Evocazione
d'immagini
L'amore
appartiene per sua natura alla sfera dell'indicibile; come tutto
ciò che ha a che fare con l'anima, con la dimensione più profonda e
segreta dell'essere, è vicino al mistero, si accompagna al silenzio.
Superare la barriera dell'inesprimibile, dare forma, corpo all'indicibile
è un'impresa folle, 'piena di paura', in cui soltanto gli artisti, i
poeti si sono cimentaci da sempre. L'indagine psicologica si arresta
spesso a un tentativo di pseudocomprensione razionale, che tradisce e
violenta la realtà dell'anima. Per sollevare il velo con cui l'anima copre
la sua essenza, è necessario procedere con rispetto e trepidazione.
Cogliere le mille, cangianti sfumature con le quali incontriamo l'altro,
addentrarsi nel labirintico mondo immaginale, significa abbandonare ogni
prospettiva unilaterale, per dar voce a tutti i 'daimones' che ci
abitano.
In questo
viaggio misterico attraverso l'amore ciascuno incontra l'altro, e dietro
l'altro se stesso. Scrivere dell'amore vuol dire allora confrontarsi con
l'inesplicabile, raccontare un'esperienza misteriosa e sovvertitrice, dare
voce ai propri fantasmi. Tuttavia, poiché la lettura è reinvenzione del
testo, traduzione del mondo immaginario dell'autore nel proprio, ecco che
il lettore si trova a incontrare non tanto le immagini di chi scrive
quanto le proprie. Ogni discorso sull'amore diventa così il proprio
discorso, la confessione più intima.
Il vantaggio
che il linguaggio poetico ha su quello psicologico é il suo accingere
immediato alle immagini dell'anima. Come il profeta, il poeta rende muto
il suo Io per dare voce al `demone', cosicché colui che legge può
dialogare direttamente con il dio che abita in lui.
Uno dei fenomeni caratteristici dell'esperienza
amorosa, che si impone subito alla nostra attenzione, è l'adesione
immediata all'oggetto: la presenza, la vicinanza dell'altro ci
catturano con una intensità e un'immediatezza che non è possibile
riscontrare in nessun altra modalità dell'esistere. David (1971)
paragona infatti l'innamoramento allo stato ipnotico. Proprio
come accade nel rapporto tra ipnotista e ipnotizzato, la relazione
amorosa provoca una fissazione della libido sull'essere amato, che rende
l'innamorato come "stregato"
e ossessionato dall'immagine dell'altro. Questo vissuto presenta un
carattere improvviso, irreale, quasi compulsivo.
Platone
parlava addirittura di "delirio divino", e così anche i primi versi del
frammento di Saffo ("A me beato sembra come un dio / l'uomo che siede
a te dinanzi, ed ode / da vicino le tue dolci parole") esprimono una
sorta di rapimento estatico.
Di fronte
all'amato l'amante prova un senso di incredibile pienezza e,
contemporaneamente, ha il sentore di aver vissuto fino a quel momento in
uno stato di privazione: la sua presenza è fonte di un benessere che
sembra avere possibilità inesauribili. L'esperienza sembra dirci che è
la vicinanza a provocare il turbamento: qualcuno o qualcosa verso
cui lo sguardo si dirige ci cattura. Ma in verità l'amore vive e si
alimenta di ciò che accade in noi, della nostra interiorità. L'essere su
cui ho fermato i miei occhi e il mio desiderio assume per me un
significato unico: è insostituibile perché soltanto egli può evocare in
me delle dimensioni interiori profonde e particolarissime.
Bataille
(1957, p. 35) rileva che, nell'erotismo, anche se si tende senza posa
alla scoperta di un oggetto di desiderio posto al di fuori di se stessi,
si viene poi catturati, rapiti, da un oggetto che sembra essere dotato
della qualità straordinaria di corrispondere esattamente
all'interiorità del proprio desiderio. Lo stato di innamoramento ci
pone sempre di fronte a qualcosa di incomprensibile. L'altro è atopos,
cioè `inclassificabile', perché la sua distinzione implicherebbe anche
la sua conoscenza.
Per tutta
la durata dell'innamoramento, il tentativo di porsi di fronte a ciò che
è pieno di segreti e di fascino rappresenta, in realtà, il tentativo di
tradurre quel mistero e quell'attrazione sovvertitrice in una esperienza
nota e comprensibile. Ma allo stesso tempo, pur cercando di capire, di
"squarciare un velo", non vorremmo mai abbandonare del tutto quell’illusione
che, abbagliandoci, permette e sorregge il nostro innamoramento.
Come
afferma Kierkegaard (1843 a, p. 99): "L'amore ha molti misteri, e
questo primo invaghimento è anch'esso un mistero, e non il più piccolo".
Si rimane in questo stato fino a quando l'altro non è afferrabile dalla
propria dimensione spirituale. Prima di quel momento qualcosa mi spinge
a interrogarmi sul valore che per me riveste quel volto. In quanto
portatore di un significato interiore, del mio stesso significato,
l'altro diviene l'unico interlocutore vero, il solo a cui poter
rivolgere delle domande e da cui attendere sempre una risposta concreta,
anzi la risposta. L'intensità e l'esclusività del rapporto d'amore
trasformano, vivificandolo, il modo con cui interpretiamo sia la realtà
esterna sia quella interiore. È come se una nuova moltitudine di
immagini, di percezioni, di emozioni, riempisse i nostri canali
sensoriali, aprendo all'anima un'altra dimensione. Chi almeno una volta
non si è immerso in questa esperienza rimane così tagliato fuori dal
mondo dello spirito e da quello della carne. L'amato diventa una figura
che spinge alla ricerca di una mia verità interiore.
Bataille (1957, p. 28) scrive, con parole
bellissime, che per colui che ama l'essere amato è
la trasparenza del mondo.
