana questo affanno dal petto, ma vorranno non esservi giunti. Guerre, orride guerre vedo e il Tevere spumeggiante di molto sangue. Non il Simoenta né lo Xanto né gli accampamenti dorici [27] ti mancheranno: già un altro Achille [28] è stato partorito per il Lazio, anch'egli nato da una dea; né mai mancherà Giunone, ostile ai Teucri; e allora tu, supplice, quali genti italiche e quali città non avrai mai pregato! Causa di tanto male di nuovo una moglie [29] straniera per i Teucri e per la seconda volta nozze straniere [30]. Tu non cedere ai mali, ma affrontali più audace di quanto ti permetta la sorte. La prima via di salvezza, cosa che non crederesti minimamente, ti sarà aperta da una città greca [31].

vv. 98-123 Enea chiede alla Sibilla di poter scendere nel Tartaro per vedere il padre

Talibus ex adyto dictis Cumaea Sibylla
horrendas canit ambages antroque remugit,
obscuris uera inuoluens: ea frena furenti 100
concutit et stimulos sub pectore uertit Apollo.
ut primum cessit furor et rabida ora quierunt,
incipit Aeneas heros: 'non ulla laborum,
o uirgo, noua mi facies inopinaue surgit;
omnia praecepi atque animo mecum ante peregi. 105
unum oro: quando hic inferni ianua regis
dicitur et tenebrosa palus Acheronte refuso,
ire ad conspectum cari genitoris et ora
contingat; doceas iter et sacra ostia pandas.
illum ego per flammas et mille sequentia tela 110
eripui his umeris medioque ex hoste recepi;
ille meum comitatus iter maria omnia mecum
atque omnis pelagique minas caelique ferebat,
inualidus, uiris ultra sortemque senectae.
quin, ut te supplex peterem et tua limina adirem, 115
idem orans mandata dabat. gnatique patrisque,
alma, precor, miserere (potes namque omnia, nec te
nequiquam lucis Hecate praefecit Auernis),
si potuit manis accersere coniugis Orpheus
Threicia fretus cithara fidibusque canoris, 120
si fratrem Pollux alterna morte redemit
itque reditque uiam totiens. quid Thesea, magnum
quid memorem Alciden? et mi genus ab Ioue summo.'

Con tali parole la Sibilla di Cuma dai penetrali annunzia orrende parole velate e rimbomba nell'antro, avvolgendo il vero con l'oscuro: tali redini Apollo scuote sulla furente Sibilla e le conficca sproni nel petto [32]. Appena cessato il furore e la rabbiosa bocca rimane quieta, l'eroe Enea comincia:
- O vergine, nessuna specie di travagli mi si presenta nuova o inaspettata; tutto ho provato e considerato nell'animo, tra me. Una cosa sola ti prego: poiché si dice che qui si trovino la porta del re dell'inferno e la tenebrosa palude formata dal rigurgito dell'Acheronte [33], che io possa andare alla presenza dell'anima dell'amato genitore; insegnami la via ed aprimi le sacre porte [34]. Io lo portai su queste spalle attraverso le fiamme e mille dardi che c'inseguivano e lo salvai dalle mani nemiche; egli accompagnandomi nel viaggio, ha sopportato con me tutti i mari e tutte le minacce del mare e del cielo, invalido, oltre le sue forze e la sorte della vecchiaia. Egli stesso, anzi, pregando mi dava ordine che io supplice venissi da te e mi recassi alle tue soglie. O divina, ti supplico, abbi pietà del figlio e del padre; tu puoi, infatti, ogni cosa né Ecate [35] ti prepose invano ai boschi dell'Averno: se Orfeo [36] poté evocare l'ombra della sposa fidando nella tracia cetra e nelle corde canore, se Polluce [37] riscattò il fratello coll'alterna morte e va e torna tante volte per quella via. Perché ricordare Teseo [38]? Perché il grande Alcide [39]? anch'io discendo dal sommo Giove [40].

Note

001 - briglie: metafora tratta dal mondo ippico: le navi sono paragonate ai cocchi

002 - Euboiche: da Calcide, città dell'Eubea, ebbe inizio la colonizzazione greca dell'Occidente e proprio i Calcidesi fondarono Cuma nell'VIII secolo, dopo il passaggio di Enea; Virgilio, quindi, fa risalire la fondazione della città a un periodo precedente la venuta di Enea in Italia

003- Cuma: costruita nell'VIII secolo a.C. dai Calcidesi, è la più antica e importante colonia greca dell'Italia meridionale, sulle coste della Campania, fondò Neapolis (Napoli) ed estese il suo dominio su una parte della Campania; nei suoi pressi si trovava l'antro della Sibilla Cumana; nel V secolo fu conquistata dai Sanniti e poco dopo dai Romani

004 - rocca: è la rocca di Cuma, la parte fortificata della città, nella quale si trova il tempio di Apollo

005 - alto Apollo: il santuario di Apollo risaliva all'epoca della colonizzazione greca ed era stato riedificato in epoca augustea. Qui, peraltro, attraverso il richiamo (vv.14-33) a Dedalo, al suo volo e alla sua dedicazione del tempio apollineo come dono votivo, il poeta ne ha sprofondato le origini nell'età della leggenda (E. Paratore)

006 - vate Delio: Apollo, dio della profezia, che aveva il suo santuario più famoso nell'isola di Delo

007 - Dedalo: figlio di Mezione (o Palamaone) e pronipote del re ateniese Eretteo; fuggito da Atene per aver ucciso Talo, si rifugiò presso il re cretese Minosse per il quale costruì il Labirinto, mitica sede nella quale fu rinchiuso il Minotauro, figlio della regina Pasifae moglie di Minosse

008 - regno minoico: regno cretese di Minosse, che avrebbe racchiuso Dedalo, insieme al figlio Icaro, proprio nel Labirinto che egli aveva fatto costruire per serrarvi il Minotauro: sembra che lo volesse punire, secondo un mito per aver favorito gli amori della regina Pasifae col toro (dal quale era nato il mostro), secondo un altro, come si ricava dai vv. 28-30, per per aver dato ad Arianna il filo col quale Teseo poté trovare la giusta direzione nel Labirinto per ritrovare l'uscita dopo aver ucciso il Minotauro. Dedalo fuggì costruendo due ali di penne impastate con cera per sè e per il figlio; durante il volo morì Icaro perché, volando troppo in alto, le sue ali si sciolsero per il calore del sole, per cui, non avendo più sostegno, cadde in mare e annegò. Dedalo si rifugiò proprio a Cuma

009 - Androgeo: figlio di Minosse e di Pasifae, ucciso dagli Ateniesi per invidia perché sconfisse tutti i rivali nelle gare Panatenaiche; per vendicarlo Minosse fece guerra agli Ateniesi, e dopo averli vinti, impose loro come tributo quello di inviare ogni anno sette giovani, estratti a sorte, a Creta da dare in pasto al Minotauro rinchiuso nel Labirinto di Cnosso

010 - Cecropidi: gli Ateniesi, da Cecrope, loro mitico re.

011 - con un'astuzia: secondo una leggenda Dedalo costruì per Pasifae, una vacca di legno nella quale si nascose attirando il toro col quale fece all'amore restando incinta del Minotauro

012 - Minotauro: mostro cretese con corpo umano e testa di toro (o con corpo di toro e testa d'uomo), frutto dell'amore contro natura di Pasifae col toro fatto uscire dalle acque del mare da Poseidone per Minosse, che aveva due fratelli, coi quali venne a lite affermando che solo a lui spettava la signoria di Creta, e quale segno di predilezione da parte degli dèi pregò Poseidone che gli inviasse qualcosa dal mare con la promessa di offrirlo poi in sacrificio. Il dio del mare gli mandò un meraviglioso toro bianco che Minosse rifiutò di sacrificare sostituendolo con uno delle sue mandrie.

