SECONDA PARTE                                                                                                                                                                                                                                          

GAETANO AMOROSO

IL PRINCIPIO DELLA MASSA

(CONSIDERAZIONI DEL DOPO GUERRA)

EDITORE E. SCHIOPPO – TORINO – 1931

[Non vengono qui riprodotti né i 14 schizzi intercalati nel testo né i 2 schizzi fuori testo]

“…et d’ailleurs je crois qu’il faudrail plutôt un mauvais general que deux bons…”   NAPOLEONE

PREMESSA

Carlo De Cristoforis, insigne e venerato nostro maestro, proclamò che il principio sommo della guerra è: “La vittoria è decisa dall’urto della massa”. La verità di questa affermazione, dopo l’esperienza della guerra mondiale – durante la quale ci siamo formati l’abito mentale di considerare la lotta come fatta da interi popoli in armi – ci appare più luminosa che mai. Ci appaiono oggi, al sereno esame dei fatti, immense masse di armati che, mosse da fili invisibili, balzano dalle trincee fangose e con impeto si slanciano all’assalto delle posizioni nemiche validamente difese da un avversario tenace ed accanito. Ricorre allora alla nostra mente la grande verità di quel principio perché ancor oggi è l’urto, è la battaglia che sola può condurre alla vittoria. Ancor oggi non basta costruire trincee profonde ed erigere barriere di reticolati, non basta lanciare sull’avversario enormi masse di proiettili o infierire, con i nuovi prodotti della scienza, sulle popolazioni inermi; tutto ciò ha, indubbiamente, grande valore, poiché in tal modo si deprime il morale dell’avversario, si scuote la resistenza delle popolazioni e si crea in esse un vivo senso di timore; ma la vittoria, quella che ci consente di imporre al nemico la nostra volontà, è data ancor oggi dall’urto della massa.

Il principio è, pertanto, indiscutibilmente vero: noi vincemmo la guerra allorché, logorato per lunghi anni il nemico, ci fu possibile lanciare al di là del Fiume Sacro tutte le nostre forze in massa compatta ed ordinata, genialmente diretta e saviamente condotta; vinsero gli alleati sulla frontiera occidentale allorché fu loro possibile, mediante le inesauribili risorse dell’America, in uomini ed in materiali, martellare con sempre crescente impetuosità l’esercito tedesco, il quale non potè resistere alla pressione perché essa diveniva ogni giorno sempre più incontenibile. Ma noi non ci proponiamo di dimostrare che l’offensiva è ancor oggi la migliore forma di guerra. Questa è, certo, una verità lapalissiana, e perciò non richiede ormai dimostrazione alcuna.

Abbiamo detto che durante l’ultima guerra ci siamo formati l’abito mentale di considerare la lotta come fatta da interi popoli in armi. In effetti, questo è stato uno degli aspetti più caratteristici dell’ultima guerra. Ora, se prescindiamo un momento solo dal considerare il complesso e poderoso problema che viene a noi posto dalla necessità di adottare speciali ed adeguate previdenze per far vivere queste grandi masse, dotarle di tutti i mezzi materiali ad esse necessari, e mantenere questi mezzi sempre in piena efficienza; ed ancora, se tralasciamo dal considerare – per un momento solo, non certo per diminuirne l’importanza – l’opera ardua e costante che ebbe per scopo di mantenere sempre integre le forze morali dei combattenti, ci rimane pur sempre da considerare un altro aspetto non meno importante di questa grande guerra di popoli, e cioè: queste immense masse di armati, come vennero ripartite sui vari teatri di operazione? Come vennero riunite per la battaglia? Furono esse condotte alla battaglia secondo quanto suggerisce il sempre vero ed immutabile principio della economia delle forze? In altri termini, quali furono i nuovi aspetti assunti dal principio della massa durante l’ultima guerra? È quello che ci proponiamo di vedere col presente lavoro.

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Anzitutto cerchiamo di precisare. Osservare il principio della massa significa impiegare la maggiore possibile quantità delle forze che si hanno a disposizione sul punto e nel momento decisivo della lotta. Questo modo di intendere il principio ci fa apparire in un quadro ordinato ed armonico tutti gli aspetti del problema, cioè: ripartizione delle forze nei teatri di operazione principale e secondario, economia delle forze, riunione – nel tempo e nello spazio – della maggiore possibile quantità di esse da impiegare sul punto e nel momento decisivo e, soprattutto, unità di comando. Come impiegare, infatti, la massa senza una perfetta ed assoluta unità di comando? Vero è che nelle guerre di leghe, quale quella da noi combattuta, riesce difficile – se non impossibile – realizzare questo requisito indispensabile imposto dal principio della massa perché lo spirito nazionale dei popoli e imprescindibili ragioni di politica decisamente vi si oppongono, ma anche vero è che di fronte al comune pericolo ogni malinteso orgoglio nazionale dovrebbe essere soffocato, e tutte le forze delle varie nazioni alleate dovrebbero formare un unico blocco compatto ed efficiente, mosso da una sola volontà tutta protesa verso lo scopo finale da raggiungere.

Vedremo in seguito quali gravi conseguenze abbia prodotto, nelle varie fasi dell’ultima guerra, la mancanza di un comando unico; per ora ci limitiamo soltanto ad accennare alla speciale importanza di questo aspetto essenziale del principio della massa, dalla cui soluzione dipende, senza dubbio, l’esito finale della lotta.

 

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Ripartizione delle forze – È questione di puro calcolo che deve però essere accuratamente esaminata e razionalmente risolta. Essa ha per massimo determinante un elemento variabilissimo e quasi sempre incerto: la situazione del nemico. È perciò che la ripartizione delle forze è il problema più arduo da risolvere. Inoltre, la soluzione di esso richiede, nel comandante, intelligenza non comune ed intuito profondo.

Essa è, pertanto, una manifestazione artistica. Napoleone ci lasciò esempi mirabili di quest’arte, ed anche il grande Moltke ci fu maestro impareggiabile non solo, ma ci ammonì anche affermando che “è assai difficile riparare durante una intera campagna agli errori commessi nello schieramento iniziale”.

Determinato il teatro principale sul quale intende agire con la massa delle sue forze, il comandante deve determinare quale aliquota di esse debba essere destinata al teatro od agli scopi secondari, compito questo assai difficile poiché vi influiscono tutti i fattori della lotta: forza, spazio, tempo, terreno.

Infatti è necessario valutare, nella misura la più esatta possibile, le forze che il nemico può opporre alle frazioni della massa; è pure necessario determinare se e fino a qual punto queste frazioni possano cedere terreno senza compromettere l’azione della massa sul teatro principale; è indispensabile calcolare, con la maggiore precisione possibile, il tempo minimo durante il quale le frazioni della massa debbano contenere la pressione dell’avversario e tenere impegnate le sue forze in modo da impedire che esse accorrano sul teatro principale, e consentire così alla massa di svolgere la sua azione in piena sicurezza; è infine necessario tener conto dell’ausilio che le frazioni possono ricevere dal terreno sul quale devono operare. Tutti questi fattori devono essere sottoposti ad un accurato e ponderato esame: ogni valutazione in difetto mette in pericolo l’azione della massa, ogni sopravalutazione sottrae alla massa stessa, per l’azione principale, una determinata quantità di forze.

Economia delle forze – È un aspetto del problema che non richiede alcun commento, tanto è intuitivo. Economia delle forze vuol dire fare delle forze il più giudizioso impiego, senza logorarle anzitempo, serbandole con ogni cura intatte ed in piena efficienza materiale e morale, in modo che si possa disporne al momento opportuno con la massima prodigalità, per ottenere la vittoria.

Riunione delle forze – In queste parole si sintetizza tutto l’insieme di ordini e di movimenti che tendono a formare la massa sul punto e nel momento decisivo. La riunione delle forze, aspetto essenziale del principio della massa, ci dice che è necessario: limitare o ridurre allo stretto indispensabile la forza delle varie frazioni che devono agire sul teatro di operazioni secondarie; inquadrare tutta l’azione di queste forze costrette ad operare lontano dalla massa, in una razionale successione nel tempo, in modo che possano darsi, scambievolmente, il più valido appoggio e, nel contempo, facilitare l’azione della massa sul teatro principale; portare alla battaglia la maggiore possibile quantità di forze, indipendentemente da quelle che potrà portarvi il nemico; disporre le varie unità costituenti la massa intervallate e distanziate razionalmente in modo che ciascuna di esse possa non soltanto esplicare tutta l’azione di cui è capace, ma dare anche valido appoggio alle unità laterali.

La riunione delle forze non è pertanto un concetto di carattere puramente materiale, né, tanto meno, significa pura traslazione di forze da una località ad un’altra; essa non mira soltanto a portare alla battaglia il massimo numero di combattenti, ma tende anche a portare ogni singola unità al posto che le è assegnato nel quadro generale della battaglia. La riunione delle forze contiene perciò in sé l’idea della manovra che il comandante intende svolgere; essa può quindi considerarsi, a somiglianza della ripartizione delle forze, una manifestazione artistica del comandante. Inoltre, in essa, il fattore tempo assume una particolare importanza, ed è per questo – e non soltanto per questo – che il comandante deve possedere speciali doti di prontezza, di decisione, di carattere. Infatti, la riunione delle forze viene effettuata o per assumere l’offensiva, oppure in previsione o per opporsi ad una offensiva nemica. In ogni caso, sia che tenda a realizzare la sorpresa sia che tenda a prevenire, ad arrestare o a ributtare l’offensiva nemica, primo requisito indispensabile è che essa venga compiuta con la massima celerità. Questa particolare importanza del fattore tempo fa sì che la riunione delle forze si presenti come l’operazione la più difficile che il comandante deve risolvere, poiché non basta prendere le più accurate misure di carattere preventivo, né basta costituire forti riserve; è anche necessario saper stimolare nei capi e nei gregari quell’alto senso di cameratismo e di solidarietà collettiva indispensabili perché ognuno senta in sé che è impegno d’onore giungere in tempo al posto designato.

 

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Chiudiamo queste brevi note di carattere generale affermando che l’ultima guerra, mentre ha pienamente confermato la immanenza, sotto tutti gli aspetti, del principio della massa, ha d’altra parte fatto rilevare che nel nostro concetto di massa è necessario ora comprendere anche tutto il popolo che, se pure non ha preso parte attiva alla guerra testé combattuta, dovrà essere considerato, in un avvenire assai prossimo, per effetto della nuova arma conquistatrice di tutti gli spazi, supportata dalla scienza chimica in crescente, continuo sviluppo, uno degli attori principali della grande guerra avvenire.

 

CAPITOLO I.           LA CONCEZIONE NAPOLEONICA DELLA MASSA

 

Comando unico, massa unica, linea d’operazione unica, sono le tre espressioni che caratterizzano in modo particolare la concezione napoleonica della massa. In tutta l’arte napoleonica, infatti, il fattore comando è il primo determinante dell’arte stessa; e nella concezione della massa esso non è soltanto l’aspetto essenziale dell’immutabile e sempre vero principio proclamato dal De Cristoforis, ma è anche l’elemento capitale dal quale scaturiscono, come da limpida fonte, tutti gli altri aspetti anch’essi importanti del principio.

Assoluto nella forma e nella sostanza, il comando napoleonico è uno nel senso lato della parola. Ma ciò è da tutti risaputo. Tutti gli scrittori di cose militari che si siano appena appena occupati di Napoleone, lo hanno ripetuto a sazietà. Non riteniamo quindi di doverci fermare su questo argomento, né riteniamo sia necessario indugiarci sui concetti di massa unica e di linea di operazione unica, perché tali concetti sono stati anch’essi ampiamente trattati dagli studiosi dell’arte napoleonica.

Passiamo perciò a considerare alcuni altri particolari aspetti della concezione napoleonica della massa.

 

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Taluno afferma che Napoleone ebbe della massa un concetto puramente materiale. Riteniamo che a questa affermazione non debba essere attribuito un valore troppo assoluto. Infatti, vero è che Napoleone ha sempre cercato, ed è quasi sempre riuscito a portare il maggior numero possibile di combattenti sul punto e nel momento decisivo; ed è anche vero che uno dei fattori più importanti di vittoria nel sistema di guerra napoleonico era rappresentato da un principio di pura meccanica e cioè, che la forza è data dal prodotto della massa per la velocità; ma se pensiamo al complesso lavorio che è necessario compiere allorché dal campo teorico si passa in quello della esecuzione; se pensiamo alle predisposizioni che occorre prendere per riuscire a riunire le forze celermente e, soprattutto, tempestivamente; ed ancora, se pensiamo che non basta imprimere un determinato impulso alle masse, ma che è anche necessario che queste masse siano fisicamente atte a marciare celermente, e siano sospinte alla battaglia dall’entusiasmo, dalla coscienza della propria forza, dalla fiducia nel successo, da una grande forza morale insomma, vediamo che il concetto puramente materialistico deve necessariamente lasciare, nella concezione napoleonica della massa, un ampio posto anche ai concetti intellettualistico e moralistico.

Saremmo indotti ad esemplificare:

·         alla battaglia di Ulma Napoleone portò, come è noto, una massa imponente di forze. Traducendo ciò in un concetto puramente materialistico, potremmo dire che Napoleone aveva ad Ulma forze più che doppie di quelle di Mack e perciò vinse. Ma Napoleone avrebbe vinto anche quando le sue forze fossero state uguali od anche inferiori a quelle del Mack;

·         a Marengo, Napoleone non portò alla battaglia la massa delle sue forze riunite. Fu battuto, ma giunse il valoroso Desaix e con un pugno di uomini trascinò i superstiti alla vittoria;

·         e ad Austerlitz? È noto con quanta difficoltà Napoleone riuscì a riunire le proprie forze ad Austerlitz: per indurre in inganno il nemico dovette chiedere una sospensione d’armi; guadagnò così 24 ore. Ma Davout giunse … come giunse, e nessuno potrebbe affermare che Napoleone non avrebbe vinto lo stesso anche se Davout non fosse giunto.

Ma basta con gli esempi. Si può affermare che nella concezione napoleonica della massa il fattore numero era tenuto in gran conto, ma non può essere negato che Napoleone non affidava la vittoria soltanto al numero, ma anche:

·         al fattore intellettuale, rappresentato dalla sua abilità di comando, dalla sua genialità;

·         al fattore morale, inteso nel senso di superiorità morale nei combattenti, superiorità che era la risultante di numerose forze, quali il fascino che esercitava il Grande Condottiero, la natura della manovra che rivelava ad ognuno la certezza della imminente vittoria, ecc.

 

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Ma vi è anche, nella concezione napoleonica della massa, un concetto ancor più caratteristico: quello della relatività. Spesso Napoleone ebbe, complessivamente, sul teatro di guerra, forze inferiori a quelle del nemico. Tuttavia egli, per effetto del suo speciale modo di condurre le forze alla battaglia, per la prontezza delle sue decisioni, per il carattere di speciale celerità che sapeva imprimere alle sue forze talché esse giungevano sempre improvvisamente sul punto e nel momento decisivo, potè, salvo poche rare occasioni, avere, per la battaglia decisiva, forze superiori a quelle del nemico.

Questa superiorità di forze, relativa rispetto a quelle che complessivamente agivano sul teatro di operazioni, costituiva la caratteristica più geniale della condotta di guerra napoleonica. Per essa, la riunione delle forze in vista della battaglia assumeva una importanza del tutto essenziale. Era l’arte di formare la massa, era l’arte di sorprendere l’avversario. In essa, il fattore tempo imponeva le sue leggi semplici e dure e rappresentava l’elemento primo determinante della vittoria:

 

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Accenniamo infine ad un altro aspetto assai caratteristico della concezione napoleonica della massa.

Se esaminiamo lo schieramento delle forze all’inizio di una campagna, vediamo che le varie unità che compongono queste forze occupano tutto il teatro di operazioni, sono disposte a larghi intervalli e sono anche variamente scaglionate nel senso della profondità, talché saremmo indotti a pensare ad una violazione del principio della massa. Ma se estendiamo il nostro esame alla dislocazione delle forze stesse nella imminenza della battaglia, vediamo invece una massa ben raccolta e bene articolata, pronta ad agire con la massima rapidità, sotto l’impulso di una volontà forte ed intelligente.

Gli è che nel sistema di guerra napoleonico, l’occupare tutto il teatro di operazioni mediante un largo schieramento iniziale, ed il concentrare le forze nella imminenza della battaglia, determinava una differenza sostanziale nelle concezioni napoleoniche di “forze riunite” e “forze concentrate”.

Infatti, per Napoleone le forze sono “riunite” allorché possono, sotto l’impulso della sua volontà, concentrarsi per la battaglia rapidamente e tempestivamente; sono invece “concentrate” allorché ciascuna unità ha già raggiunto il posto che le è assegnato nel quadro generale della battaglia, quando cioè le varie unità componenti la massa sono dislocate in modo da potersi appoggiare e sostenere a vicenda, ovvero facilitarsi reciprocamente l’espletamento del compito a ciascuna di esse assegnato.

È così che la situazione del nemico e la distanza alla quale esso si trovava consentivano alla massa napoleonica di distendersi e di scaglionarsi occupando in un primo tempo tutto il teatro di operazioni, pur mantenendosi sempre riunita e pronta a concentrarsi prima del nemico non appena questi avesse accennato ad avanzare, o non appena Napoleone avesse determinato di iniziare le operazioni. In tale momento, le mosse napoleoniche assumevano il carattere di speciale celerità e l’arte del Grande Capitano consentiva alla massa di formarsi per essere poi lanciata di sorpresa, forte della sua stessa volontà di vincere non meno che della coscienza della sua superiorità materiale e morale, alla conquista della vittoria che si rivelava certa e completa.

 

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Sarebbe forse interessante vedere come i concetti su esposti trovino pratica esplicazione nelle campagne napoleoniche, ma sarebbe anche opera quanto mai superflua poiché valenti scrittori di cose militari hanno già accuratamente e dettagliatamente analizzate, in ogni minimo particolare, tutte le battaglie combattute dal Grande Capitano. D’altra parte, noi non abbiamo la pretesa di rivelare nuovi aspetti dell’arte napoleonica. Tuttavia, cercheremo di dimostrare, mediante alcuni esempi, la verità di quanto abbiamo sin qui affermato sulla concezione napoleonica della massa.

 

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Il 13 ottobre 1806 la Grande Armée si apprestava a riposare dopo aver marciato ininterrottamente per sei lunghissimi giorni. Ma allorché giungono le informazioni del Lannes (ore 15) Napoleone, sorpreso, vede che la battaglia è imminente ed emana in gran fretta gli ordini per la concentrazione delle forze.

Scrive al Soult: “… affrettate la vostra marcia su Jena…”

al Lefebvre: “l’Imperatore vi ordina di avanzare al più presto possibile; fate passare lo stesso ordine al maresciallo Soult. Che un aiutante di campo ammazzi un cavallo se occorre …”

ed al Ney: “ … spingete tutto il vostro corpo d’armata il più avanti che sia possibile verso Jena per giungervi domattina di buona ora …”

Il Davout, appoggiato dal Bernadotte, deve avviluppare la sinistra del nemico se questi attacca nella sera (la sera poi, alle ore 10, Napoleone dà ordine al Davout di puntare su Apolda per cadere alle spalle del nemico).

Il Murat ed il Bernadotte sono stati già chiamati verso Dornburg sin dalle ore 9 del mattino, in seguito alle informazioni pervenute dall’Augerau, dal Davout e dal Murat stesso.

Dal complesso di tali disposizioni vediamo che Napoleone si appresta a formare la massa coi corpi: Guardia, V, VII, VI, IV e riserva di cavalleria, per dare battaglia al grosso nemico che alle ore 16 egli valuta in 90.000 uomini; lascia invece il III corpo a Naumburg. Il I corpo, infine, deve trovarsi a Dornburg il mattino del 14 per appoggiare il Davout, o per concorrere alla battaglia verso Jena (vedi schizzo n° 1).

Pertanto, Napoleone si presenta alla battaglia di Jena con le seguenti forze:

                Guardia (Lefebvre)                                            circa         7.000  u.

                V corpo (Lannes)                                                              21.000 u.

                VII corpo (Augerau)                                                          17.000 u.

                VI corpo (Ney)                                                                   20.000 u.

                IV corpo (Soult)                                                                 27.000 u.

                Riserva cavalleria (Murat)                                             13.000 u.

                                                                              ----------------------------------------------

                                                                              Totale    circa    105.000  u.