Nell'esperienza amorosa l'amore può illuminare di significato qualsiasi
aspetto dell'esistenza sia fisica che psichica. Lo scrittore francese
Bousquet (1941, p. 80) riesce a cogliere con grande acutezza questa
verità, quando afferma: "Ed io non sono che il lato oscuro di una
vita in cui la luce è coscienza del mio amore". Ciò può avvenire
soltanto quando l'altro, la cui immagine mi ossessiona come un pensiero
dominante, orienta incessantemente nella `sua' direzione la mia vita
psichica. La potenza di questa fascinazione è racchiusa nella
misteriosità dell'oggetto d'amore, nella sua indefinibilità. L'amato è
sempre "quell'oscuro oggetto del desiderio", che non si lascia ridurre,
esaurire o banalizzare. La vitalità che noi sperimentiamo quando amiamo
deriva dalla nuova disposizione alla `ricerca', suscitata e alimentata
dal desiderio. La capacità di mantenere viva un'esperienza d'amore
dipende dalla possibilità di condividere con l'altro quell'arricchimento
interiore che scaturisce dalla relazione. Da un certo punto di vista,
amare è un autentico lavoro psicologico, il più impegnativo che esista,
proprio perché attiva in noi una nuova possibilità di conoscenza del
mondo. Se, a esempio, si vive per venti o trent'anni in un clima di
mancanza d'amore, nel momento in cui si incontra questa dimensione si
deve imparare a fronteggiare un intero mondo che sembrava ormai
familiare e che invece d'un tratto ha assunto una fisionomia differente.
Questa diversità che pare venirmi dall'altro da cui mi sono lasciato
involontariamente catturare ha reso me diverso, e ora il mio stesso modo
di guardare, la mia stessa capacità di vivere quell'esperienza, si sono
trasformati.
Quando
entra in scena il desiderio, il corpo prende il sopravvento: "subito
nel petto / sbigottisce il mio cuore: se io ti vedo / solo un istante,
subito la mia /voce si spegne". Nel guardare la persona che amiamo,
nell'accarezzarla con lo sguardo, nel contemplarla, o anche nello
scrutarla intensamente, quasi volessimo cogliere il segreto che ci lega
e ci disorienta, forse cerchiamo in quei segni il nostro passato. Il
turbamento e il desiderio suscitati dalla vista dell'altro a dicono
tuttavia quanto sia impellente la necessità di ricongiungersi a ciò che
sembrava perduto e che ora appare in sembianze nuove e ancora più
attraenti.
Non appena
veniamo mossi dal desiderio, insieme alla voce é l'intera realtà che si
spezza. La realtà esterna, così vistosa e ingombrante fino a quel
momento, si defila e scompare, e al suo posto, come cambia la scena su
un palcoscenico girevole, si insedia una realtà fantastica, un nuovo
universo, al centro del quale stanno le due persone coinvolte nel
rapporto amoroso.
Dal loro
punto di vista quell'universo è l'unico plausibile; ma solo da quel
punto di vista, come c'è un solo punto dal quale ognuna delle due
braccia dell'immenso colonnato della basilica di San Pietro costruito
dal Bernini appare composta da un'unica fila di 32 colonne anziché da 32
file di quattro colonne ciascuna. Per tutti gli altri, che ovviamente
non possono vedere le cose da quell'angolazione così particolare, il
mondo di coloro che si amano è aberrante e inesplicabile.
Possiamo scorgere l'inevitabile violenza a cui ci
espone il rapimento amoroso. Abbandonarsi al potere dell'Eros incrina, e
spesso spazza via, tutti i
precedenti punti di riferimento. L'amore
rende soli, poiché viene meno la sintonia con gli altri esseri umani, la
comunicabilità della propria esperienza L'unico linguaggio possibile
rimane quello dell'arte, della poesia, che coi suoi misteriosi poteri
alchemici riesce a esprimere ciò che altrimenti rimarrebbe per sempre
celato.
Accorgersi
di non essere compresi è sempre un'esperienza inquietante, ma anche
esaltante, perché ci fa sentire davvero unici al mondo, `individui'. La
controprova della nostra unicità ci viene fornita dal sentirci amati
dall'altro, a sua volta unico, la sola persona che per noi, in quel
momento, conti qualcosa. L'unicità dell'amato si incrocia così con la
nostra unicità. E l'incontro di due unicità non può che dare luogo a un
rapporto irripetibile. Ecco perché è profondamente giustificata,
allorché quel rapporto finisce, la nostalgia, la sofferenza per qualcosa
che è andato davvero perduto, poiché nessun nuovo incontro potrà ridare
vita a quella stessa esperienza.
Finché
dura, l'amore viene vissuto come qualcosa di definitivo, di perenne.
Quando si é attraversata un'esperienza d'amore sino alla fine, che ci
sia o no una fine, sappiamo che il senso della dimensione amorosa si
accompagna al senso dell'eternità. Nessuno può amare pensando che quel
sentimento finisca, nessuno può amare pensando che quell'esperienza sia
limitata nel tempo. Se si vuole vivere l'infinito psichico,
l'aspetto che trascende i limiti della nostra esistenza, si deve entrare
nella dimensione amorosa. In quel momento noi perdiamo il senso delle
cose. Ma è un bene che sia così, noi dobbiamo perderlo. Questo nostro
essere fuori dalla realtà quotidiana, rinchiusi in ciò che David (1971,
p. 146) definisce un "narcisismo a due", spinge gli altri a coalizzarsi
contro di noi. Siamo "persi" per i loro vissuti, abbiamo disertato,
siamo passati a un mondo diverso, "straniero" per loro, incomprensibile
e perciò temibile.