013 - amore scellerato: perché contro natura, ispirato secondo un mito dalla crudeltà di Venere (moglie di Vulcano) che infuse in Pasifae l'insana passione per vendicarsi di lei che aveva denunciato a Vulcano l'adultero amore della moglie Afrodite con Ares, secondo un altro mito dallo stesso Poseidone per vendicarsi di Minosse che non gli aveva sacrificato il toro che per lui aveva fatto uscire dalle acque spumose del mare.

014 - casa, opera famosa: il Labirinto

015 - regina: si riferisce ad Arianna innamorata di Teseo

016 - ciechi passi: fu Dedalo a dare ad Arianna il filo col quale Teseo poté ritrovare la strada del ritorno all'uscita dopo aver ucciso il Minotauro

017 - Icaro: figlio di Dedalo e di una schiava di Minosse, di nome Naucrate, fuggito dal Labirinto ove era stato rinchiuso insieme al padre, con ali intessute di cera, ma morì annegando in mare per essersi avvicinato troppo al sole che col suo calore sciolse la cera

018 - evento: Dedalo aveva tentato di raffigurare nell'oro due volte l'evento della morte del figlio Icaro

019 - Deifobe: la famosa Sibilla di Cuma, figlia di Glauco, deità marina, già pescatore in Beozia

020 - Trivia: è Diana, figlia di Giove e di Latona, sorella di Apollo

021 - Eacide: Achille, pronipote di Eaco, secondo la leggenda era stato ucciso da una freccia scoccata da Paride e guidata dallo stesso Apollo nell'unico punto vulnerabile del corpo dell'eroe greco: il tallone

022 - Pergamea: da Pergamo, il nome della rocca di Troia

023 - tempio: riferimento al tempio che Augusto fece innalzare sul Palatino, consacrato il 9 ottobre del 28 a.C.

024 - festa: si tratta dei ludi Apollinares, celebrati in luglio sin dal tempo della seconda guerra punica; ricordiamo che Apollo viene chiamato anche Febo, il suo più noto appellativo, che significa luminoso, e simboleggia la benefica luce del sole.

025 - foglie: vedi libro III, 445 e sgg. Tutti i vaticini, che scrisse su foglie, la vergine (Sibilla) dispone in ordine e li lascia rinchiusi nell’antro. I responsi rimangono immoti nel luogo né vengono disordinati; in verità, quando si gira il cardine e si apre la porta un leggero venticello li fa vibrare e dalla porta scompiglia le tenere fronde, e mai in seguito si cura di prendere le foglie volteggianti nel cavo antro e rimetterle in ordine o ricongiungere i responsi. Allora i visitatori se ne vanno senza la risposta dell’oracolo e odiano l’antro della Sibilla. Qui non ti sia grave nessun dispendio di tempo nell’attesa, anche se i compagni dovessero protestare e la rotta dovesse chiamare con forza le vele al largo e tu potessi gonfiarne le pieghe di favorevole vento: non visitare l’indovina, non chiedere con preghiere i vaticini, ma lei stessa parli e apra di sua volontà la bocca e pronunci le parole del responso. Ella a te spiegherà i popoli dell’Italia e le guerre future e ti spiegherà come sopportare o superare ogni affanno e venerata ti indicherà una favorevole rotta.

026 - esaltazione: perché non ancora sottomessa alla volontà di Febo

027 - dorici: le guerre che affronteranno i Troiani in Italia ricordano la guerra di Troia, con i due fiumi e gli accampamenti achei; dorici sta ad indicare sia i Greci che hanno combattuto a Troia che i Dori venuti in Italia in un periodo successivo alla conquista di Troia

028 - Achille: continua il parallelismo tra la guerra di Troia e le guerre da sostenere nel Lazio; un altro Achille è Turno, re dei Rutuli, figlio della ninfa Venilia

029 - moglie: si allude a Lavinia, figlia del re Latino

030 - seconda volta: allusione alle prime nozze straniere con Didone

031 - città greca: si riferisce a Pallanteo, costruita da Evandro sul Palatino, proveniente dall'Arcadia

032 - redini...sproni: metafora per indicare il dominio di Apollo sulla Sibilla, come il cavaliere deve dominare il cavallo; la metafora serve a spiegare visivamente il dominio di Apollo sulla Sibilla nella sua opera per renderla docile alla sua volontà

033 - Acheronte: palude tra il lago Miseno e Cuma in Campania, oggi lago di Fusaro; nell'Inferno è il fiume del dolore che le anime dovevano passare, traghettate da Caronte, portando in bocca una moneta per pagare il viaggio

034 - porte: sono quelle dell'ingresso dell'Inferno, sacre perché a nessun mortale era concesso attraversarle, in quanto questo avrebbe rappresentato una profanazione del luogo

035 - Ecate: figlia di Perse, o Perseo, e di Asteria, appartenente ai Titani; secondo altri è figlia di Zeus e di Demetra o di Era; domina in cielo, in mare e sulla terra, per cui fu detta trimorfa, apportando felicità e vittoria, sapienza nelle adunanze e nei tribunali, fortuna nella navigazione e nella caccia

036 - Orfeo: figlio di Oeagros e della Musa Calliope, marito di Euridice. Il mito narra che quando la sposa, fuggendo Aristeo che la inseguiva, morì per il morso di una serpe, egli discese nell'Averno per riprendere l'amata; attraverso la folla dei morti, giunse alla presenza di Persefone, la regina delle ombre, e di Ades, il dio degli Inferi, e li pregò di restituirgli l'amata Euridice o, qualora non fosse stato possibile, di morire anche lui. Accompagnò il suo canto soave col dolce suono della sua cetra: al canto, ogni cosa si fermò nell'Erebo; gli DEI si commossero, tanto che permisero ad Euridice di tornare nel mondo dei vivi con lo sposo, ad un patto: che Orfeo durante il ritorno non si voltasse indietro a guardarla prima che fossero totalmente usciti dall'Oltretomba. Ma prima di giungere alla superficie terrestre, Orfeo, temendo che la moglie si perdesse e ansioso di vederla, volse gli occhi; ma Euridice all'istante ricadde, ed egli, tendendo le braccia, invano tentò di abbracciarla, e non riuscì a stringere che una vana ombra. Invano per sette giorni e scongiurò: Euridice era perduta per sempre.

037 - Polluce: figlio di Giove e di Leda, moglie di Pindaro. Leda una notte giacque per metà tempo con Giove e per metà tempo col marito; da quelle unioni nacquero quattro figli: Polluce ed Elena da Giove, Castore e Clitennestra dal marito Tindareo. Alla morte di Castore, Polluce, che era un dio, avrebbe dovuto ascendere al cielo e chiese a Giove che o tutti e due sarebbero stati eterni o tutti e due mortali; Giove allora permise che a turno, un giorno ciascuno, sarebbero stati immortali.

