Dopo un po' di tempo

Relazione sull’incontro di formazione interna con il dottor Giuseppe Franzoni,
psichiatra del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura P. Ottonello di Bologna
di Gian Pietro Basello

Articolo pubblicato su La Voce della Comunità di settembre 1999, periodico di Comunità Speranza.

Dopo un po’ di tempo, dopo tanti altri incontri e nuove esperienze, riprendo un po’ in mano gli appunti che mi sono sentito irresistibilmente in dovere di prendere durante la piacevole discussione con il dottor Giuseppe Franzoni a san Francesco sul finire dello scorso giugno. Allora l’estate era appena cominciata, ora sta lentamente passando alternandosi fra il servizio all’Ottonello (la clinica psichiatrica per i casi acuti) e al Centro san Petronio (la mensa della Caritas per i senzafissadimora).

Fin dai primi giorni di servizio, da povero obiettore capitato senza preparazione e per caso nel complesso mondo della psichiatria, mi ha colpito la possibilità di lavorare subito fianco a fianco con medici di decennale esperienza e straordinaria preparazione. La partecipazione allo staff mattutino (cioè la riunione dei medici con gli infermieri) che all’inizio mi pesava tantissimo, ora diventa sempre più un’occasione eccezionale per imparare, ascoltare e dialogare. Conoscendo già un po’ il dottor Franzoni nell’esercizio pratico della sua attività, mi ha fatto piacere sentirlo parlare in altra sede in termini più generali, nel tentativo di fissare alcune regole guida del rapporto con i malati mentali, regole che vadano al di là dei singoli variegati casi.

Nello stendere questo articolo ho due paure per cui chiedo scusa fin d’ora: la prima è che le mie opinioni non abbiano alcun valore data la mia inesperienza; la seconda è di aver travisato e filtrato a modo mio le parole del relatore.

L’Ottonello è qualcosa di più e qualcosa di meno di un ospedale. Di più, perché i pazienti sono chiusi al suo interno e sono sottoposti a svariati controlli; di meno, perché i pazienti conservano in molti casi una mobilità e una vitalità sociale proprie di una persona sana. Una mia personale suddivisione dei pazienti è fra gli stenici (che hanno forza e vigore, si muovono, parlano e chiacchierano) e gli astenici (quelli che stanno a letto tutto il giorno e che la malattia ha ormai chiuso in se stessi). Mentre per i secondi l’Ottonello è propriamente un ospedale nel senso classico, per i primi assomiglia di più a una specie di pensione (e non sono pochi i pazienti che dicono di essere lì in vacanza o per stare in compagnia). La mia esperienza è limitata ai primi: è con loro che riesco a intrattenermi più facilmente, sono loro quelli che spesso accompagno fuori a fare un giro, sono loro quelli che chiedono mercanzie varie dal vicino supermercato. Come emerse chiaramente dalla conferenza, proprio l’aspetto sociale è preponderante nella malattia mentale: non si deve curare solo l’aspetto "biologico" e fisico della malattia, ma nel contempo aiutare il paziente a reinserirsi in un ambito sociale da cui si esclude o è escluso. Questo, alle soglie del 2000, è vero per ogni tipo di ammalato in genere, ma diventa essenziale nel malato mentale.

La storia stessa della psichiatria prende avvio dalla necessità di far scomparire dalla circolazione persone che, con il loro comportamento particolare, sono mal tollerate dalla società. Da questo punto di vista la stessa definizione di "matto" varia con lo svilupparsi e l’evolversi della società. Considerazione mia: non è un caso che tanti pazienti dell’Ottonello, cioè persone che automaticamente vengono considerate "matte" dalla gente comune, siano oggi malati di depressione, un male che mi sembra tipico della nostra società frenetica e consumistica.

Il dottor Franzoni iniziò subito a impressionare l’uditorio raccontando del vecchio Roncati. Da "bravo" storico, la cosa si fece per me subito interessante. Cosa avveniva negli anni passati dietro quella facciata oggi sbiadita? Quanta sofferenza è passata fra quei muri? Parliamo in fondo solo di pochi anni fa, quando, nel 1963 (cioè all’inizio della carriera del dottor Franzoni) il numero dei ricoverati nelle enormi stanzone suddivise in due interminabili file di letti rasentava il migliaio. Fu la legge 180 a sbloccare una psichiatria ormai ferma al 1904, quando una semplice dichiarazione dei parenti o del medico bastava per rinchiudere una persona per tutto il resto della propria vita. I malati allora avevano ben pochi diritti e le tante moderne lamentele di reparto sono sicuramente niente in confronto. Nel frattempo avvenne la depenalizzazione di chi era ricoverato in manicomio (da pericolo pubblico a semplice "matto") mentre aumentava sempre più il numero delle medicine disponibili, a partire dal mitico Largactil degli anni ’50. Una parentesi sull’elettroshock: l’Ottonello fu tra i primi a non praticarlo più in Italia. In realtà si tratta di una pratica utile in certi casi, come quando si spinge il tasto reset su un computer bloccato.