 

concentra cioè per la battaglia una massa di 100.000 uomini, e lascia lontano dal campo di battaglia un’altra massa di circa 47.000 uomini, cioè:

                il III corpo, 26.000 u., a Naumburg, col Davout;

                il I corpo, 21.000 u., a Dornburg, col Bernadotte che per circostanze che non è qui il caso di vedere, rimane inoperoso.

Avvengono così, data la situazione del nemico, due battaglie separate: quella di Jena e quella di Auerstädt.

Giunti a questo punto possiamo farci una domanda: se Napoleone avesse avuto della massa un concetto puramente materiale come taluno crede di potere affermare, avrebbe egli lasciato 47.000 uomini lontani dal campo di battaglia che riteneva il principale?

È qui una palese violazione del principio, e se possiamo spiegarcela con la necessità di precludere al nemico la ritirata su Magdeburg (se questo soltanto fosse stato il suo scopo, non avrebbe egli impiegato parte della sua cavalleria?), dobbiamo però riconoscere che Napoleone non portò alla battaglia del 14 ottobre le sue forze riunite. Che anche quando il Davout fosse stato efficacemente sostenuto dal Bernadotte, ben difficilmente egli avrebbe potuto evitare una dolorosa sconfitta qualora i prussiani si fossero dimostrati decisi e ben comandati.

Gli è che Napoleone sapeva di poter tutto osare contro un nemico che visibilmente appariva – e lo era infatti – demoralizzato e vinto ancor prima di combattere.

La forza della sua volontà, la sua abilità di comando, la sua intelligenza, la rapidità e la prontezza nel cogliere ogni nuova occasione, l’intuito profondo nell’interpretare ogni più piccolo indizio, e la sicurezza con cui conduceva le sue forze, davano a Napoleone l’audacia che è propria dei forti.

Non è la massa intesa nel senso numerico (100 o 50.000 uomini poco importa) che deve dare la vittoria, perché la battaglia è già vinta per effetto della manovra concepita ed attuata dal Grande Condottiero; è il fattore intellettuale che conferma la sua decisiva importanza; è il fattore morale, lo spirito dei combattenti, e la volontà di vincere che trionfano sulla indecisione, sulla demoralizzazione, sullo smarrimento di tutto l’esercito prussiano.

Sapeva di poter tutto osare perché portava alla battaglia una massa di uomini decisi e pronti ad ogni sacrificio pur di dare al loro Imperatore la prova tangibile della loro infinita devozione; una massa che, forte e cosciente della sua grande forza morale, anelava di misurarsi con quell’esercito che era sceso in campagna sicuro di ripetere davanti all’Europa, che aspettava in grande ansia, una nuova e più clamorosa Rossbach.

 

                                                                                              *          *          *

 

Il concetto di relatività della massa è tutto contenuto nella nota frase di Napoleone, frase che ci viene riferita dal Gohier nelle sue memorie: “Allorché, con minori forze, ero in presenza di un grosso esercito, riunivo rapidamente il mio e cadevo come un fulmine su una delle sue ali e la rovesciavo. Approfittavo poi del disordine che questa manovra inevitabilmente produceva nell’esercito nemico per attaccarlo in un altro punto sempre a forze riunite. Lo battevo così a frazioni, e la vittoria che ne era il risultato era sempre il trionfo del gran numero sul piccolo”.

Non possiamo non rilevare che questa frase sintetizza, in tutti i suoi aspetti essenziali, l’arte napoleonica di formare e di impiegare la massa. Quest’arte ci si rivela in tutte le sue speciali caratteristiche, con la prontezza nel concepire il disegno di manovra, col carattere di decisione impresso alle operazioni, con la celerità del fulmine nella esecuzione di ogni atto operativo. Vediamone un esempio.

 

                                                                                              *          *          *

 

Il mattino del 29 luglio 1796 giungono a Napoleone – che è a Brescia – le prime notizie dell’offensiva che il Würmser ha iniziato per la valle dell’Adige. Parte subito per Verona, ma per via apprende che l’avanguardia del Massena è stata sorpresa e ricacciata dalla Corona, e che il Massena stesso ha dovuto sgombrare anche Rivoli.

Il Würmser però non scende soltanto per la valle dell’Adige; egli ha inviato anche 18.000 uomini col Quasdanovic per la valle del Chiese. Esigue sono le forze che Napoleone ha in copertura a Salò ed a Gavardo (divisione Sauret, che ha distaccato la brigata Guieu a Gavardo) e, per contro, grave è la minaccia che il Quasdanovic può esercitare sulla sua linea di comunicazione. Ma questa minaccia non è ancora conosciuta da Napoleone il quale, perciò, si appresta, con la sua consueta rapidità di concezione, a formare la massa per battere il Würmser. Ordina infatti:

·         al Massena, di occupare e difendere il fronte Verona-Peschiera; sarà appoggiato dal Despinoy e dalla cavalleria;

·         all’Augerau, di riunire le sue truppe a Ronco e puntare, da Villanova, alle spalle del Würmser; sarà appoggiato dalle truppe della piazza di Verona (vedi schizzo n° 2).

Napoleone verrebbe così a concentrare circa 30.000 uomini contro i 28.000 del Würmser. Ma nella sera giungono le prime notizie dalla valle del Chiese; il Quasdanovic ha bloccato la brigata Guieu a Salò ed ha obbligato il Sauret a ripiegare su Desenzano. Questa minaccia non appare a Napoleone ancora di gravità tale da destare serie preoccupazioni; tuttavia egli non può trascurarla del tutto, ed infatti modifica gli ordini già dati:

Via via però che la minaccia del Quasdanovic aumenta di importanza, il centro di gravitazione delle forze napoleoniche deve necessariamente spostarsi verso ovest, perché, in tal caso, l’avversario più pericoloso non è più il Würmser che, fra l’altro, avanza assai lentamente, ma il Quasdanovic che nel pomeriggio del 30 ha già occupato Brescia e si è spinto sino a Montichiari. Occorre perciò parare a questa grave minaccia, ed infatti Napoleone ordina:

Le forze napoleoniche sono così poste fra le due masse nemiche, le quali, sebbene operino separatamente e senza coordinare la loro avanzata, tendono tuttavia a riunirsi verso Mantova.

Spetterà alla prontezza ed all’abilità di Napoleone di impedire che questa riunione avvenga, operando in modo da mantenere separati i due avversari e di conservare, sia pur in strettissimi limiti, lo spazio di manovra necessario per poterli battere separatamente.

 

                                                                                              *          *          *

 

Il mattino del 31 luglio, infatti, Napoleone emana gli ultimi ordini per formare la massa contro il Quasdanovic:

Il mattino del 1° agosto, poi, egli spinge ancora l’Augerau su Brescia ed ordina al Sauret di continuare, sostenuto dal Despinoy, nell’offensiva intrapresa il giorno precedente, e di spingersi fino a Salò per liberare il Guieu (vedi schizzo n° 4).

Con questi ordini, tutte le forze sono concentrate contro il Quasdanovic. Napoleone però non porta alla battaglia la sola forza materiale della sua armata – già più numerosa delle forze del Quasdanovic – ma porta anche la potenza del suo genio, e la grande forza della sua volontà. Mosse da questa volontà tenace ed intelligente che ne moltiplica le forze e le rende irresistibili, accorrono le masse napoleoniche alla battaglia che per il momento è la decisiva, ma il Quasdanovic, privo di notizie del Würmser, non attende l’urto e si ritira alla minaccia del Sauret e del Despinoy, talché l’Augerau può, alle 10 del 1° agosto, giungere in Brescia che trova già sgombra.

 

                                                                                              *          *          *

 

Riaperta così, quasi senza combattere, la linea di comunicazione con Milano, Napoleone si appresta ad inseguire il Quasdanovic in Val Sabbia, per batterlo definitivamente, ma il mattino del 2 agosto gli giunge notizia che la brigata Valette, lasciata dal Massena ad osservare il Würmser, si è ritirata in disordine da Castiglione cedendo alla prima minaccia del Liptay. Questo avvenimento rivela a Napoleone l’avanzata del Würmser; egli perciò non può più continuare l’azione contro il Quasdanovic, ma deve invece rivolgersi contro il Würmser che nuovamente è divenuto l’avversario più pericoloso. Lascia dunque le divisioni Guieu (che ha sostituito Sauret ferito) e Despinoy a fronteggiare il Quasdanovic e si dispone a concentrare tutte le forze contro il Würmser.

Intanto il Quasdanovic, ricevute notizie della avanzata del Liptay, riprende anch’egli l’offensiva ed il mattino del giorno 3 giunge a Lonato ove si imbatte nell’avanguardia della divisione Massena e quasi riesce ad averne ragione. Ma sopraggiunge il Massena che dopo accanito combattimento l’obbliga a ritirarsi definitivamente.

 

                                                                                              *          *          *

 

Liberato così dalla grave minaccia, Napoleone può ora rivolgersi, finalmente, contro il Würmser. Egli lascia la sola divisione Guieu ad osservare il Quasdanovic e chiama alla battaglia (vedi schizzo n° 5):

                l’Augerau                                                                             circa          5.000 u.

                il Massena                                                                                        15.000

                il Despinoy                                                                                           4.500

                anche il Fiorella, che è a Marcaria, deve

intervenire agendo alle spalle del Würmser,

in direzione di Cavriana                                                                    4.500

                                                                              --------------------------------------------- 

                                                                                              Totale                  29.000 u.

 

Alla battaglia di Castiglione saranno così presenti 29.000 francesi, mentre il Würmser, che era sceso con un esercito di 50.000 uomini, ne porterà soltanto 25.000. Egli perciò potrà solo vantare la gloriuzza di essere penetrato in Mantova; ma questa sua gloria è però assai fugace poiché essa sarà del tutto scomparsa allorché sui campi di battaglia di Castiglione, la massa napoleonica, prontamente e sapientemente concentrata, avrà dimostrato la sua superiorità materiale e morale e la sua forte volontà di vincere.

 

                                                                                              *          *          *

 

Ci siamo un po’ dilungati – forse anche un po’ troppo – sull’esempio di Castiglione perché questa battaglia ci sembra dia un concetto esatto e completo dell’arte napoleonica, quale si presentava sin dalle sue prime manifestazioni. Il genio del condottiero ci sembra appaia in tutta la sua grandezza. Riandiamo col pensiero alle varie fasi della battaglia, e vediamo tutto un susseguirsi di continue minacce alle quali Napoleone oppone tutta la forza della sua intelligenza e del suo intuito, tutta una serie di predisposizioni e di ordini, tempestivi e precisi, sempre rispondenti alla situazione, talché inferiore di numero riesce sempre a battere, pur dopo alterne ed ansiose vicende, alcune delle quali oltremodo pericolose, le masse separate del Quasdanovic e del Würmser.

Ma non vogliamo più oltre indugiarci su questo esempio. Passiamo perciò ad esaminare il terzo aspetto della concezione napoleonica della massa, e cioè: largo schieramento iniziale e concentrazione delle forze per la battaglia.

 

                                                                                              *          *          *

 

La campagna del 1805 offre a questo riguardo un esempio veramente mirabile.

Dal campo di Boulogne la Grande Armée ha marciato a grandi tappe per raggiungere il Reno, ed il 24 settembre, infatti, essa è tutta dislocata sulla fronte Strasburgo-Mannheim-Bamberg (oltre 200 km). I vari corpi d’armata sono distanti fra loro, ma il nemico è ancora lontano e nessuna minaccia può esercitare sulle forze napoleoniche le quali hanno perciò un largo margine di tempo per restringere gli intervalli e formare, ad un sol cenno, la massa.

Il nemico è però fermo sull’Inn, ed allora la Grande Armée si avvia al Danubio per passarlo sul tratto Ingolstadt-Donauwoerth (60 km) e piombare con rapida manovra alle spalle del Mack (vedi schizzo n° 6).

Possiamo figurarci la marcia al Danubio come inquadrata in una vasta figura a forma di ventaglio il cui arco maggiore, fronte di partenza, poggi al Reno-Meno sul tratto Strasburgo-Mannheim-Würzburg-Bamberg, mentre quello minore, fronte di arrivo, poggi al Danubio sul tratto Ingolstadt-Donauwoerth.

I corpi della Grande Armée iniziano la loro avanzata dall’arco maggiore, ma nel procedere innanzi restringono sempre più gli intervalli, e si presentano sull’arco minore, riuniti e pronti a seguire l’impulso della volontà del capo che li conduce alla vittoria.

 

                                                                                              *          *          *

 

Ma un altro esempio ci fa vedere ancor più completo il terzo aspetto della concezione napoleonica della massa, ed è l’esempio di Austerlitz.

Il 21 novembre la Grande Armée, stanca dal lungo inseguimento, assume il seguente schieramento di attesa (vedi schizzo n° 7):

                tra Brünn ed Austerlitz: IV corpo (Soult); V corpo (Lannes); Riserva di cavalleria (Murat); Guardia Imperiale;

                ad Iglau: I corpo (Bernadotte) e parte dei bavaresi;

                da Vienna a Presbourg: III corpo (Davout);

                a Stakerau: Divisione Klein;

                a Nikolsburg: Divisione Beaumont;

                a Waikersdorf: Divisione Bourcier;

                a Léoben: II corpo (Marmont) ed una divisione del III corpo.

Così schierate le truppe napoleoniche possono riposare, e possono, poi, riorganizzati i servizi, affrontare le imponenti masse che il Kutusov si appresta a contrapporre alle sparse forze napoleoniche.

Ma le forze napoleoniche, invero, non sono sparse: esse occupano invece tutto il teatro di operazioni, e sono dislocate in modo da poter formare la massa non appena il nemico accenni a riprendere le operazioni.

Esempio mirabile di ripartizione delle forze, questo schieramento è degno del più attento esame e della più ponderata meditazione; esso ci appare perfetto sotto ogni riguardo.

Ben a ragione il Maraviglia dice che: “Lo schieramento che Napoleone fa assumere il 21 novembre alla grande armata offre all’ammirazione dei posteri la misura del suo genio. La vastità del concetto che esso racchiude lascia attoniti ed è soltanto comprensibile se si tiene conto della eccezionale capacità del grande capitano e soprattutto del suo carattere. Essa costituisce la soluzione di un problema operativo che, per qualsiasi altro generale, sarebbe trascendentale. Qualora si facesse astrazione del fattore morale e l’idea della manovra napoleonica si volesse riferire al solo fattore materiale, la situazione degli eserciti francesi, messa in relazione ai fattori spazio e tempo, potrebbe qualificarsi disperata, quasi assurda, poiché ad un complesso di masse compatte avversarie sommanti a 400.000 uomini, Napoleone ne contrappone appena la metà sparpagliati in 20 nuclei dal mare del Nord all’Adriatico, da Strasburgo ad Austerlitz.

Se all’apparenza siffatta soluzione può sembrare la più patente violazione del principio dell’economia delle forze, in quanto può apparire una dispersione irreparabile di esse, in realtà costituisce uno dei più mirabili esempi della più geniale applicazione del principio predetto. Contrariamente alle apparenze, Napoleone mantiene la piena e completa libera disponibilità delle proprie forze: egli può, quindi, formare la massa nel punto decisivo”.

Ma dal largo schieramento iniziale d’attesa passiamo, con la rapidità della folgore, alla concentrazione delle forze:

 

Chiamate da questi ordini categorici e precisi che esprimono una volontà ferrea ed imprimono un carattere di estrema celerità alla loro esecuzione, accorrono le forze napoleoniche sul campo di battaglia, pronte ad ogni sforzo e ad ogni sacrificio, e vi giungono anelanti di combattere e sicuri di conquistare, sotto gli occhi del loro Imperatore, una delle loro più belle vittorie.

 

                                                                                              *          *          *

 

Possiamo ora concludere che comando uno ed assoluto, massa unica e linea di operazione unica, preponderante importanza dei fattori intellettuali e morali su quelli di carattere esclusivamente materiale, concetto di relatività della massa, particolare interpretazione delle espressioni “forze riunite” e “forze concentrate”, costituiscono tutto un insieme di elementi ordinato ed armonico entro il quale si inquadra, netta e precisa, la concezione napoleonica della massa.

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO II.          IL PRINCIPIO DELLA MASSA NELLE GUERRE DEL MARESCIALLO MOLTKE

 

Il periodo napoleonico può dirsi un periodo veramente aureo durante il quale il principio della massa risorge e si afferma nella nuova forma che non esitiamo a chiamare veramente moderna.

Fu infatti la Francia repubblicana che pose agli ordini dei suoi generali, sorti dalla rivoluzione, le masse di volontari accorsi a difendere i confini della patria minacciata e, coi confini, le conquiste della rivoluzione; fu il Carnot che intravide l’errore in cui incorrevano quei generali, e che proclamò alta e forte la necessità di battersi in massa; fu Napoleone, infine, che con la sua grande arte diede nuova e più fulgida vita al principio.

Dalla piccola esigua armata del 1796 alla Grande Armée del 1805 ed al bataillon carré del 1806, è tutto un susseguirsi di arditi e geniali disegni per effetto dei quali le masse napoleoniche si preparano, si muovono, si riuniscono e poi ad un cenno si concentrano rapide come il fulmine, e si abbattono sulle forze nemiche per annientarle e distruggerle, ovvero per catturarle senza combattere.

Via via però che crescono le mire e le ambizioni napoleoniche, crescono anche i nemici: è perciò necessario chiamare a raccolta tutte le forze della nazione. Non basta più ormai la Grande Armée del 1806, né basta raddoppiare le forze; è necessario invece che esse siano più che triplicate poiché bisogna lottare contro un nemico numeroso ed agguerrito, comandato da un capo deciso a non cedere, che ha a sua disposizione un vastissimo teatro di operazioni che va da Varsavia al Mar Baltico, dal Niemen alla Città Santa ed, occorrendo, anche più oltre.

Come farà Napoleone a comandare da solo una massa di 500.000 uomini, su di un teatro di operazioni così vasto? Egli aveva detto: “Ma présence était indispensable où je voulais vaincre …”.

Come farà ora ad essere presente su tutti i tratti ove gli sia necessario vincere ?

Sorge così la necessità di procedere ad una nuova organizzazione delle forze, ed allora la guerra di armate inizia i suoi primi passi, e manifesta le sue imprescindibili necessità. Infatti, se la Grande Armée del 1806 era stata comandata “come un battaglione nella mano di un buon maggiore”, quella del 1812, invece, non poteva più essere comandata allo stesso modo. Al sistema di comando uno ed assoluto, occorreva sostituirne un altro anch’esso uno ed assoluto sì, ma che tenesse in buon conto sia le speciali condizioni del teatro su cui si doveva svolgere la lotta, sia il gran numero di combattenti che ad essa avrebbe partecipato; occorreva sostituirne un altro che lasciasse largo posto alla iniziativa dei comandanti in sottordine, e riservasse per sé la direzione ed il coordinamento delle masse, il comando delle quali doveva, necessariamente, essere affidato a generali di provata capacità e di indiscusso valore.

Il problema dell’organizzazione e dell’impiego di così grandi masse vien sin da allora in tal modo posto da Napoleone: toccherà però al grande Moltke di studiarlo accuratamente in ogni suo particolare aspetto, e di dare ad esso la sua giusta soluzione.

 

                                                                                              *          *          *

 

Lasciamo adunque Napoleone con tutte le sue belle vittorie e con tutta la sua grande arte tuttora palpitante e viva, miniera inesauribile dalla quale ora e sempre potremo trarre il segreto della vittoria, e volgiamo invece la nostra mente al Grande Capo di stato maggiore tedesco, anch’egli maestro insuperato e, forse, insuperabile; volgiamo la mente a quest’uomo veramente grande che operò sempre in mezzo a gravi difficoltà e pur condusse il suo esercito alla vittoria! Egli ebbe a sua disposizione tutto un popolo forte e coraggioso, sprezzante del pericolo, animato dalla fede più profonda negli alti destini della sua patria, la quale poteva vantare la vittoria di Rossbach e, se pure doveva porre al suo passivo la sconfitta di Jena, a questa poteva contrapporre il suo quasi immediato risorgere, e poi la volontà indomita del vecchio Blücher che impersonava lo spirito e la tenacia prussiana e che, dal 1813 al 1815, era stato l’animatore instancabile ed il vero capo morale degli eserciti della possente coalizione decisa a liberare l’Europa dall’incubo sotto cui era tenuta dalla irrequieta aquila Côrsa.

 

                                                                                              *          *          *

 

La concezione moltkiana della massa presenta una caratteristica essenziale che è bene mettere subito in rilievo.