038 - Teseo: discese nell'Averno coll'amico Piritoo, re dei Lapiti, per rapire Proserpina; fallì l'impresa e fu liberato da Ercole

039 - Alcide: Ercole, nipote di Alceo discese due volte nell'Averno per liberare Teseo e per riprendere l'ombra di Alceste, moglie di Admeto

040 - Giove: Enea era figlio di Anchise e della della dea Venere (secondo Omero figlia di Giove e di Dione): era quindi nipote del re degli DEI (La versione più diffusa del mito di Afrodite segue Esiodo, che la fa nascere nei pressi dell'isola di Cipro dalle spume del mare fecondate da Urano: sospinta dallo Zefiro, la bellissima fanciulla giunse sulla spiaggia, dove fu accolta dalle Ore e accompagnata su un carro d'alabastro tirato da candide colombe alla reggia degli DEI)

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L'eruzione del Monte Nuovo

Lettera di Simone Porzio a Pedro de Toledo

All'illustre don Pedro de Toledo Principe Villafranca, viceré di Napoli e Generale delle Milizie

Vi sono molte cose le quali, benché accadano per cause naturali, avvenendo di rado, appaiono portentose agli uomini, e soprattutto tali sogliono sembrare a coloro che sono informati più attraverso quanto viene loro riferito che per conoscenza diretta. Per la qual cosa, affinché non ti sia detto nulla di falso circa ciò che poco fa è accaduto nelle campagne di Pozzuoli, poiché sento di doverti dire tutte le mie cose, e soprattutto quelle attinente ai nostri studi, ho deciso di scrivere una breve storia di tutto quell'avvenimento e di illustrarti le cause di esso, come è proprio compito di un filosofo, pensando di non fartene opera ingrata. Tu stesso hai visto l'eruzione e hai perlustrato tutta la zona di Pozzuoli. E' una zona vicina al mare, abbondante di acque calde e di zolfo fangoso, ha monti a settentrione e a mezzogiorno che si protendono fino al mare, dove molte e grandi caverne frenano la spinta del calore. Fu questa regione scossa per due anni circa da forti terremoti, tanto che nessuna casa in essa era rimasta integnra, nessun edificio che non fosse minacciato da prossima e inevitabile rovina. In realtà il 27 e 28 settembre, per tutto il giorno e la notte, la terra fu scossa e il mare si ritirò per quasi duecento passi. E in quel luogo gli abitanti raccolsero una grande quantità di pesce e sono stati viste venir fuori colonne d'acqua dolce. Il 29, infine, un gran tratto di terra, che si stende tra le radici del monte, che gli abitanti chiamano Barbaro, e il mare presso l'Averno, si vedeva venir su e assumere subito la figura di un nascente monte. In quello stesso giorno, alle due di notte, questa massa di terra, apertasi come una bocca, con un gran frastuono vomitò grandi colonne di fuoco, pomici e pietre, e una così gran quantità di orribile cenere, che ne furono ricoperti gli edifici ancora in piedi di Pozzuoli. Questa cenere si distese su tutte le terre, abbattè gli alberi, ridusse in cenere le viti, fino alla sesta pietra miliare, uccise gli uccelli e alcune bestie, mentre gli abitanti di Pozzuoli fuggivano nelle tenebre con i figli e le mogli, e con grandi gemiti e grida fuggivano a ripararsi a Napoli. La cenere fu sparsa dalla forza delle esalazioni fino a circa 60'000 passi e, anche se ciò può apparire strano, cadde calda presso la voragine, fangosa e umida più lontano. Ma ciò che supera ogni meraviglia è che si vide il monte crescere intorno a quella voragine, con l'ammasso di pomici e di cenere, ad una altezza di più di mille passi, in una sola notte. Sul monte vi erano molte bocche, delle quali rimangono due, una presso il lido che si stende davanti all'Averno, l'altra a metà del monte. Gran parte dell'Averno fu coperta di cenere. I famosi bagni, celebrati per tanti secoli, che ridavano salute a tanti malati, giacciono sepolti dalla cenere.
Dura ancora questa eruzione fino alla data di oggi... [traduzione dal latino di A. Della Rocca; da De Caro].

Dalla lettera di Marco Antonio delli Falconi

Sono due anni che a Pozzuoli e nei porti attiugui vicino Napoli, si verificano frequenti terremoti; durante il giorno e la notte precedenti (..) questa eruzione circa venti scosse, pià o meno violente, sono state avvertite nei posti suddetti. L'eruzione ha fatto la sua comparsa il 29 settembre del 1538 (...) era sabato notte; e (..) cominciarono a vedere in quel luogo tra i bagni caldi e trepergule, fiamme di fuoco (...) in breve tempo il fuoco aumentò tanto che in quel punto la terra si spalancò e vennero lanciate in alto enormi quantità di ceneri e pomici miste ad acqua che ricoprirono l'intera campagna, e a Napoli la pioggia di ceneri ed acqua durò per gran parte della notte.

Il giorno seguente era lunedì (...) i poveri abitanti di Pozzuoli colpiti da una vista così orribile abbandonarono le loro case (...) alcuni con i figli in braccio, altri con i secchi piene [sic!] di loro cose; (...) altri ancora portavano gli uccelli morti all'inizio dell'eruzione o i pesci che avevano trovato in grande quantità sulla spiaggia, poiché in quel momento il mare si era ritirato notevolmente (...). Il mare verso Baia era indietreggiato di molto e sembrava praticamente asciutto a causa dell'abbondanza di ceneri e frammenti di pomici scagliati in alto dall'eruzione. Io vidi inoltre due sorgenti nelle rovine recentemente scoperte. (...) Guardando verso il luogo dell'eruzione si vedevano montagne di fuoco, in parte bianche in parte nere, sollevarsi molto in alto, e di tanto in tano, in mezzo al fuoco sorgeano improvvisamente fiamme di colore intenso insieme a enormi massi e alle ceneri, e si poteva udire un rumore simile ad una scarica di una nutrita artiglierie. (...) Dopo che le pietre e le ceneri erano state proiettate alte nell'aria, insieme alle nubi di intenso fumo, dall'impulso del fuoco e dalle esalazioni simili a forti venti (...) si vedevano cadere (...) sopraffatte dal loro stesso peso (...) e allora cominciava a piovere ceneri, acqua e pietre di dimensioni diverse secondo la distanza del punto di origine; quindi gradatamente le pietre e le ceneri venivano di nuovo lanciate in alto accompagnate dallo stesso rumore e dallo stesso fumo, e cosi [sic!] via ad intervalli. Il tutto continuò per due giorni e due notti quando il fumo e la forza del fuoco cominciò a diminuire. Il quarto giorno, cioè martedì, alle 22 esatte ci fu un'eruzione così violenta (...) che la quantità di ceneri, pietre e fumo sembrò volesse coprire l'intera terra e il mare (...).

Successivamente venerdì e sabato non comparve altro che un debole fumo; cosi molti acquistarono coraggio, si recarono sul posto e riferirono che le pietre e le ceneri lanciate avevano costruito una montagna (...) a coloro che non l'avevano vista sembrava quasi incredibile che in un cosi breve tempo si potesse essere formata una montagna cosi grande. Sulla sua sommità c'era una bocca a tazza che poteva avere una circonferenza di circa un chilometro e mezzo (...).

La domenica seguente, era il 6 ottobre, molti si recarono ad osservare il fenomeno; ma intorno alle 22 quando alcuni avevano scalato metà della montagna, e altri anche di più, si verificò un'eruzione cosi violenta e orrida accompagnata da una tale quantità di fumo, che molti soffocarono, ed alcuni non furono mai più ritrovati. Mi è stato detto che il numero delle vittime e dei dispersi ammontò a 24 persone (...)

Dalla lettera di Pietro Giacomo di Toleto

Sono più di due anni che la provincia di Campagna è scossa da terremoti che si avvertono particolarmente violenti a Pozzuoli; ma il 27 e il 28 dello scorso settembre a Pozzuoli non si sono arrestate nè di giorno nè di notte (..) alla fine (...) il 29 settembre due ore dopo il calar delle tenebre con un alto rumore di tuono la terra si aprì vicino al lago mettendo a giorno un'orrida bocca che vomitava furiosamente fumo, fuoco, pietre e fango fatto di ceneri. Il fuoco emesso dalla bocca si dirigeva verso le mura della sfortunata città; il fumo era parte bianco e parte nero, (...) le pietre che vennero in seguito lanciate erano trasformate in pomici dalle fiamme divoranti e le loro dimensioni (intendo dire di alcune) erano maggiori di quelle di un bue.

