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Genesi e significato dei sentimenti

 

Evocazione d'immagini

 

 

 

L'amore appartiene per sua natura alla sfera dell'indicibile; come tutto ciò che ha a che fare con l'anima, con la dimensione più profonda e segreta dell'essere, è vicino al mistero, si accompagna al silenzio. Superare la barriera dell'inesprimibile, dare forma, corpo all'indicibile è un'impresa folle, 'piena di paura', in cui soltanto gli artisti, i poeti si sono cimentaci da sempre. L'indagine psicologica si arresta spesso a un tentativo di pseudocomprensione razionale, che tradisce e violenta la realtà dell'anima. Per sollevare il velo con cui l'anima copre la sua essenza, è necessario procedere con rispetto e trepidazione. Cogliere le mille, cangianti sfumature con le quali incontriamo l'altro, addentrarsi nel labirintico mondo immaginale, significa abbandonare ogni prospettiva unilaterale, per dar voce a tutti i 'daimones' che ci abitano.

In questo viaggio misterico attraverso l'amore ciascuno incontra l'altro, e dietro l'altro se stesso. Scrivere dell'amore vuol dire allora confrontarsi con l'inesplicabile, raccontare un'esperienza misteriosa e sovvertitrice, dare voce ai propri fantasmi. Tuttavia, poiché la lettura è reinvenzione del testo, traduzione del mondo immaginario dell'autore nel proprio, ecco che il lettore si trova a incontrare non tanto le immagini di chi scrive quanto le proprie. Ogni discorso sull'amore diventa così il proprio discorso, la confessione più intima.

Il vantaggio che il linguaggio poetico ha su quello psicologico é il suo accingere immediato alle immagini dell'anima. Come il profeta, il poeta rende muto il suo Io per dare voce al `demone', cosicché colui che legge può dialogare direttamente con il dio che abita in lui.

Uno dei fenomeni caratteristici dell'esperienza amorosa, che si impone subito alla nostra attenzione, è l'adesione immediata all'oggetto: la presenza, la vicinanza dell'altro ci catturano con una intensità e un'immediatezza che non è possibile riscontrare in nessun altra modalità dell'esistere. David (1971) paragona infatti l'innamoramento allo stato ipnotico. Proprio come accade nel rapporto tra ipnotista e ipnotizzato, la relazione amorosa provoca una fissazione della libido sull'essere amato, che rende l'innamorato come "stregato" e ossessionato dall'immagine dell'altro. Questo vissuto presenta un carattere improvviso, irreale, quasi compulsivo.

Platone parlava addirittura di "delirio divino", e così anche i primi versi del frammento di Saffo ("A me beato sembra come un dio / l'uomo che siede a te dinanzi, ed ode / da vicino le tue dolci parole") esprimono una sorta di rapimento estatico.

Di fronte all'amato l'amante prova un senso di incredibile pienezza e, contemporaneamente, ha il sentore di aver vissuto fino a quel momento in uno stato di privazione: la sua presenza è fonte di un benessere che sembra avere possibilità inesauribili. L'esperienza sembra dirci che è la vicinanza a provocare il turbamento: qualcuno o qualcosa verso cui lo sguardo si dirige ci cattura. Ma in verità l'amore vive e si alimenta di ciò che accade in noi, della nostra interiorità. L'essere su cui ho fermato i miei occhi e il mio desiderio assume per me un significato unico: è insostituibile perché soltanto egli può evocare in me delle dimensioni interiori profonde e particolarissime.

Bataille (1957, p. 35) rileva che, nell'erotismo, anche se si tende senza posa alla scoperta di un oggetto di desiderio posto al di fuori di se stessi, si viene poi catturati, rapiti, da un oggetto che sembra essere dotato della qualità straordinaria di corrispondere esattamente all'interiorità del proprio desiderio. Lo stato di innamoramento ci pone sempre di fronte a qualcosa di incomprensibile. L'altro è atopos, cioè `inclassificabile', perché la sua distinzione implicherebbe anche la sua conoscenza.

Per tutta la durata dell'innamoramento, il tentativo di porsi di fronte a ciò che è pieno di segreti e di fascino rappresenta, in realtà, il tentativo di tradurre quel mistero e quell'attrazione sovvertitrice in una esperienza nota e comprensibile. Ma allo stesso tempo, pur cercando di capire, di "squarciare un velo", non vorremmo mai abbandonare del tutto quell’illusione che, abbagliandoci, permette e sorregge il nostro innamoramento.

Come afferma Kierkegaard (1843 a, p. 99): "L'amore ha molti misteri, e questo primo invaghimento è anch'esso un mistero, e non il più piccolo". Si rimane in questo stato fino a quando l'altro non è afferrabile dalla propria dimensione spirituale. Prima di quel momento qualcosa mi spinge a interrogarmi sul valore che per me riveste quel volto. In quanto portatore di un significato interiore, del mio stesso significato, l'altro diviene l'unico interlocutore vero, il solo a cui poter rivolgere delle domande e da cui attendere sempre una risposta concreta, anzi la risposta. L'intensità e l'esclusività del rapporto d'amore trasformano, vivificandolo, il modo con cui interpretiamo sia la realtà esterna sia quella interiore. È come se una nuova moltitudine di immagini, di percezioni, di emozioni, riempisse i nostri canali sensoriali, aprendo all'anima un'altra dimensione. Chi almeno una volta non si è immerso in questa esperienza rimane così tagliato fuori dal mondo dello spirito e da quello della carne. L'amato diventa una figura che spinge alla ricerca di una mia verità interiore.