Il Moltke non concepiva la massa come sola e semplice riunione del massimo numero di combattenti in piena efficienza materiale e morale, ma anche come somma delle volontà dei capi in sottordine, volte tutte verso lo scopo finale da raggiungere. Questi capi, illuminati tutti dalla stessa dottrina, semplice per essere da tutti compresa, accorrono al cannone mossi da un sano e bene inteso spirito di iniziativa, e da un sentimento, che è generoso e doveroso ad un tempo, di costante e fattiva cooperazione sul campo di battaglia.

Tali doti costituivano le principali fonti di energia dell’esercito prussiano. Infatti, i successi prussiani furono, il più delle volte, determinati dalla iniziativa dei capi in sottordine, o dal loro pronto e spontaneo accorrere alla battaglia.

È così che la concezione moltkiana conferisce alla massa un significato di alto valore morale rappresentato dalla intima e costante unione di tutte le menti direttrici, di tutte le volontà, talché la massa stessa, per effetto di questa perfetta unione spirituale, può considerarsi – e lo è infatti – centuplicata in forza ed in potenza ed è, perciò, invincibile.

Ma la dottrina del Grande Capo di stato maggiore tedesco non trae soltanto origine dallo studio profondo ed accurato che egli ha fatto delle battaglie combattute dai grandi capitani e dell’opera pur sempre ammirevole del Clausevitz; essa trae anche origine dalla mentalità ed ancor più dalla natura del popolo tedesco. Uso a non badare alle difficoltà il popolo tedesco cammina guardando sempre avanti, e va diretto allo scopo.

Così ai tempi di Federico II.

Così ai tempi del vecchio Blücher.

Così anche attraverso la dottrina del Clausevitz: “La teoria esige che per marciare al conseguimento dello scopo si segua la linea più corta”.

Così infine anche col Moltke: “Le operazioni contro la Francia consisteranno semplicemente nell’inoltrarci di alcune marce, tenendoci riuniti quanto più sarà possibile, nel territorio francese fino ad incontrare le forze avversarie alle quali poi daremo battaglia”.

È perciò che i generali tedeschi, formati tutti alla stessa dottrina, vedevano tutti allo stesso modo un solo nemico, e contro di esso, ovunque si presentasse, accorrevano in massa per combatterlo e vincerlo.

 

                                                                                              *          *          *

 

Accennato così a questa importante caratteristica della concezione moltkiana della massa, per effetto della quale la concezione stessa si differenzia sostanzialmente da quella napoleonica, migliorandola, dovremmo passare all’esame degli aspetti assunti dal principio della massa nelle guerre del 1866 e del 1870.

Ma prima d’iniziare tale esame ci è necessario premettere che la notevole differenza esistente tra la concezione teorica del Moltke e la sua attuazione pratica ci obbligherà ad una trattazione più particolareggiata dell’argomento poiché sarà necessario prendere in esame, sia pure brevemente, non solo alcuni dei diversi progetti compilati dal Moltke dall’epoca in cui egli assunse l’alta carica di capo di stato maggiore dell’esercito, ma anche lo schieramento delle forze all’inizio della campagna del 1866 e la relativa manovra per riunire le forze per la battaglia.

 

IL COMANDO MOLTKIANO

 

Fra le tante cause che determinarono l’insuccesso della campagna di Russia, quella relativa alla inadeguata organizzazione del comando napoleonico è da ritenersi, indubbiamente, la principale.

È noto, infatti, che il fallimento della manovra di Wilna fu essenzialmente dovuto alla deficiente condotta del Re Girolamo Bonaparte; ed è anche noto che la indecisa azione del Davout permise al Bagration di ritirarsi pressocché indisturbato, e di riunirsi poi, a Smolensk, al Barclay de Tolly. Così pure è noto che la notevole estensione del teatro di operazioni impedì a Napoleone di esercitare la sua azione di comando allo stesso modo di come l’aveva esercitata nelle precedenti campagne. Che se egli avesse potuto far muovere e manovrare sotto il suo comando diretto anche l’armata del fratello Girolamo, ovvero se ne avesse affidato il comando ad un generale più capace, l’esito di quella campagna sarebbe stato certamente ben altro.

Il sistema di comando napoleonico poteva adunque valere per eserciti chiamati a combattere su teatri di operazioni non troppo vasti, costituiti in unità di piccola mole, e perciò più leggere e più snelle, sempre pronte a muovere e combattere sotto l’impulso diretto della volontà del capo. I comandanti di queste unità non avevano, nel giuoco di comando napoleonico, che compiti ben determinati e precisi da assolvere. Poiché la vasta mente che li dirigeva tutto prevedeva ed a tutto provvedeva, l’azione di tali capi era, e doveva necessariamente essere, di pura e semplice obbedienza agli ordini ricevuti.

Cresciuto però il numero dei combattenti sull’esteso teatro di operazioni, non erano più piccole ed agili divisioni che dovevano celermente spostarsi da un punto all’altro del campo di battaglia, o combattere sotto gli occhi sempre vigili e pronti del capo; non erano più corpi d’armata che, sebbene meno agili delle divisioni, conservavano tuttavia una spiccata attitudine a muovere celermente ed erano anch’essi sempre pronti all’appello; ma erano invece unità assai più pesanti e più complesse, costituite da più corpi d’armata.

Non era quindi più possibile far seguire all’ordine napoleonico un’azione pronta, rapida e concorde, come era avvenuto a Rivoli, ad Austerlitz, a Jena; tale azione, invece, doveva necessariamente essere, ed era infatti, lenta, indecisa e, spesso, anche timorosa a malgrado non mancassero gli incitamenti, né gli opportuni e necessari richiami. Gli è che Napoleone raccoglieva già il frutto assai amaro del suo sistema di comando. Abituati e costretti ad obbedire soltanto, i generali di Napoleone erano impreparati ad esercitare un comando indipendente, ed egli stesso lo aveva dovuto riconoscere: “Pas un de mes généraux n’était de force pour un grand commandement indépendant …”.

 

                                                                                              *          *          *

 

Tutto ciò non poteva certo sfuggire alla mente indagatrice del Moltke. Formato alla dura scuola del Clausevitz e penetrato dalla dottrina del grande teorico prussiano, il Moltke aveva già dedicato molta parte della sua vita allo studio ed alla meditazione allorché venne chiamato dalla fiducia del Re Guglielmo ad assumere la carica di capo di stato maggiore dell’esercito.

Le campagne di Napoleone lungamente meditate formavano già parte integrante del suo bagaglio intellettuale, e lo studio metodico ed accurato delle belle manovre napoleoniche aveva già fatto sviluppare in lui il senso artistico della guerra. Anche le sconfitte del Grande Condottiero erano state studiate dal Moltke accuratamente e minuziosamente. Apparivano perciò chiari ed evidenti alla mente dello studioso i fattori di vittoria, così come balzavano, dall’esame ponderato dei fatti, le cause delle sconfitte.

Veniva così formandosi, alla chiarissima luce dell’esperienza storica, quella poderosa mente che doveva condurre l’esercito prussiano alle belle vittorie di Koenigratz e di Sédan.

 

                                                                                              *          *          *

 

Unità di dottrina, disciplina delle intelligenze – fonti inesauribili di forza che cementano fra loro gli spiriti e le volontà dei capi, non meno che quelle dei combattenti tutti – sono le basi granitiche su cui saldamente poggia tutta l’organizzazione del comando moltkiano.

 

                                                                                              *          *          *

 

In alto, accanto al Moltke, una eletta schiera di ufficiali – suoi consiglieri – raccoglie, ordina e studia tutte le notizie e tutti gli elementi di giudizio. Tutte le soluzioni possibili vengono sottoposte al vaglio di queste elette menti scelte fra le scelte, tutte educate allo stesso modo di vedere, e quelle giudicate le migliori sono poi sottoposte alla decisione del capo.

Il Verdy du Vernois, nei suoi “Souvenirs personnels” ci dà una magnifica scena del come si svolge questa azione preparatoria. Per brevità ci asteniamo dal riportarla e rimandiamo alla fonte il curioso lettore. Non possiamo fare a meno, però, di accennare che il Moltke stesso, nella relazione alla campagna del 1859, ci dice in chiaro modo come egli concepisca il comando di un esercito moderno:

“Furono, e possono ancora essere, di grandi capitani che non abbisognano d’alcun consiglio, che studiano e risolvono da sé le questioni: chi sta attorno ad essi non ha che la parte di esecutore. Ma sono genii di primissimo ordine, ed ogni secolo ne produce appena uno. Nei più dei casi il comandante di esercito non può passarsi dei consigli altrui. Ora, può darsi che il consiglio sia frutto di deliberazioni prese in comune da un certo numero di persone più o meno grande, ma tutte e per doti naturali e di spirito e per esperienza capaci di giudicare con piena sicurezza. Ma in questo ristretto numero di persone deve prevalere una sola opinione. La gerarchia militare deve suffragare la subordinazione del pensiero: una sola opinione deve essere sottoposta da chi n’ha il diritto ed il dovere …”.

Vediamo in tale concezione l’espressione più sintetica e completa del comando moltkiano quale fu nelle guerre del 1866 e del 1870.

 

                                                                                              *          *          *

 

In basso, un’altra non meno eletta schiera di ufficiali colti, animosi e valorosi, anch’essi permeati tutti dalla stessa dottrina, pieni di iniziativa e sempre pronti alla più intima e scambievole cooperazione. Essi non sono soltanto fedeli esecutori di ordini, ma sono anche intelligenti interpreti delle volontà del capo, del quale intuiscono le intenzioni. È considerando tali virtù che possiamo renderci ragione di un fenomeno veramente notevole nell’esercito prussiano, e cioè che spesso gli ordini del Moltke giungevano alle truppe allorché esse erano già in movimento, mosse soltanto dallo spirito di iniziativa che animava i loro capi.

 

                                                                                              *          *          *

 

Tra la volontà direttrice ed i capi in sottordine stava, fedele ed intelligente tramite, il comando di armata, nuova espressione cui era giunta, per opera di quel grande studioso, l’arte di organizzare il comando degli eserciti.

 

                                                                                              *          *          *

 

E la scienza, indispensabile ausiliaria della bellica, poneva già al servizio dei combattenti i suoi nuovi trovati, talché il Moltke poteva, il 22 luglio 1866, da Berlino, telegrafare alle armate 1a e 2a di entrare in Boemia e di concentrarsi a Gitschin.

 

                                                                                              *          *          *

 

L’organizzazione del comando moltkiano, così come l’abbiamo tratteggiata, può definirsi veramente perfetta.

Come abbiamo visto, essa faceva assegnamento non soltanto sullo spirito di disciplina e sul sentimento di fattiva ed intelligente collaborazione che animava i capi in sottordine, ma anche sulla unità di dottrina e sulla disciplina delle intelligenze.

Si può perciò concludere affermando che tale organizzazione, poiché stringeva in un sol fascio irresistibile tutte le forze e tutte le volontà, assicurava all’esercito prussiano l’unità di comando, aspetto essenziale del principio della massa, e primo requisito indispensabile per conquistare la vittoria.

 

LA RIPARTIZIONE DELLE FORZE

 

Abbiamo già detto che esiste una differenza sostanziale tra la concezione teorica del Moltke e l’attuazione pratica.

Se scopo del presente lavoro fosse stato quello di studiare le cause di questa differenza, saremmo giunti alla conclusione che non è vero che il Moltke pensasse in un modo e agisse poi in un altro del tutto differente, ma che è vero invece che molte ed importanti considerazioni, di carattere politico specialmente, lo costrinsero spesso a distaccarsi dalla sua perfetta concezione teorica, per adattare la sua volontà ad altre imprescindibili necessità.

Dall’esame di alcune delle memorie compilate dal 1860 in poi – esame che ci accingiamo a fare in modo assolutamente schematico – vedremo infatti che il Moltke fu, teoricamente, uno strettissimo applicatore del principio della massa; e potremmo anche vedere che a malgrado egli fosse stato un convinto assertore di tale principio, la politica lo costrinse invece, nel 1866, a violare, nella ripartizione delle forze, il principio stesso.

E qualora volessimo indugiarci ancora per dimostrare la verità della conclusione cui abbiamo accennato, potremmo anche dire che il Moltke non impiegò la sua cavalleria come aveva concepito di impiegarla.

E perché? Non fu trattenuto forse dal fondato timore di  esporla un po’ troppo?

Ma scopo di questo lavoro non è quello di fare un’indagine di tal genere, la quale, peraltro, potrebbe avere anch’essa i suoi aspetti importanti; assai più modestamente, invece, ci proponiamo di dimostrare che la ripartizione delle forze, così come era prevista dal Moltke nelle memorie compilate tra il 1860 ed il 1866, altro non rappresenti che la più perfetta espressione teorica della concezione moltkiana della massa.

E vedremo, nel capitolo successivo, trattando della riunione delle forze, come massima preoccupazione del Moltke all’inizio della guerra austro-prussiana fosse stata appunto quella di correggere al più presto possibile, avanzando, la difettosa dislocazione iniziale dell’esercito per tornare così alla stretta applicazione del principio che non poteva continuare ad esser più oltre impunemente violato.

 

                                                                                              *          *          *

 

Prima di procedere oltre ci è però necessario premettere che l’esame di alcune delle memorie compilate dal Moltke da noi accennato sarà condotto tenendo strettamente presente il nostro particolare punto di vista: esamineremo cioè la ripartizione delle forze disponibili così come era stata concepita, e, prescindendo da ogni considerazione nei riguardi della situazione politica e delle concezioni strategiche del Moltke, ci limiteremo a rilevare come essa ripartizione sia stata sempre in intima relazione ed in perfetta armonia col nostro principio.

 

                                                                                              *          *          *

 

La prima memoria compilata dal Moltke è quella del 1860. Essa tratta della ripartizione delle forze prussiane da un punto di vista strettamente difensivo.

Sulla base della situazione politica il Moltke pensa che, ai fini di una efficace difesa del suo territorio, la Prussia non può distogliere dalla frontiera del Reno i corpi VII ed VIII; né, tanto meno, può essere distolto il X corpo federale il quale, se pure deve servire come corpo di osservazione verso la Danimarca, è anche destinato a rinforzare, eventualmente, i due corpi lasciati sul Reno.

Rimangono così, per la guerra di difesa contro l’Austria, sette corpi d’armata. La dislocazione che il Moltke avrebbe fatto assumere a questi sette corpi è quella risultante dallo schizzo n° 8. Esaminiamolo.

Tale dislocazione appare a prima vista alquanto larga; ma essa è soltanto una dislocazione iniziale, e come tale va considerata. Anche Napoleone, abbiamo visto, schierava inizialmente i suoi corpi su di una larga fronte. Rileviamo altresì che un solo corpo è distaccato a Schweidnitz per una prima difesa della Slesia. Gli altri sei corpi costituiscono la massa principale delle forze; quattro di essi rappresentano il nucleo centrale di tale massa, e sono raggruppati nel triangolo Wittemberg-Baruth-Torgau. Un corpo, il IV, costituisce l’ala destra ed è dislocato tra Halle e Delitsch. L’altro corpo, il V, è dislocato a Spremberg ed è l’ala sinistra della massa principale.

Data la distanza che separa i vari corpi, questa massa di circa 200.000 uomini può prontamente e tempestivamente formarsi in un unico blocco compatto ed efficiente.

Non è questa forse una perfetta applicazione del principio della massa? Certo essa è, e rimane pura concezione teorica, ma la possibilità di attuazione pratica non si fonda forse su di una salda preparazione teorica, sussidiata dall’esperienza, e personale, e acquistata in virtù dello studio accurato, ponderato e razionale delle battaglie combattute dai grandi capitani?

 

                                                                                              *          *          *

 

Passiamo ora dal campo difensivo a quello offensivo. Nell’inverno del 1865 il Moltke compila una nuova memoria. Il grado di efficienza raggiunto dall’esercito, già sperimentato nella breve campagna del 1864 contro la Danimarca, consente ora di pensare alla guerra offensiva.

L’esatta valutazione delle forze austriache, e l’esame intelligente ed accurato di tutte le probabili azioni che il nemico avrebbe potuto svolgere, nonché la ragionata induzione circa gli obiettivi che il nemico stesso avrebbe potuto proporsi di raggiungere, formano oggetto del “lavoro preparatorio” moltkiano. Sulla base di tali elementi il Moltke determina quale dislocazione iniziale debbano assumere le forze prussiane.

Destinati:

·         due corpi d’armata (l’VIII e la guarnigione della piazza di Magonza, circa 50.000 uomini) sul Meno a guardia della frontiera occidentale;

·         due corpi d’armata (il V ed il VI, circa 60.000 uomini) intorno a Schweidnitz per la difesa diretta della Slesia;

·         un corpo d’armata (circa 14.000 uomini) in osservazione nello Schledwig;

 

rimangono sei corpi d’armata che verrebbero così dislocati:

 

La distanza che separa queste due masse è tale da consentire il rapidissimo concentramento di circa 200.000 uomini su Bautzen, ovvero, in quattro marce, su Zittau, pronti a piombare sul fianco sinistro degli austriaci, i quali, sotto tale minaccia, non avrebbero più potuto continuare la loro offensiva su Berlino.

Anche in questa manovra il principio della massa trova rigorosa applicazione, e la ripartizione delle forze in essa prevista, sebbene sia e rimanga anch’essa una pura concezione teorica, al pari di quella della memoria del 1860, ci conferma tuttavia che il Moltke era veramente un convinto osservatore del principio sommo della guerra, al quale egli strettamente si atteneva.

 

                                                                                              *          *          *

 

Accenniamo ora ad un’altra memoria: quella del 14 aprile 1866. In questa memoria il Moltke proponeva al Re che l’esercito assumesse, inizialmente, il seguente schieramento:

                “dal 20° al 24° giorno di mobilitazione: IV corpo e Guardia verso Herzberg e Sonnenwalde;

                 dal 12° al 19° giorno: III corpo verso Gorlitz;

                 dal 20° al 29° giorno: I corpo a Liegnitz o Greiffenberg;

                 dal 12° al 24° giorno: V corpo a Schweidnitz;

 dal 21° al 27° giorno: II corpo a Breslavia o Neisse, VI corpo: 11a divisione a Landshut e 12a divisione a Neisse”.

 

 La massa principale dell’esercito prussiano risultava così costituita dai corpi I, II, V e dalla 11a divisione del VI corpo; essa sarebbe stata raccolta in Slesia, nel quadrilatero Greiffenberg-Liegnitz-Breslavia-Schweidnitz, ed avrebbe avuto all’ala destra il III corpo dislocato a Gorlitz, ed all’ala sinistra la 12a divisione del VI corpo dislocata a Neisse: avrebbe insomma costituito un complesso di forze veramente imponente (vedi schizzo n° 10).

Nelle intenzioni del Moltke adunque, dei nove corpi d’armata che la Prussia avrebbe messo in campo, cinque (I, II, III, V e VI) dovevano essere senz’altro portati contro il nemico principale, sul teatro principale, due (IV e Guardia) dovevano essere schierati contro l’esercito sassone, e due (VII e VIII) dovevano rimanere sul Meno a guardia della frontiera occidentale.

Nel successivo sviluppo della manovra, però, il Moltke, mentre prevedeva che l’esercito prussiano avrebbe potuto trovarsi al 32° giorno di mobilitazione, coi corpi I, II e Guardia sull’Iser, tra Jung Bunzlau e Turnau, dopo di aver lasciato il solo IV corpo contro i sassoni, accennava che per assicurarsi una notevole superiorità numerica sugli austriaci, si sarebbe potuto richiamare sull’Elba il VII corpo che era stato lasciato sul Meno.

Ora, è forse necessario ripetere che anche in questa memoria il principio della massa trova rigorosa applicazione? O non possiamo forse chiudere il nostro breve esame limitandoci a rilevare che il Moltke pensava di poter riunire, al 32° giorno di mobilitazione, contro il nemico principale, sul teatro principale, non soltanto i corpi I, II, III, V e VI, ma anche la Guardia e, forse, più in là, anche il VII corpo?

Ci sentiamo perciò autorizzati ad affermare che nella sua concezione teorica il Moltke attribuiva alla massa non soltanto un valore relativo, ma anche e soprattutto un valore assoluto. Il Moltke, cioè, non soltanto intendeva portare sul punto e nel momento decisivo una massa di forze superiore a quella che vi avrebbe portato il nemico, ma limitava altresì al puro indispensabile la forza delle varie unità che egli era costretto a tenere distaccate dalla massa principale dell’esercito. E le forze che egli riusciva così a risparmiare venivano tutte impiegate a rinforzare la massa stessa, la quale pertanto veniva a trovarsi nella sua massima efficienza ed era perciò in grado di conquistare la vittoria.

