“Il Giornale” 27 Aprile 2003

Craxi sui gradini del Raphael

nella notte della gogna pubblica.

 

Filippo Facci

 

Cos'è questo casino?». La stanza di Craxi non ha l'affaccio sulla strada. «Chi c'è giù? Cos'è questo casino?». Il casino è che in tutte le città d'Italia in quel momento ci sono miglia­ia di manifestazioni contro di lui, e occupa­zioni, presìdi, sit-in, proteste, i centralini del Parlamento e dei quotidiani ingolfati di stre­piti, forze politiche che fanno a gara nell'improvvisare comizi, la sua casa milanese di via Foppa assediata, Montecitorio circondato di bandiere e cartelli e striscioni, Piazza Colonna sigillata dalla Polizia come può esserlo un groviera, commercianti che hanno svuotato le vetrine per protesta, la sedi socia­liste e democristiane dello Stivale presidiate come ai tempi del terrorismo, la sede di via del Corso irraggiungibile, Nando Dalla Chiesa che a Milano si è arrampicato su una sta­tua ad arringare i suoi, il missino Riccardo De Corato che si è ammanettato davanti all'ufficio craxiano di Piazza Duomo dove già' rumoreggiano centinaia di persone, l'altra missina Cristiana Muscardini che nel frattempo è a San Babila a comiziare, il socialista Ugo lntini che è stato preso a sassate durante un'intervista, i verdi milanesi che hanno tirano monete e oggetti contro il Psi di Corso Magenta, decine di università che sono state occupate dagli studenti talvolta con l'appoggio dei rettori, come a Venezia, con il presidente della Camera Giorgio Napolitano che proprio quel giorno era in visita all' ateneo di Cagliari così trovando, nell'aula Magna, questo striscione: «Legate Craxi, sciogliete la Camera». Ecco, succedeva questo. Poi, vabbè, c'è il presidente dei giovani industriali Aldo Fumagalli che ha chiesto agli associati di manifestare “contro una delle pagine più nere della storia, un pericolo per la democrazia» c'è, il cardinal Martini invita i cittadini «alla veglia dei lavoratori», c’è l’Arci che parla di «scempio delle istituzioni democratiche», la Lega delle Cooperative di «rischio per la tenuta democratica del Paese», e comunicati similari di Confartigianato, Confesercenti, varie associazioni di categoria che si appellano alla «vigilanza» e talvolta a «scendere nelle strade», metalmeccanici di tutto il paese che proclamano due ore di sciopero, i liceali che nondimeno manifestano e saltano le lezioni, decine di comunicati delle Federazioni socialiste di tutt'Italia che invocano la sospensione di Craxi dal partito - la sospensione del Partito dal Partito, in pratica - c'è il segretario nazionale Giorgio Benvenuto che giura che Craxi non sarà più rimesso in lista, i giovani socialisti di Firenze che hanno occupato la federazione locale, il vecchio avversario Pietro Mancini che scrive una lettera a Francesco Saverio Borrelli dopo aver contribuito all'invio del primo avviso di garanzia al leader socialista, la creatura craxiana Carlo Ripa di Meana che indica Dc e Psi come «complici di chi ha spogliato l'Italia» meritandosi feroci battute d'ambito familiare, circola una foto di Gianni Vattimo seduto a terra con dei ragazzini delle scuole medie e con appesa al collo la prima pagina di Repubblica! c'è Repubblica, il titolo più grande della sua storia, «Vergogna, assolto Craxi», con Eugenio Scalfari che riesce a scrivere: «Dopo il rapimento e l'uccisione di Moro è il giorno più grave della nostra storia repubblicana... Forse c'è addirittura un filo nero che lega uno all' altro questi due avvenimenti». Il filo, per intanto, ha lo spessore di una corda: Giorgio Forattini la disegna annodata al piede di un Craxi raffigurato a testa in giù, come a piazzale Loreto. In basso a destra, sul quotidiano di Scalfari, si annuncia invece un comizio di Achille Occhetto in Piazza Navona, ore 18. L'Unità ossigenata da Primo Greganti pubblicizza il comizio a pagina 6: «Contro il vecchio regime e i colpi di spugna», con ItaliaRadio che invita a una presenza massiccia. Per le strade e nelle piazze, dopotutto, è come se al novantesimo della finale di Coppa del Mondo avessero negato un rigore alla Nazionale: si è come se al novantesimo della finale di Coppa del Mondo avessero negato un rigore alla Nazionale: si legge del postcomunista Gavino Angius che invoca «la protesta democratica e la lotta degli operai, degli studenti e dei cittadini per una rigenerazione morale». Sapori antichi. Occhetto, su Raitre, chiama a raccolta quel che resta dei socialisti: «Unitevi a noi».