Le pietre si innalzavano quasi quanto può lanciarle un arco per poi cadere, talvolta al margine, talvolta all'interno della bocca stessa (...). Il fango era color della cenere, da principio molto liquido poi sempre meno ed era cosi abbondante che in 12 ore insieme alle già citate pietre aveva costruito una montagna alta 1000 passi (...).

Questa volta l'eruzione durò due giorni e due notti senza interruzione anche se è vero che la sua forza non era costante, ma aumentava e diminuiva; quando raggiunse la sua violenza massima, perfino a Napoli si sentì un rumore simile a quello dell'artiglieria pesante di due eserciti in combattimento. Quel giorno mi recai con altre persone sulla sommità del monte guardai in basso dentro la sua bocca, una cavità arrotondata con una circonferenza di circa 400 metri [l'attuale diametro del cratere] nel cui centro bollivano le pietre ricadute, esattamente come in un [sic!] grande caldaia d'acqua che bolle sul fuoco. Il quarto giorno cominciò di nuovo a vomitare, ed il settimo ancora più, ma sempre con violenza minore di quella della prima notte. Fu in questo momento che molte persoen, che sfortunatamente si trovavano sulla montagna, vennero improvvisamente coperte di ceneri e soffocate dal fumo, o colpite violentemente dalle pietre, bruciate dalle fiamme e uccise sul posto. Quel giorno il fumo continuo [sic!] a uscire e in mezzo ad esso di notte si poteva distinguere il fuoco (...). [da Baldi]

Dalla lettera di Filippo del Nero

Intorno alle 8 di mattina del 29, la terra sprofondò di due canne (4m) nella parte in cui attualmente c'è l'orifizio vulcanico (...) a mezzogiorno dello stesso giorno, la terra cominciò a rigonfiarsi, tanto che il suolo nel luogo prima sprofondato era alto come monte Ruosi (...) e all'incirca in questo momento venne emesso il fuoco che formò la grande voragine con tale forza, rumore e luce abbagliante che io, che stavo in giardino, fui preso da un grande terrore. Quaranta minuti dopo, sebbene non mi sentissi bene, mi arrampicai su una altura vicina dove vidi tutto ciò che avveniva, e parola mia il guoco che aveva a lungo scagliato in alto terra e pietre era splendido (...). Lo stesso dicasi per la voragine di fuoco da cui venivano scagliate in aria masse di terra e pietre grandi come un bue che raggiungevano altezze che valutai intorno a 2,5 Km. Quindi ricadevano vicino alla voragine in un semicerchio del diametro da uno a tre tiri d'arco, e riempirono cosi parte del mare formando la suddetta collina. Quando la terra e le pietr caddero erano quasi asciutte. Lo stesso fuoco comunque, scagliava contemporaneamente una sottile terra che cadeva come un soffice fango. [da Baldi]

Per un commento scientifico a questi brani, si veda www.anisn.it/scuola/percorsi/flegrei/cronache.htm e www.tightrope.it/monten/gecron.htm.

Caserta

Frontone del cimitero

SPES, CURAE, FULGOR, SPECIES HIC OCCIDIT OMNIS

Iscrizione dell'oratorio di san Rocco a Casertavecchia

Iscrizione posta a sinistra dell'ingresso dell'oratorio di san Rocco.

D·O·M·
SISTE GRADVM LECTOR SCANDENS SVPER ÆTHERA CORDE
DIC REPETENS·O ROCCE, SEBASTE, MARIA, VALETE
1653

Nota critica Linea 2: la linea verticale della E di ÆTHERA è attaccata alla linea verticale destra della H. Linea 3: per Gnarra & Parente CALETE e non VALETE; per Gnarra & Parente l'anno è 1635.

Amalfi

Renato Fucini, XX sec.

Lapide posta sotto Porta della Marina all'ingresso della città.

IL GIORNO DEL GIUDIZIO, PER
GLI AMALFITANI
CHE ANDRANNO IN PARADISO,
SARA' UN GIORNO
COME TUTTI GLI ALTRI

Salvatore Quasimodo, XX sec.

Lapide posta sotto Porta della Marina all'ingresso della città.

QUI E' IL GIARDINO
CHE CERCHIAMO SEMPRE E
INUTILMENTE DOPO I LUOGHI
PERFETTI DELL'INFANZIA.
UNA MEMORIA CHE AVVIENE
TANGIBILE SOPRA GLI
ABISSI DEL MARE, SOSPESA
SULLE FOGLIE DEGLI ARANCI
E DEI CEDRI SONTUOSI
NEGLI ORTI PENSILI
DEI CONVENTI

Ravello

Iscrizione sull'ambone dell'epistola nel duomo

SIC CONSTANTINVS·MONET ET TE PASTOR·OVINVS
ISTVD OPVS EARVM QVI FECIT MARMORE CLARVM

Boccaccio, Decameron II,4

Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d'ltalia; nella quale assai presso a Salerno e una costa sopra 'l mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d'Amalfi, piena di picciole città, di giardini e di fontane, e d'uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia sì come alcuni altri. Tra le quali città dette n'è una chiamata Ravello, nella quale, come che oggi v'abbia di ricchi uomini, ve n'ebbe già uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di raddoppiarla, venne presso che fatto di perder con tutta quella sé stesso.

Ravello nell'800 nelle note di viaggio del tedesco F. Gregorovius

Per ora, non ho trovato maggiori informazioni su Gregorovius e la sua opera.