 

                                                                                              *          *          *

 

Considerato ciò, non ci sembra sia il caso di insistere su questo argomento; tuttavia, prima di accingerci a trattare della riunione delle forze, vorremmo fare un breve salto al 1870.

 

                                                                                              *          *          *

 

Premettiamo che anche nel breve accenno che faremo del progetto compilato nell’inverno del 1868-69 per la guerra contro la Francia, prescinderemo da ogni considerazione che esuli dal campo che ci siamo deliberatamente imposto.

Pertanto, rileviamo subito che in tale progetto il Moltke destina ben dieci corpi d’armata, su tredici disponibili, per la guerra contro la Francia. I rimanenti tre corpi sono impiegati per la guerra di difesa contro l’Austria. Nell’ipotesi poi che, dopo i primi successi contro la Francia, l’Austria “lasci cadere nel fodero la spada insanguinata solo a metà” il Moltke prevede che due dei tre corpi lasciati contro di essa, e forse anche il terzo, potranno essere portati sul teatro principale della lotta, a rinforzo della massa principale.

La dislocazione iniziale che il Moltke farà assumere a questa massa è schematicamente riassunta nello schizzo n° 11. Notiamo che i dieci corpi d’armata sono tutti dislocati nel Palatinato Bavarese, e precisamente:

 

Tale schieramento è veramente perfetto. Esso consente al Moltke di parare a tutte le eventualità e perciò ben a ragione il Maravigna lo definisce “losanga-carré” nel senso napoleonico. Il Foch, poi, lo ritiene veramente esemplare: “Un centro, due ali, una riserva: ecco dunque – egli dice – il suo (del Moltke) sistema d’attacco che risponde a queste necessità  permanenti: una direzione principale di movimento da assicurarsi, due fianchi da guardare, una necessità eventuale cui provvedere con la riserva”.

A così alte ed autorevoli voci non possiamo permetterci di aggiungere la nostra che è, invero, assai piccola. Preferiamo invece chiudere questo argomento riportando un breve tratto della risposta data dal Moltke al von Steinmetz il 1° giugno 1866: “Noi non abbiamo che un solo nemico veramente pericoloso: esso è l’anima di tutti i preparativi che si fanno in Germania contro di noi. Tale nemico è là, completamente armato e pronto. Sarebbe un errore lasciare un intero corpo d’armata inattivo sul Reno di fronte ad un nemico che ancora non esiste. Noi abbiamo bisogno della totalità delle nostre forze contro i 240.000 uomini dell’Austria ed a tale scopo noi abbiamo ricorso ai nostri nove corpi d’armata, eccettuata soltanto una divisione provvisoriamente lasciata a Minden”.

Non è forse questa la più concisa e completa espressione della concezione moltkiana della massa?

 

LA RIUNIONE DELLE FORZE

 

Nel capitolo precedente, trattando della concezione teorica moltkiana, abbiamo visto che il Moltke si attenne sempre, nei suoi vari progetti, al principio della massa.

Ma i progetti, abbiam detto, sono, ed assai spesso rimangono, pure concezioni teoriche: l’esperienza insegna che sempre, al momento in cui occorre attuarli, sebbene essi siano stati accuratamente studiati, imperiose sorgono altre necessità che ne ostacolano l’esecuzione. E poiché nemmeno il Moltke potè sottrarsi a questa ferrea legge dettata dall’esperienza, noi vediamo che l’esercito prussiano, all’inizio della guerra contro l’Austria, si presenta schierato su di una fronte estesissima ed in tre distinte armate che per giunta sono separate da intervalli considerevoli. Anche i singoli corpi d’armata, nell’interno delle armate, sono schierati a larghi intervalli.

Indubbiamente, la politica impone spesso alla strategia assai dure condizioni; nel caso specifico rileviamo che ben gravi dovevano essere – e certamente lo erano  - quelle che indussero, anzi, costrinsero il Moltke a violare il principio della massa.

Non ci indugiamo ad esaminare tali circostanze, ma passiamo senz’altro a trattare la questione che ci occupa.

 

                                                                                              *          *          *

 

L’esercito prussiano, adunque, alla data del 15 giugno 1866 risultava così schierato:

 

Tale dislocazione era invero assai difettosa (vedi schizzo n° 12).  La stessa relazione ufficiale prussiana la condanna apertamente: “Le forze della Prussia erano divise in tre gruppi, dislocati a Torgau, a Gorlitz ed a Neisse e separate da intervalli da 160 a 200 km …”.

Palese era la violazione del principio, tanto più che la ristrettezza del tempo disponibile e la speciale configurazione del teatro di operazioni, costituito a grande arco montano il cui centro veniva proprio a trovarsi nella zona di più probabile raccolta del nemico, rendevano impossibile la preventiva formazione della massa lungo l’arco. Qualora si consideri poi il numero assai esiguo di strade che dalla Slesia e da Gorlitz adducevano alla Boemia settentrionale, ben si comprende come la natura del terreno fosse decisamente favorevole alle operazioni degli austriaci. Per poco che si fosse dimostrato deciso, il Benedek avrebbe potuto impedire alla 2a armata prussiana di sboccare dai Riesengerbige.

Che cosa sarebbe successo se il Benedek si fosse posto tempestivamente con la massa delle sue forze nella Boemia settentrionale? In posizione centrale tra le masse separate dei prussiani egli avrebbe potuto lasciare un’adeguata aliquota di forze a fronteggiare la 1a armata, rivolgersi contro l’armata del Principe Reale ed averne facilmente ragione, dato che egli poteva trarre profitto dalle difficili condizioni in cui detta armata si sarebbe venuta a trovare nell’attraversare i monti.

Ci siamo fatta questa domanda, ed abbiamo risposto in tal modo, non certo perché di ogni problema strategico o tattico il senno di poi suggerisca la soluzione più opportuna e più promettente di favorevoli risultati. Né abbiamo, d’altra parte, la pretesa di avere indicata noi per primi tale soluzione. Vari scrittori hanno infatti affermato che il Benedek avrebbe potuto approfittare delle difficili condizioni del terreno che doveva essere attraversato dalla 2a armata per svolgere contro di essa un’azione energica e decisiva. Egli avrebbe così certamente impedito la riunione delle armate prussiane e, forse, avrebbe vinta la guerra.

Ma la nostra domanda, invece, trae origine dal fatto che anche al Moltke  chiaramente appariva la difficile situazione in cui veniva a trovarsi l’esercito per effetto delle inframmettenze della politica.

Ampia conferma di tale comprensione del Moltke la troviamo nella stessa relazione della campagna compilata dallo stato maggiore prussiano. Peraltro, non possiamo non riconoscere la fondatezza delle apprensioni del Moltke poiché, in effetti, la massa principale delle forze austriache accennava già a spostarsi dalla Moravia nella Boemia settentrionale. Il manifestarsi di tale minaccia, e l’eventualità che l’esercito austriaco potesse raggiungere l’Elba prima ancora che le armate prussiane si fossero riunite in Boemia, ben a ragione preoccupavano il Moltke.

Se questa eventualità si fosse per deprecata ipotesi verificata, quanto gravi non sarebbero state le conseguenze? Tutto il vantaggio che la rapidità della mobilitazione aveva dato ai prussiani sarebbe stato completamente perduto non solo, ma nella impossibilità materiale di riunire le forze in vista della battaglia, il Moltke sarebbe stato costretto a battersi in ben difficili condizioni.

Occorreva, pertanto, gareggiare in velocità con l’avversario, sia per prevenirlo sull’Elba e sia per riunire le forze in modo da essere in grado di combattere con probabilità di vittoria; occorreva correggere prontamente la difettosa dislocazione iniziale dell’esercito, per tornare al più presto possibile alla rigorosa applicazione del principio.

Compreso di questa imprescindibile necessità, il Moltke, preciso calcolatore, giudicava che il Benedek non poteva essere in forze sull’Elba prima del 27 giugno. Per tale data la 1a armata, già riunita a quella dell’Elba, poteva essere giunta nella regione di Gitischin. Pertanto, l’incontro di questa armata con le forze austriache non poteva aver luogo prima del 28 o del 29, o forse anche del 30 giugno.

Difficili erano invece le condizioni in cui veniva a trovarsi la 2a armata poiché nella migliore delle ipotesi i suoi primi corpi non potevano raggiungere l’Elba prima del giorno 27, e l’armata non poteva trovarvisi tutta riunita prima del 29.

Pertanto il Benedek, fermando la massa delle sue forze sulla riva occidentale dell’Elba, avrebbe potuto non soltanto impedire lo sbocco della 2a armata, ma anche avere ragione di essa, a meno che la 1a, accelerando il suo movimento in avanti, non fosse accorsa in suo sostegno e, minacciando il fianco sinistro dell’esercito austriaco, non la avesse in qualche modo tempestivamente disimpegnata.

I calcoli del Moltke, però, non tenevano affatto conto di un elemento che nelle cose di guerra ha capitale importanza. Egli attribuiva al suo avversario l’intenzione di agire secondo la migliore delle ipotesi che la sua mente acuta e profonda aveva formulata; egli pensava – e logicamente non poteva pensare in altro modo – che il Benedek si sarebbe attenuto al partito migliore, ed in tale convinzione egli faceva completa astrazione della decisiva influenza che i difetti ed i pregi del “capo” esercitano in tutte le varie circostanze di guerra. Tale importantissimo fattore di vittoria era decisamente a favore del Moltke.

Mettiamo per un momento a confronto i due avversari:

È pensando alla forza di volontà, al carattere fermo e deciso del primo che noi possiamo darci ragione di quel laconico ma preciso telegramma che ordinava alle armate prussiane di penetrare in Boemia e di riunirsi a Gitischin, a malgrado la possibilità di riunire le forze si presentasse assai dubbia.

È pensando all’incapacità, all’indecisione, al carattere debole e tentennante del secondo che noi possiamo darci ragione della perfetta riuscita dell’ardita e pericolosa manovra moltkiana a malgrado essa potesse essere fatta facilmente fallire.

E non possiamo non convincerci ancora più della grande, decisiva importanza che in ogni operazione di guerra assume la persona del comandante, col suo carattere, con la sua intelligenza, con la sua abilità, con la sua volontà, in una parola, con la sua capacità di comandare, di avvincere, di trascinare!

 

                                                                                              *          *          *

 

Il pomeriggio del 22 giugno 1866 il Moltke telegrafò ai comandanti delle armate 1a e 2a: “S. M. ordina che le due armate entrino in Boemia e cerchino di effettuare la loro riunione a Gitischin …”.

Non ci dilungheremo ad esaminare come per effetto di quest’ordine, ed in seguito ad una serie di combattimenti quasi tutti vittoriosi, l’esercito prussiano sia riuscito a compiere la sua riunione nel cuore della Boemia settentrionale, proprio di fronte ad un nemico che non trasse mai profitto delle favorevoli occasioni che gli si sono presentate nel corso degli avvenimenti. Né seguiremo l’esempio di vari scrittori militari i quali hanno creduto di dover discutere per stabilire se la scelta di Gitischin, come punto di riferimento per la riunione delle forze, sia stata o no opportuna.

Ai fini di questo assai modesto nostro lavoro, non vale indugiarci su questo o su quel fatto d’arme, né vale fare l’analisi del perché della decisione del Moltke, tanto più che, come appare dal contenuto della lettera diretta il 22 giugno al comandante della 2a armata, a chiarimento dell’ordine telegrafico, la scelta di Gitischin non doveva essere intesa in senso assoluto: “Gitischin – scriveva il Moltke – è indicato come la zona di un’eventuale riunione delle armate. Ciò non vuol dire, beninteso, che occorrerà arrivare in tale zona a tutti i costi; dipenderà, al contrario, dalle circostanze future”. Se dunque la 2a armata poteva, per varie ragioni, non giungere nella zona di Gitischin, la 1a, naturalmente, le sarebbe andata incontro. E noi vediamo infatti il Moltke scrivere al comandante della 1a armata: “Siccome il compito difficile di sboccare dalle montagne tocca alla 2a armata, che è poi la più debole, la 1a dovrà, non appena effettuata la propria riunione al corpo del generale Herwarth, accelerare al massimo la sua avanzata per abbreviare la durata di tale crisi”.

Ci è invece necessario vedere la dislocazione delle forze prussiane all’inizio della manovra (22 giugno), nonché quella raggiunta la sera del 30 giugno, quando cioè le armate prussiane erano già riunite e perciò pronte a combattere.

                                                                                              *          *          *

 

Alla data del 22 giugno 1866 la dislocazione dell’esercito prussiano era la seguente (vedi schizzo n° 13):

avanguardia a Schluckenau; le rimanenti forze sono scaglionate indietro, su di una sola strada;

IV corpo in avanguardia con la 7a divisione a Reibersdorf e la 8a a Heuwigsdorf;

                        II corpo con la 3a divisione a Herrenhut e la 4a a Hirschfelde;

                        III corpo con la 5a divisione a Seidenberg e la 6a a Markliss;

                        Corpo di cavalleria con la 1a divisione a Seidenberg e la 2a a Markliss;

I corpo in marcia da Wanldenburg su Landeshut;

                        V corpo a Glatz;

                               VI corpo sulla Neisse con distaccamenti a sud;

                        Guardia a nord-est di Franckenstein.

 

Notiamo che la 1a armata aveva già concentrato le sue forze, mentre la 2a occupava ancora una larghissima zona che, grosso modo, possiamo raffigurarci racchiusa in un vasto triangolo i cui vertici sono Glatz, Landeshut, Neisse. La base di questo triangolo, Landeshut-Neisse, è però formata a grande arco con la convessità rivolta a nord-est (vedi schizzo n° 13). Da questa ampia base di partenza le forze prussiane iniziano la loro marcia in avanti, ed alla sera del 30 giugno esse sono giunte:

Avanguardia a Libau;

                               14a divisione a Sedlitz;

                               15a divisione a Sedlitz;

                               16a divisione a Rokitau;

                               Divisione di landweher della Guardia a Jung Bunzlau.

II corpo 3a e 4a divisione a Gitischin;

                               III corpo 5a divisione a Oulibitz, 6a divisione a Miletin;

                               IV corpo 7a divisione ad Horitz, 8a divisione a Butowes;

                               Corpo di cavalleria a Dworetz.

Guardia a Koniginhof;

                               V corpo più una brigata del VI corpo a Gradlitz;

                               I corpo a Pilnikau;

                               VI corpo meno una brigata a Skalitz;

                               Divisione di cavalleria a Kaile.

 

Dobbiamo fermarci un poco su questa dislocazione (vedi schizzo n° 14). Abbiamo detto che la sera del 30 giugno le armate prussiane erano già riunite e perciò pronte a combattere. In effetti, se consideriamo che tra la 1a e la 2a armata esisteva ancora un intervallo di circa 40 Km, e che soltanto alcuni reparti di cavalleria delle due armate avevano già preso contatto ad Arnau, dovremmo concludere che le forze prussiane non avevano ancora completata la loro riunione. Ma tale conclusione sarebbe del tutto errata e per convincercene basterebbe leggere il seguente brano della relazione ufficiale prussiana:

“Così, a partire da questo momento, le due armate prussiane erano libere di operare la loro riunione immediata, se le circostanze suggerissero tale misura come necessaria. Si preferì lasciarle separate: tale divisione, senza pericolo sotto il punto di vista strategico, presentava grandi vantaggi sotto il punto di vista tattico. Infatti, se dopo avere riunito le armate in unica massa si fosse incontrato il nemico in tale posizione dalla quale non sarebbe stato agevole sloggiarlo con attacco frontale, bisognava dividerlo di nuovo per sviluppare un attacco combinato di fronte e di fianco. Al contrario, mantenendo le due armate a breve distanza l’una dall’altra, nessuna di esse avrebbe corso pericolo in caso di attacco nemico, poiché a sua volta esso sarebbe stato preso di fronte e di fianco”.

Ci sembra che il Moltke, nel dare al principio della massa questa interpretazione esatta e razionale abbia agito ispirandosi ai più puri dettami dell’arte napoleonica. Napoleone, infatti, non portò mai a contatto di gomito le sue divisioni, i suoi corpi d’armata, anzi lasciò sempre tra di essi un sufficiente intervallo di manovra. Alla riunione materiale, pura e semplice della massa egli sostituì, sempre, l’azione combinata e convergente degli sforzi, esercitati in opportune direzioni.

Peraltro, ci sembra che la materiale riunione delle forze non basti ad indurci a ritenere che il principio sia stato rispettato; al contrario, essa determina in noi la convinzione che il principio stesso è stato apertamente violato. Infatti, poste le une ad immediato contatto delle altre, le varie unità che costituiscono la massa sono costrette a muoversi in una ben delimitata zona, e perciò non hanno possibilità alcuna di manovra. L’azione dell’una intralcia spesso l’azione dell’altra, o almeno, ancorché non la intralci, certamente non le consente di svolgersi allo stesso modo di come si potrebbe svolgere qualora le unità stesse non fossero così strettamente a contatto.

Se invece consideriamo il caso in cui le varie unità siano separate da un intervallo razionalmente stabilito tenendo presente la particolare situazione del momento, ci appare come coordinando le azioni delle unità stesse nel tempo, nello spazio e nelle direzioni, il comando possa ottenere risultati veramente mirabili. Ben a ragione, adunque, il Moltke fermò sull’Elba la 2a armata e spinse la 1a oltre Gitischin: così dislocate le due armate avrebbero potuto prestarsi in ogni momento il più valido appoggio, e gli sforzi dell’una, razionalmente combinati con quelli dell’altra, avrebbero certamente dato all’esercito prussiano quella vittoria che le conseguenze delle inframmettenze della politica l’avevano fatta agli occhi dei prussiani alquanto impallidire.

 

                                                                                              *          *          *

 

Potremmo già chiudere questo argomento, ma vogliamo prima accennare ad un altro esempio anch’esso importantissimo che prendiamo dalla guerra del 1870.

 

                                                                                              *          *          *

 

Costretto il Bazaine a rinchiudersi in Metz e lasciata un’armata a bloccare questa piazza, il Moltke si accingeva ad iniziare la caccia all’armata di Châlons. A tal fine egli ripartiva l’esercito nel seguente modo:

 

Il 23 agosto 1870 queste ultime due armate iniziano la loro marcia verso ovest, ed il 25 esse sono così dislocate (vedi schizzo fuori testo n° 15):

XII corpo a Jubécourt e Dombasle;

                Guardia a Triaucourt;

                IV tra Laheycourt e Sommeille;

                5a divisione di cavalleria a Sainte Menehould e presso Montmédy;

                6a divisione di cavalleria a Vieil Dampierre con avanguardie a Varimont  e a Dampierre le Château;

                Divisione di cavalleria sassone a Clermont, con reparto fiancheggiante a Varennes;

II corpo bavarese a Possesse ed a Charmont;

                V corpo ad Heiltz le Maurupt ed a Doucey;

                Divisione wurttemberghese a Sermaize;

                XI corpo tra Perthes e Vitry le François;

                I corpo bavarese a Bar le Duc;

                VI corpo tra Vassy e Moutier en Der;

                Divisione di cavalleria bavarese a Le Frêne;

                Cavalleria wurttemberghese a Courtisols ed a S. Martin;

                4a divisione di cavalleria a La Chaussée ed a Pogny, due squadroni a Mourmelons ed oltre, verso Reims;

                2a divisione di cavalleria a Chavanges.

 

Rileviamo che in questa formazione delle due armate il principio della massa non può dirsi sia stato rigorosamente applicato perché i vari corpi si trovano schierati pressocché linearmente, su di una fronte di oltre 70 km. La suddetta dislocazione appare poi veramente difettosa qualora si pensi alla possibilità che aveva il Mac Mahon di pronunziare un attacco improvviso e deciso contro il fianco destro delle forze prussiane.

Come avrebbe potuto il Moltke parare a tale grave minaccia? La sua ala destra era costituita dal solo XII corpo il quale, nelle 24 ore, non poteva essere sostenuto nemmeno dalla Guardia che era il corpo più vicino. Ma ancor quando la minaccia stessa fosse stata segnalata qualche giorno prima, il Moltke non avrebbe certo potuto portare alla battaglia che una parte assai minima delle sue forze.

Ma non è su questa formazione dell’esercito prussiano che vogliamo fermare la nostra attenzione. Proseguiamo.

Erano giunte al Moltke, in quello stesso giorno 25, le prime incerte notizie sui movimenti dell’armata di Châlons. Questa aveva già iniziato il suo movimento verso est, e per Rethel e Vouzieres si apprestava a tendere la mano al Bazaine. Nella situazione in cui si trovavano le due armate prussiane, la minaccia era veramente grave; per pararla sarebbe stato necessario volgere tutto l’esercito a nord, e mettersi celermente e tempestivamente in grado di poter sostenere l’urto.