L'amore è
caratterizzato da un'alterazione del nostro rapporto con la realtà. In
termini psicologici essere "alterati" significa che l'assetto psichico
di cui eravamo portatori fino a un momento fa ha esauritola sua
funzione. Non avremmo potuto calarci in una tale situazione se la nostra
struttura psichica non avesse consentito la possibilità
dell'alterazione. È necessario lo stravolgimento generato dall'amore,
perché atteggiamenti apparentemente rigidi possano dissolversi come neve
al sole.
Un'antica
storia d'amore araba, ripresa dal poeta persiano Nezàmi (1985), narra di
un giovane principe Qeys, la radice del cui nome rimanda all'idea di
misura, equilibrio, che, dopo l'incontro con la bella Leylà, la "notte",
1' "oscura", quando il loro amore verrà contrastato, prigioniero del suo
delirio amoroso, erra per anni, fino alla morte, nel deserto, vicino
all'accampamento della donna amata. Perciò egli verrà da tutti chiamato
Majnùn, il "Folle" d'amore. Come Giulietta e Romeo simboleggiano
nell'immaginario occidentale il binomio Amore‑Morte, così Leylà e Majnùn
rappresentano nella tradizione orientale la coppia archetipica dell`amour
fou, della passione che si muta in follia. Il folle è infatti colui
la cui mente è stata ottenebrata. E Leylà, l'oggetto d'amore, nella sua
duplice forma di donna e di notte, è colei che avviluppa, che avvolge
nelle sue "ombre". Leylà è paragonata alla luna, la cui luce crea orme
illusorie. L'amore si configura allora come una rigenerazione di
immagini, di "daimones" che, proprio con il loro dirompente potere,
alterano, distruggono ogni misura, ogni equilibrio.
Una persona attenta e sensibile riesce sempre ad
accorgersi se l'interlocutore si trova in una situazione d'amore, perché
chi è immerso in questa dimensione ha una tendenza particolare:
l'inclinazione a considerare l'oggetto amato come fonte di felicità
infinita. In fondo non ha tutti i torti, perché quel momento particolare
è carico di una forza che non ha eguali in nessun altro. obiettivo
umano. Ma quando nella vita ci troviamo a vivere un'esperienza nella
quale una persona esterna a noi diventa la fonte della nostra estasi,
noi siamo certamente in uno "stato limite". Nell'istante in cui io,
rendendomi conto che la mia felicità passa attraverso un essere umano,
mi abbandono a lui, debbo anche
tremare di paura poiché, consegnandomi
nelle sue mani, sono adesso alla sua mercé. Si è detto spesso che la
possibilità di resistere al mondo è in ragione diretta della capacità di
autonomia; ma è innegabile che la conoscenza più profonda passi
attraverso questo identificare nell'altro l'origine della propria gioia.
Anche se
abdicare completamente alla propria libertà può recare sofferenze
altrettanto intense della felicità che ci si aspetta, ci troviamo in
ogni caso di fronte a un'emozione che non può essere evitata. Coloro a
cui il destino ha risparmiato questa condizione sono infatti, secondo la
mia esperienza, interiormente morti. La loro corazza caratteriale è tale
che non provano e non sentono nulla. Per essi la vita è eternamente
"muta".
Lo stato di alterazione e la trasformazione che
accompagnano l'esperienza amorosa sono gli aspetti psicologicamente più
interessanti del fenomeno ‘amore’, quelli più affini al lavoro
analitico, che tende essenzialmente all'attivazione di un processo
dinamico nel paziente. Kierkegaard (1843, p. 113) esprimeva così il
concetto di alterazione: "Quando si ama non si frequentano le strade
maestre {...} Quando si ama e si vuole cacciare il capo dal proprio
guscio, non ci si avvia dalle parti del lago; sebbene sia soltanto una
strada di passaggio, è tuttavia battuta e l'amore preferisce aprirsi da
sé le sue strade". In fondo noi abbiamo a che fare con un fenomeno
che ci disarma di fronte alla vita e ci impone scelte e decisioni
originali. Come spesso accade anche al paziente che inizia
un'analisi, l'innamorato si trova a vivere un'esperienza limite che lo
colloca in una posizione esistenziale e psicologica del tutto
particolare. Egli sperimenta in
maniera contraddittoria sia uno stato di
rinnovamento, persino di rinascita, sia anche la fine di un aspetto, di
una parte della propria personalità che non erano connessi m modo vitale
e profondo alla sua esistenza. Lo stato di innamoramento è
caratterizzato appunto dalla rottura violenta del proprio nucleo
difensivo narcisistico: il soggetto è strappato dalla sua solitudine per
tornare a essere in contatto con aspetti vitali di se stesso, fino ad
allora rimossi.
La
condizione amorosa dispone l'individuo a una nuova e più ampia
partecipazione psichica. Ma per essere restituito alla continuità della
vita, egli si trova a patire una perdita improvvisa e incontrollata del
suo equilibrio, a soffrire una ferita che pone in discussione l'intero
suo assetto esistenziale, solo apparentemente consolidato.
Secondo Bataille (1957, p. 37), nelle esperienze
estreme dell'amore e dell'erotismo l'individuo pone violentemente
in crisi tutte le proprie certezze
e colloca se stesso in una condizione esistenziale di squilibrio. Quando
siamo presi profondamente in un coinvolgimento amoroso, abbiamo la
sensazione che l'Io cominci a vacillare, al punto che perdiamo la
padronanza delle nostre azioni. Possiamo pertanto affermare che
l'alterazione, intesa come stato transitorio di squilibrio, è
peculiare alla dimensione amorosa. Questo cambiamento, caratteristico e
necessario a ogni trasformazione psichica, che può coinvolgerci
all'improvviso, è anche lo stato dal quale tentiamo continuamente di
difenderci. Infatti, istintivamente, avvertiamo il rischio d'essere
travolti da un'esperienza che, presso tutte le culture, viene associata
all'idea della morte. Da sempre i poeti, gli artisti, per esprimere, per
dare forma, corpo allo stato di più intenso coinvolgimento e
attaccamento all'altro, hanno evocato il fantasma più temuto, quello
della morte: "Sei la vita e la morte", scrive Pavese alla sua
donna (Pavese, 1950, p. 93). Una simile situazione non può non farci
tremare, perché l'esperienza erotica ci costringe a vivere una delle
condizioni interiori più violente e sconvolgenti: la più desiderata ma
anche la più temuta.