Molto di sopra di Atrani si trovano Pontone, Minuto, Scala e Ravello. Fra queste località Ravello si distingue per i suoi ricordi saraceni. Si sale da Atrani su uno scomodo sentiero, attraverso gallerie coperte e si prosegue su un cammino romanticissimo, attraverso un pietrame roccioso, sempre fra vigneti, carrubi e castagni. Più si sale e più incantevole diventa la vista del mare; al di là delle rocce color marrone si guarda nelle onde azzurre che sembrano penetrare fra le bizzarre cime montuose di Pontone. Sotto i nostri piedi si stendono pendii verdeggianti disseminati dalle abitazioni di uomini pacifici, che ormai nessun saraceno turba più. Arrivammo al convento abbandonato delle Clarisse e subito notammo l'architettura moresca della cupola. Ci dirigemmo poi verso Villa Cimbrone, la casa di campagna di un ricco napoletano, celata da oleandri e rose e situata in un punto ardito della roccia a picco sul mare. E' una villa incomparabile e rimasi soprattutto estasiato per il suo pergolato che percorre l'intero giardino. Il tetto retto da pilastri bianchi avvolti nel fogliame delle viti era colmo di uva matura; nel giardino ben coltivato crescevano i più bei fiori immaginabili, provenienti da innumerevoli piante del Sud, nel pieno splendore del sole di luglio. Sull'orlo delle rocce vi era un belvedere, circondato da orribili figure marmoree, il cui effetto però da lontano era abbastanza buono. Si scorgeva il mare scintillante steso all'infinito, le coste della Calabria con le loro sommità montane argentee, la potente e saliente Punta di Conca e lo scuro Capo d'Orso vicino a Maiori. Tutti quei monti sono stupendi nelle loro forme slanciate, simili a statue di bronzo. Sì, è un panorama di valore incomparabile; ed in questo luogo è meglio ammirare e tacere che parlare, Quando si guarda da quel giardino di Armida pieno di rose ed ortensie in quel mare si sirene che sembra essere un secondo cielo soffuso di luce, allora nasce il desiderio di poter volare. Credo che Dedalo ed Icaro si trovassero in una beata calma serale su un simile promontorio roccioso a picco sul amre di Creta, quando furono avvinti dal desiderio di volare; allora si alzarono e si fecero le ali di cigno. Continuammo la salita verso il chiostro di S. Antonio. Anche questo è moresco, con piccole colonne decorative disposte in archi spezzati. Entrammo poi nell'antica Ravello ed a un tratto, in mezzo a queste rocce selvagge, ci trovammo dinanzi ad una città moresca che con le sue torri e case dai fantastici arabeschi offriva un aspetto completamente arabo. Essa è costruita in tufo nero, isolata ed abbandonata nel deserto verdastro della montagna. Qui il mondo è scomparso; non vi è niente altro che alberi e rocce. Al di sotto di noi, a distanza irreale, il mare purpureo. Nei giardini, torri alte e nere, bizzarre architetture di stile moresco con arabeschi semidistrutti sopra le finestre e sopre le graziose, piccole colonne negli archi. Sul mercato, accanto alla chiesa, si eleva un'antica casa moresca, anch'essa di tufo nero ed adorna di arabeschi. Due singolari colonne la chiudono agli angoli. Il tetto posa su un cornicione a volte. Questo edificio porta il nome di "Teatro moresco". Era senza dubbio uno dei palazzi degli antichi signori di Ravello. Perché questa città oggi deserta era un tempo una fiorente colonia di Amalfi e contava trentaseimila abitanti. Ricche famiglie trapiantarono qui il lusso che doveva scaturire dalll'unione con l'Oriente e con i Saraceni di Sicilia. Particolarmente potenti erano gli Afflitti, i Rogaderi, i Castaldi e soprattutto i Rufolo. Quei signori si costruirono splendidi palazzi in giardini meravigliosi, con fontane zampillanti in cui nuotavano pesci; tutto era colstruito in puro stile arabo e furono architetti arabi ad eseguire quelle costruzioni. Ravello rimase in continuo contatto con i Saraceni, molti dei quali vi abitarono e fino ai tempi di Manfredi gli Arabi vi furono di guarnigione. Avvenne così che Ravello fu una delle prime città dell'Italia meridionale influenzate dall'architettura puramente moresca ed è oggi una delle poche che ne abbia conservato i resti. Trovai, nella piccola Ravello, quasi tante costruzioni moresche quante a Palermo stessa, i cui castelli di Cuba e Zisa sono scomparsi lasciando solo le mura di cinta. Perciò il palazzo Rufolo a Ravello è una vera e propria miniera di architettura saracena di quell'epoca e di quelle regioni. Si trova un giardino ed appartiene da tre anni all'inglese Sir Francis Nevil Reed, che lo fece liberare dalle macerie. Questo bel palazzo può essere chiamato una piccola Alhambra; è una costruzione di più di trecentostanze disposte su tre piani, tutti sorretti da colonne in stile moresco. Le sale sono riccamente adornate con arabeschi e reca una forte impronta di caratteristiche siculo-arabe. Dovevano esser di uno splendore favoloso. Accanto troviamo ancora una rotonda di stile saraceno in mezzo ad un giardino, un avanzo di mura ed una torre quadrata. Archi e logge semisepolte lasciano supporre che esistessero anche altri impianti di bagni e cortili che dovevano aver formato un insieme ben chiuso e, allo stesso tempo, somigliante ad un castello. Da tutto questo ci si può fare idea della ricchezza accumulatasi in quei tempi presso quelle famiglie. Come tutti questi dintorni di Napoli siano andati in decadimento ce lo mostrano gli avanzi di antico splendore nelle città impoverite. Quelle coste, dotate dalla natura in sovrabbondanza, ebbero due periodi di fioritura; nell'antichità greca, di cui è parlante testimone la vicina Paestum, e, durante il medio evo repubblicano, quando Napoli, Gaeta, Amalfi e Sorrento invasero i mari con le loro flotte, molto prima che lo spirito repubblicano, ultimo vestigio di costituzioni cittadine greche e romane, si spostasse nell'Italia settentrionale e che Genova, Pisa e Venezia giungessero al potere. I romani per primi distrussero il fiorire dell'Italia meridionale, che una seconda volta si abbassò sotto il dominio straniero dei Normanni, e poi decadde sempre più fino alla miseria di oggi. Manca ancora una storia approfondita delle repubbliche dell'Italia meridionale dal settimo secolo fino a Ruggero di Sicilia. Mentre stavo nel giardino Rufolo assistetti ad un meraviglioso fenomeno di luce sul mare. Il sole tramontava. I monti sopra Paestum e Salerno impallidivano già per prendere un vellutato color verde scuro. Sopra Paestum, molto in alto, una immensa nuvola bianca tutta accesa dall'ardore di fuoco del tramonto somigliava ad una rosa incandescente che si estendeva sempre più nel cielo; e proiettava la sua luce sopra il mare, incendiando tutto il vasto golfo di Salerno, indorandosi poco a poco, attraversata di strisce di color verde pallido, passando al viola, al giallastro, ed al grigio ed infine spegnendosi". [da Ravello e Scala. Una terrazza sull'infinito]

Indagini sul contenuto delle ampolle del reliquiario di S. Gennaro

NdR: mi sento autorizzato a diffondere questa sintesi sia per contribuire alla diffusione di una corretta informazione scientifica sia perché il testo è tratto da un pieghevole che mi hanno vergognosamente fatto pagare 1 euro e 30. Mi scuso con gli autori e l'editore degli atti.

di F. D'Onofrio (Università degli Studi di Napoli - I facoltà di medicina e chirurgia)
P.L. Baima Bollone e M. Cannas (Università degli Studi di Torino - Facoltà di medicina e chirurgia)

Sintesi della relazione pubblicata su
Atti del Convegno nel VI centenario della prima notizia della liquefazione del sangue (1389 - 1989)
Napoli, 16 dicembre 1989

Per uno studio che non apportasse manomissioni del materiale contenuto nelle ampolle del reliquiario di S. Gennaro, allo stato attuale delle nostre conoscenze, erano possibili soltanto indagini ottiche. Su questa linea sono state svolte le osservazioni che costituiscono la base della presente relazione.

SPETTROSCOPIA

La tecnica di studio non distruttiva più promettente in un caso come quello delle ampolle di S. Gennaro è senza dubbio la spettroscopia.

Con questo nome si intende un esame ottico che studia lo spettro ottenuto dalla scomposizione della luce da cui si può dedurre la natura della sorgente luminosa e dell'atmosfera che la circonda. Esiste infatti una precisa relazione tra la composizione chimica della sorgente della luce, il materiale che essa attraversa e la struttura dello spettro. È facile arguire che si tratta di uno dei capitoli più importanti della fisica ottica.

Il metodo spettroscopico consente, con grande accuratezza, anche l'analisi qualitativa delle sostanze biologiche colorate come, ad esempio l'emoglobina. Il principio è analogo a quello utilizzato nell'analisi chimica: l'interposizione di una determinata sostanza al raggio luminoso dello spettroscopio determina un caratteristico spettro di assorbimento.

Di fatto un fascio luminoso attraversante un liquido che contiene disciolto una sostanza biologica colorata subisce una diminuizione di intensità proporzionale alla quantità di sostanza disciolta. Il potere di assorbimento di una tale soluzione di sostanza colorante prende il nome di coefficiente di estinzione. Questo è il principio fondamentale del metodo spettrofotometrico ma è applicabile solo utilizzando la luce monocromatica: infatti la maggior parte delle sostanze coloranti assorbe in proporzione diversa i vari colori dello spettro. Da qui la necessità di disperdere, vale a dire decomporre, la luce policromatica (solare ad esempio) attraverso un prisma per esaminare le varie regioni dello spettro.

La spettroscopia di assorbimento dell'emoglobina e dei suoi derivati è generalmente considerata uno dei migliori fra i metodi di identificazione delle tracce ematiche. Questo test non è soltanto sufficientemente specifico ma è anche molto sensibile perché il pigmento ematico è spettroscopicamente riconoscibile fino alla diluizione di 1:30000.