Ma il Moltke non pensava a parare quella minaccia. Nella sua mente lucida e profonda, il suo pensiero andava formandosi nitido e preciso: il calcolo puro e semplice delle distanze tra le varie località sulle quali si fermava la sua attenzione nell’elaborare il suo piano, l’esame accurato ed analitico della situazione propria e di quella del nemico, la riflessione calma, ponderata e profonda di ogni elemento e di ogni indizio, ne erano le basi granitiche.

Oggi, 25 agosto, il nemico è giunto a Vouzieres; egli tende a portarsi in soccorso dell’armata rinchiusa in Metz, e tra due giorni potrà aver raggiunta la Mosa. Occorre prevenirlo occupando al più presto Dun e Stenay.

Non basta. È necessario correggere la dislocazione e la posizione dell’esercito rispetto a quella del nemico; è necessario cioè formarsi in massa ed occupare una posizione dalla quale sia possibile impedire al nemico di procedere più oltre verso est. Quale sarà questa posizione?

La zona Damvillers-Mangiennes. Damvillers dista da Vouzieres 51 km, e 48 Triaucourt, che è il centro dell’estrema sinistra dell’armata della Mosa. Se il XII corpo riuscisse ad occupare Dun per il giorno 27 – e deve riuscire – il passaggio della Mosa da parte del nemico potrebbe essere grandemente ostacolato, forse anche impedito. Gli altri corpi, accelerando il loro movimento, avrebbero così il tempo di giungere nella zona prescelta.

In tal modo, entro il giorno 28, quattro corpi d’armata (la Guardia, il IV, il I ed il II bavarese) potrebbero trovarsi riuniti a Damvillers. Ad essi si sarebbe aggiunto anche il XII corpo il quale potrebbe, eventualmente, ripiegare su detta località.

E gli altri corpi della 3a armata? Essi sono troppo lontani invero, ma in ogni caso la zona prescelta è più vicina all’armata che blocca Metz, anziché all’ala sinistra della 3a armata, e pertanto due corpi da Metz possono, entro il giorno 28, raggiungere Damvillers e Mangiennes.

Ecco che il pensiero del Moltke si precisa così nella sua forma più perfetta e più completa. Esso è sintetizzato in un semplice ma eloquentissimo specchietto che vogliamo qui riportare:

“Se si riceve entro la sera d’oggi 25 la notizia che il movimento per avvolgerci è stato iniziato il 23 ed è stato attualmente spinto sino a Vouzieres:

                                                                                                              GIORNI

CORPI                    --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

                                               26                                          27                                          28                                          29

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XII                           Varennes                              Dun                                        occorrendo ritirata

                                                                                                                                su Damvillers

Guardia                 Dombasle                            Montfaucon                         Damvillers

IV                            Fleury                                    ovest di Verdun                   Damvillers                            Marville-Longuyon

III                                            -                              Etain                                      Damvillers

IX                                            -                              Landres                                Mangiennes

I bavarese            Chaumont                            Nixeville                               Azannes

II                                                                         Dombasle                                

 

7 corpi d’armata 150.000 uomini di fanteria …”.

 

È questa una concezione che tiene esatto conto della realtà, ed è anche un esempio tipico di riunione delle forze in vista della battaglia. Di fronte al nemico, nella eventualità che presto si addivenga alla battaglia decisiva, il comandante deve saper prendere decisioni della più alta importanza.

Poco importa se tre corpi d’armata non potranno, data la loro distanza, prendere parte alla lotta; ciò sarà certo un severo richiamo al principio che era stato violato, e farà ricordare il “bataillon carré” napoleonico, formazione perfetta atta a parare ad ogni eventualità.

Poco importa se il trarre forze dall’armata di blocco possa apparire pericoloso. Quell’armata ha già tanta forza morale in sé e saprà trovare da sola, coi soli corpi che rimarranno a sua disposizione, le vie della vittoria.

Necessario è invece portare contro il nuovo nemico una massa imponente di forze, e per formare questa massa, per adempiere a questa imprescindibile necessità, qualunque ostacolo dovrà essere superato ad ogni costo.

Pertanto, i sette corpi d’armata chiamati all’appello, accorreranno da ogni parte e nell’ora della lotta essi saranno presenti al loro posto di battaglia e, sebbene stanchi, saranno tuttavia sempre pronti a combattere.

 

                                                                                              *          *          *

 

L’ulteriore corso che ebbero quegli avvenimenti resero superflua l’esecuzione di quel perfetto concentramento di forze ideato dal Moltke, e perciò noi non seguiremo le vicende di quella lotta immane ingaggiata tra due eserciti così differenti tra loro per forza morale e per capacità di comandanti. Vogliamo invece concludere.

Abbiamo detto di una unità di dottrina, di una disciplina delle intelligenze, di una fattiva ed intelligente cooperazione, fonti di energia di tutto intero un esercito; abbiamo parlato di un comando moltkiano da lunga mano preparato e perfettamente organizzato; abbiamo parlato di un Moltke teorico fedelissimo e scrupoloso osservatore del principio della massa. La pratica ci ha poi fatto vedere un altro Moltke, un Moltke impigliato sì tra le strettoie della politica, ma pur sempre vigile e pronto, sempre presente a se stesso.

Liberato dai legami in cui era costretto, non ci è forse egli apparso come un magnifico condottiero che manovra le sue forze e le conduce alla battaglia in massa compatta ed ordinata? Le sue vittorie, sebbene favorite dalla incapacità del nemico, non sono state forse il frutto del suo severo e costante richiamo al principio sommo della guerra? Eppure anche il Mac Mahon, la sera del 27 agosto 1870, aveva raccolta una massa di quattro corpi d’armata in un quadrato di 11 km di lato. Egli era perciò in condizioni da potere attaccare l’esercito prussiano mal disposto ed impreparato a combattere.

Che cosa è adunque il rispetto di un principio che predichiamo sempre vero ed immutabile? Sempre vero ed immutabile è il principio, ma esso, da solo, non potrà mai darci la vittoria.

Lenta trascorre nei secoli la storia segnando il destino dei popoli. Con la sua nuda verità essa incide solchi profondi, spesso incancellabili, nella vita e nelle tradizioni di tutta intera una nazione.

Orbene, se è vero – ed è vero – che la storia è sempre la maestra somma della vita, a che vale affaticarsi per rilevare gli errori in cui siamo incorsi in passato se gli errori stessi sempre fatalmente ripetiamo?

Dallo studio, dalla esperienza nostra e degli altri, meditando su questa e su quello, ci sembra ad un tratto di essere pervenuti alla scoperta del segreto vero ed infallibile per ottenere la vittoria.

Invero, non abbiamo scoperto nulla, né scopriremo mai nulla!

La storia, con la sua voce alta e serena ci dice come in tal fatto d’arme, il tal capitano abbia vinto, ed il tal’altro sia stato battuto; meditando sui fatti riusciremo spesso a spiegarci il perché della vittoria dell’uno e della sconfitta dell’altro, ma non la storia, né la meditazione riusciranno mai a darci la ricetta sicura per ottenere la vittoria.

Vero ed immutabile è però il principio, ma la guerra, in fondo, è arte, anzi – dice il Gioda – la più forte espressione dell’arte. Come tale essa non potrà mai essere costretta in formule, né potrà mai essere regolata da leggi inviolabili e sicure.

Dei due avversari, quello che abbia meno mancato al principio, o che, avendolo trascurato, riesce più prontamente a porvi rimedio, ha dalla sua parte, indubbiamente, le maggiori probabilità di vincere. Ma per vincere, bisogna prima di ogni cosa voler vincere, fortemente volere. La vittoria però non può arridere ai deboli, agli indecisi, ai senza fede.

Essa è soltanto dei forti, è degli audaci, ed il Moltke l’ha sempre ben meritata.

 

 

 

CAPITOLO III.         IL PRINCIPIO DELLA MASSA NELLA GUERRA MONDIALE

 

La lunga disgressione storica è ormai finita, ma prima di procedere oltre vogliamo ricordare la concezione del principio accennata nella nostra premessa.

Osservare il principio della massa – abbiamo detto – significa impiegare la maggiore possibile quantità delle forze che si hanno a disposizione sul punto e nel momento decisivo. Questo modo di intendere il principio, abbiamo soggiunto, ci fa apparire in un quadro ordinato ed armonico tutti gli aspetti del problema: ripartizione delle forze nei teatri di operazione principale e secondario; economia delle forze; riunione, nel tempo e nello spazio, della maggiore possibile quantità di esse da impiegare sul punto e nel momento decisivo e, soprattutto, unità di comando.

Così inteso, questo principio, che domina sovrano in guerra, rappresenta l’essenza vera della guerra stessa, e ben a ragione il De Cristoforis lo proclamò “il principio sommo”.

Enunciato nella sua più semplice espressione di massa: numero, efficienza materiale e morale, potenza; integrato, nei suoi vari aspetti, dai suoi corollari indispensabili; reso perfetto e completo nella sua concezione più pura, più integrale, più forte: unità di comando, esso rappresenta invero l’espressione più precisa e più schietta dell’arte insuperabile dei grandi capitani: da Alessandro a Cesare, ad Annibale; da Federico II a Napoleone ed a Moltke, è tutta una serie interminabile di esempi.

Ma la nostra concezione, se ci è servita per giungere sino alla guerra mondiale, ci appare invece incompleta ed insufficiente ora che ci accingiamo a proseguire nel nostro lavoro.

Il grandioso dramma che per circa cinque anni occupò e preoccupò il mondo intero, tutto mise a dura prova: la saldezza degli eserciti, le risorse, la potenza industriale ed economica delle nazioni, la saggezza politica degli uomini di governo, la resistenza fisica e morale dei popoli.

Orbene, se consideriamo quel lungo, doloroso periodo, nelle sue alterne vicende, con tutte le ansie e le trepidazioni degli animi a volte scossi da un’improvvisa battaglia perduta, a volte esaltati da una grande e tanto attesa vittoria, ben comprendiamo come il nostro principio non possa ormai più essere tutto contenuto in una definizione così circoscritta come quella da noi data nella premessa.

E poiché la guerra, col suo dilagare impetuoso e incontenibile, coinvolge la nazione tutta nelle sue multiformi e complesse attività, il nostro principio sente anch’esso il bisogno di espandersi, di estendersi, di abbracciare qualche cosa di più vasto e di più completo di quel che non siano gli aspetti da noi già enunciati, di avere insomma una interpretazione più larga, più estensiva, più integrale.

 

ASPETTO POLITICO DEL PRINCIPIO

 

Vi è anzitutto un aspetto politico del principio. La politica, infatti, con arte abile e penetrante e con fili tenui, sottili, intesse sin dal tempo di pace una fitta rete di alleanze. Le varie nazioni, poiché sono convinte che nessuna di esse può fare la guerra da sola contro tutte le altre, e nemmeno contro una sola di tutte le altre, poiché tutte o quasi tutte sarebbero in essa fatalmente coinvolte, si legano mediante trattati palesi o segreti, determinando blocchi compatti di forze che ad altri blocchi sono destinati a contrapporsi.

Assistiamo, sin dal tempo di pace, ad una lotta continua, sorda e tenace per effetto della quale ogni nazione si sente adescata ora da una, ora da un’altra parte; le mire, le ambizioni tra le nazioni maggiori sono così profondamente contrastanti, e le competizioni così dure ed accanite che ognuna di queste nazioni pensa sempre e procura con tutte le sue forze di guadagnare alla propria causa il maggior numero possibile di alleati, per essere poi la più forte nel giorno del duro cimento. Orbene, dopo la guerra mondiale, non è forse questa una delle più chiare ed evidenti necessità del principio?

Indipendentemente dal blocco più o meno compatto ed efficiente che l’avversario potrà costituire, indipendentemente da ogni altra considerazione di qualsiasi genere, la necessità di questo particolare aspetto del nostro principio può sintetizzarsi in queste poche parole: dare alla politica di pace un orientamento preciso e determinato talché esso procuri, in previsione delle probabili lotte avvenire, il maggior numero possibile di alleati. Non fu forse un’assillante necessità di tal genere – la minacciosa avanzata dei russi nella Prussia orientale – che  alla fine dell’agosto del 1914 costrinse la Germania a togliere due corpi d’armata dalla frontiera occidentale per inviarli a quella orientale, ove però giunsero allorché la vittoria di Tannenberg aveva già diffuso la sua luce più luminosa e bella?

Come si può adunque rispettare un principio se riesce impossibile sottrarsi a questa durissima necessità?

Bisogna riconoscere che assai dura è questa necessità. Ma la guerra è la guerra, dolorosa, penosa, fatale. Assai più bella sarà la pace se la vittoria avrà dato il suo bacio e si sarà stretta attorno alle nostre bandiere.

Il sacrifizio di qualche provincia, se necessario, è assai ben poca cosa in confronto alle condizioni che ci imporrebbe il vincitore, se perdessimo la guerra. Bisogna quindi lottare per la pace vittoriosa, con tutte le nostre forze, con tutta la nostra volontà, forte e tenace. Tutto può, tutto deve essere sacrificato per questo scopo sublime. È in questo sacrifizio santo e puro che si rivela la forza morale di tutto un popolo.

La voce del popolo che teme è invero assai straziante; essa penetra nel cuore e lo avvolge e lo stringe in un velo di dolore intenso e profondo. Sotto questo supplizio, la mente non riesce a concepire che un’idea, una sola: quella che proviene dal sentimento di generosità in noi innato: ascoltare quella voce!

Orbene, il nostro principio è inesorabile a questo riguardo. Bisogna saper trovare in noi la forza morale per resistere a questo impulso di generosità che è tanto lodevole quanto è esiziale.

 

ASPETTO ECONOMICO-INDUSTRIALE DEL PRINCIPIO

 

La politica del tempo di pace stringe gli alleati in un nodo che è, o almeno dovrebbe essere, sentito e compreso, per la pace e per la guerra.

Scoppiata la guerra, le necessità di carattere economico-industriale che ne derivano stringono quel nodo più fortemente, più fraternamente, ed accomunano le nazioni alleate in un’unica sorte, in un solo domani, triste o giocondo che sia. Un certo legame di interdipendenza nelle sorti presenti e future si viene così a stabilire tra gli alleati, per modo che pare di poterli tutti insieme considerare come costituiti da un solo popolo che, animato da una sola fede, lavora, soffre, spera e combatte per una sola comune vittoria.

Questa concezione complessiva e d’insieme della guerra tra nazioni coalizzate conferma in noi la convinzione che la pace vittoriosa, fulgida meta da raggiungere a qualunque costo, trova la sua base più salda nella esatta comprensione dell’interesse che hanno le varie nazioni in lotta, di sostenersi e di appoggiarsi a vicenda anche nel campo economico-industriale.

Ora, se consideriamo la guerra mondiale da questo particolare punto di vista, vediamo che pur tra grandi incertezze e difficoltà, incomprensioni ed inesatte valutazioni di elementi, muove i suoi primi passi un aspetto del tutto nuovo del nostro principio, ed è addentrandoci nell’esame di esso che riusciremo a fissarne la sua vera essenza, così come la intendiamo, così come ci sembra di intravederla, nei limiti del prevedibile, nella assai dura e complessa guerra di domani.

 

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Le vicende politiche che precedettero lo scoppio della guerra mondiale determinarono, com’è noto, la divisione delle nazioni di Europa nei due grandi raggruppamenti: Inghilterra, Francia, Russia e Serbia da una parte, Germania ed Austria dall’altra. Gli eserciti di queste ultime due nazioni – che già da tempo si predisponevano alla dura competizione – si presentarono alla lotta perfettamente organizzati e potentemente armati.

La Germania, contando sulla lentezza della mobilitazione russa e sull’impossibilità di un pronto ed efficace intervento dell’esercito inglese, si lanciò con grande impeto alla conquista di una decisiva vittoria sulla fronte occidentale. Vinto l’avversario più pericoloso, ed occupata la costa, l’esercito tedesco si riprometteva di impedire ogni ulteriore intervento dell’esercito inglese sul suolo di Francia, e di avere poi facilmente ragione delle forze russe che nel frattempo sarebbero state trattenute da quelle austriache.

Crediamo di potere affermare che se gli avvenimenti si fossero svolti secondo le previsioni e le vive speranze tedesche, la guerra sarebbe stata, indubbiamente, assai breve. Se teniamo presente che l’esercito tedesco entrò in guerra nel 1914, sicuro di possedere la ricetta per ottenere la vittoria, ben comprendiamo come ogni cosa fosse stata predisposta dalla Germania per una guerra di breve durata.

Non è certo qui il caso di esaminare come e perché gli eserciti contrapposti abbiano sentita la necessità, ovvero siano stati costretti a fermarsi l’uno di fronte all’altro e disporsi su linee continue, estesissime, a scavare trincee profonde e proteggerle con robusti reticolati.

Sta di fatto che, mentre sulla fronte occidentale la ricetta tedesca si dimostrava invero fallace, l’esercito russo appariva già sulla fronte orientale, assai minaccioso, e l’Inghilterra, dalla sua parte, si accingeva a portare in Francia un poderoso esercito che assai rapidamente andava costituendosi in patria. Fu così che la lotta si stabilizzò sulle varie fronti di battaglia, ed incominciò ad apparire incerta, lunga e penosa.

A mano a mano che i mesi passavano, le varie necessità derivanti dalla mancata rapida soluzione del conflitto si facevano sempre più imperiose e sempre più numerose. La guerra, col suo protrarsi indefinitamente, metteva a dura prova tutte le energie dei paesi che erano scesi in campo. Impegnate in una lotta accanita, furibonda, dall’esito della quale dipendeva la vita e l’avvenire dei popoli, le varie nazioni, per vincere, raccolsero tutte le loro forze materiali e morali, tutte le loro energie e le loro risorse, mobilitarono uomini e donne, scienze ed industrie, campi ed officine, si valsero di ogni mezzo leale e sleale, umano e inumano, contro chiese e contro ospedali, contro eserciti in armi e contro donne, vecchi e fanciulli che nelle città e nei sobborghi trepidavano e pregavano per i loro congiunti che la patria in pericolo aveva chiamato sotto le sue bandiere.

A malgrado tanto sforzo, a malgrado i più duri sacrifizi e le più gravi rinunzie, la guerra procedeva sempre più lenta, sempre più penosa, sempre più aspra. Quando si sarebbe decisa? Come si sarebbe decisa?

Da una parte o dall’altra il tempo, col suo fatale andare, poteva portare con sé un nuovo alleato, ma forse anche un nuovo e più forte nemico. Il dilagare della guerra poteva determinare un nuovo squilibrio di forze che avrebbe potuto dare la vittoria, ma avrebbe anche potuto allontanare ancor più la risoluzione della lotta.

Ed allora? Allora, poiché la fine della guerra appariva sempre più lontana, a malgrado tutti desiderassero di affrettarne la conclusione, si determinò la necessità di adottare quella speciale e pesante bardatura di guerra che pur dopo la pace tanto gravò sui popoli già esausti dell’immane sforzo compiuto.

 

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Nel campo economico fu necessario procedere alla requisizione di tutti i generi necessari all’alimentazione dell’esercito e della popolazione civile, abolire il sistema dell’importazione libera, di modo che lo Stato divenne unico e grande importatore. In seguito ci si vide costretti a limitare ed a disciplinare rigorosamente i consumi: la razione viveri del soldato dovette essere sensibilmente ridotta; fu anche necessario diminuire le distribuzioni settimanali di carne e di pasta. In luogo di tali generi vennero distribuiti salmone, baccalà, carne suina in scatola, riso. Nei riguardi della popolazione civile si dovette ricorrere al sistema di tesseramento per la distribuzione di tutti i generi alimentari. Fu aumentato il tasso di abburattamento delle farine e si ricorse, per la panificazione, all’impiego di speciali miscele. Infine, le scarse disponibilità di farine e di cereali, e le difficoltà di provvedersene in misura sufficiente, ci obbligarono a stabilire, per la popolazione civile, il pane di tipo unico, che venne poi denominato “pane di guerra”.

Oltre ai provvedimenti su accennati, altri ed importanti ne furono adottati, tra i quali il divieto di esportazione dei prodotti agricoli, la concessione di speciali license ai militari, l’impiego dei prigionieri di guerra nella coltivazione dei campi, ecc.