Nel 1978 arriva finalmente la legge Basaglia. Non tutti compresero subito la sfida rappresentata da questa legge, che dava i presupposti giuridici e legali su cui ricostruire una parvenza di vita a persone rinchiuse da anni e anni fra le mura dei manicomi. Alcuni dottori, per ripicca, sbatterono fuori indiscriminatamente pazienti la cui esistenza era ormai limitata alla propria camera, al salone da pranzo e alla compagnia di altri "matti". Un simile cambiamento dalla la vita dentro a quella fuori doveva essere invece programmato gradualmente, prestando sempre attenzione a fin dove poteva arrivare il paziente di volta in volta. Bisognava (e bisogna ancor oggi) aiutare il malato a trovare il proprio stile e tenore di vita all’interno di un determinato ambiente, in modo da essere tollerabile a sé e agli altri.

Infatti, se oggi non si rinchiude più il matto bollandolo come pericolo pubblico, il malato mentale rimane comunque una persona mal tollerata, specie in città (ambiente più spersonalizzato, al contrario della campagna). Ma, rigirando il discorso, quanto influisce un certo ambiente nell’insorgere di una malattia mentale?

Secondo il dottor Franzoni rimane forte una componente congenita, che magari si esprime solo in determinate condizioni mentre in altre rimane nascosta permettendo una vita normale. Anche il professor Giordani dice spesso che la maggior parte dell’umanità è potenzialmente schizofrenica. Considerare congenita ogni forma di malattia mentale è tranquilizzante: si tratterebbe di una specie di peccato originale che solo alcuni hanno, mentre la maggior parte non ha. Ma non è così semplice. Di congenito c’è forse la predisposizione alla malattia. Poi può arrivare un elemento scatenante, proveniente dall’ambiente famigliare o sociale, che fa esplodere la malattia esternamente. Un ulteriore gradino è varcato quando il malato mentale diventa talmente "pazzo" da compiere gesti totalmente incompatibili con la società odierna.

Una paretimologia (falsa origine di un nome) collega suggestivamente il termine "matto" a "mattatoio", il luogo dove si uccidono gli animali. Il "matto" sarebbe quindi la vittima sacrificale, il capro espiatorio su cui ricadono le tensioni dell’ambiente. Effettivamente il malato mentale è estremamente sensibile e spesso coglie molto bene le mie ansie e preoccupazioni nei suoi confronti, quando, ad esempio, mi trovo ad accompagnare persone di cui temo certi comportamenti. Oppure, semplicemente stando in reparto, capita che qualcuno indovini esattamente il pensiero in cui ero assorto.

Ci fu un periodo in cui la colpa della malattia era data esclusivamente ai genitori e quindi all’ambiente famigliare. Ultimamente la psichiatria si è trasformata forse un po’ troppo in biologia: ma le medicine da sole non bastano, perché ritorna in ballo l’influsso dell’ambiente e io direi, implicitamente, anche un rapporto di accettazione e dialogo da parte dei "normali".

Negli anni ’70 il dottor Franzoni fu tra i protagonisti di un’esperienza molto particolare: a Bologna si erano quasi aboliti i farmaci e si facevano spesso assemblee di reparto con tutti i pazienti, medici, infermieri e persino cuochi e personale ausiliario. Il tema era la difficoltà di stare insieme. Altri, come il professor Giordani, furono più critici verso questa esperienza. Pensando ai recenti problemi della vita di reparto dell’Ottonello, vorrei chiedere: perché questa esperienza è tramontata? E’ davvero improponibile oggi (magari con ritocchi e adattamenti)? In tutti gli ambienti in cui mi sono trovato (parrocchia, Centro san Petronio, Ottonello, comunità…) mi sembra che il problema centrale (e inevitabile in parte) sia la comunicazione, cioè la condivisione di informazioni (dati, seppur filtrati da ognuno) da una parte e lo scambio di pareri (opinioni) dall’altra. Si tratta di un problema comune ad ogni ambiente di lavoro, acuito qui dalla particolarità dei pazienti i quali si insinuano spesso nelle discontinuità approfittandone.