SPETTROSCOPIA DEL 1902

All'inizio del secolo il sacerdote Gennaro Sperindeo, laureato in fisica e buon conoscitore delle possibilità analitiche della spettroscopia, chiese di sottoporre la teca con le ampolle di S. Gennaro ad analisi spettroscopiche.

Nel pomeriggio del 25 Settembre 1902, ottenuta l'autorevole presenza del Prof. Raffaele Ianuario dell'Università di Napoli, procedette alla spettroscopia della teca in parallelo con il campione di sangue preparato in precedenza. In un primo tempo non ottenne alcun risultato ma, ad un certo punto, riuscì a dare alla teca una conveniente inclinazione. Il raggio di luce, attraversato il sottile strato di sangue che umettava le pareti dell'ampolla maggiore, fornì un risultato sorprendente: si mise in evidenza infatti uno spettro esattamente uguale a quello del preparato sperimentale proprio come se anche nelle ampolle fosse contenuto sangue. La spettroscopia venne ripetuta sull'ampolla più piccola con risultati anche più dimostrativi.

È veramente interessante la descrizione dettagliata che lo stesso Sperindeo fornisce nel libro da lui scritto su «Il miracolo di S. Gennaro».

SPETTROSCOPIA DEL 1989

La spettroscopia della teca con le ampolle è stata da noi eseguita il 25 settembre 1989 durante l'ora di chiusura meridiana del Duomo, nella Cappella degli Illustrissimi, all'autorevole presenza di S. Em. il Cardinale Michele Giordano, assistito dal parroco del Duomo Mons. Ugo Grazioso.

In quel momento il «sangue» era fluidificato per il corrente prodigio di settembre e di conseguenza appariva agevole ottenere la sovrapposizione di un sottile strato di materiale sulla superficie interna delle ampolle.

Abbiamo impiegato uno spettroscopio fotografico ed una lampada al sodio che produce una intensa luce monocromatica gialla con la caratteristica riga di assorbimento.

Controlli preliminari con antichi vetri analoghi e coevi a quelli della teca e delle ampolle ci hanno permesso di escludere deformazioni o bande di assorbimento anomalo.

I risultati confermano che il contenuto delle ampolle è costituito da emoglobina e dai suoi derivati.

L'osservazione diretta allo spettroscopio e le fotografie infatti hanno mostrato una serie di spettri che corrispondono alla emoglobina e ai suoi prodotti di degradazione proprio come accadrebbe se nelle ampolline fosse stato racchiuso sangue.

Sul sangue di S. Gennaro è stato scritto tanto, e spesso a sproposito se non addirittura in modo premeditamente riduttivo, perciò crediamo che per fare qualcosa di veramente utile convenga basarsi sui dati obiettivi e sulle acquisizioni oggi a disposizione della scienza.

È un fenomeno che come dice giustamente Lambertini «sfugge alle fondamentali leggi della fisica» dato che su di esso «non hanno causa determinante e precisa né la luce, né il calore; né questo fenomeno ha un suo svolgersi caratteristico ed uguale».

Come si è già detto, agli inizi del secolo l'analisi spettroscopica, compiuta dai Proff. Sperindeo e Januario, mise in evidenza uno spettro di assorbimento riferibile all'emoglobina, così come riferito anche da altri due eminenti studiosi i professori Alfano ed Amitrano.

Allo stato attuale delle conoscenze è impossibile trovare una spiegazione del fenomeno e tale difficoltà si rileva maggiormente quando si considera la fisiologia del sistema della coagulazione.

Nel sistema vasale, in vivo, il sangue scorre fluido sempre che l'endotelio dei vasi sia integro, i vasi siano pervi ed elastici ed il cuore abbia una forza contrattile valida. Quando una di queste condizioni manca, il sangue può andare incontro alla coagulazione e cioè inizia la cosiddetta cascata coagulativa nella quale vengono attivati e consumati vari fattori che fanno parte di questa cascata; si formano quindi le maglie di fibrina che inglobano la parte solida (corpuscoli) e quella liquida del sangue, formando così il coagulo. Se il coagulo non è grosso, e soprattutto non è organizzato, in un sistema vasale efficiente esso può anche sciogliersi poiché nella stessa cascata coagulativa si formano sostanze che provvedono a fluidificarlo. Si può dire che vi è una bilancia emostatica laddove la spinta coagulativa e anticoagulativa si fronteggiano e da ciò deriva la fluidità del sangue in rapporto alle esigenze organiche ed anche ai meccanismi di difesa che vengono messi in atto in seguito a lesioni, onde evitare sanguinamenti. Desideriamo sottolineare che in vivo il sangue che ha fatto parte di un coagulo disciolto è capace di ricoagulare poiché soprattutto il fegato provvede a rimpiazzare fattori consumati sia nella formazione del coagulo, sia durante la fase della sua liquefazione.

Quando si raccoglie il sangue in provetta di vetro esso va incontro alla coagulazione e dopo un pò di tempo il coagulo si ritrae spremendo del siero; successivamente poi, a secondo delle condizioni in cui viene tenuto, il sangue può fluidificare in modo irreversibile, essiccarsi o imputridire.

Sulla base di queste scarne notizie scientifiche non è difficile intravedere una paradossale differenza di comportamento tra un sangue raccolto in provetta e quello, che spettroscopicamente risulta essere tale, contenuto nell'ampolla del reliquiario di S. Gennaro.

In vitro la coagulazione e l'eventuale fluidificazione sono fisse, quelle del reliquiario sono invece variabili come entità; la retrazione del coagulo è costante in vitro mentre è molto incostante nell'ampolla del reliquario, talvolta molto spesso durante la fluidificazione si osserva addirittura la formazione di bolle gassose. Due dati però sono fondamentali per rilevare la differenza netta tra un sangue in vitro e quello contenuto nell'ampolla del reliquiario e cioè il cambiamento di volume e la ricoagulazione senza che vi sia la possibilità di alcuna aggiunta di sostanze al mezzo.

Se, come appare abbastanza evidente già all'occhio nudo, e come l'esame spettroscopico conferma, il contenuto dell'ampolla è sangue allora non sarebbe azzardato dire che esso si comporta come quello che scorre nel sistema vasale in vivo. Infatti solo nel vivente è possibile che alla fluidificazione del sangue possa seguire nuovamente la coagulazione e cioè perché vengono forniti dal fegato nuovamente i fattori consumati.

Da questo punto di vista di fronte al fenomeno «del sangue di S. Gennaro», allo stato, non possiamo dire altro che se veramente si tratta di un fenomeno di fluidificazione e di ricoagulazione di sangue ci troviamo di fronte ad un assurdo biologico laddove è addirittura più paradossale e fenomenologicamente imprevedibile la ricoagulazione rispetto alla fluidificazione.

Ora, di fronte alla liquefazione di questo sangue, possiamo solo concludere di trovarci davanti a qualcosa che non rientra nei limiti della nostra razionalità e che perciò abbiamo definito un assurdo fisico-chimico o biologico. In mancanza di qualsiasi spiegazione logica, anche se abbiamo volutamente usato un linguaggio esclusivamente scientifico, non possiamo però sottovalutare la dimensione spirituale e cioè quella fede che per secoli ha animato milioni di uomini che hanno creduto ed operato all'ombra di questa reliquia di un Patrono sempre invocato nei momenti di bisogno.

Nel corso di questi ultimi due secoli una critica razionalistica e piena di preconcetti ha tentato di smantellare e di ridicolizzare un evento che è parte integrante della storia di Napoli. Al di là di qualsiasi critica però il fenomeno si ripete, ed ancora oggi la scienza non è in grado di dare una risposta.

Emotività, situazioni parapsicologiche, variazioni termiche ed altre cause accidentali, di volta in volta invocate, non rappresentano elementi sufficienti per una corretta interpretazione scientifica del fenomeno.