Bataille (1957, p. 28) scrive, con parole bellissime, che per colui che ama l'essere amato è la trasparenza del mondo. Nell'esperienza amorosa l'amore può illuminare di significato qualsiasi aspetto dell'esistenza sia fisica che psichica. Lo scrittore francese Bousquet (1941, p. 80) riesce a cogliere con grande acutezza questa verità, quando afferma: "Ed io non sono che il lato oscuro di una vita in cui la luce è coscienza del mio amore". Ciò può avvenire soltanto quando l'altro, la cui immagine mi ossessiona come un pensiero dominante, orienta incessantemente nella `sua' direzione la mia vita psichica. La potenza di questa fascinazione è racchiusa nella misteriosità dell'oggetto d'amore, nella sua indefinibilità. L'amato è sempre "quell'oscuro oggetto del desiderio", che non si lascia ridurre, esaurire o banalizzare. La vitalità che noi sperimentiamo quando amiamo deriva dalla nuova disposizione alla `ricerca', suscitata e alimentata dal desiderio. La capacità di mantenere viva un'esperienza d'amore dipende dalla possibilità di condividere con l'altro quell'arricchimento interiore che scaturisce dalla relazione. Da un certo punto di vista, amare è un autentico lavoro psicologico, il più impegnativo che esista, proprio perché attiva in noi una nuova possibilità di conoscenza del mondo. Se, a esempio, si vive per venti o trent'anni in un clima di mancanza d'amore, nel momento in cui si incontra questa dimensione si deve imparare a fronteggiare un intero mondo che sembrava ormai familiare e che invece d'un tratto ha assunto una fisionomia differente. Questa diversità che pare venirmi dall'altro da cui mi sono lasciato involontariamente catturare ha reso me diverso, e ora il mio stesso modo di guardare, la mia stessa capacità di vivere quell'esperienza, si sono trasformati.

 

Quando entra in scena il desiderio, il corpo prende il sopravvento: "subito nel petto / sbigottisce il mio cuore: se io ti vedo / solo un istante, subito la mia /voce si spegne". Nel guardare la persona che amiamo, nell'accarezzarla con lo sguardo, nel contemplarla, o anche nello scrutarla intensamente, quasi volessimo cogliere il segreto che ci lega e ci disorienta, forse cerchiamo in quei segni il nostro passato. Il turbamento e il desiderio suscitati dalla vista dell'altro a dicono tuttavia quanto sia impellente la necessità di ricongiungersi a ciò che sembrava perduto e che ora appare in sembianze nuove e ancora più attraenti.

 

Non appena veniamo mossi dal desiderio, insieme alla voce é l'intera realtà che si spezza. La realtà esterna, così vistosa e ingombrante fino a quel momento, si defila e scompare, e al suo posto, come cambia la scena su un palcoscenico girevole, si insedia una realtà fantastica, un nuovo universo, al centro del quale stanno le due persone coinvolte nel rapporto amoroso.

 

Dal loro punto di vista quell'universo è l'unico plausibile; ma solo da quel punto di vista, come c'è un solo punto dal quale ognuna delle due braccia dell'immenso colonnato della basilica di San Pietro costruito dal Bernini appare composta da un'unica fila di 32 colonne anziché da 32 file di quattro colonne ciascuna. Per tutti gli altri, che ovviamente non possono vedere le cose da quell'angolazione così particolare, il mondo di coloro che si amano è aberrante e inesplicabile.

 

Possiamo scorgere l'inevitabile violenza a cui ci espone il rapimento amoroso. Abbandonarsi al potere dell'Eros incrina, e spesso spazza via, tutti i precedenti punti di riferimento. L'amore rende soli, poiché viene meno la sintonia con gli altri esseri umani, la comunicabilità della propria esperienza L'unico linguaggio possibile rimane quello dell'arte, della poesia, che coi suoi misteriosi poteri alchemici riesce a esprimere ciò che altrimenti rimarrebbe per sempre celato.

 

Accorgersi di non essere compresi è sempre un'esperienza inquietante, ma anche esaltante, perché ci fa sentire davvero unici al mondo, `individui'. La controprova della nostra unicità ci viene fornita dal sentirci amati dall'altro, a sua volta unico, la sola persona che per noi, in quel momento, conti qualcosa. L'unicità dell'amato si incrocia così con la nostra unicità. E l'incontro di due unicità non può che dare luogo a un rapporto irripetibile. Ecco perché è profondamente giustificata, allorché quel rapporto finisce, la nostalgia, la sofferenza per qualcosa che è andato davvero perduto, poiché nessun nuovo incontro potrà ridare vita a quella stessa esperienza.

 

Finché dura, l'amore viene vissuto come qualcosa di definitivo, di perenne. Quando si é attraversata un'esperienza d'amore sino alla fine, che ci sia o no una fine, sappiamo che il senso della dimensione amorosa si accompagna al senso dell'eternità. Nessuno può amare pensando che quel sentimento finisca, nessuno può amare pensando che quell'esperienza sia limitata nel tempo. Se si vuole vivere l'infinito psichico, l'aspetto che trascende i limiti della nostra esistenza, si deve entrare nella dimensione amorosa. In quel momento noi perdiamo il senso delle cose. Ma è un bene che sia così, noi dobbiamo perderlo. Questo nostro essere fuori dalla realtà quotidiana, rinchiusi in ciò che David (1971, p. 146) definisce un "narcisismo a due", spinge gli altri a coalizzarsi contro di noi. Siamo "persi" per i loro vissuti, abbiamo disertato, siamo passati a un mondo diverso, "straniero" per loro, incomprensibile e perciò temibile.