Solo un anno prima implorava Craxi, per iscritto, affinché accogliesse il Pds nell'Inter­nazionale socialista. I giornali evidenziano un rilevante intervento dell' allora bancarottiere Carlo De Benedetti («È il colpo di coda del regime») mentre Silvio Berlusconi, intercettato vicino all'Hotel Raphael da una sua emittente, certo non badava ai consensi, non allora: «Sono amico di Bettino da vent'anni e da amico, personalmente, sono contento per lui: mi sembra che basti. Che rispetto potrei avere di me stesso, se dovessi voltargli le spalle nel momento della cattiva sorte?». A Marco Pannella, nel pomeriggio, è andata decisamente peggio. I missini stavano manifestavano in Via Colonna e lui era stato visto come un provocatore: «Sei un infame socialista» gli aveva urlato un tizio; «È colpa tua se mio figlio si droga» gli aveva detto un altro, e lui, che è Pannella: «Ora che l'ho vista capisco perché l' ha fatto». Qualche schiaffo, tafferugli, pannellate.

Quel giorno, 30 aprile 1993, succede an­che questo. Ma Bettino Craxi forse non lo comprende ancora. Forse ha visto solo il Tgl della sera prima, dove il brillante Luca Giurato, in apertura, aveva parlato del governo Ciampi senza neppure citare le mancate autorizzazioni a procedere per Craxi che l'avevano quasi ucciso, con in seguito un fondamentale servizio sul Settuagenario di Gino Giugni e nessuna menzione per quanto andava montando nel Paese, nessuna percezione di una tensione sociale che si era alzata come non accadeva da lustri. Il primo ad aver capito che cosa stava succedendo, al solito, era stato come Emilio Fede, anche se a saltare in groppa i fatti avrebbe fatto in tempo solo Enrico Mentana sul Tg5. Forse Craxi non l'aveva visto, forse non aveva letto neppure i giornali: si era perso i raggelanti editoriali di tutti i quotidiani (impossibile citarli tutti, ma ne varrebbe la pena) e forse neppure aveva letto la stampa internazionale lo spazio inusitato dedicato al suo caso, il supplemento di El Paìs titolato «Porca Italia», persino l'agenzia Nuova Cina che lo aveva menzionato. Il voto del Parlamento dopo tutto aveva provocato una ripercussio­ne negativa sui mercato finanziario, con la lira che a New York era colata a picco sul dollaro e sul marco. È lo stesso clima in cui Borrelli, di lì a poco, in un'intervista al Grl, si sentirà autorizzato a stimolare la pubblica delazione: il cittadino può rivolgersi alle autorità «presentandosi come confidente, la sua identità non verrà rivelata». Poi smentirà e spiegherà che delatore e confidente sono termini diversi, non è la stessa cosa. Il procuratore capo, circa Craxi, aveva già chiarito che «La decisione del Parlamento sembra studiata per sottrarre Craxi a una pro­spettiva di condanna». Aveva annunciato un ricorso alla Corte costituzionale. A Palazzo di Giustizia, intanto, il procuratore generale Giulio Catelani stava parlando con la stampa straniera: «La nostra è una rivoluzione legale, e quando si fa una rivoluzione non si torna indietro».