Ancor meno però tali situazioni potrebbero spiegare il fenomeno della eventuale ricoagulazione che, come già detto, è ancora più importante in quanto presuppone l'aggiunta al mezzo di fattori della coagulazione, consumati nel corso del passaggio del sangue da solido a liquido e viceversa, e che esclusivamente un sistema in vivo potrebbe consentire in quanto solo in esso possono entrare in funzione le sintesi di tali fattori da parte degli organi produttori.

In un sistema in vitro come quello del reliquiario del sangue attribuito a S. Gennaro tutto ciò non può avvenire e quindi le variazioni dello stato sono attualmente scientificamente inspiegabili.

Crediamo allora che forse l'unica cosa che il ricercatore può onestamente dire è che, dopo tanti secoli dalla prima notizia sicura della liquefazione quelle ampolle, a fronte di tante critiche e delle enormi acquisizioni nei vari campi scientifici, racchiudono ancora un mistero che forse all'uomo di oggi, caratterizzato da un razionalismo tanto spinto da fargli dimenticare ogni idea di trascendenza, parla con un linguaggio più eloquente che mai, poiché riesce ancora a porlo dinanzi ad un enigma che nonostante il progresso e le conquiste raggiunte egli non è in grado di spiegare.

La bibliografia é riportata negli atti.

Regno delle due Sicilie
Collezione de' Regolamenti della Real Marina
Anno 1841 n. 266

(n. 6975) Regolamento da impiegare a bordo dei legni e dei bastimenti della Real Marina
Napoli, 20 Settembre 1841
CAPITOLO XIX

Art. 27 - FACITE AMMUINA - All'ordine "Facite Ammuina" tutti chilli che stanno a prora, vann'a poppa e chilli che stann'a poppa vann'a prora; chilli che stann'a dritta vann'a sinistra e chilli che stann'a sinistra vann'a dritta; tutti chilli che stann' abbascio vann' ncoppa e chilli che stann' ncoppa vann' abbascio, passanno tutti p'o stesso pertuso; chi nun tiene nient'a 'ffa, s'arremeni a 'tra e a 'lla.

Ordine: " FACITE AMMUINA !!!"

N.B.: Da usare in occasione di visite a bordo delle Alte Autorita' del Regno

Nota Non si conosce con esattezza l'autenticita' del decreto. Per una piu' corretta informazione di seguito si riporta il link che rimanda alla fotocopia del presunto documento: http://www.skyol.it/pacosparales/regolamento266.jpg.

L'Associazione ATS di Sorrento in relazione al suddetto decreto ha dichiarato:

"Fu inventato da un ammiraglio piemontese nei primi mesi dell'occupazione militare di Napoli e da quel giorno fa bella mostra in tanti quadretti di tanti beoti che si beano dei tanti luoghi comuni sui meridionali e su chi regnò con grande dignità nell'ultimo periodo felice della loro storia"

La stessa Associazione, a dimostrazione della propria tesi, invita a visitare il seguente sito: www.iborbone.com. [http://www.skyol.it/pacosparales/page4.html]

Con questo comando precisamente codificato, l'esercito del Borbone metteva in atto una serie di false manovre militari atte a dimostrare, ad osservatori esterni, la capacità operativa di un esercito che, poi nei fatti, dimostrò al mondo intero la sua inefficienza, facendosi sconfiggere da un migliaio di garibaldini male in arnese. [da http://www.folgore.com/TradizioneParacadutista/caporaledigiornata/faciteammuina.html]

L'articolo sopramenzionato è testimone dell'uso della lingua napoletana quale lingua ufficiale del Regno delle Due Sicilie, nonché del comporamento gioioso, di festa e di disordine al tempo stesso, da utilizzare in occasioni particolari di protocollo. [da http://www.angelfire.com/de2/sadepa/curiosita.htm]

Commento mio Effettivamente io l'ho proprio trovato appeso nello studio di un professore! Nessuno però spiega cosa significa di per sè il termine "ammuìna"; ci penso io dopo aver consultato un dizionario napoletano-italiano alla libreria Guida: significa "chiasso, confusione"; per inciso, "facìte" è accentato sulla i mentre la vocale finale (come è usuale in napoletano; fenomeno che influenza tantissimo la cadenza e l'intonazione napoletana) si pronuncia appena molto sfumata. Curioso come questo modo di dire sia tornato di moda in riferimento al mondo politico o dell'economia (basta fare una ricerca in internet). Ad ogni modo non sono d'accordo con l'osservazione del "caporale di giornata". A mio avviso non si voleva mostrare alcuna capacità operativa, anzi, come dice la parola stessa, si voleva fare della giocosa e gioiosa confusione. Come questo possa essere ammesso e addirittura previsto da un regolamento di Marina non so, ma qui a Napoli tutto è possibile quando si tratta di "fare baracca" (come diciamo noi bolognesi).

Bibliografia

Ne approfitto per fare l'inventario della sezione di storia e cultura locale della mia biblioteca "napoletana". FP: "Fondo Paolone", dono di Paolo Martinelli; P: acquisizioni recenti.

Libri

  1. Vittorio Gleijeses, La guida di Napoli e dei suoi dintorni. Storica artistica monumentale turistica.
  2. Francesco Domenico Moccia & Dante Caporali, Napoli Guida. Tra luoghi e monumenti della città storica [solo centro antico, guida architettonica].
  3. Giovanni Liccardo, Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità di Napoli sotterranea.
  4. Vincenzo Regina, Napoli antica.
  5. Benedetto Croce, Storia e leggende napoletane, a cura di G. Galasso, Adelphi, 1990 [già il Croce ne fece varie edizioni via via ampliate, l'ultima è del 1948].
  6. Ugo Dovere, Il duomo di Napoli.
  7. F. D'Onofrio, P.L. Baima Bollone, M. Cannas, Indagini sul contenuto delle ampolle del reliquiario di S. Gennaro [pieghevole, vergognosamente pagato 1.30 in duomo nel giorno della festa di san Gennaro, 19/IX/2002].
  8. Rosanna Cappelli, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (FP).
  9. Il museo archeologico nazionale di Napoli.
  10. La Certosa e il Museo Nazionale di San Martino [Napoli].
  11. Annachiara Alabiso, Mario De Cunzo, Daniela Giampaola & Adele Pezzullo, Il Monastero di Santa Chiara.
  12. Fazio Macci, Museo Cappella Sansevero [con il Cristo Velato] (FP).
  13. Monumentale Monastero di S. Gregorio Armeno, Napoli [pieghevole].
  14. Cappella e Museo del Monte di Pietà Palazzo Carafa [pieghevole].
  15. Rosalba Manzo, Castel Nuovo. Museo Civico [pieghevole].
  16. Stefano de Caro, I Campi Flegrei, Ischia, Vivara. Storia e archeologia.
  17. Claudio Converso, Campi Flegrei, Vulcano Solfatara, Pozzuoli, Cuma, Baia, isole flegree, civiltà - arte - natura.
  18. Mario Sirpettino, I Campi Flegrei. Guida storica.
  19. Campi Flegrei, mensile, n. 48 [con pianta di Pozzuoli].
  20. idem, n. 49 [con speciale sul complesso residenziale del vicerè don Pedro de Toledo a Pozzuoli]
  21. La Solfatara di Pozzuoli, Vulcano.
  22. Rione Terra, Percorso archeologico.
  23. Amalfitano Paolo, Camodeca Giuseppe, Medri Maura (a cura di), I Campi Flegrei: un itinerario archeologico, Venezia: Marsilio, 1990.
  24. Giovanna Actilio, Antonella Cariati & Vanna Palladino, Procida. uno scrigno sul mare.
  25. Fernando Ferrajoli, Guida di Procida.
  26. Mons. Luigi Fasanaro, Chi li ricorda? Memorie di un Cappellano e dei suoi Carcerati politici e comuni (P) [con dedica dell'autore].
  27. Guide de Agostini, Capri (con mappa 1:12'000).
  28. Gian Marco Jacobitti & Anna Maria Romano, Il Palazzo Reale di Caserta.
  29. La Reggia di Caserta. Guida (FP).
  30. Il Duomo di Casertavecchia (FP).
  31. Nicandro Gnarra & Giovanni Parente, Il duomo e il borgo antico. Casertavecchia (P).
  32. Arte e Storia di Sorrento Amalfi Positano.
  33. Ravello e Scala. Una terrazza sull'infinito.
  34. Villa Cimbrone [di Ravello].
  35. Centro di cultura e storia amalfitana, Amalfi [con mappa della città, dell'entroterra e di Trani] (P).
  36. Giuseppe & Roberto Sabella, Positano [con topografia urbana e della costiera amalfitana] (N).
  37. Arnold & Mariette de Vos, Guide archeologiche Laterza. Pompei Ercolano Stabia.
  38. Antonio Baldi, Napoli geologica (P).
  39. Mario Sirpettino, Il bradisismo di Pozzuoli (P).
  40. e, dulcis in fundo, Antonio Iandolo, Parlare e scrivere in dialetto napoletano.