 

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Nel campo industriale, poiché la guerra non divorava soltanto uomini, ma rendeva inservibili anche le macchine ed i materiali che pure erano indispensabili, fu necessario intensificare e moltiplicare la fabbricazione dei cannoni, delle armi di vecchio e di nuovo modello, dei proiettili, di tutti quei mezzi, insomma, che i combattenti, minacciati e sopraffatti a volte dai poderosi e numerosi ordigni che l’avversario riusciva a mettere in campo, reclamavano con sempre più crescenti ed assillanti richieste.

 

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Questi furono i principali provvedimenti che le varie nazioni alleate adottarono, ciascuna per proprio conto, per fronteggiare la situazione che diveniva ogni giorno sempre più preoccupante.

Ma la lotta, con le sue alterne vicende e con le sue enormi difficoltà che la rendevano sempre più complicata e sempre più tremenda, indicò le speciali necessità che nel campo economico-industriale venivano a manifestarsi in dipendenza della lunga durata della guerra.

Accomunati in un’unica sorte, per quella sensazione intima che pare a volte qual triste presagio di un domani assai incerto, gli alleati sentirono sorgere in loro un nuovo spirito di solidarietà che, se pure non riusciva a trovare le sue giuste vie nel campo della condotta della guerra, incominciava però a mettere fermo il piede nel campo economico-industriale. Essi compresero che la capacità di resistenza morale dell’esercito in campo traeva la sua massima efficienza non soltanto dalla sua forza materiale intrinseca, ma anche, ed ancor più, dalla capacità e dalla possibilità di resistenza fisica e morale delle popolazioni. E queste capacità e questa possibilità di resistenza delle popolazioni non erano forse essenzialmente determinate dalle necessità di carattere economico?

Sottoposte ai più duri sacrifizi, prive degli alimenti indispensabili per il loro sostentamento, preoccupate dalla lunga durata della guerra ed assillate dal dubbio di un esito sfavorevole della lotta, le popolazioni non avrebbero potuto forse imporre agli eserciti di deporre le armi? Non è forse la fame il principale nemico degli eserciti e dei popoli in lotta?

 

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Gli alleati compresero adunque che anche nel campo economico occorreva serrare tempestivamente le file. E perciò noi vedemmo sorgere, nel gennaio 1916, un Comitato Interalleato che si occupò degli acquisti dei cereali occorrenti agli eserciti e della conseguente ripartizione di essi tra gli alleati.

In una conferenza tenuta dal generale prof. Fulvio Zugaro, nell’aprile 1928, agli ufficiali della Scuola di Guerra in Torino, leggiamo infatti: “Gli acquisti di grano all’estero, eseguiti negli anni 1914 e 1915 direttamente presso ditte specializzate estere e nazionali, furono dal gennaio 1916 effettuati attraverso l’organizzazione interalleata e cioè per tramite del Joint Committee, costituito in Londra col concorso di un rappresentante italiano, per gli acquisti e la ripartizione fra gli alleati dei cereali, che ebbe come organo esecutivo la Royal Commission on Wheat Supplies”.

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“Il Joint Committee fu costituito, in seguito agli accordi intervenuti a Parigi il 29 novembre 1916 fra l’Inghilterra, la Francia e l’Italia, dal Wheat Executive, Comitato composto da un rappresentante delle tre potenze ed incaricato di acquistare cereali occorrenti agli alleati e di ripartirli in relazione al fabbisogno di ognuno”.

 

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Nella costituzione del Joint Committee vediamo già i primi segni della comprensione da parte degli alleati del loro reciproco interesse ai fini di una più salda organizzazione della resistenza alla durissima lotta.

Ma vi furono anche altre manifestazioni più tangibili dello spirito di solidarietà economica interalleata.

Nel dicembre 1916 la Francia cedette all’Italia 100.000 quintali di grano che il Joint Committee aveva a lei assegnato. A questa prova di solidarietà taluno potrebbe opporre il fatto che l’Inghilterra si era impegnata a reintegrare la Francia del grano ceduto. Ma questa circostanza non diminuisce per nulla il valore che deve essere attribuito all’atto della nazione alleata, poiché, se è vero che quel tale legame di interdipendenza delle sorti presenti e future che deve esistere tra i paesi coalizzati, da noi già accennato, impone ad una nazione l’obbligo morale di aiutare al bisogno l’alleata, di correre in suo soccorso, di cederle tutto quanto non le possa occorrere in un determinato momento, anche vero è – ed è anche giusto – che, superata la crisi, ciascuno torni in possesso di ciò che aveva ceduto con alto spirito di cameratismo e con esatta comprensione del vitale comune interesse.

Un altro esempio dello spirito di solidarietà che animava gli alleati lo troviamo nell’accennata conferenza del generale prof. Fulvio Zugaro, là dove è detto che il Joint Committee non fece acquisti “per le singole nazioni, imputandone i relativi costi, ma le provviste, compiute nell’interesse comune, furono considerate uniche dal lato finanziario e quindi ad ogni nazione venne addebitata la quantità assegnata in base al costo medio (pool) di tutti gli acquisti”.

 

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Anche nel campo industriale troviamo traccia di questa intima solidarietà interalleata. È noto, infatti, che armi fabbricate in Francia furono cedute all’Italia ed impiegate da soldati italiani sulla fronte italiana, allo stesso modo come fucili costruiti in Italia furono ceduti alla Russia ed impiegati da soldati russi sulla fronte russa.

Tutto ciò è appena un accenno, ma in tale accenno è già chiaramente delineato il nuovo aspetto del principio.

Le sue prime manifestazioni aprono davanti a noi un orizzonte assai vasto nel quale vediamo nitidamente tracciate le vie che bisogna percorrere per giungere alla sua integrale applicazione.

 

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Le varie necessità di carattere economico che si manifestarono in dipendenza della lunga durata della guerra, fecero adunque comprendere agli alleati che per vincere non era più sufficiente un esercito sia pure composto di milioni di combattenti tutti bene agguerriti e potentemente armati, ma era anche necessario stringersi, nel campo economico, in un abbraccio fraterno, nel comune vitale interesse.

Riconosciuta questa necessità, riconosciuto che la capacità di resistenza degli eserciti alla lotta trova la sua base nella possibilità di trarre dal paese che essi difendono tutto quanto possa loro occorrere in uomini, alimenti, armi, materiali; riconosciuto altresì che il benessere fisico e morale dei popoli in lotta è elemento indispensabile, se non determinante, dell’efficienza morale degli eserciti, il principio della massa si svincola dalle strettoie in cui era stato sin allora costretto, per abbracciare, con più ampio respiro, un campo assai vasto nel quale vuole dominare sovrano, ancor più di quanto non domini negli altri campi, certo non meno che negli altri.

Vedemmo già, infatti, che nell’arte napoleonica le manifestazioni del principio erano tutte contenute nel campo, diremo così, strettamente militare. Comando unico ed assoluto, razionale ripartizione delle forze ed accurata economia delle stesse, tempestiva riunione per la battaglia, erano le forme entro cui risultava circoscritta la concezione napoleonica della massa. Col Moltke, invece, siamo passati ad una concezione alquanto più ampia del principio poiché alle forme su accennate se ne aggiunse un’altra tutta nuova che estese il concetto di massa anche al campo intellettuale, e rese perciò più completo il principio.

Per effetto dell’unità di dottrina, le volontà dei capi e le loro azioni risultavano armonicamente e spontaneamente coordinate, talché la forza della massa risultava centuplicata. Lo spirito di cameratismo portato alla sua più alta espressione determinava l’accorrere al cannone di tutte le forze vicine; si verificava perciò, quasi automaticamente, una perfetta applicazione del principio anche quando gli ordini, a causa di circostanze varie, o non giungevano, ovvero, se giunti, mal si adattavano alla particolare situazione sempre varia e mutevole delle truppe.

Giungiamo così alla guerra mondiale. Lunga, asprissima, penosa, essa ci costrinse ad attribuire al principio un significato assai più vasto. Lo abbiamo veduto infatti estendersi, sin dal tempo di pace, nella imminenza della lotta, al campo della politica estera ed a quello della politica interna. Lo vediamo ora ampliarsi ancor più e comprendere il campo economico-industriale e presto, nel successivo capitolo, lo vedremo abbracciare un altro campo anch’esso importantissimo.

Se volgiamo ora lo sguardo all’avvenire, dopo di aver considerata la lunga e dolorosa esperienza della guerra mondiale, dopo di avere esaminato quanto è stato fatto sotto l’assillo del momento e nell’ansia della lotta, tra le più gravi difficoltà, vediamo che nel campo economico-industriale assai accurato deve essere lo studio di ciò che è necessario predisporre e di ciò che sarà indispensabile fare nella guerra di domani, la quale si annunzia assai più dura ed assai più complessa di quella testè combattuta.

E poiché autorevolissima si è di recente levata una voce (G. GIARDINO: Rievocazioni e riflessioni di guerra, Vol. I) per ammonire che la guerra futura, a malgrado i progressi raggiunti dall’aviazione e dall’arma chimica, non sarà né breve né tutta dinamica come taluno crede di poterla sognare, non possiamo non riconoscere che assai attento deve essere lo studio dell’importante problema, ed assai accurata la nostra preparazione al riguardo.

“Bisogna dunque essere arrivato ad una ben meditata, sincera e profonda convinzione (dice quella voce), e sentirsi  ben documentato, per incaricarsi di trasmettere a concittadini ed a commilitoni questo severo ed ingrato ammonimento della grande guerra. Il quale dice che questa deprecabile guerra può essere, e quasi certamente sarà la guerra necessaria, e perciò anche  la sola efficace, almeno ogni qualvolta l’una o l’altra parte non raggiunga di primo colpo la decisione, come sarà probabilmente il caso normale; che non c’è dunque nessun scadimento morale ad appigliarvisi, quando necessario; che in conseguenza è doveroso orientarvi lo spirito di tutti e, prima di tutto, nel senso dianzi precisato, le dottrine e la preparazione tecnica.

Dice, in conclusione, che la guerra di trincea, per la sua importanza e per le sue peculiarità di condotta non dev’essere studiata, preparata ed attrezzata come una semplice e facile variante di una guerra di movimento, la quale possa inciampare talvolta in qualche posizione preparata; non in “tono minore”, come una forma che abbia ad occultarsi agli occhi dei tecnici e del pubblico per pudicizia militare; non come una forma che possa improvvisarsi al momento dell’inevitabile; ma dev’essere studiata, preparata ed attrezzata, a fondo, a considerazione palese e perfettamente pari con la guerra di movimento, con riconoscimento aperto delle sue sostanziali e peculiari caratteristiche, e con tutte le conseguenze che ne derivano per l’organica, per la dottrina particolare di condotta tattica e strategica, per la formazione dei capi, per l’istruzione delle truppe, ecc.”.

 

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Siamo anche noi convinti di questa grande verità: la guerra di domani non potrà non essere lunga e tremenda, poiché, come giustamente osserva l’Illustre Maresciallo, non può essere dubbio “… che chi è, o si presume, o diventa, per un rovescio parziale, più debole faccia ogni sforzo per aggrapparsi o riaggrapparsi a questa forma salvatrice di guerra (quella di trincea); e che, se riesce a raggiungerla, la imponga anche all’avversario preponderante..…”.

Più o meno palesemente, infatti, tutte le nazioni si preparano a questa lotta che in un avvenire forse anche assai prossimo, sarà accanitamente combattuta in terra, su nel cielo e pei mari, alla fronte e nelle più lontane retrovie fino all’estremo lembo del territorio dei paesi in lotta, per la conquista, per il dominio dei popoli, per la supremazia economica e commerciale.

Ora, se consideriamo che dopo la guerra, assai più dura la pace divide i popoli crudemente, nettamente a volte, in vincitori e vinti, ci sentiamo portati a meditare assai severamente sulla grande incognita della guerra avvenire.

E tale meditazione, attenta e serena, ci induce ad auspicare un’intima e perfetta unione economica tra le nazioni che si troveranno insieme a combattere uno stesso avversario.

Tutto il territorio dei vari paesi alleati sia considerato come appartenente ad una grande patria comune, come una sola grande fucina dalla quale sia possibile trarre tutti i mezzi di vita e di lotta per un unico grande esercito costituito da tutti gli eserciti delle nazioni alleate; tutte le risorse, ricche o modeste, di ciascuna nazione siano messe in comune e servino a rendere non solo possibile la lotta, ma anche poderosa ed incontenibile la forza di questa immensa massa di uomini destinata a conquistare per tutti una sola grande vittoria.

E poiché potrà accadere – come è accaduto infatti – che le risorse e le produzioni dei singoli paesi siano insufficienti alla bisogna, è necessario predisporre – a simiglianza di quanto è stato fatto nella guerra mondiale, ma in modo più completo, più perfetto, più intimo – tutta una vasta e complessa organizzazione interalleata che studi, predisponga e coordini tutte le misure da adottare sin dal primo momento della guerra, per disciplinare i consumi e per aumentare, o quanto meno non far diminuire le produzioni di ciascun paese; che si occupi degli acquisti, del trasporto e della ripartizione tra gli alleati di tutto quanto sarà necessario importare dall’estero ai fini di una salda organizzazione della difesa e di una più valida e prolungata resistenza dei popoli e degli eserciti al protrarsi indefinito della lotta.

In questo nostro voto sintetizziamo, nella sua nuova forma dettata dalla grande guerra, l’aspetto economico-industriale del principio della massa. E tale forma, ne siamo convinti, dovrà trovare nella guerra futura la sua più completa ed integrale applicazione.

 

L’ARMA AEREA E LA SCIENZA CHIMICA

 

Già nel chiudere la nostra premessa accennammo che per effetto dell’enorme sviluppo raggiunto dall’aviazione e dalla scienza chimica, tutto il popolo di una nazione in guerra dovrà, in avvenire, essere considerato come uno degli attori principali della lotta. Ed anche trattando dell’aspetto economico-industriale del principio abbiamo affermato che il benessere fisico e morale dei popoli è elemento indispensabile per mantenere integra l’efficienza morale dei combattenti alla fronte.

Gli eserciti in campo, infatti, si contendono palmo a palmo il terreno, e dietro ad essi stanno, ansiosi e trepidanti, i popoli delle nazioni in lotta. Da questi popoli traggono gli eserciti tutta la loro forza materiale e morale, essi rappresentano tutto ciò che bisogna ad ogni costo difendere, sono tutti gli affetti e tutte le speranze, il loro benessere è lo scopo stesso della guerra, e solo la vittoria assicura la loro esistenza ed il loro divenire.

Silenziosi e muti, sempre pericolosamente, vivono i combattenti alla fronte. Essi non chiedono nulla, non vogliono nulla perché sanno che devono obbedire. Domandano solo di sapere che la mamma, che la sposa, che i figli, che la loro piccola famiglia insomma, vive laggiù nel lontano casolare pensando a loro, pregando per loro: questo solo domandano. Ma allorché questa notizia alimento del loro cuore manca, o non è rassicurante, la loro fede vacilla ed il dubbio, insidioso e sottile, penetra nelle loro anime, ne insidia la tranquillità e ne scuote la forza morale.

Popoli e combattenti sono dunque strettissimamente legati tra loro da un vincolo d’alto valore spirituale e morale.

 

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Ma ancor più intimo ci appare questo vincolo se pensiamo alle imprescindibili necessità della guerra futura.

Chiamati a sostenere una lotta accanita ed asprissima che richiederà in ogni combattente una capacità di resistenza fisica e morale grandissima, sottoposti alle terribili offese degli innumerevoli e potenti mezzi di sopraffazione e di distruzione che la scienza e le industrie porranno al servizio degli eserciti, tutti i combattenti, in ogni momento della lotta, sentiranno vivo ed imperioso il bisogno di essere validamente sostenuti dal paese che essi difendono. Messi a confronto con un avversario largamente dotato dei più moderni mezzi di lotta, i fanti che dovranno lanciarsi all’assalto delle trincee nemiche armati solo di bomba, di pugnale e di fucile o moschetto che sia, comprenderanno bene che il loro sacrifizio sarà purtroppo assai vano se non potranno contrapporre al nemico più numerosi e più poderosi mezzi di difesa e di offesa. E questi mezzi – i più moderni, i più perfezionati – da dove dovranno giunger loro se non da quella “grande fucina” da noi già auspicata, se non dal paese, tutto trasformato in un immenso cantiere ove il lavoro proceda con ritmo sempre più crescente, senza soste né tregue?

 

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Adunque, per effetto di questa intima relazione di carattere spirituale, morale ed anche materiale che legherà tra loro popoli e combattenti, noi vedremo la guerra estendersi – sotto forme assai diverse e forse imprevedibili – anche nelle officine, nei laboratori, nei campi, dappertutto!

I popoli saranno costretti a moltiplicare le loro attività ed a lavorare intensamente per produrre le armi, i cannoni, le munizioni, gli autocarri, gli aeroplani, i gas venefici che i combattenti dovranno impiegare alla fronte poiché, se l’insufficienza dei mezzi materiali poteva in passato essere in certo qual modo sostituita da una grande forza morale che suscitasse nei combattenti l’entusiasmo e determinasse in essi la volontà di vincere a qualunque costo, oggi invece è la superiorità di tali mezzi, in quantità, in potenza, in qualità, che decide della vittoria. Senza tale superiorità, netta e precisa, l’impeto che la più vigorosa e possente forza morale potrà imprimere ad una massa di armati si infrangerà contro la barriera insormontabile di ferro e di fuoco che sarà eretta da un avversario meglio armato e più largamente dotato di mezzi bellici.

Sarà pertanto necessario considerare il popolo di una nazione in lotta come facente parte integrante dell’esercito che, costituito dagli uomini più validi della nazione stessa, oppone al nemico la più tenace resistenza e la più forte volontà di vincere. E questa resistenza, e questa volontà non saranno indubbiamente più salde se saranno alimentate dalla grande forza morale che proviene dal sentimento e dallo spirito nazionale del popolo deciso a condurre la lotta con ogni mezzo, con ogni sacrifizio, sino alla completa vittoria?

 

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Per questa nostra concezione, che trova ampia conferma negli avvenimenti della grande guerra, una nazione in lotta ci appare tanto vulnerabile alla fronte quanto nelle sue più lontane retrovie. Ed infatti, velocissimi, dotati di grande autonomia, capaci di portare un considerevole carico di potentissime bombe, gli aeroplani potranno volare su tutto il territorio della nazione avversaria, e sebbene la loro azione potrà essere contrastata dagli aeroplani nemici, essi riusciranno pur sempre a raggiungere, improvvisi e rapidi come il baleno, sulle città, sorprendere gli abitanti, e servendosi non soltanto di bombe, ma anche dei nuovi trovati della scienza chimica, seminare tra gli abitanti stessi il terrore e la morte. Potranno distruggere strade, ponti, ferrovie, stazioni, stabilimenti, paralizzare la vita intera della nazione, impedire ogni lavoro tranquillo e proficuo nelle officine e nei campi, danneggiare i prodotti dell’agricoltura, rendere impossibile, insomma, la continuazione della lotta facendo sì che l’abbattimento morale pervada gli animi di tutti.

 

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Ma l’importanza dell’arma aerea è così nota che sembra veramente superfluo indugiarvisi. È pertanto opportuno ritornare al nostro principio.

L’arma aerea adunque, oltre che condurre la lotta nello spazio infinito del cielo, può, attraverso lo spazio stesso, portare la lotta nel punto più vulnerabile della nazione avversaria. Minacciando le fonti di energia dell’esercito, può esercitare sulle operazioni di guerra un’influenza che non può essere trascurata. Il nostro principio non può, quindi, non abbracciare anche l’impiego di questo efficacissimo mezzo di guerra.

Poiché, se pensiamo alla massa delle forze costituita da fanti, tanks, artiglierie, non possiamo non associare a tale massa, nella nostra mente, un’altra massa costituita dalle forze aeree, certo della prima meno numerosa, ma non per questo meno forte e potente, meno temibile! L’azione di questa massa di forze aeree, se svolta in stretta ed intima cooperazione con l’azione che l’altra massa deve svolgere per terra, può essere veramente decisiva.

Innumerevoli stormi di velivoli provenienti dai più lontani campi di aviazione potranno rapidissimamente concentrarsi nel settore decisivo e piombare, quali falchi in agguato, sulle immediate retrovie dell’esercito nemico, rompere i collegamenti, paralizzare l’azione dei comandi, costringere al silenzio le artiglierie, impedire i movimenti dei rincalzi e delle riserve, interdire ogni rifornimento. E questa azione non è forse promettente di favorevoli risultati al pari di una vera e propria “puntata” napoleonica sulle retrovie? Napoleone, infatti, lanciava all’avvolgimento del nemico le sue più valorose divisioni ed i suoi corpi d’armata più veloci. Chi potrà impedire al comandante degli eserciti di domani di lanciare all’assalto delle retrovie nemiche una poderosa riserva aerea strategica?