Mentre lavorava nei servizi territoriali a Borgo Panigale, il dottor Franzoni cercò di prevedere i possibili Trattamenti Sanitari Obbligatori (cioè i ricoveri obbligati in seguito a crisi acute) dei suoi pazienti, ritenendo che qualsiasi fatto patologico potesse essere previsto (anche un raptus). Seguendo i pazienti a rischio fin da lunedì, si evitava il classico ricovero fra venerdì e sabato. Ancora oggi attorno al paziente problematico si riuniscono tutti gli operatori: quando tutti si interessano o seguono un certo paziente, i risultati non tardano. Il problema è che, a volte, sono solo i casi più particolari che riescono a coagulare l’attenzione di tutti i medici e degli infermieri.

Infine, alcune osservazioni sul rapporto personale con il malato. Un proverbio dice che la ragione è dei matti, nel senso che al matto si dà ragione (per paura): così facendo non si fa altro che aumentare la loro insicurezza. Più volte mi sono però trovato a ripensare in altro modo questo proverbio: il malato mentale riesce a vedere le cose da una prospettiva solitamente preclusa a noi "normali", una prospettiva più semplice e priva di certi condizionamenti cui noi sottostiamo senza accorgercene.

Finora ho sempre parlato di "matti"; ora ho parlato di "normali". Ho usato volentieri le virgolette perché, dopo alcuni mesi di servizio, ho capito bene che si tratta di suddivisioni pericolose che implicano spesso un giudizio di valore a priori del tutto infondato. Nella realtà, con un po’ di tempo, creare un rapporto alla pari non solo è doveroso ma nasce spontaneo. Spesso si tratta di persone che hanno vissuto e in un qualche modo tollerato situazioni per me impensabili e insopportabili.

Allo stesso tempo con certi pazienti bisogna giocare, cioè interagire e sforzarsi di capire in continuazione quali messaggi più o meni consci ti stiano lanciando. A volte bisogna cercare di seguirli nel loro mondo fittizio e immaginifico, dandogli così un appiglio cui aggrapparsi.

Un altro errore è permettere loro di sfuggire a certe convenzioni sociali: quella che a prima vista può sembrare cortese tolleranza ("non è in grado di intendere e volere") li isola sempre di più, relegandoli in un mondo dorato che stavolta è davvero quello dei "matti", cioè il mondo creato dai "normali" per esclusione dal loro mondo. In realtà ogni "matto" è un mondo a sé, cioè una persona unica e irripetibile come ogni persona "normale".

Insomma, al di là di cause e diagnosi sempre difficili da definire e ordinare consequenzialmente, bisogna aiutare il malato a trovare un livello di vita in cui si accetta e si fa accettare dagli altri. Spesso la guarigione non si ottiene restaurando un paziente nel suo status iniziale (che forse è proprio quello che ha dato origine o scatenato la malattia), ma trovando insieme quella nuova combinazione di elementi che risulta man mano praticabile e tollerabile. Da un certo punto di vista tutti noi siamo radicati in un ambiente (casa, lavoro, amici) che sentiamo nostro e tutti noi ci sentiamo bene quando le cose vanno come vogliamo noi.

Vorrei concludere toccando per un attimo l’argomento della carità cristiana, così come la sto maturando in questi mesi di servizio alla Caritas, e lo faccio, mi si perdoni, sfruttando ancora una volta una frase del dottor Franzoni, quella con cui aveva aperto la discussione: "Considero il mio lavoro non come una missione, ma come una cosa che mi piace e mi appassiona". In ambito cristiano si cade spesso nel tranello della missione da compiere, del grande obiettivo da raggiungere, magari lontano da noi. In realtà, pur puntando in alto, bisogna guardare chi ci sta intorno (prossimo significa etimologicamente "il più vicino") avendo anche il grandissimo coraggio di cambiare o deviare (magari temporaneamente) i nostri obiettivi man mano che se ne presentano di più urgenti, concretizzabili e vicini.


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versione HTML san Giovanni in Persiceto, 8/VII/2000; Napoli, 24/IX/2002 (foglio di stile)