Nuove acquisizioni:

A cui vorrei aggiungere presto:

Mappe

  1. Campania e Basilicata 1:200'000
  2. Napoli 1:16'000 (con centro storico 1:8'000), Studio F.M.B. Bologna [pessima, con vie ed indicazioni turistiche errate]
  3. Carta escursionistica Penisola Sorrentina. Costiera Amalfitana 1:50'000 (con miniguida)
  4. Carta turistico-stradale ed escursionistica. Isole d'Ischia e Procida 1:15'000
  5. Reggia di Caserta. Piante del palazzo e dei giardini (FP)

Internet

Scusate, questa sezione è ancora tutta da "collegare"... Buon copia e incolla!

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Autori citati

Scrivere una guida turistica

Anche scrivere una guida turistica pone problemi di stile. Una delle cose che più mi ha imbarazzato, e non per via delle ripetizioni che sono inevitabili e volerle evitare crea solo imprecisione, è stata come porsi nel dare le indicazioni su come muoversi e spostarsi. Dovevo rivolgermi ad un turista ideale, di volta in volta istanziato concretamente dal singolo lettore/utilizzatore del testo, dandogli delle indicazioni tipo "arrivato a piazza san Gaetano, gira a destra"? Magari con un po' più di cortesia: "dovresti, se puoi, se nessun'auto sta sopraggiungendo -magari aspetta che passi- girare a destra". Ciò che stona è forse considerare la singola istanza di lettore, farlo sentire solo soletto, mentre magari è in piacevole compagnia o comunque preferisce sentirsi accompagnato virtualmente da tutti gli altri lettori, passati e futuri. Passiamo allora al voi: "arrivati a piazza san Gaetano, girate a destra (uno dopo l'altro, in fila per bene, mi raccomando)". A questo punto, per simpatia, l'autore potrebbe considerarsi nel gruppo, nell'insigne veste di primo e originario visitatore: "se avete finito di guardarvi piazza san Gaetano, giriamo a destra". Qualcuno potrebbe però arricciare il naso e farmi notare che la soluzione più politically correct sia un impersonale "si giri a destra". Quali obiezioni potrei muovergli? Effettivamente l'impersonale ha quel tono di neutralità che sembra il più adatto ad una guida seria, eppure di fatto qualcuno dovrà pur seguire (si spera) quelle indicazioni e questo distacco fra autore e lettore mi dispiace proprio.

Insoddisfatto da tutte queste possibilità, fermo restando che doveva essere una guida vissuta e non una serie di descrizioni prive di raccordo, ho pensato ad una guida-racconto: un narratore esterno che spiega i percorsi fatti da un turista ideale o, ancora meglio, non necessariamente ideale. In questo modo la guida è davvero vissuta, nel senso che posso riflettere nelle emozioni e sensazioni del turista ideale quelle effettivamente sperimentate da me nel vedere quel luogo. Si creerebbe inoltre spazio per aneddoti e digressioni avventurose, possibili (che potrebbero effettivamente ripetersi sul turista lettore) o eccezionali (il cui valore sta nel di-vertimento o per dare un'idea dell'ambiente, un tocco di vita quotidiana). A questo punto avrei risolto tutti i miei problemi narrando in prima persona: "arrivato a piazza san Gaetano, girai a destra" oppure "ci sono stato tante volte, tutte le volte ho girato a destra". Ma, come Eco nel Nome della Rosa, è più piacevole rifugiarsi dietro la penna e narrare con distacco le emozioni di un'altro.

A questo punto sono io a decidere se il mio turista ideale visita in primavera o estate o al mattino invece che al tramonto. Come autore mi si aprono un sacco di possibilità e ambientazioni concrete che altrimenti sarebbero relegate in contesti diversi, brutte frasi tipo "programmando la visita di piazza san Gaetano per Natale, si potrà ammirare una vera e propria distesa di banchetti stracolmi di statuine per il presepio". Ma come posso indicare il protagonista, il turista ideale? Devo battezzarlo, altrimenti non so come chiamarlo in causa tutte le volte che ne avrò bisogno. Nel mio immaginario, il turista-esploratore ideale non può chiamarsi che Paolone: solitario e curisoso, pronto a cacciarsi nei posti più improbabili solo per seguire le indicazioni di una guida poco aggiornata. Ma perché solitario? Perché non creare un gruppo eterogeneo? Paolone, va bene, ma anche ad esempio una coppia, un anziano professore di storia dell'arte o un qualsiasi abitante del luogo che si aggrega e parla fuori dal coro. Così le purtroppo necessarie scelte su cosa visitare verrebbero suddivise fra i personaggi: dopo aver visitato il duomo di Amalfi insieme (con il professore che fa notare agli altri le cose degne di nota mentre gli altri ne noteranno per conto proprio altre secondo la propria indole, e in tal caso potrò limitarmi anche a fargliele solo pensare), Paolone sale per la Valle dei Mulini mentre la coppia va sulla Terrazza dell'Infinito a Ravello.

A causa della mia formazione classica, ho ancora alcune resistenze che mi trattengono dall'attuare questa riscrittura e per ora lascio a malincuore la guida così com'è, disomogenea e chiaramente frutto dei vari momenti in cui è stata scritta.


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Write to <elam@elamit.net>

Grazie a: l'esploratore dell'improbabile Paolo Paolone Martinelli, il mio esperto di latino e napoletanistica Massimiliano Contatore, i compagni di viaggio ideali Sara Guidi e Ivan Mino Minelli.

Napoli, 23-24/V/2002; aggiornamento Campi Flegrei e indirizzi internet 28/VII/2002, da appunti a racconto 13-14.18-19.22/IX/2002; qualche aggiunta in seguito a nuove visite 4/V/2003; iniziata revisione 5/V/2003; riorganizzazione itinerari napoletani (itinerario Napoli 2 mattina completo e razionale; separati itinerari "per vicoli"), notevoli aggiunte in Napoli 1-3 (Certosa, san Gennaro Extra Moenia, Capodimonte, Mergellina, Castel dell'Ovo) e Campi Flegrei (Conca di Agnano, Baia, Bacoli in base agli appunti della visita del 31/V/2003), miglioramenti (Sanità, quartieri Spagnoli, itinerari per il dopocena, Marechiaro, Posillipo) 24-27/VII/2003, infinite riscritture e ampliamenti nell'agosto 2003 (Casertavecchia 13/VIII; Vesuvio ed Ercolano 16/VIII; "Scrivere una guida" 18/VIII).