 

L'amore è caratterizzato da un'alterazione del nostro rapporto con la realtà. In termini psicologici essere "alterati" significa che l'assetto psichico di cui eravamo portatori fino a un momento fa ha esauritola sua funzione. Non avremmo potuto calarci in una tale situazione se la nostra struttura psichica non avesse consentito la possibilità dell'alterazione. È necessario lo stravolgimento generato dall'amore, perché atteggiamenti apparentemente rigidi possano dissolversi come neve al sole.

Un'antica storia d'amore araba, ripresa dal poeta persiano Nezàmi (1985), narra di un giovane principe Qeys, la radice del cui nome rimanda all'idea di misura, equilibrio, che, dopo l'incontro con la bella Leylà, la "notte", 1' "oscura", quando il loro amore verrà contrastato, prigioniero del suo delirio amoroso, erra per anni, fino alla morte, nel deserto, vicino all'accampamento della donna amata. Perciò egli verrà da tutti chiamato Majnùn, il "Folle" d'amore. Come Giulietta e Romeo simboleggiano nell'immaginario occidentale il binomio Amore‑Morte, così Leylà e Majnùn rappresentano nella tradizione orientale la coppia archetipica dell`amour fou, della passione che si muta in follia. Il folle è infatti colui la cui mente è stata ottenebrata. E Leylà, l'oggetto d'amore, nella sua duplice forma di donna e di notte, è colei che avviluppa, che avvolge nelle sue "ombre". Leylà è paragonata alla luna, la cui luce crea orme illusorie. L'amore si configura allora come una rigenerazione di immagini, di "daimones" che, proprio con il loro dirompente potere, alterano, distruggono ogni misura, ogni equilibrio.

 

Una persona attenta e sensibile riesce sempre ad accorgersi se l'interlocutore si trova in una situazione d'amore, perché chi è immerso in questa dimensione ha una tendenza particolare: l'inclinazione a considerare l'oggetto amato come fonte di felicità infinita. In fondo non ha tutti i torti, perché quel momento particolare è carico di una forza che non ha eguali in nessun altro. obiettivo umano. Ma quando nella vita ci troviamo a vivere un'esperienza nella quale una persona esterna a noi diventa la fonte della nostra estasi, noi siamo certamente in uno "stato limite". Nell'istante in cui io, rendendomi conto che la mia felicità passa attraverso un essere umano, mi abbandono a lui, debbo anche tremare di paura poiché, consegnandomi nelle sue mani, sono adesso alla sua mercé. Si è detto spesso che la possibilità di resistere al mondo è in ragione diretta della capacità di autonomia; ma è innegabile che la conoscenza più profonda passi attraverso questo identificare nell'altro l'origine della propria gioia.

 

Anche se abdicare completamente alla propria libertà può recare sofferenze altrettanto intense della felicità che ci si aspetta, ci troviamo in ogni caso di fronte a un'emozione che non può essere evitata. Coloro a cui il destino ha risparmiato questa condizione sono infatti, secondo la mia esperienza, interiormente morti. La loro corazza caratteriale è tale che non provano e non sentono nulla. Per essi la vita è eternamente "muta".

 

Lo stato di alterazione e la trasformazione che accompagnano l'esperienza amorosa sono gli aspetti psicologicamente più interessanti del fenomeno ‘amore’, quelli più affini al lavoro analitico, che tende essenzialmente all'attivazione di un processo dinamico nel paziente. Kierkegaard (1843, p. 113) esprimeva così il concetto di alterazione: "Quando si ama non si frequentano le strade maestre {...} Quando si ama e si vuole cacciare il capo dal proprio guscio, non ci si avvia dalle parti del lago; sebbene sia soltanto una strada di passaggio, è tuttavia battuta e l'amore preferisce aprirsi da sé le sue strade". In fondo noi abbiamo a che fare con un fenomeno che ci disarma di fronte alla vita e ci impone scelte e decisioni originali. Come spesso accade anche al paziente che inizia un'analisi, l'innamorato si trova a vivere un'esperienza limite che lo colloca in una posizione esistenziale e psicologica del tutto particolare. Egli sperimenta in maniera contraddittoria sia uno stato di rinnovamento, persino di rinascita, sia anche la fine di un aspetto, di una parte della propria personalità che non erano connessi m modo vitale e profondo alla sua esistenza. Lo stato di innamoramento è caratterizzato appunto dalla rottura violenta del proprio nucleo difensivo narcisistico: il soggetto è strappato dalla sua solitudine per tornare a essere in contatto con aspetti vitali di se stesso, fino ad allora rimossi.

 

La condizione amorosa dispone l'individuo a una nuova e più ampia partecipazione psichica. Ma per essere restituito alla continuità della vita, egli si trova a patire una perdita improvvisa e incontrollata del suo equilibrio, a soffrire una ferita che pone in discussione l'intero suo assetto esistenziale, solo apparentemente consolidato.

Secondo Bataille (1957, p. 37), nelle esperienze estreme dell'amore e dell'erotismo l'individuo pone violentemente in crisi tutte le proprie certezze e colloca se stesso in una condizione esistenziale di squilibrio. Quando siamo presi profondamente in un coinvolgimento amoroso, abbiamo la sensazione che l'Io cominci a vacillare, al punto che perdiamo la padronanza delle nostre azioni. Possiamo pertanto affermare che l'alterazione, intesa come stato transitorio di squilibrio, è peculiare alla dimensione amorosa. Questo cambiamento, caratteristico e necessario a ogni trasformazione psichica, che può coinvolgerci all'improvviso, è anche lo stato dal quale tentiamo continuamente di difenderci. Infatti, istintivamente, avvertiamo il rischio d'essere travolti da un'esperienza che, presso tutte le culture, viene associata all'idea della morte. Da sempre i poeti, gli artisti, per esprimere, per dare forma, corpo allo stato di più intenso coinvolgimento e attaccamento all'altro, hanno evocato il fantasma più temuto, quello della morte: "Sei la vita e la morte", scrive Pavese alla sua donna (Pavese, 1950, p. 93). Una simile situazione non può non farci tremare, perché l'esperienza erotica ci costringe a vivere una delle condizioni interiori più violente e sconvolgenti: la più desiderata ma anche la più temuta.