«Cos'è questo casino?». Craxi intuisce che qualcosa non quadra circa alle sei del pomeriggio. «Perché non li cacciano?». A Largo Febo, dove c'è l'Hotel Raphael in cui dimora dagli anni Settanta, riecheggia l’audio dei comizianti di Piazza Navona: è distante poche decine di metri. Si erano sentite le note di La storia siamo di noi e le voci di Giuseppe Ayala e Francesco Rutelli, poi di Occhetto. Il cielo si sta abbrunendo e intanto davanti al Raphael c’è sempre più gente, affluiscono da Largo Zanardelli, dal comizio. Craxi chiama tre volte la segretaria Serenella Carloni che altrettante volte chiama Vincenzo Parisi, il capo della PoÌizia, il quale tranquillizza e rassicura. Non è assolutamente chiaro come possano aver concesso una piazza antistante la residenza di Craxi proprio in un giorno come quello., ma cosa fatta capo ha. Peccato che la situazione si stia facendo angosciante, anche se tra i primi poliziotti che accedono dentro e fuori l'hotel è palpabile una certa insofferenza, un paio sono in borghese e passeggiano nella hall con le manette alla cintola come neanche Pecos Bill. Forse sarebbe bastato bloccare le vie di accesso all’albergo, ma ormai è tardi. La folla s’ingrossa. E fa casino. Si sente una specie di boato: è finito il comizio e Occhetto ringrazia. Craxi anche.  Arriva il grosso della gente arginata da due cordoni di celerini e tre blindati in tutto, con un militante della Rete che distribuisce volantini anche ai poliziotti. La proporzione delle forze è ridicola. Dall'Hotel esce Bruno Vespa che ha intervistato Craxi. Il Tg2, exTelegarofano passato ad altri lidi, viene rispedito al mittente: "Ditegli di invitarmi a Pegaso» ironizzaCraxi. Là fuori intanto sono arrivate anche frotte di fotografi e cameraman. È quasi, buio e la folla grida, grida continuamente: «Sei fi-ni-to, sei fi-ni-to», «In ga-le-ra, in ga-le-ra», , «su-i-ci-dio, su-i-ci-dio», «Bettino, Bettino, il carcere è vicino». I poliziotti, nella hall, hanno perso quella certa arietta di sufficienza e forse cominciano a temere di non poter controllare la situazione. Nicola, l'autista di Bettino, fa da tramite tra loro e il suo leader che è sempre chiuso nella sua stanza. Un tizio in borghese prova con Luca Josi: «Dovete convincerlo a uscire dal retro». In effetti c'è una' piccola uscita, sul retro, assolutamente anonima: sbuca in una vietta che dà su Via dei Coronari. «Se vuol provare a dirglielo lei…» risponde Josi. Si sente un botto: è Craxi che ha dato un calcio alla porta del­l'ascensore. Si si mette a posto la cravatta e si avvicina a un gruppo di turisti: «Scusate per tutto questo casino». Gli andava sempre il sangue al cervello per un niente, ma poi, nei momenti difficili, recuperava una fred­dezza animale. È imbarazzato, gli dispiace anche per il suo Raphael, ne era sempre sta­to l'orgoglio, è imbarazzato per quegli ospiti stralunati che sono seduti nel salottino; uno sguardo verso la porta'a vetri: «Non voglio­no la mia fine politica, vogliono la mia fine e basta, vogliono il rogo. Andatevi a rileggere la Colonna Infame». Ha un appuntamento con Giuliano Ferrara previsto per le venti, deve registrare un'intervista che trasmetteranno a metà serata su Italiauno. Con lui, al solito, c'è Luca Josi che sta scrivendo appun­ti sui suoi quadernetti. «Io la capisco, la piaz­za -dice Craxi -ma non mi devono parlare a nome della gente, la gente deve avere un nome e un cognome. Il problema è chi sta sul palco, non chi sta nella piazza. Se io so­no un ladro, loro, allora, sono ladri e bugiar­di». Parla degli ex comunisti, ovviamente. «Io non faccio come quei segretari che fan­no finta di niente, che vengono dal paese dei balocchi. I finanziamenti ci sono stati, abbiamo commesso degli erro­ri, ma per me è ancora più im­morale chi prevedeva finanzia­menti dal blocco politico che era awersario del nostro paese, dal Pcus, dal Kgb». Il capetto dei poliziotti fa un altro tentativo: «Dovete convincerlo a uscire dal retro». Craxi nel frattempo si è avvicinato alla vetrata con un sorriso ne beffardo, ha attraver­sato il nugolo dei poliziotti che si è aperto come le acque di Mo­sè. «Dice che dovresti uscire da dietro», fa Nicola. Craxi si volta di tre quarti, non guarda nemmeno il capetto, cambia so­lo inclinazione della faccia, chiede: «La mac­china è pronta?». «Sì», «Bene». Una pausa. «Allora andiamo». Carica la giacca blu sulla spalla e un poliziotto si precita alla porta, passa Craxi  e dà un altro calcione tipo Saloon, è fuori, è un boato. La sera è illumi­nata a giorno da flash e faretti, a guardarla in televisione sembra un primo pomeriggio, eccolo, eccoli, salgono sulla Thema marron­cina, Nicola alla guida, il fotografo Umberto Cicconi affianco, Craxi e Josi dietro, e volano urla, sassi, monetine, accendini, pacchetti di sigarette, un ombrello, Cicconi sanguina alla testa, Josi si è preso qualcosa in un occhio, Craxi niente, sorride, è pazzo, e intanto sono pugni sul vetro, colpi di casco e sacchetti di sassi sulla carrozzeria, non c'è filtro tra l'auto e i dimostranti, i poliziotti sono tutti spersi o tra­volti, via, si parte, via, Craxi sorride ancora rivolto al finestrino, «tiratori di rubli» gli mormora.

Più. tardi le auto arrivano al Centro Palatino di Canale5 che sono esattamente le 20 e 18. Ci sono fuori dei ragazzi, aspettano che alcune smutandate escano da un programma di Gianni Bon­compagni. Ecco, riconoscono Craxi, d'accapo: ladro, ridacci i soldi, solita storia. Entrano le auto, scende lui: «C'è in giro un po' di squadrismo» dice ai giornalisti. Ora è proprio buia, non c'è più. un filo di luce. L'intervista con Ferrara non avrà molto ascolto, ormai il cono d'ombra è di un nero siderale. Andrà assai meglio, sui Raitre, una strana puntata di Babe­le, teorica trasmissione di libri in cui Corrado Augias inscenerà una sorta di processo craxiano rappresentato dalla seguente accusa: Vittorio Feltri, Sandra Bonsanti e Paolo Flores D'Arcais. La difesa: Ugo Intini. E basta. Chissà chi ha vinto. Seguirà semirissa al Costanza Show: Umberto Bossi, Gianfran­co Fini, Francesco Rutelli, Giuseppe Ayala e altri garantisti. Il titolo del Resto del Carlino del giorno dopo: «Craxi assediato, fa la vittima». Un frammento del Corriere della Sera: «L'hotel Raphael era un fortino inespugnabile». Era il 30 aprile 1993 e Bettino Craxi vivrà comunque sino al nuovo millennio, sino al 2000, ma lo farà come una di quelle stelle di cui s'intravede una luce che è di un altro tempo. Si spense quel giorno.