Si può opporre che anche il nostro avversario sarà largamente dotato di mezzi aerei, i quali potranno efficacemente ostacolare, se non impedire, l’azione di questa massa di forze che noi vorremmo preconizzare determinante della vittoria. Noi però abbiamo solo parlato di una poderosa riserva aerea strategica destinata ad operare in intima e costante cooperazione con i fanti e con le tanks che vanno all’assalto. Altre forze aeree, anch’esse numerose e poderose, avranno invece il compito di combattere e di vincere l’aviazione avversaria per modo che questa non possa ostacolare lo svolgimento dell’azione della nostra riserva aerea.

 

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La lotta di domani sarà indubbiamente ricca di grandi sorprese. Epperò, un senso di elementare prudenza ci consiglia di contenere le nostre previsioni nei limiti assai circoscritti di ciò che può sembrare prevedibile sulla base degli elementi che sono ora in nostro possesso.

D’altra parte, l’incessante, diuturno progresso della scienza chimica e l’instancabile tensione di tutte le nostre facoltà nello studio affannoso dei più perfetti, più potenti e più veloci mezzi di volo ci inducono a meditare per cercare di intravedere quali potranno essere le possibilità di azione di questa nuova arma in un non lontano avvenire.

Ma tra le numerose incognite, una sola cosa è certa ed indiscutibile, per ora, ed è: che a malgrado il notevole sviluppo cui potranno giungere la scienza chimica e l’arma aerea, la guerra non potrà essere decisa solo nell’aria, non fosse altro perché bisognerà pur scendere in terra per piantare il segno tangibile della conquistata vittoria.

E allora, poiché per vincere bisognerà lottare, aspramente lottare anche in terra, perché non pensare sin da ora all’enorme ausilio che può venire dall’alto al minuscolo fante che deve strisciare per terra tra reticolati e sacchetti, sotto le raffiche violente e rabbiose delle mitragliatrici avversarie?

Se potessimo un giorno dire al nostro fante che mercè questo valido ausilio, al momento dell’attacco egli si troverà a combattere col solo fante avversario, armato come lui, petto contro petto, bomba e pugnale contro bomba e pugnale, quale forza arcana potrebbe frenare l’impeto che lo animerebbe all’assalto? Orbene, questa nostra aspirazione potrà essere giudicata un’utopia.

Vivissimo sarebbe in noi il desiderio di giungere a tanto, ma non ci facciamo illusioni. Sappiamo quel che possiamo chiedere oggi alla scienza chimica ed all’arma aerea, ma nel pensare al domani non possiamo non alimentare questa nostra viva speranza. La quale ha la sua base nell’immutabile ed eterno principio: la vittoria è decisa dall’urto della massa.

E questa massa noi oggi la intendiamo costituita da tutto un complesso di mezzi e di forze, aeree e terrestri, tutte destinate ad operare in perfetto e costante accordo tra loro, nel tempo e nello spazio. Non solo, ma poiché il genio dell’uomo ci dà oggi il modo di portare l’offesa là dove il cannone non è mai giunto sin ora, perché non dovremmo valerci di questo mezzo per esercitare su tutte le forze vive della nazione avversaria la più intensa ed efficace pressione e rompere così tutti quei vincoli materiali e morali che legano i popoli ai combattenti?

In questa nostra concezione del principio, ed ancor più nella sua esatta ed integrale applicazione, sta, forse, uno dei tanti fattori decisivi della lotta.

 

L’UNITÀ DI COMANDO

 

Il problema dell’unità di comando nelle guerre tra nazioni coalizzate è sempre stato di difficile soluzione.

Invero, numerosi ed importanti sono gli elementi che sulla questione esercitano capitale influenza. Per giungere ad una soluzione del problema, la meno difettosa possibile, bisognerebbe anzitutto fare astrazione dallo spirito nazionale e dall’orgoglio dei vari popoli in lotta.

Ma è mai possibile non tener conto di questi importantissimi elementi? Consentire a sottoporre l’esercito al comando di un generale di altra nazione non è forse arrecare una durissima offesa ai sentimenti di stima e di fiducia che ogni nazione deve avere verso i propri generali? In una guerra che si combatte per l’esistenza e per l’avvenire dei popoli, quale fiducia potrebbe ispirare un generale alleato specie nei riguardi della giusta distinzione tra teatro principale e teatro secondario della lotta? Non sarebbe egli portato a considerare con particolare attenzione il territorio della nazione cui appartiene, allo scopo di preservarlo da un’invasione che tutti sappiamo quanto sia dolorosa? Le sue cure non sarebbero forse più assiduamente rivolte a mantenere sempre integra l’efficienza materiale e morale dell’esercito della sua nazione col non esporlo ai sacrifizi maggiori?

Questi e cento altri interrogativi dovrebbe porsi chi volesse accingersi ad uno studio accurato e coscienzioso dell’importante questione. E ad essi tutti una risposta ed un ammonimento certo darebbe la guerra mondiale coi suoi infiniti esempi invero assai eloquenti.

Violenta ed accanita quanto altra mai, la guerra mondiale è infatti, per tutte le branche dell’arte militare – e non soltanto dell’arte militare – una miniera inesauribile, ricca di preziosi ammaestramenti. Ad essa pertanto dovranno far capo tutti gli studiosi di oggi e domani.

È perciò che noi ci accingiamo, ora, ad esaminare alcuni momenti tra i più significativi della grande guerra che alla questione si riferiscono. Premettiamo, però, che il nostro esame non tende a dimostrare l’importanza della questione dell’unità di comando. Riteniamo che questa questione non formi ormai oggetto di discussione alcuna. L’esperienza della grande guerra e le lunghe e laboriose trattative svolte nelle varie conferenze interalleate di Chantilly, di Roma, di Rapallo, ecc., determinano in noi tale convinzione, e ci inducono anche a sperare che in una guerra futura non ripeteremo gli errori in cui siamo incorsi in passato. Sarà questa vana speranza? Forse! Tuttavia noi vogliamo nutrirla ed alimentarla con tutte le nostre forze, con tutta la nostra fede.

Tendiamo invece a dimostrare che è necessario studiare accuratamente e ponderatamente la questione stessa, sin dal tempo di pace, per modo che ci si possa presentare alla guerra futura, nei riguardi dell’organizzazione del comando, ai fini di una razionale condotta della lotta, per lo meno allo stesso punto in cui eravamo pervenuti verso la fine dell’aprile 1918, dopo cioè il convegno di Beauvais.

Che se si dovesse ricominciare, quale lungo e penoso calvario dovremmo nuovamente percorrere?

 

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Nei riguardi dell’unità di comando, la guerra mondiale sorprese pressocché in pieno gli eserciti delle due opposte coalizioni. Per quanto si riferisce all’Intesa, possiamo anzitutto affermare che è veramente edificante l’esempio che ci viene offerto dalle istruzioni date dal Governo britannico al comandante del contingente inglese sul suolo di Francia:

“Ricordatevi – dicevano tali istruzioni – che il vostro comando è del tutto indipendente, e che, mai, dovete accettare di essere agli ordini di un generale alleato”.

Partendo da una premessa di tal genere, ben comprendiamo come siano stati necessari tre anni e mezzo di dolorosa esperienza, resa ancor più penosa dai gravi insuccessi che a volte ci inflissero gli avversari, per giungere ad una soddisfacente, se pur non perfetta, soluzione del complesso problema.

Ritorneremo su questo argomento allorché tratteremo dell’unità di comando presso gli eserciti dell’Intesa; per ora vogliamo solo occuparci degli eserciti degli imperi centrali.

 

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Per considerare la questione dell’unità di comando presso gli eserciti degli imperi centrali, possiamo dividere la guerra mondiale nei tre seguenti periodi:

1.       1.       dall’inizio della guerra alla battaglia di Leopoli compresa;

2.       2.       dall’inizio della prima offensiva tedesca in Polonia al 6 settembre 1916, epoca in cui la direzione suprema della guerra venne assunta dall’Imperatore di Germania;

3.       3.       dalla data suddetta alla fine della guerra.

 

Il primo periodo ha per caratteristica essenziale la mancanza assoluta di connessione e di coordinamento tra le azioni che gli eserciti tedesco ed austro-ungarico hanno svolto. È noto infatti – e noi lo abbiamo anche accennato – che l’esercito  tedesco tendeva, da una parte, frontiera occidentale, a conquistare subito la vittoria (pur violando il principio della massa, come vedremo in seguito), e dall’altra, frontiera orientale, a tenere a bada i russi. Avvenne però che questi ultimi iniziarono improvvisamente la loro avanzata, per effetto della quale una assai temibile minaccia veniva a pronunziarsi nella Prussia orientale.

La Germania si vide perciò costretta ad inviare altre forze in questa regione, e poiché quasi tutto l’esercito tedesco si trovava già impegnato nello sforzo diretto contro la Francia, il capo di Stato Maggiore Tedesco dovette necessariamente sottrarre tali forze dalla frontiera occidentale. Palese è pertanto la dispersione degli sforzi. Ma essa appare ancor più evidente qualora si consideri che anche contro la Francia la Germania svolse non una sola offensiva, rapida e travolgente come l’aveva concepita e come la voleva lo Schlieffen, bensì due offensive e precisamente una in Lorena e l’altra dal nord, attraverso il Belgio.

Dal canto suo, l’esercito austro-ungarico, forse contando un po’ troppo sulla lentezza dei russi, si disponeva anch’esso a svolgere due azioni divergenti, una contro la Serbia, e l’altra contro la Russia; quest’ultima azione, poi, avrebbe dovuto essere svolta da due masse separate da un intervallo considerevole.

Non entriamo nel merito delle concezioni operative dei due alti comandi. Constatiamo soltanto che l’unità di comando – aspetto essenziale del principio della massa – non venne in questo primo periodo realizzata. Non solo, ma l’inefficacia degli accordi già in precedenza intervenuti tra i due capi di Stato Maggiore, fu causa non ultima dei gravi insuccessi che toccarono poi all’esercito austro-ungarico, e che tanto influirono sul successivo svolgersi degli avvenimenti.

Vero è infatti che il piano di guerra austro-tedesco contemplava un certo coordinamento, nel tempo e nelle direzioni, tra l’offensiva dell’8a armata tedesca e quella dell’esercito austro-ungarico. Il Conrad molto sperava nell’aiuto di detta armata, e ripetutamente lo invocava allorché i russi avanzavano in Galizia. Ma è pur vero che Hindenburg, già vittorioso a Tannenberg, rifiutò ogni concorso sia pure indiretto dell’8a armata a favore dell’esercito austro-ungarico, e decise invece di rivolgersi contro l’armata del Rennenkampf.

Un’idea molto sommaria della mancanza di coordinamento tra le varie offensive condotte dagli eserciti tedesco ed austro-ungarico nel primo mese di guerra possiamo formarcela osservando lo schizzo fuori testo n° 16. Esso ci indica in modo chiaro e preciso che le azioni in esame furono svolte in direzioni opposte non solo, ma anche senza il minimo accenno di concordanza, di cooperazione, di convergenza di sforzi.

E così, mentre da una parte all’esercito tedesco toccava la decisiva sconfitta della Marna, l’esercito austro-ungarico era costretto dall’altra ad una precipitosa e rovinosa ritirata, e perdeva Leopoli.

Solo Hindenburg trionfava invece a Tannenberg per virtù di una genialissima ed audace applicazione del principio, e cioè per effetto della perfetta unità di comando realizzata nel campo di una ristrettissima zona del teatro di operazioni, nonché di una sapiente e ben condotta manovra di riunione delle forze sul campo di battaglia.

 

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Presa Leopoli, l’esercito russo continuava ad avanzare vittorioso in Galizia, generando così vive preoccupazioni nel comando supremo tedesco. Fondate erano infatti tali preoccupazioni poiché, se i russi fossero riusciti a penetrare ancor più profondamente in Galizia, la Slesia sarebbe stata direttamente minacciata dato che nessuna efficace resistenza avrebbe potuto opporre l’esercito austro-ungarico. Veniva quindi a determinarsi la necessità assoluta ed imprescindibile di accorrere in aiuto dell’alleato e noi vediamo infatti che una nuova armata tedesca, la 9a, si concentra in Slesia, pronta ad agire sul fianco destro dell’esercito russo.

 

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Ha inizio così il secondo periodo, fatto tutto di dissensi e di contrasti assai vivi e profondi, di trattative lunghe e laboriose e che, tuttavia, si chiude nel settembre 1916 in una forma che possiamo ritenere, ed è infatti, conforme ai dettami del nostro principio.

Non è a credere, però, che con gli accordi del 6 settembre 1916 siano venute a cessare le ragioni di tali contrasti. Al contrario, essi si mantennero sempre assai vivi e profondi. Epperò, per effetto della costante supremazia che, a ragione od a torto, veniva esercitata dal comando supremo tedesco su quello austriaco, ed ancor più per la notevole influenza che l’Imperatore Guglielmo aveva su Francesco Giuseppe, i contrasti stessi vennero assai spesso tacitati, sempre però in via del tutto provvisoria perché spesso si riaprivano palesandosi sempre più insanabili.

 

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Possiamo definire questo secondo periodo un vero e proprio periodo di transizione durante il quale si inizia e si svolge quella lunga e dolorosa esperienza che fu però assai propizia e feconda per gli imperi centrali ai fini del raggiungimento dell’unità di comando.

Iniziatasi ai primi di ottobre con la prima offensiva tedesca in Polonia, la cooperazione tra le forze tedesche e quelle austriache sulla frontiera orientale procede intima e costante durante quasi tutto il 1914. Invero, dopo Leopoli, due furono le principali offensive svolte dagli imperi centrali sulla frontiera orientale. Si concluse la prima con la ritirata della 9a armata tedesca dietro la Wrata, e la seconda circa un mese più tardi a Lodz.

Si può affermare che in tali operazioni i due comandi agirono in un accordo che se pure non può definirsi perfetto, rappresenta tuttavia un considerevole progresso rispetto a quanto era stato fatto, o meglio, non era stato fatto nel periodo precedente. E tale accordo si manifestò non soltanto nella compilazione dei piani relativi alle offensive suddette – quello relativo alla prima venne concordato, come è noto, a Neu Sandec, il 18 settembre, tra il generale Ludendorff ed il capo di Stato Maggiore austriaco – ma anche nell’esecuzione delle offensive stesse.

 

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Abbiamo definito questo secondo periodo un vero e proprio periodo di transizione, di esperienza. Durante tutto il 1914, infatti, la capacità operativa e la forza di resistenza dell’esercito austro-ungarico venne messa a dura prova talché, senza l’aiuto dell’esercito tedesco, poteva già dirsi quasi decisa la sorte della guerra su quella fronte.

Ma la gravità del pericolo aveva fatto comprendere agli imperi centrali la necessità di procedere in intimo e costante accordo. I disastri subiti ed il pronto rimedio occorso, avevano indicata la via da percorrere: fino al maggio 1915, infatti, le armate tedesche ed austro-ungariche agiscono sempre in stretta cooperazione tra loro.

Si giunge così alla grande offensiva di Gorlice-Tarnow la quale segna un’assai dura sconfitta per l’esercito russo.

Ma col felice concludersi di questa offensiva veniva ad allontanarsi di alquanto il pericolo, ed allora i contrasti tra i due comandi si riaprono vivissimi e mantengono un tono di asprezza molto elevato.

Scendono in lotta contro il Falkenhayn, il Conrad e l’Hindenburg. Vuole il primo agire contro i serbi e non intende seguire gli altri nei loro audaci disegni. Concepisce invece l’Hindenburg, d’accordo col suo capo di Stato Maggiore e col Conrad, un vasto piano per una grande offensiva da svolgersi contro l’esercito russo che ripiega sconfitto e pericolante talché sembra assai facile eliminarlo dalla lotta, definitivamente. Ma il Falkenhayn non accetta tale piano. Più prudente egli ritiene inadeguate le forze che può mettere a disposizione per l’offensiva proposta, e perciò decide di agire contro la Serbia. L’intervento della Bulgaria gli dava infatti la possibilità di riaprire le vie di comunicazione verso l’Oriente e rompere così il cerchio entro il quale rimaneva già chiusa la Germania.

Decisa così l’offensiva contro la Serbia, più gravi divengono i contrasti poiché il Conrad intende assumerne la direzione. Vi si oppongono vivacemente ed energicamente il Falkenhayn ed il Capo di Stato Maggiore dell’esercito bulgaro; laboriose ed anche penose sono le trattative che si svolgono al riguardo, ma infine si riesce a comporre il dissidio adottando una soluzione di compromesso per effetto della quale la questione del comando per la progettata offensiva viene esclusa dalla convenzione militare. Questa soluzione, però, non risolve nulla perché ad essa si addiviene solo dopo che il Falkenhayn tacitamente promette al Conrad che l’azione delle varie armate sarebbe stata coordinata e diretta dal Conrad stesso.

Tacitamente, abbiamo detto, ma crediamo di poter aggiungere anche con deliberato proposito di non mantenere. Questa convinzione sorge in noi spontanea ed evidente per il fatto che durante lo svolgimento dell’offensiva i contrasti furono sempre intensissimi, e divennero anche gravi allorché, battuti i serbi, si doveva decidere se conveniva rivolgersi contro le forze dell’Intesa che, sbarcate a Salonicco, si accingevano a costituire un nuovo fronte di battaglia per sbarrare alla Germania la via dell’oriente, ovvero procedere alla occupazione di tutta la costa orientale dell’Adriatico, con la Dalmazia, il Montenegro e l’Albania.

A malgrado tali e tanti contrasti, il 1915 si chiude con un bilancio nettamente favorevole per gli imperi centrali, i quali possono segnare al loro attivo una clamorosa ed importante vittoria sui russi, ed un’altra ancora più importante sull’esercito serbo. Vero è che l’Intesa si accinge a ricostituire il fronte balcanico, ma anche vero è che con l’eliminazione, sia pur temporanea, dell’esercito serbo dalla lotta, gli imperi centrali venivano a realizzare un grande vantaggio di carattere morale oltre che di carattere materiale: non fosse altro, costringevano l’Intesa a disperdere i suoi sforzi.

 

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Il principio della cooperazione tra le varie forze operanti sullo stesso teatro di operazioni, già posto in atto sebbene in misura incompleta, e l’unità di comando realizzata nell’offensiva di Gorlice-Tarnow furono, in quell’anno, importanti fattori di vittoria. Ma gli eserciti degli imperi centrali, o meglio i loro alti comandi, non seppero o non vollero continuare su quella via che pure aveva dato loro così proficui e tangibili risultati.

Le recenti vittorie avevano fatto rinascere in loro le più vive speranze e con queste risorgevano pure le illusioni, talché mentre il Falkenhayn, più razionale e più logico, si proponeva di logorare a Verdun il suo più temibile avversario, il Conrad invece sognava di risolvere la guerra sulla fronte italiana, ed organizzava a tal fine quella ormai famosa “strafe spedizion” che doveva determinare il tracollo dell’Italia.

E così, mentre il 1916 avrebbe potuto vedere una razionale applicazione del principio ed, in conseguenza, una nuova e forse decisiva vittoria per gli imperi centrali, vede invece una dispersione di sforzi, una mancanza assoluta di accordi tra i due alti comandi i quali tornano ad essere indipendenti l’uno dall’altro, come lo erano stati all’inizio della guerra. A che cosa era dunque valsa l’esperienza dolorosa del primo mese di lotta? E quella così feconda e proficua del primo tempo del secondo periodo?

Gli è che i sentimenti e lo spirito di un popolo in lotta esercitano una capitale influenza su tutte le operazioni di guerra. Per effetto di questi sentimenti un popolo, che vede il proprio esercito ripiegare e cedere alla pressione di un nemico vittorioso e numeroso, chiede a gran voce l’aiuto dell’alleato, e se questo aiuto non gli giunge o non è pronto ed efficace, gli par di comprendere, di sentire che è stato abbandonato al suo avverso destino.

E questo sentimento – innato nell’animo umano – non può non ritrovarsi tutto nell’anima multiforme ed ultrasensibile di un popolo che non vede il pericolo, eppur lo sente ma non riesce a valutarlo nella sua interezza, e tuttavia molto ingrandito gli appare; dalla folla, dal popolo che vive nelle case, nei campi e nelle officine, esso passa nelle anime dei combattenti e dei comandanti e tutte le prende e le domina.