La vulnerabilità a cui l'amore ci espone, e l'importanza centrale che l'altro viene ad assumere nella nostra vita, ci gettano in uno stato di bisogno. Soprattutto nella fase iniziale e più intensa di innamoramento, siamo costretti a vivere in una sorta di "solitudine a due". Tutti gli altri scompaiono, anche la realtà si allontana sullo sfondo e la persona amata diventa l'unica presenza significativa, l'unica di cui ci importa. "Si è soli in "compagnia di tutto ciò che si ama", scriverà Nova; massima che traduce, tra le tante altre possibili interpretazioni, un dato di pura osservazione psicologica: "la passione [...] è una sorta d'intensità nuda e che denuda [...] un'ossessione della fantasia concentrata su una sola immagine, e da quell'istante il mondo svanisce, `gli altri' cessano d'esser presenti, non v'ha più né prossimo né doveri, né legami che tengano, né terra né cielo" (De Rougemont, 1939, . 195).

 

Siamo sedotti da un modo di essere dell'altro, e quel suo particolare modo di camminare o di muovere le mani, da quel suo sguardo, da quella voce. Certe caratteristiche della persona amata, persino dei suoi apparenti inestetismi, sembrano avere un fascino speciale e irresistibile, hanno infatti il dono di coincidere con il nostro desiderio, che si palesa soltanto attraverso un piccolo fenomeno attivato dall'altro. Quel articolare della sua persona, insignificante agli occhi di tutti gli altri, diventa significativo per me solo, che amando ne scopro e ne subisco il fascino. Quanto poi alla bellezza essa può avere un effetto micidiale perché in essa siamo portati a vedere un'armonia che è l'eco concreta di una esigenza profondamente interiorizzata. Ma che cos'è la bellezza? Il possedere un corpo costringe ciascuno a confrontarsi continuamente con un problema estetico. Gli uomini sono a volte crudeli fra loro, specialmente quando sono molto giovani: tutti noi abbiamo conosciuto nella nostra esistenza il peso di avere un corpo, che può o non può rispondere ai canoni estetici culturali. In realtà dobbiamo renderci conto che la bellezza è un'esperienza spirituale, psicologica, che non riguarda soltanto l'oggetto m quanto tale, bensì il mio modo di percepirlo e di entrarvi m rapporto. Una forma diventa bella perchè è significativa per un soggetto, e lo è in quanto, coincidendo con il suo desiderio inconscio, mesce a rappresentarlo e anche a evocarlo.

 

Ci si potrebbe chiedere quale sia la genesi di tutto questo, come accade che un'immagine diventi importante. La psicoanalisi ha tentato di rispondere a questa domanda sostenendo che gli occhi, che mi hanno affascinato con la loro misteriosa malia, sono quelli che mi fissavano, quando ero piccolissimo, quando non ero ancora cosciente di me come uomo. E possibile che sia questa l'ontogenesi, la causa remota per cui un certo gesto, un cerco modo d'essere dell'altro acquista significato. Ma con l'andar del tempo questo legame col passato non ha più molta importanza, ciò che conta è che in quel momento quel gesto, quei capelli, quella voce, quelle mani hanno per me un senso struggente e quindi dirompente e "sono" la bellezza da me cercata, che coincide con il mio desiderio evocato dall'altro. La nostra esperienza è proprio questa: trovarsi fra mille persone ed essere inchiodati da un'unica immagine. Ciò sta a indicare che una mia dimensione interna, di cui non ero consapevole, improvvisamente emerge e io mi arricchisco di uno psichismo che fino a quel momento mi era sconosciuto (Alberoni, 1979, p. 123). Arriviamo alla conclusione che l'immagine da noi definita "bella" nasce dalla nostra capacità di creare, dar vita a delle forme. Nella dimensione amorosa siamo rapiti non dall'essere che ci sta dinanzi, ma dall'idea che ha saputo suscitare, cosicché anche a distanza abbiamo di fronte a noi i tratti di quel volto, il suono di quelle parole, quei gesti, quel modo di porsi, segni del nostro mondo interiore attivato e portato alla luce dall'incontro. Un'idea di cui l'individuo è portatore da sempre, ma che solo quella persona è riuscita a evocare. Osservava Goethe a questo proposito: "A volte ci s'intrattiene", con una persona presente come con un'immagine. Essa non ha bisogno di parlare, di guardarci, di occuparsi di noi; noi la vediamo, sentiamo il nostro rapporto con lei, anzi i nostri rapporti possono crescere senza che essa faccia nulla a tale scopo, senza che nemmeno h s'accorga di comportarsi con noi come un'immagine" (Goethe, 1809, p. 169).

L'emergere prepotente del nostro immaginario, grazie all'altro, a un unico altro spiega il motivo per cui nella relazione amorosa nessuno sia intercambiabile. Infatti solo quella specifica persona riesce ad attivare nell'amante questo meccanismo, a portare di colpo alla luce la sua dimensione sepolta. Basta il tardare di una telefonata, il ritardo a un appuntamento o il non riuscire ad avere notizie della persona amata, senza conoscerne i motivi, ed ecco che siamo assaliti da un senso di angoscia.