La
vulnerabilità a cui l'amore ci espone, e l'importanza centrale che
l'altro viene ad assumere nella nostra vita, ci gettano in uno stato di
bisogno. Soprattutto nella fase iniziale e più intensa di innamoramento,
siamo costretti a vivere in una sorta di "solitudine a due". Tutti gli
altri scompaiono, anche la realtà si allontana sullo sfondo e la persona
amata diventa l'unica presenza significativa, l'unica di cui ci importa.
"Si è soli in "compagnia di tutto ciò che si ama", scriverà Nova;
massima che traduce, tra le tante altre possibili interpretazioni, un
dato di pura osservazione psicologica: "la passione [...] è una sorta
d'intensità nuda e che denuda [...] un'ossessione della fantasia
concentrata su una sola immagine, e da quell'istante il mondo svanisce,
`gli altri' cessano d'esser presenti, non v'ha più né prossimo né
doveri, né legami che tengano, né terra né cielo" (De Rougemont, 1939, .
195).
Siamo sedotti da un modo di essere dell'altro, e
quel suo particolare modo di
camminare o di muovere le mani, da
quel suo sguardo,
da quella voce. Certe caratteristiche della persona amata, persino dei
suoi apparenti inestetismi, sembrano avere un fascino speciale e
irresistibile, hanno infatti il dono di coincidere con il nostro
desiderio, che si palesa soltanto attraverso un piccolo fenomeno
attivato dall'altro. Quel articolare della sua persona, insignificante
agli occhi di tutti gli altri, diventa significativo per me solo, che
amando ne scopro e ne subisco il fascino. Quanto poi alla bellezza essa
può avere un effetto micidiale perché in essa siamo portati a vedere
un'armonia che è l'eco concreta di una esigenza profondamente
interiorizzata. Ma che cos'è la bellezza? Il possedere un corpo
costringe ciascuno a confrontarsi continuamente con un problema
estetico. Gli uomini sono a volte crudeli fra loro, specialmente quando
sono molto giovani: tutti noi abbiamo conosciuto nella nostra esistenza
il peso di avere un corpo, che può o non può rispondere ai canoni
estetici culturali. In realtà dobbiamo renderci conto che la bellezza è
un'esperienza spirituale, psicologica, che non riguarda soltanto
l'oggetto m quanto tale, bensì il mio modo di percepirlo e di entrarvi m
rapporto. Una forma diventa bella perchè è significativa per un
soggetto, e lo è in quanto, coincidendo con il suo desiderio inconscio,
mesce a rappresentarlo e anche a evocarlo.
Ci si potrebbe chiedere quale sia la genesi di
tutto questo, come accade che un'immagine diventi importante. La
psicoanalisi ha tentato di rispondere a questa domanda sostenendo che
gli occhi, che mi hanno affascinato con la loro misteriosa malia, sono
quelli che mi fissavano, quando ero piccolissimo, quando non ero ancora
cosciente di me come uomo. E possibile che sia questa l'ontogenesi, la
causa remota per cui un certo gesto, un cerco modo d'essere dell'altro
acquista significato. Ma con l'andar del tempo questo legame col passato
non ha più molta importanza, ciò che conta è che in quel momento quel
gesto, quei capelli, quella voce, quelle mani hanno per me un senso
struggente e quindi dirompente e "sono" la bellezza da me cercata, che
coincide con il mio desiderio evocato dall'altro. La nostra esperienza è
proprio questa: trovarsi fra mille persone ed essere inchiodati da
un'unica immagine. Ciò sta a indicare che una mia dimensione interna, di
cui non ero consapevole, improvvisamente emerge e io mi arricchisco di
uno psichismo che fino a quel momento mi era sconosciuto (Alberoni,
1979, p. 123). Arriviamo alla conclusione che l'immagine da noi definita
"bella" nasce dalla nostra capacità di creare, dar vita a delle forme.
Nella dimensione amorosa siamo rapiti non dall'essere che ci sta
dinanzi, ma dall'idea che ha saputo
suscitare, cosicché anche a distanza
abbiamo di fronte a noi i tratti di quel volto, il suono di quelle
parole, quei gesti, quel modo di porsi, segni del nostro mondo interiore
attivato e portato alla luce dall'incontro. Un'idea di cui
l'individuo è portatore da sempre, ma che solo quella persona è riuscita
a evocare. Osservava Goethe a questo proposito: "A volte ci
s'intrattiene", con una persona presente come con un'immagine. Essa non
ha bisogno di parlare, di guardarci, di occuparsi di noi; noi la
vediamo, sentiamo il nostro rapporto con lei, anzi i nostri rapporti
possono crescere senza che essa faccia nulla a tale scopo, senza che
nemmeno h s'accorga di comportarsi con noi come un'immagine" (Goethe,
1809, p. 169).
L'emergere
prepotente del nostro immaginario, grazie all'altro, a un unico altro
spiega il motivo per cui nella relazione amorosa nessuno sia
intercambiabile. Infatti solo quella specifica persona riesce ad
attivare nell'amante questo meccanismo, a portare di colpo alla luce la
sua dimensione sepolta. Basta il tardare di una telefonata, il ritardo a
un appuntamento o il non riuscire ad avere notizie della persona amata,
senza conoscerne i motivi, ed ecco che siamo assaliti da un senso di
angoscia.