Descrivendo il vissuto di colui che attende, Barthes scrive: "L'attesa di una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti, all'infinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare..." (Barthes, 1977, p. 41).

 

Nonostante la pretesa razionale dell'Io di comprendere, di afferrare e controllare sempre tutto, in questi casi, quando le aspettative non coincidono con la realtà, l'individuo non può evitare di essere colto dal panico, dal dolore, da una sofferenza che diventa quasi fisica. Ed è in questo momento, nel dolore che l'assenza dell'altro provoca, nella ferita che l'oggetto d'amore infligge, nella violenza del desiderio che solo l'amato riesce a suscitare, che l'amante si accorge improvvisamente di essere vivo.

 

Come scrive Barthes (1977, pp. 162‑163): "Più la ferita è aperta, al centro del corpo (nel cuore), più il soggetto diventa soggetto: perché il soggetto è l'intimità (`La ferita... è d'una intimità spaventosa). Tale è la ferita d'amore: una piaga radicale (alle radice dell'essere) che non riesce a richiudersi, e da cui il soggetto scola via, componendosi come soggetto proprio in questo fluire...". Nell'intimità scopriamo noi stessi, conosciamo le nostre verità interiori, per cui la dimensione intima e il diventare soggetti sono strettamente legati. Il fatto drammatico è che questa esperienza, questo "battesimo del fuoco" lascia una ferita, quel tipo di ferita che non si rimargina.

 

Per David (1971, p. 49) l'innamorato "In virtù dello stato amoroso che infrange i limiti ordinari dell'Io, egli percepisce, conosce con una sensibilità diversa e una presenza nel mondo completamente nuova”.

 

Il destino dell'umanità è sempre stato quello della differenziazione, ossia di un sottile processo di distacco dalle matrici naturali, ed è un fenomeno che si affina nel tempo anche dal punto di vista ontogenetico, nell'esistenza individuale. Questa conquista ha però un prezzo elevato in termini di solitudine e di lotta.

Noi diventiamo conflittuali proprio a causa della nostra unicità, dell'allontanarci da certe origini. Possiamo avere la sensazione di arrestare questo sviluppo logorante e di riavvicinarci a quelle antiche fonti, attraverso vane esperienze, per esempio tramite il sogno che ci visita la notte, oppure per mezzo del pensiero fantastico. Ma la via regia per questo ritorno alle esperienze originarie è certamente l'amore.


 

EVOCAZIONE D'IMMAGINI

 

È singolare, ma tutt'altro che inesplicabile, che nella tradizione romantica l'amore sia considerato come una malattia. Abbiamo già accennato a certi "sintomi", come la visione alterata della realtà, la sopravvalutazione ‑ al limite del grottesco ‑ della persona amata, il bisogno di restringere drasticamente il proprio campo di relazioni: non è difficile parlare di "quadro patologico". C'è un'interessante considerazione di Stendhal (1822, pp. 25‑26 e 39‑40): "Perché una creatura umana possa dedicarsi con delizia a deificare un oggetto piacente {...} occorre anzitutto che esso le sembri perfetto, non in modo totale, ma rispetto a quanto le sia sott'occhio in quel mo­mento [...] È semplicissimo, basta allora pensare ad una perfezione,  prevederla in chi si ama. E' facile vedere in che cosa sia necessaria la bellezza [...] Anche i piccoli difetti del suo viso, per esempio un segno di vaiolo, inteneriscono l'uomo che ama, e lo gettano in una profonda fantasticheria, se li scorge in un'altra donna; che cosa accadrà quando li scorge nella sua amante? Perché guardando quel piccolo segno, egli ha provato sentimenti deliziosi, tutti del maggiore interesse, che, quali essi siano, si rinnovano con incredibile violenza alla vista di quel segno, anche sul viso di un'altra donna. Se si arriva così a preferire e ad amare la bruttezza, vuol dire che in questo caso la bruttezza è bellezza".

E infatti Freud (1915, pp. 362­-374) parlò di quadro patologico sia per l'amore sia per il transfert,  cioè per quel tipo di rapporto che in un modo o nell'altro ogni pa­ziente vive in analisi con l'analista e che può somigliare in modo sorprendente al vissuto di un rapporto amoroso. Anche nel transfert il terapeuta riesce a evocare nel paziente dei desideri rimossi, è visto in maniera irrealistica e sopravvalutato al punto che il paziente ve­drebbe volentieri l'intero suo campo di relazioni ridotto al rapporto con lui. E allora siamo autorizzati a supporre che si tratti di una malattia molto salutare, che risveglia e irrobustisce la creatività, e niente come l'esperienza amorosa ci dà la sua misura, che fino a quel momento era stata inutilizzata perché ignorata e latente. L'enorme capacità che ha l'Eros di evocare il nostro immaginario ne fa uno straordinario rabdomante capace di individuare le più riposte vene sotterranee di energia. Naturalmente non stiamo parlando di creazione artistica ‑ il fatto che l'amore strappi qualche rima baciata anche a persone che fino a quel momento non avevano mai degnato di uno sguardo la poesia è un fenomeno assolutamente irrilevante, soprattutto nei risultati ma di quella creatività più vasta che consiste nell'agire autonomamente nel reale.

 

Chi ama si scopre più forte e più ricco, si sente inaspettatamente capace di affrontare anche le situazioni pericolose ‑ a esempio solo nell'amore si riesce a contrastare il peso della famiglia: un giovane che non è stato mai capace di dire no ai genitori, nel momento in cui è preso dall'incontro con il proprio immaginario è capace di opporsi, è capace di bruciare i mobili di casa per perseguire i suoi profitti. In questa situazione si recupera una forza insospettata: di fronte a noi si aprono prospettive impreviste, nuove possibilità realizzatrici. Un poeta, Rilke (1929, p. 49), dice che "amare è un'angusta occasione per il singolo di maturare, di diventare in sé qualcosa, diventare mondo grazie ad un altro, è una grande immo­desta istanza che gli vien posta, qualcosa che lo elegge, lo chiama a un'ampia distesa". Quando rinunciamo ad amare, quando non ci consentiamo questo incontro con l'altro, ci suggerisce Barthes (1977, . 87), noi in realtà rinunciamo al nostro immaginario.

 

E allora possiamo dire che l'amore è si un groviglio, un disordine, è sconvolgimento, irritabilità, ma solo dal caos nasce una nuova esistenza. L'esperienza creativa dell'amore è l'attivazione del nostro immaginario che dalla confusione riesce a dare forma al proprio pianeta interiore.

 

So bene che le remote origini etimologiche di una parola possono non avere più niente a che vedere col suo significato successivo, ma è un fatto che la radice latina della parola `desiderio' (de‑sidera) stava a indicare la situazione di un auspice messo nell'impossibilità di fare previsioni dalla "assenza di stelle" (ovviamente a causa della nuvolosità del cielo). Ed è un fatto che, se agli auspici romani le stelle servivano a fare pronostici, da che mondo è mondo, ai naviganti sono servite per orientarsi. Bene: qualcosa di simile accade in amore quando si desidera. Non siamo più in grado di orientarci, ci mancano i punti di riferimento esterni. È proprio in questa dimensione che non si frequentano mai le strade maestre perché esse infatti abbondano di punti di riferimento, mentre l'amore ci  butta fuori strada, fuori da ciò che ci è già noto e la realtà che incontriamo va continuamente interpretata, perché non ha riferimenti col nostro passato. Allora `desiderare' è come una condizione in cui il soggetto non riesce più a interpretare la realtà con criteri noti e abituali, come sovvertimento dei segni, come perdita dei punti di riferimento e dell'orientamento nel reale. L'individuo sperimenta una situazione che ha la caratteristica di essere sempre nuova: Eros crea movimento psichico, stabilisce nuove connessioni e immette in nuove e sconosciute progettualità.

 

È come se fossimo strappati da uno stato di quiete, che conviene perché nella calma i riferimenti rimangono sempre gli stessi. Se noi sostiamo per un attimo in un posto, questo a diventa familiare. Nella dimensione amorosa si attiva un collegamento con qualcosa che si trasforma, e ciò che muta ci è sempre imprevedibile. L'ignoto è un'altra caratteristica dell'essere desideranti: siano privi di riferimento e proiettati violentemente di fronte a ciò che non conosciamo.

 

Ma ciò che è ignoto in genere provoca paura. Vorrei sottolineare come questa e la dimensione amorosa vadano sempre insieme; un .segnale del nostro essere innamorati è la sensazione di paura che abbiamo di fronte all'amore e se non proviamo anche angoscia per quello che sta succedendo probabilmente noi non amiamo. "L'amore eccita la paura", scrive Hillman (1966, p. 93), "siamo spaventati di amare e spaventati nell'amore, compiamo propiziazioni magiche, ricerchiamo segni e chiediamo protezione e guida." E allora dobbiamo chiederci perché c'è questa esperienza. Possiamo essere abbastanza sicuri che la dimensione amorosa, questa ineffabilità dell'altro che io riesco a conquistare attraverso il mio immaginario, è nella storia della cultura umana un fatto relativamente recente. Per De Rougemont, "L'antichità non ha conosciuto nulla di simile all'amore di Tristano e Isotta. È risaputo che per i Greci e i Romani è una malattia (Menandro) laddove trascenda la voluttà, che è il suo fine naturale. E’ una frenesia, dice Plutarco, taluni han pensato che fosse una rabbia. Dunque bisogna perdonare agli innamorati proprio come a dei malati" (De Rougemont,1939, pp. 102‑103).

Probabilmente è un'acquisizione "recente", ed è proprio della specie umana il trovarsi in una situazione in cui si vive costantemente nel segno di una dipendenza vitale. L'individuo che si lascia morire una volta separato dal partner o la gelosia e la monogamia intese come pretese nei confronti dell'altro rappresentano dei significativi esempi, anche se in alcuni mammiferi e volatili si riscontra qualcosa di vagamente simile: la femmina (e/o il maschio dei colombi) viene considerata in virtù di un possesso duraturo. Per morivi sconosciuti, ma forse comprensibili alla luce di una nuova funzionalità della specie, siamo stati dunque in grado di sviluppare la dimensione amorosa "contro natura", senza che ne fossimo all'inizio geneticamente provvisti. Abbiamo inventato e proposto a noi stessi questa modalità per la quale avvertiamo il bisogno di sentirci lacerati e di lacerare l'altro, e il nostro vissuto è accompagnato dalla paura in quanto non ne siamo ancora padroni. Ecco perché di questo sentimento è difficile parlare ed è necessario farne esperienza per poter tentare di capirlo. Vorrei ribadire che un segno del nostro essere coinvolti è il vivere, accanto a questa situazione di rapimento, anche la paura che possa accadere un evento distruttivo. E questo timore è giustificato perché è difficile accettare come naturale il fatto che le maggiori sofferenze e i maggiori dolori che riusciamo a provare e a provocare negli altri si hanno prevalentemente nell'amore e non ci sono altre esperienze che possano eguagliare quella del tormento che arrechiamo o che riceviamo in questa dimensione. E non può non sorprenderci il fatto di scoprire che apportiamo un danno mortale a quella stessa persona a cui abbiamo dedicato la nostra esistenza e per la quale siamo pronti a fare qualsiasi cosa. Si può anche uccidere e non e un caso che innumerevoli tragedie sono legate all'amore: si arriva a uccidersi entrambi se la passione non può essere portata avanti, e del resto sappiamo molto bene che il suicidio come suggello di un contrasto sentimentale sofferto non è sorto né tramontato col Romanticismo.