Descrivendo il vissuto di colui che attende, Barthes scrive: "L'attesa
di una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti,
all'infinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla
stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare..." (Barthes,
1977, p. 41).
Nonostante
la pretesa razionale dell'Io di comprendere, di afferrare e controllare
sempre tutto, in questi casi, quando le aspettative non coincidono con
la realtà, l'individuo non può evitare di essere colto dal panico, dal
dolore, da una sofferenza che diventa quasi fisica. Ed è in questo
momento, nel dolore che l'assenza dell'altro provoca, nella ferita che
l'oggetto d'amore infligge, nella violenza del desiderio che solo
l'amato riesce a suscitare, che l'amante si accorge improvvisamente di
essere vivo.
Come
scrive Barthes (1977, pp. 162‑163): "Più la ferita è aperta, al
centro del corpo (nel cuore), più il soggetto diventa soggetto: perché
il soggetto è l'intimità (`La ferita... è d'una intimità spaventosa).
Tale è la ferita d'amore: una piaga radicale (alle radice dell'essere)
che non riesce a richiudersi, e da cui il soggetto scola via,
componendosi come soggetto proprio in questo fluire...".
Nell'intimità scopriamo noi stessi, conosciamo le nostre verità
interiori, per cui la dimensione intima e il diventare soggetti sono
strettamente legati. Il fatto drammatico è che questa esperienza, questo
"battesimo del fuoco" lascia una ferita, quel tipo di ferita che non si
rimargina.
Per David
(1971, p. 49) l'innamorato "In virtù dello stato amoroso che
infrange i limiti ordinari dell'Io, egli percepisce, conosce con una
sensibilità diversa e una presenza nel mondo completamente nuova”.
Il destino
dell'umanità è sempre stato quello della differenziazione, ossia di un
sottile processo di distacco dalle matrici naturali, ed è un fenomeno
che si affina nel tempo anche dal punto di vista ontogenetico,
nell'esistenza individuale. Questa conquista ha però un prezzo elevato
in termini di solitudine e di lotta.
Noi
diventiamo conflittuali proprio a causa della nostra unicità,
dell'allontanarci da certe origini. Possiamo avere la sensazione di
arrestare questo sviluppo logorante e di riavvicinarci a quelle antiche
fonti, attraverso vane esperienze, per esempio tramite il sogno che ci
visita la notte, oppure per mezzo del pensiero fantastico. Ma la via
regia per questo ritorno alle esperienze originarie è certamente
l'amore.
EVOCAZIONE
D'IMMAGINI
È singolare,
ma tutt'altro che inesplicabile, che nella tradizione romantica l'amore
sia considerato come una malattia. Abbiamo già accennato a certi
"sintomi", come la visione alterata della realtà, la sopravvalutazione ‑
al limite del grottesco ‑ della persona amata, il bisogno di restringere
drasticamente il proprio campo di relazioni: non è difficile parlare di
"quadro patologico". C'è un'interessante considerazione di Stendhal (1822,
pp. 25‑26 e 39‑40): "Perché una creatura umana possa dedicarsi con
delizia a deificare un oggetto piacente {...} occorre anzitutto che esso
le sembri perfetto, non in modo totale, ma rispetto a quanto le sia
sott'occhio in quel momento [...] È semplicissimo, basta allora pensare
ad una perfezione, prevederla in chi si ama. E' facile vedere in che cosa
sia necessaria la bellezza [...] Anche i piccoli difetti del suo viso, per
esempio un segno di vaiolo, inteneriscono l'uomo che ama, e lo gettano in
una profonda fantasticheria, se li scorge in un'altra donna; che cosa
accadrà quando li scorge nella sua amante? Perché guardando quel piccolo
segno, egli ha provato sentimenti deliziosi, tutti del maggiore interesse,
che, quali essi siano, si rinnovano con incredibile violenza alla vista di
quel segno, anche sul viso di un'altra donna. Se si arriva così a
preferire e ad amare la bruttezza, vuol dire che in questo caso la
bruttezza è bellezza".
E infatti Freud (1915, pp. 362-374) parlò di
quadro patologico
sia per l'amore sia per il transfert, cioè per quel tipo di rapporto che
in un modo o nell'altro ogni paziente vive in analisi con l'analista e
che può somigliare in modo sorprendente al vissuto di un rapporto amoroso.
Anche nel transfert il terapeuta riesce a evocare nel paziente dei
desideri rimossi, è visto in maniera irrealistica e sopravvalutato al
punto che il paziente vedrebbe volentieri l'intero suo campo di relazioni
ridotto al rapporto con lui. E allora siamo autorizzati a supporre che si
tratti di una malattia molto salutare, che risveglia e irrobustisce la
creatività, e niente come l'esperienza amorosa ci dà la sua misura, che
fino a quel momento era stata inutilizzata perché ignorata e latente.
L'enorme capacità che ha l'Eros di evocare il nostro immaginario ne fa uno
straordinario rabdomante capace di individuare le più riposte vene
sotterranee di energia. Naturalmente non stiamo parlando di creazione
artistica ‑ il fatto che l'amore strappi qualche rima baciata anche a
persone che fino a quel momento non avevano mai degnato di uno sguardo la
poesia è un fenomeno assolutamente irrilevante, soprattutto nei risultati
ma di quella creatività più vasta che consiste nell'agire autonomamente
nel reale.
Chi ama si
scopre più forte e più ricco, si sente inaspettatamente capace di
affrontare anche le situazioni pericolose ‑ a esempio solo nell'amore si
riesce a contrastare il peso della famiglia: un giovane che non è stato
mai capace di dire no ai genitori, nel momento in cui è preso
dall'incontro con il proprio immaginario è capace di opporsi, è capace di
bruciare i mobili di casa per perseguire i suoi profitti. In questa
situazione si recupera una forza insospettata: di fronte a noi si aprono
prospettive impreviste, nuove possibilità realizzatrici. Un poeta, Rilke
(1929, p. 49), dice che "amare è un'angusta occasione per il singolo di
maturare, di diventare in sé qualcosa, diventare mondo grazie ad un altro,
è una grande immodesta istanza che gli vien posta, qualcosa che lo
elegge, lo chiama a un'ampia distesa". Quando rinunciamo ad amare,
quando non ci consentiamo questo incontro con l'altro, ci suggerisce
Barthes (1977, . 87), noi in realtà rinunciamo al nostro immaginario.
E allora
possiamo dire che l'amore è si un groviglio, un disordine, è
sconvolgimento, irritabilità, ma solo dal caos nasce una nuova esistenza.
L'esperienza creativa dell'amore è l'attivazione del nostro immaginario
che dalla confusione riesce a dare forma al proprio pianeta interiore.
So bene che
le remote origini etimologiche di una parola possono non avere più niente
a che vedere col suo significato successivo, ma è un fatto che la radice
latina della parola `desiderio' (de‑sidera) stava a indicare la situazione
di un auspice messo nell'impossibilità di fare previsioni dalla "assenza
di stelle" (ovviamente a causa della nuvolosità del cielo). Ed è un fatto
che, se agli auspici romani le stelle servivano a fare pronostici, da che
mondo è mondo, ai naviganti sono servite per orientarsi. Bene: qualcosa di
simile accade in amore quando si desidera. Non siamo più in grado di
orientarci, ci mancano i punti di riferimento esterni. È proprio in questa
dimensione che non si frequentano mai le strade maestre perché esse
infatti abbondano di punti di riferimento, mentre l'amore ci butta fuori
strada, fuori da ciò che ci è già noto e la realtà che incontriamo va
continuamente interpretata, perché non ha riferimenti col nostro passato.
Allora `desiderare' è come una condizione in cui il soggetto non riesce
più a interpretare la realtà con criteri noti e abituali, come
sovvertimento dei segni, come perdita dei punti di riferimento e
dell'orientamento nel reale. L'individuo sperimenta una situazione che ha
la caratteristica di essere sempre nuova: Eros crea movimento psichico,
stabilisce nuove connessioni e immette in nuove e sconosciute
progettualità.
È come se
fossimo strappati da uno stato di quiete, che conviene perché nella calma
i riferimenti rimangono sempre gli stessi. Se noi sostiamo per un attimo
in un posto, questo a diventa familiare. Nella dimensione amorosa si
attiva un collegamento con qualcosa che si trasforma, e ciò che muta ci è
sempre imprevedibile. L'ignoto è un'altra caratteristica dell'essere
desideranti: siano privi di riferimento e proiettati violentemente di
fronte a ciò che non conosciamo.
Ma ciò che è ignoto in genere provoca paura. Vorrei
sottolineare come questa e la dimensione amorosa vadano sempre insieme; un
.segnale del nostro essere innamorati è
la sensazione di paura che abbiamo di fronte
all'amore e se non proviamo anche angoscia
per quello che sta succedendo probabilmente noi non amiamo. "L'amore
eccita la paura", scrive Hillman (1966, p. 93), "siamo spaventati
di amare e spaventati nell'amore, compiamo propiziazioni magiche,
ricerchiamo segni e chiediamo protezione e guida." E allora
dobbiamo chiederci perché c'è questa esperienza. Possiamo essere
abbastanza sicuri che la dimensione amorosa, questa ineffabilità
dell'altro che io riesco a conquistare attraverso il mio immaginario, è
nella storia della cultura umana un fatto relativamente recente. Per De
Rougemont, "L'antichità non ha conosciuto nulla di simile all'amore di
Tristano e Isotta. È risaputo che per i Greci e i Romani è una malattia (Menandro)
laddove trascenda la voluttà, che è il suo fine naturale. E’ una frenesia,
dice Plutarco, taluni han pensato che fosse una rabbia. Dunque bisogna
perdonare agli innamorati proprio come a dei malati" (De Rougemont,1939,
pp. 102‑103).
Probabilmente è un'acquisizione "recente", ed è proprio della specie umana
il trovarsi in una situazione in cui si vive costantemente nel segno di
una dipendenza vitale. L'individuo che si lascia morire una volta separato
dal partner o la gelosia e la monogamia intese come pretese nei confronti
dell'altro rappresentano dei significativi esempi, anche se in alcuni
mammiferi e volatili si riscontra qualcosa di vagamente simile: la femmina
(e/o il maschio dei colombi) viene considerata in virtù di un possesso
duraturo. Per morivi sconosciuti, ma forse comprensibili alla luce di una
nuova funzionalità della specie, siamo stati dunque in grado di sviluppare
la dimensione amorosa "contro natura", senza che ne fossimo all'inizio
geneticamente provvisti. Abbiamo inventato e proposto a noi stessi questa
modalità per la quale avvertiamo il bisogno di sentirci lacerati e di
lacerare l'altro, e il nostro vissuto è accompagnato dalla paura in quanto
non ne siamo ancora padroni. Ecco perché di questo sentimento è difficile
parlare ed è necessario farne esperienza per poter tentare di capirlo.
Vorrei ribadire che un segno del nostro essere coinvolti è il vivere,
accanto a questa situazione di rapimento, anche la paura che possa
accadere un evento distruttivo. E questo timore è giustificato perché è
difficile accettare come naturale il fatto che le maggiori sofferenze e i
maggiori dolori che riusciamo a provare e a provocare negli altri si hanno
prevalentemente nell'amore e non ci sono altre esperienze che possano
eguagliare quella del tormento che arrechiamo o che riceviamo in questa
dimensione. E non può non sorprenderci il fatto di scoprire che apportiamo
un danno mortale a quella stessa persona a cui abbiamo dedicato la nostra
esistenza e per la quale siamo pronti a fare qualsiasi cosa. Si può anche
uccidere e non e un caso che innumerevoli tragedie sono legate all'amore:
si arriva a uccidersi entrambi se la passione non può essere portata
avanti, e del resto sappiamo molto bene che il suicidio come suggello di
un contrasto sentimentale sofferto non è sorto né tramontato col
Romanticismo.