 

La dimensione amorosa porta sempre con sé un'angoscia mortale e, legato a essa, un senso di colpa incancellabile. Lo psicologo spiega questo senso di colpa ‑ e il suo lavoro quotidiano con i pazienti gli offre continuamente prove della validità di questa interpretazione ‑ col fatto che fronteggiamo esperienze indissolubilmente legate, complementari ma drammaticamente conflittuali: il divieto e la trasgressione. È ormai un luogo comune sentir dire e anche difendere con forza l'idea che nell'amore si è più liberi; ma i fatti ci dicono il contrario: amare ed essere amati significa scontrarsi, presto o tardi, con i divieti delle persone che a stanno intorno. Il nostro entusiasmo amoroso viene sempre vissuto dagli altri come una manifestazione pericolosa, destabilizzante, che può mettere in crisi i loro schemi e strutture relazionali.

 

Chi vive in prima persona la metamorfosi che si accompagna all'esperienza amorosa sa che sta mettendo in discussione soltanto lo status quo, eppure il collettivo già vede in tale modifica un sovvertimento intollerabile e mobilita perciò il divieto, costringendo gli amanti alla trasgressione, che è appunto un'infrazione alle leggi umane, alcune delle quali mirano soltanto a conservare e stabilizzare, a impedire queste fughe in avanti. Tutte le volte che capita di rifiutare, attraverso la razionalizzazione, l'esperienza amorosa, non si fa altro che obbedire a una legge collettiva ormai interiorizzata. Ognuno di noi ha assorbito questa struttura che nega di vivere liberamente il desiderio, mentre nella vita siamo sottoposti a continue sollecitazioni esterne, e allora può capitare, e spesso capita, che non viviamo il desiderio ‑ e l'immaginario attivato dal desiderio ‑ in ossequio a una proibizione esterna che ormai fatalmente abita dentro di noi e della quale non siamo neanche consapevoli. La miseria, l'impoverimento della nostra esistenza, la nullità, la staticità, sono proporzionali alla forza con cui agisce dentro di noi un tale impedimento. Io mi riferisco soprattutto al processo dinamico che si attiva nella cosiddetta fase dell'innamoramento, che qualcuno può anche ritenere soltanto un momento iniziale destinato a essere normalizzato. Si deve avere però il coraggio di dire che questo periodo iniziale potrebbe anche essere permanente: questa esperienza dirompente mi strappa a consolidate quanto sterili certezze e mi porta altrove. E del resto Jung diceva: "L'amore nel senso della concupiscentia è la più infallibile dimensione dinamica che porta l'inconscio alla luce" (Jung, 1954, p. 86).

 

Per poter vivere completamente la tempesta che io stesso ho cercato, devo avere la forza, il coraggio e la capacità di neutralizzare ciò che sento all'interno come un grido di eterno e minaccioso rimprovero.

La nostra vita é costellata di rapporti, ma è anche costellata dalla crescita e se non possiamo attivare questa possibilità di crescita diventiamo sterili, avidi, spenti. L'immaginario da cui si trae l'energia creativa non è più vivificante, mentre la nostra esistenza ha bisogno d'essere illuminata da questo genere di circostanze. L'altra "esperienza", il bilancio delle vicende che abbiamo vissuto, non ci dà molta luce perché, come dice Confucio, è una lampada che portiamo sulla schiena come uno zaino e perciò illumina soltanto la strada percorsa, e non solo non rischiara il cammino che è davanti a noi, ma neanche i luoghi che stiamo attraversando, i momenti che viviamo di volta in volta. Se non accendiamo la luce del nostro immaginario non vediamo niente; qualsiasi esperienza, anche la più ricca in senso oggettivo, diventa la più misera in senso soggettivo perché le manca la luce di questa dimensione fondamentale.

 

Ma perché il divieto? Una volta interiorizzato, esso serve a prevenire l'angoscia, a evitare la tremenda sensazione di essere braccati che proviamo quando ci sorprendiamo a fare qualcosa che potrebbe esserci rimproverato. Per tenersi al sicuro dai sensi di colpa ricorriamo al rispetto della proibizione, che a sua volta tiene lontana la violenza del desiderio; eppure è proprio il desiderio che ci dà la forza di affrontare l'esistenza in modo nuovo, che ci mette in contatto con nuovi valori e nuovi significati. Nel linguaggio comune il divieto interiorizzato viene chiamato "voce della coscienza", ma si tratta di una consapevolezza statica, "alla fonda", saldamente ancorata in un porticciolo sicuro; per salpare, per navigare e toccare altre terre, la nostra coscienza ha bisogno di "mollare gli ormeggi", rischiando tempeste e mare grosso su torte sconosciute. Fuori di metafora, la coscienza spinta dal desiderio è costretta a inventare continuamente il significato dell'altro.