La dimensione amorosa porta sempre con sé
un'angoscia mortale e, legato a essa,
un senso di colpa incancellabile. Lo
psicologo spiega questo senso di colpa ‑ e il suo lavoro quotidiano con i
pazienti gli offre continuamente prove della validità di questa
interpretazione ‑ col fatto che fronteggiamo esperienze indissolubilmente
legate, complementari ma drammaticamente conflittuali:
il divieto e la trasgressione.
È ormai un luogo comune sentir dire e anche difendere con forza l'idea
che nell'amore si è più liberi; ma i fatti ci dicono il contrario: amare
ed essere amati significa scontrarsi, presto o tardi, con i divieti delle
persone che a stanno intorno. Il nostro entusiasmo amoroso viene sempre
vissuto dagli altri come una manifestazione pericolosa, destabilizzante,
che può mettere in crisi i loro schemi e strutture relazionali.
Chi vive in prima persona la metamorfosi che si
accompagna all'esperienza amorosa sa che sta mettendo in discussione
soltanto lo status quo, eppure il collettivo già vede in tale modifica un
sovvertimento intollerabile e mobilita perciò il divieto, costringendo gli
amanti alla trasgressione, che è appunto un'infrazione alle leggi umane,
alcune delle quali mirano soltanto a conservare e stabilizzare, a impedire
queste fughe in avanti. Tutte le volte che capita di rifiutare, attraverso
la razionalizzazione, l'esperienza amorosa, non si fa altro che obbedire a
una legge collettiva ormai interiorizzata. Ognuno di noi ha assorbito
questa struttura che nega di vivere liberamente il desiderio, mentre nella
vita siamo sottoposti a continue sollecitazioni esterne, e allora può
capitare, e spesso capita, che non viviamo il desiderio ‑ e l'immaginario
attivato dal desiderio ‑ in ossequio a una proibizione esterna che ormai
fatalmente abita dentro di noi e della quale non siamo neanche
consapevoli. La miseria, l'impoverimento della nostra esistenza, la
nullità, la staticità, sono proporzionali alla forza con cui agisce dentro
di noi un tale impedimento. Io mi riferisco soprattutto al processo
dinamico che si attiva nella cosiddetta fase dell'innamoramento, che
qualcuno può anche ritenere soltanto un momento iniziale destinato a
essere normalizzato. Si deve avere però il coraggio di dire che questo
periodo iniziale potrebbe anche essere permanente: questa esperienza
dirompente mi strappa a consolidate quanto sterili certezze e mi porta
altrove. E del resto Jung diceva: "L'amore nel senso della
concupiscentia è la più infallibile dimensione dinamica che
porta l'inconscio alla luce"
(Jung, 1954, p. 86).
Per poter
vivere completamente la tempesta che io stesso ho cercato, devo avere la
forza, il coraggio e la capacità di neutralizzare ciò che sento
all'interno come un grido di eterno e minaccioso rimprovero.
La nostra
vita é costellata di rapporti, ma è anche costellata dalla crescita e se
non possiamo attivare questa possibilità di crescita diventiamo sterili,
avidi, spenti. L'immaginario da cui si trae l'energia creativa non è più
vivificante, mentre la nostra esistenza ha bisogno d'essere illuminata da
questo genere di circostanze. L'altra "esperienza", il bilancio delle
vicende che abbiamo vissuto, non ci dà molta luce perché, come dice
Confucio, è una lampada che portiamo sulla schiena come uno zaino e perciò
illumina soltanto la strada percorsa, e non solo non rischiara il cammino
che è davanti a noi, ma neanche i luoghi che stiamo attraversando, i
momenti che viviamo di volta in volta. Se non accendiamo la luce del
nostro immaginario non vediamo niente; qualsiasi esperienza, anche la più
ricca in senso oggettivo, diventa la più misera in senso soggettivo perché
le manca la luce di questa dimensione fondamentale.
Ma perché il
divieto? Una volta interiorizzato, esso serve a prevenire l'angoscia, a
evitare la tremenda sensazione di essere braccati che proviamo quando ci
sorprendiamo a fare qualcosa che potrebbe esserci rimproverato. Per
tenersi al sicuro dai sensi di colpa ricorriamo al rispetto della
proibizione, che a sua volta tiene lontana la violenza del desiderio;
eppure è proprio il desiderio che ci dà la forza di affrontare l'esistenza
in modo nuovo, che ci mette in contatto con nuovi valori e nuovi
significati. Nel linguaggio comune il divieto interiorizzato viene
chiamato "voce della coscienza", ma si tratta di una consapevolezza
statica, "alla fonda", saldamente ancorata in un porticciolo sicuro; per
salpare, per navigare e toccare altre terre, la nostra coscienza ha
bisogno di "mollare gli ormeggi", rischiando tempeste e mare grosso su
torte sconosciute. Fuori di metafora, la coscienza spinta dal desiderio è
costretta a inventare continuamente il significato dell'altro.