 

Vediamo di chiarire cosa vuol dire "inventare il significato dell'altro". Quante volte abbiamo detto a qualcuno "Tu mi sfuggi", oppure "Non riesco a capirti" e quante volte ci è stato detto, senza sapere che in realtà è proprio quell'elemento che attiva un processo evolutivo. Nella dimensione amorosa la prima esperienza è la percezione di un impedimento: qualcosa o qualcuno dentro di noi ci dice che stiamo avventurandoci su un terreno che non è il nostro; però, per una strana coincidenza, la percezione del divieto si accompagna alla sensazione, forse tenue, sommessa ma disperatamente tenace, di avere il coraggio di infrangerlo. De Rougemont afferma: "L'ostacolo {...} e la creazione dell'ostacolo da parte della passione dei due eroi {...} è soltanto un pretesto necessario al procedere della passione, o non è invece legato alla passione in un modo molto più profondo? Non è, per chi scruta il mito in tutta la sua profondità, oggetto stesso della passione? {...} e tuttavia la passione d'amore costituisce, di, fatto, un'infelicità”.

La società in cui viviamo, e i cui costumi non sono in fondo mutati, sotto questo rapporto, da secoli, porta l'amore‑passione, nove volte su dieci, a rivestire le forme del'adulterio {...} Affermare che l'amore‑passione significhi di fatto l'adulterio è insistere sulla realtà che il nostro culto dell'amore maschera e trasfigura al tempo stesso; è mettere in luce ciò che questo culto dissimula, respinge e rifiuta di nominare, per concederci un ardente abbandono a ciò che rivendicare non osavamo. {...} Per chi giudicasse dalle nostre letterature, l'adulterio apparirebbe come una delle occupazioni più rimarchevoli alle quali si dedicano gli occidentali: non ci si metterebbe molto a stendere la lista dei romanzi che non vi facciano neppure un'allusione {...} senza l'adulterio che ne sarebbe di tutte le nostre letterature? Il fatto è che la nostra forza psicologica consiste esattamente nella capacità di combattere ciò che è contro un processo di crescita, e il momento in cui si riesce a percepire l'ostacolo insieme alla sensazione di avere l'energia di neutralizzarlo è anche il momento in cui la psiche diviene consapevole di sé. Quando io faccio qualcosa che non dovrei fare quindi, non mi trovo sulla strada maestra ma preferisco aprirmi un percorso personale, è allora che mi rendo consapevole della mia esistenza. Non procedo su un sentiero sicuro sul quale trovo indicata la direzione da seguire ma su una strada dove non ci sono segni, una via che io stesso traccio: in quel momento io sento realmente che sto esistendo perché servo se non altro a me stesso; ma proprio perché io mi sono assunto la responsabilità dell'orientamento, la consapevolezza passa necessariamente attraverso il timore e la paura di perdersi.

 

Nietzsche (1879‑1881, 309, p. 186) diceva che nell'amore è soprattutto il timore che fa crescere. L'illusione amorosa mostra la bellezza dell'altro, ma il timore spinge a riflettere, a cercare, a indovinare, vale a dire a esercitarsi a penetrare nella realtà al di là delle . apparenze. La paura svolge un ruolo propulsivo, di conoscenza. Già Platone (Simposio 211 c) parlava di Eros come conoscenza.

L'amore eccita la paura, perché ciò che l'altro rappresenta va continuamente o interpretato; e questa dimensione è uno spazio infinito, perché l'interpretazione totale sarebbe la fine di questa esuberante forza che mi spinge verso l'altro. Possiamo dire che l'amore e la paura vanno sempre insieme perché hanno la primitività di ciò che non si conosce, perché coinvolgono livelli molto elementari, non sono saliti al vaglio della razionalità: ci prendono, ne siamo dominati.

Sono del parere che quando manca questa paura la nostra dimensione amorosa è finita o non è mai stata. Direi allora che l'essere umano sperimenta se stesso quando riesce a trasgredire. Se è portatore di un divieto e riesce a superarlo, l'uomo si mette in discussione, ma solo in quel momento ha la percezione di essere uomo ed è realmente vivo. È esperienza comune che nella solitudine, quando non c'è possibilità di questa attivazione del nostro immaginario, noi sentiamo di avere un corpo, ma è come se ci fosse estraneo, come se opponesse una enorme inerzia; come se ogni movimento ci presentasse il conto al centesimo della fatica che richiede e noi non fossimo in grado di pagare quel conto, non avessimo più forza da spendere. Ecco: quando ci viene meno la possibilità di essere attivati nel nostro immaginario, noi ci sentiamo privi di forza. É una sensazione che ci fa, o ci dovrebbe fare, più terrore di quello che ci incute l'avventura di interpretare l'altro, con tutto il rischio e la prospettiva di non riuscire sino in fondo nell'impresa. Per inciso, questo rischio è uno dei motivi per cui nell'ambito della dimensione amorosa noi torniamo alle "propiziazioni magiche": consultare le stelle, o l'indovina, o gettare una moneta per aria, sono rituali apotropaici che servono a contenere l'angoscia del rapporto con l'altro. Ma non è da invidiare chi non ha nulla da chiedere alle stelle: noi diventiamo psiche, esseri psichici, solo quando la trasgressione e l'angoscia che ne deriva ci costringono a ricorrere ai riti propiziatori. E non c'è da compiangersi per "essere giunti a tanto", non c'è da inveire contro la "malasorte" quando l'esperienza amorosa sembra presentare solo la faccia frustrante.

Frasi come “Maledetto quel giorno” o “Quanti anni ho perso dietro di te” sono insulti alla verità: quel giorno è stato di sicuro un giorno fausto e gli anni vissuti a partire da quel momento non solo non sono andati perduti, ma sono stati i più proficui della nostra esistenza. Quanto all'angoscia che ha segnato i passaggi cruciali della vicenda amorosa, c'è da sospettare che essa in fondo sia costitutiva di ogni vitale esperienza umana.

 

 

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