Vediamo di
chiarire cosa vuol dire "inventare il significato dell'altro". Quante
volte abbiamo detto a qualcuno "Tu mi sfuggi", oppure "Non riesco a
capirti" e quante volte ci è stato detto, senza sapere che in realtà è
proprio quell'elemento che attiva un processo evolutivo. Nella dimensione
amorosa la prima esperienza è la percezione di un impedimento: qualcosa o
qualcuno dentro di noi ci dice che stiamo avventurandoci su un terreno che
non è il nostro; però, per una strana coincidenza, la percezione del
divieto si accompagna alla sensazione, forse tenue, sommessa ma
disperatamente tenace, di avere il coraggio di infrangerlo. De Rougemont
afferma: "L'ostacolo {...} e la creazione dell'ostacolo da parte della
passione dei due eroi {...} è soltanto un pretesto necessario al procedere
della passione, o non è invece legato alla passione in un modo molto più
profondo? Non è, per chi scruta il mito in tutta la sua profondità,
oggetto stesso della passione? {...} e tuttavia la passione d'amore
costituisce, di, fatto, un'infelicità”.
La società
in cui viviamo, e i cui costumi non sono in fondo mutati, sotto questo
rapporto, da secoli, porta l'amore‑passione, nove volte su dieci, a
rivestire le forme del'adulterio {...} Affermare che l'amore‑passione
significhi di fatto l'adulterio è insistere sulla realtà che il
nostro culto dell'amore maschera e trasfigura al tempo stesso; è mettere
in luce ciò che questo culto dissimula, respinge e rifiuta di nominare,
per concederci un ardente abbandono a ciò che rivendicare non osavamo.
{...} Per chi giudicasse dalle nostre letterature, l'adulterio apparirebbe
come una delle occupazioni più rimarchevoli alle quali si dedicano gli
occidentali: non ci si metterebbe molto a stendere la lista dei romanzi
che non vi facciano neppure un'allusione {...} senza l'adulterio che ne
sarebbe di tutte le nostre letterature? Il fatto è che la nostra forza
psicologica consiste esattamente nella capacità di combattere ciò che è
contro un processo di crescita, e il momento in cui si riesce a percepire
l'ostacolo insieme alla sensazione di avere l'energia di neutralizzarlo è
anche il momento in cui la psiche diviene consapevole di sé. Quando io
faccio qualcosa che non dovrei fare quindi, non mi trovo sulla strada
maestra ma preferisco aprirmi un percorso personale, è allora che mi rendo
consapevole della mia esistenza. Non procedo su un sentiero sicuro sul
quale trovo indicata la direzione da seguire ma su una strada dove non ci
sono segni, una via che io stesso traccio: in quel momento io sento
realmente che sto esistendo perché servo se non altro a me stesso; ma
proprio perché io mi sono assunto la responsabilità dell'orientamento, la
consapevolezza passa necessariamente attraverso il timore e la paura di
perdersi.
Nietzsche (1879‑1881, 309, p. 186) diceva che
nell'amore è soprattutto il timore che
fa crescere. L'illusione amorosa mostra la
bellezza dell'altro, ma il timore spinge a riflettere, a cercare, a
indovinare, vale a dire a esercitarsi a penetrare nella realtà al di là
delle . apparenze. La paura svolge un ruolo propulsivo, di conoscenza. Già
Platone (Simposio 211 c) parlava di Eros come conoscenza.
L'amore
eccita la paura, perché ciò che l'altro rappresenta va continuamente o
interpretato; e questa dimensione è uno spazio infinito, perché
l'interpretazione totale sarebbe la fine di questa esuberante forza che mi
spinge verso l'altro. Possiamo dire che l'amore e la paura vanno sempre
insieme perché hanno la primitività di ciò che non si conosce, perché
coinvolgono livelli molto elementari, non sono saliti al vaglio della
razionalità: ci prendono, ne siamo dominati.
Sono del parere che quando manca questa paura la
nostra dimensione amorosa è finita o non è mai stata. Direi allora che
l'essere umano sperimenta se stesso
quando riesce a trasgredire. Se è portatore
di un divieto e riesce a superarlo, l'uomo si mette in discussione, ma
solo in quel momento ha la percezione di essere uomo ed è realmente vivo.
È esperienza comune che nella solitudine, quando non c'è possibilità di
questa attivazione del nostro immaginario, noi sentiamo di avere un corpo,
ma è come se ci fosse estraneo, come se opponesse una enorme inerzia; come
se ogni movimento ci presentasse il conto al centesimo della fatica che
richiede e noi non fossimo in grado di pagare quel conto, non avessimo
più forza da spendere. Ecco: quando ci viene meno la possibilità di
essere attivati nel nostro immaginario, noi ci sentiamo privi di forza. É
una sensazione che ci fa, o ci dovrebbe fare, più terrore di quello che ci
incute l'avventura di interpretare l'altro, con tutto il rischio e la
prospettiva di non riuscire sino in fondo nell'impresa. Per inciso, questo
rischio è uno dei motivi per cui nell'ambito della dimensione amorosa noi
torniamo alle "propiziazioni magiche": consultare le stelle, o l'indovina,
o gettare una moneta per aria, sono rituali apotropaici che servono
a contenere l'angoscia del rapporto con l'altro. Ma non è da invidiare chi
non ha nulla da chiedere alle stelle: noi diventiamo psiche, esseri
psichici, solo quando la trasgressione e l'angoscia che ne deriva ci
costringono a ricorrere ai riti propiziatori. E non c'è da compiangersi
per "essere giunti a tanto", non c'è da inveire contro la "malasorte"
quando l'esperienza amorosa sembra presentare solo la faccia frustrante.
Frasi come
“Maledetto quel giorno” o “Quanti anni ho perso dietro di te” sono insulti
alla verità: quel giorno è stato di sicuro un giorno fausto e gli anni
vissuti a partire da quel momento non solo non sono andati perduti, ma
sono stati i più proficui della nostra esistenza. Quanto all'angoscia che
ha segnato i passaggi cruciali della vicenda amorosa, c'è da sospettare
che essa in fondo sia costitutiva di ogni vitale esperienza umana.