Ma allorché questo pericolo è scongiurato o allontanato e la calma subentra negli animi, ciascuno è portato a considerare con più pacatezza gli avvenimenti, e per un sentimento – che è falso orgoglio – crede di avere troppo ed a gran voce implorato perché ritiene di avere, inconsapevolmente, supervalutato il pericolo. Allora un senso di malintesa superiorità lo pervade e pensa che forse avrebbe potuto salvarsi da solo. Rinfrancato perciò, si ripromette di fare sempre da sé, e da sé solo.

Con quest’animo e con questo senso di supervalutazione di se stesso, l’esercito austriaco si presentava alla lotta nel maggio del 1916 contro l’esercito italiano. Aveva chiesto l’aiuto dell’alleato, promettendo la risoluzione della guerra sulla fronte italiana, ma non aveva saputo apprezzare i saggi consigli che in quell’occasione – ed anche in altre – non gli furono lesinati, e da solo si lanciò nell’impresa.

Ma non per nulla il nostro principio impone da secoli la sua legge inviolabile ed eterna. Fu quello il momento che, nei riguardi dell’unità di comando, può ritenersi per gli imperi centrali il più saliente della guerra mondiale.

L’esercito tedesco si accaniva contro Verdun e non riusciva a strappare questa fortezza dalle mani di un tenace e ben deciso difensore. Accanita e violenta si svolgeva in quel settore la lotta talché essa venne definita dal Gioda “una macina” per i due eserciti che vigorosamente e tenacemente la sostenevano, logorandosi entrambi.

Sarebbe occorso che nessun avvenimento fosse intervenuto a distogliere l’esercito tedesco da quella durissima lotta; sarebbe stato necessario che l’esercito austriaco, ancorché non avesse potuto o voluto mandare forze sulla fronte francese, si fosse astenuto dall’impegnarsi in un’offensiva inconsiderata ed audace, e si fosse invece prodigato con tutte le sue forze, opportunamente e sagacemente, a rendere meno difficile il già difficilissimo compito che il suo alleato si era assunto. Ma ciò non poteva in alcun modo verificarsi poiché, mancando l’unità di comando, mancava anche il coordinamento, nel tempo e nello spazio, delle due azioni offensive.

E venne così, completa e penosa la sconfitta a deludere ogni speranza, a far risorgere grave e minaccioso il pericolo.

Brussiloff, scatenata la sua vigorosa offensiva, si accingeva a valicare i Carpazi, dopo di aver segnato a Lutzk ed a Czernovitz due strepitose vittorie.

Arrestata ed in parte ributtata l’azione austriaca sugli altipiani, l’esercito italiano conquistava Gorizia, e mentre l’esercito tedesco accorreva sulla frontiera orientale per chiudere la grave falla che si era riaperta alle sue spalle, i franco-inglesi vivacemente attaccavano sulla Somme, ed a stento erano contenuti.

L’esercito rumeno intanto entrava anch’esso in lotta. Questo avvenimento già da molti temuto e che era inaspettato per quell’epoca anche allo stesso Falkenhayn, mise in grave scacco tutta la politica così poco accorta degli imperi centrali. Palese era pertanto la gravità dell’errore commesso: ma l’esperienza che prima era stata relegata in soffitta, era lì a far sentire la sua voce ammonitrice e severa, ed il pericolo, grave ed incombente, faceva ritornare negli animi quel vivo senso di timore e di incertezza che aveva già determinato, subito dopo l’inizio della guerra, quella più o meno spontanea sommissione, alla quale poi per falso orgoglio non si era più voluto sottostare.

 

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Fu in seguito a tali avvenimenti che Hindenburg assunse, il 26 agosto del 1916, la carica di capo di Stato Maggiore dell’esercito. Grande era la fiducia che in Lui riponeva l’Imperatore. Il Suo nome, legato alle più belle vittorie che l’esercito tedesco poteva sino allora vantare, appariva di lieto auspicio per l’avvenire, e già la gran voce del popolo lo salutava “salvatore” della Germania. Egli esercitava su tutti un grande fascino, e, nel commettergli l’alto comando dell’esercito, la Germania tutta, in intima e sentita unione spirituale e morale, riponeva in Lui tutte le sue più vive speranze.

Né a tale fascino poteva sottrarsi l’alleato. Il Conrad stesso aveva avuto modo di apprezzarne le alte doti, ed aveva anche potuto constatare quale potenza, quale fermezza di carattere e quale ferrea volontà si racchiudesse in quella mente veramente eletta. E poiché minaccioso incombeva il pericolo, e gli animi tornavano a fremere di quel fremito agitato e quasi convulso dei primi giorni di guerra, non restava che accettare questo dato di fatto evidentissimo e perciò indiscutibile, non restava cioè che sottostare, sia pure a malincuore, a quella volontà forte ed intelligente che affidava di condurre gli eserciti alla vittoria finale.

 

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Si realizza in tal modo una vera e propria unità di comando, per effetto della quale le varie fronti di battaglia saranno tutte considerate in intime relazioni di interdipendenza reciproca, e gli eserciti dei due imperi seguiranno le direttive di un solo capo, obbedendo ad un solo energico impulso, in un’unica direzione.

 

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Arriviamo così all’ultimo dei tre periodi in cui abbiamo convenuto di dividere la guerra mondiale ai fini della organizzazione del comando per gli eserciti degli imperi centrali.

La convenzione del 6 settembre 1916 – documento di indiscutibile importanza e di grande valore ai fini della raggiunta unione spirituale dell’alto comando degli eserciti – stabilisce e regola le relazioni tra i due stati maggiori, e precisa che la direzione suprema della guerra viene assunta dall’Imperatore di Germania, il quale si varrà del suo Stato Maggiore per emanare le direttive per le operazioni.

Salvo ed impregiudicato il diritto di sovranità di ciascuno dei due imperatori sul proprio esercito, i due imperatori stessi provvederanno, mediante accordi diretti, a dirimere le eventuali controversie che dovessero sorgere: il supremo interesse dei due popoli affratellati nella lotta e la ferma intenzione di giungere ad una felice soluzione della guerra saranno di guida ai due imperatori in ogni loro decisione.

 

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Ma l’accordo raggiunto, sebbene rappresenti quanto di meglio siasi visto durante tutta la guerra mondiale, e sebbene indichi una delle tante forme – forse anche la migliore – per l’applicazione dell’importante aspetto del nostro principio, non può per certo essere considerato una cosa perfetta. Vi è persino una convenzione segreta – voluta dal Conrad – che ne sminuisce l’importanza ed in certo qual modo ne ostacola l’applicazione; vi è anche l’orgoglio mal frenato che non si riesce in alcun modo a far tacere.

E se questi elementi non agiscono subito con tutta la loro decisiva influenza, gli è perché il vecchio Imperatore non può o non sa sottrarsi al dominio del Kaiser il quale non manca di far sentire, in ogni minima circostanza, il peso della sua dura volontà. Eppure, giorno verrà in cui, morto Francesco Giuseppe, il giovane Carlo I riprenderà intera la sua libertà di azione per volgere le arti dei suoi più o meno abili od astuti diplomatici verso una pace separata, di compromesso.

 

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La convenzione del 6 settembre 1916 ebbe pertanto vita assai breve. Essa diede il suo frutto migliore durante la campagna contro la Rumenia, e subito dopo i contrasti e gli antagonismi risorsero con maggiore intensità e veemenza di prima, e quasi la sommersero. Essa può quindi essere posta al vertice di una grandiosa parabola che possiamo raffigurarci per fissare nella nostra mente l’opera lenta, ma quanto mai difficile e laboriosa svolta al fine di dare agli eserciti quella unità di comando che costituisce il fattore primo della vittoria. Ma raggiunto tale vertice, la parabola segna una rapida vertiginosa discesa. Appare a volte qualche bagliore; esso è però così tenue che non riesce a riportare quella curva all’altezza già prima raggiunta.

Non ci indugiamo perciò a seguire le vicende di questo terzo periodo: in esso non potremmo vedere che il peggiorarsi continuo di una situazione che l’esperienza aveva determinata, e che invece l’orgoglio e la supervalutazione di se stessi rendeva sempre più incerta e penosa.

 

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E l’Intesa? Che cosa aveva fatto sin allora l’Intesa?

Non siamo molto lontani dal vero se affermiamo che l’Intesa giunse fino all’aprile del 1918 senza aver concluso nulla di positivo nei riguardi dell’unità di comando.

Sino a quell’epoca essa si era inutilmente affannata a cercare la soluzione dell’arduo problema in numerose e laboriose conferenze alle quali i vari rappresentanti delle nazioni alleate intervenivano per sostenere ciascuno il proprio punto di vista, nella speranza di riuscire ad imporlo agli altri.

Chi abbia un’idea sia pure approssimativa di dette conferenze e dei risultati da esse raggiunti non può non riconoscere la inanità degli sforzi compiuti dai rappresentanti politici e militari dei vari paesi. Ci sentiamo quindi pienamente confortati in questa nostra affermazione; ma ancorché non lo fossimo, come lo siamo, da molti ed autorevoli scrittori, rimarrebbe pur sempre dalla nostra parte la voce ammonitrice e severa dei fatti, quali ce li tramanda la storia. Vediamoli.

 

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Abbiamo accennato alle istruzioni che il governo inglese aveva dato al generale French all’inizio della guerra. Se le consideriamo con attenzione, vediamo che queste istruzioni ci rivelano lo spirito con cui l’Inghilterra si accingeva a scendere in lotta, e ci fanno comprendere che questo spirito era tutto permeato da un sentimento che ben possiamo definire orgoglio. Si trattava, infatti, per gli inglesi, di una questione di prestigio nazionale. Il grande impero britannico non avrebbe potuto mai consentire ad una qualsiasi subordinazione del suo esercito e dei suoi generali a quelli francesi.

C’era di mezzo tutta una questione di carattere morale determinata dal fatto che se l’Inghilterra avesse accettata una tale subordinazione, grandemente menomata sarebbe stata la sua autorità specie di fronte ai sudditi del suo impero coloniale. Per tali circostanze, essa si mostrava, nei riguardi della questione del comando, intransigente ed irriducibile. Dobbiamo dare a questo fatto il suo giusto e necessario rilievo perché, se da una parte ci rendiamo conto delle ragioni che lo determinarono, non riusciamo dall’altra parte a comprendere lo scopo che gli uomini del governo inglese si ripromettevano di raggiungere assumendo tale atteggiamento.

È noto che allo scoppio della guerra mondiale l’Inghilterra mandò in Francia un contingente la cui forza numerica era tale da non potersi dare ad esso l’appellativo di “esercito”. Si sarebbe meglio potuto chiamare “un’armata”.

Riconosciamo pienamente che detto contingente rappresentava pur sempre il Grande Impero Britannico, e se esso non costituiva tutta la forza terrestre che questo impero sarebbe stato capace di mettere in armi, ben affidava però di poter presto raggiungere una potenza numerica veramente imponente, cosa che peraltro si è poi, e ben presto, verificata.

Comunque, sta di fatto che il contingente inglese sbarcato sulle coste della Manica veniva a combattere a fianco di un poderoso esercito quale quello che la Francia metteva in campo, e perciò non si vede perché esso non potesse o non dovesse ubbidire agli ordini di un generale francese. Si trattava, infatti, di soli 120.000 uomini. Che cosa rappresentavano questi 120.000 uomini in confronto alla considerevole mole dell’esercito francese che si disponeva a sostenere una lotta così accanita ed asprissima?

Se consideriamo la situazione dell’aprile del 1918 vediamo che essa non era molto dissimile da quella dell’agosto del 1914. Eppure, nell’aprile del 1918 Lloyd George consentì a dare al Foch il titolo di comandante in capo degli eserciti alleati sul fronte francese. In tale epoca, non soltanto le forze inglesi erano enormemente aumentate, ma alla lotta prendeva anche parte l’esercito americano che, venuto da oltre oceano, creava, a favore dell’Intesa, quello squilibrio di forza, materiale e morale, indispensabile per poter risolvere la guerra.

Fermiamo la nostra attenzione su queste considerazioni. Ci sembra che esse avvalorino l’affermazione che noi abbiamo fatta all’inizio del presente capitolo, quella cioè che la guerra mondiale, nei riguardi della questione del comando, sorprese in pieno tutti gli eserciti e tutti gli stati maggiori. Infatti, quello che abbiamo già rilevato trattando dell’unità di comando presso gli eserciti degli imperi centrali, lo rileviamo anche ora per gli eserciti dell’Intesa, con l’aggravante che all’assoluta mancanza di accordi preventivi si aggiunsero le note istruzioni destinate a sbarrare la via ad ogni ulteriore possibilità di intesa.

È un esempio veramente impressionante. Due nazioni, due grandi nazioni strette in pace da un’alleanza che non poteva non trascinarle entrambe in una guerra micidiale e terribile non addivengono – in una questione la cui importanza non ha bisogno di essere qui rilevata perché evidentissima – ad accordi reali e positivi da tradursi rapidissimamente in pratica, al momento opportuno. Ma vi è ancora di più.

Due nazioni, due grandi nazioni che vedono ad un tratto rabbuiarsi l’orizzonte politico, e sentono l’imminenza della bufera, la quale si annunzia particolarmente violenta e devastatrice, non soltanto non sentono il bisogno di rimediare prontamente alla loro assoluta mancanza di previdenza, ma scendono invece decisamente in lotta presentando al loro avversario forze perfettamente indipendenti ed assolutamente autonome in ogni loro decisione. Eppure non potevano non riconoscere che l’avversario che si accingevano a combattere era forte, tenace e valoroso!

Quali grandi azioni strategiche avrebbe potuto svolgere il contingente inglese nel caso in cui l’esercito francese sconfitto sarebbe stato costretto ad abbandonare Parigi? È facile arguire che la sua sorte sarebbe stata irrimediabilmente segnata: esso avrebbe dovuto riattraversare subito la Manica, ovvero sottoporsi ad una eccezionale prova di resistenza assolutamente impari alle sue capacità, ed è chiaro che il suo sacrifizio, immediato o quasi, non avrebbe potuto dare alla lotta, almeno per allora, un risultato favorevole.

E dunque, non sarebbe stato assai meglio che quel contingente, appena sbarcato, si fosse immediatamente e completamente posto agli ordini del generale francese? L’esperienza storica, pur sempre maestra della vita, non additava forse questa via? E se essa fosse stata decisamente percorsa sin dall’inizio, quale vero e grande esempio non ci avrebbe dato l’Inghilterra?

Agli ordini del generale francese e da questi ben manovrata, la massa costituita dal contingente inglese avrebbe potuto esercitare dal nord una grave minaccia sul fianco destro delle forze tedesche che correvano verso Parigi. Quale sarebbe stato, in tal caso, l’esito di questa corsa?

 

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Rileviamo adunque, e non possiamo non rammaricarcene, che l’Intesa iniziò la guerra con un’aperta violazione di questo essenziale aspetto del principio della massa, e che tale violazione, manifestamente deplorevole, fu determinata dalla precisa volontà dell’Inghilterra.

Come si siano trascinate, e per lungo tempo, le relazioni tra il comandante del contingente inglese ed il comandante dell’esercito francese è cosa ormai a tutti nota perché ci si debba qui indugiare a descriverla. Sta di farro che a mano a mano che il contingente inglese aumentava di numero e di potenza, la possibilità di realizzare l’unità di comando diveniva sempre più aleatoria e difficile. Permaneva pur sempre, ostacolo insormontabile, lo spirito che aveva dettate le note istruzioni.

Ma la lotta, con le sue vicende e con le sue assolute necessità poneva a stretto contatto i due eserciti e li rendeva interdipendenti. Posti sullo stesso teatro di operazioni, destinati a combattere contro uno stesso avversario che si era già dimostrato agguerrito e deciso, i comandanti degli eserciti inglese e francese, pur mantenendo la loro autonomia e la loro indipendenza, non potevano non sentire il bisogno di procedere in certo qual modo d’accordo.

Epperò i due generali, pur sempre gelosi delle prerogative e dei poteri che i rispettivi governi avevano loro dati, intendevano conservare tutta la loro libertà d’azione, e quindi costringevano ogni accordo in limiti assai brevi e ben determinati.

In quella situazione, e con la palese intenzione di non concludere per l’unità vera ed assolouta del comando, questo procedere per accordi seguito dall’Intesa sino all’aprile del 1918, presentava indubbiamente grandi vantaggi. Esso era il solo mezzo per ovviare, in certo qual modo, alla mancanza di una volontà che coordinasse gli sforzi dei vari eserciti collegati. Ma molti e non lievi erano gli svantaggi.

Anzitutto, se anche in una questione di modesta importanza è di per se stesso poco agevole raggiungere un accordo tra due o più volontà che non intendono ammainare il vessillo dell’orgoglio e dello spirito nazionale, è evidente che ciò debba riuscire assai più difficoltoso in una questione particolarmente delicata e di grande importanza quale quella dell’impiego degli eserciti in guerra.

Su questa questione, tra le altre molteplici cause, notevole influenza esercitano le doti personali, di cultura, di intelligenza, di carattere di chi è chiamato a decidere. La situazione è sempre valutata in modo diverso da ciascun comandante, ed ognuno la vede pur sempre dal suo particolare punto di vista. Una mossa, una progettata operazione, se da un comandante viene giudicata opportuna od anche necessaria, può, ad un altro, apparire pericolosa ed inutile. Tra il conflitto delle due volontà, buon giuoco può esercitare l’avversario con una decisa e tempestiva operazione offensiva.

Situazioni del genere si sono verificate più volte nel corso della guerra mondiale e spesso l’avversario mandò in fumo accordi e predisposizioni accuratissime che per raggiungerli si era dovuto a lungo e penosamente lavorare e discutere.

 

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Da quanto abbiamo sin qui esposto, potrebbe apparire che siamo aperti nemici del sistema delle conferenze interalleate seguito dall’Intesa per cercare di ottenere il coordinamento delle azioni che i vari eserciti di volta in volta si proponevano di svolgere. Invero, non condanniamo deliberatamente tale sistema. Abbiamo già riconosciuto che in quella situazione esso era il solo mezzo che consentisse di rimediare alla mancanza dell’unità di comando. Tuttavia, non possiamo non riconoscere ora che gli svantaggi superavano, e di gran lunga, i vantaggi. Questi ultimi si potevano alla fine di ogni conferenza esattamente valutare. Teoricamente, s’intende. Ciascuno dei delegati tornava infatti al suo posto di comando rimanendo però sempre fedele alla consegna. Era andato alla conferenza, vi aveva attivamente preso parte, aveva fatto le sue proposte, aveva discusse ed anche criticate le proposte degli altri, aveva fatto insomma il suo dovere, e perciò poteva tornare con la coscienza tranquilla.

Ma giunto al suo posto di battaglia, quali erano gli accordi che avrebbe dovuto tradurre in atto? Rispondevano essi alla sempre mutevole situazione? Ed il nemico, che cosa avrebbe egli fatto? Sarebbe rimasto forse ad attendere?

Quel sistema era, purtroppo, per allora, il migliore; però sarebbe stato necessario procedere prima ad una più accurata revisione dei singoli atteggiamenti, tacitare lo spirito e l’orgoglio nazionale e personale, almeno in vista delle comuni necessità e dello scopo che si doveva ad ogni costo raggiungere. Solo in tal modo quelle conferenze avrebbero raggiunto un risultato veramente proficuo.

 

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Se seguiamo ora in una rapida sintesi la cronistoria di quelle conferenze ci sentiamo pervadere da un vivo senso di stupore e di dolore perché pensiamo alle innumerevoli vite perdute, ai grandi sacrifizi che i vari popoli hanno compiuto mentre pochi uomini, presi ed animati da un malinteso spirito nazionale, e fingendo di ignorare quale era la vera via della salvezza, perdevano il loro tempo nell’elaborare formule e nel discutere piani più o meno miracolosi che non avrebbero potuto dare mai la vittoria.

 

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Il ciclo assai lungo di queste conferenze si aprì a Chantilly, il 10 luglio 1915. Che cosa si concluse in questa prima conferenza? Nulla di positivo, poiché in essa vennero decise due offensive da svolgersi una in Champagne tra Maronvillers e l’Aisne, e l’altra in Artois, tra Arras e poco più a nord di Loos.

Cattivo esordio, invero, poiché in quella conferenza non si raggiunse un accordo tale da assicurare l’unità di azione, ma venne invece decisa una vera e propria dispersione di sforzi che non avrebbe potuto in alcun modo essere attenuata dalla contemporaneità nell’inizio delle offensive progettate. E perciò, le branche della grandiosa tenaglia non riusciranno a stringere nella loro stretta possente le forze tedesche poiché queste opposero tenace resistenza e, presto rinforzate, contrattaccarono vigorosamente.

 

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Né più felice risultato ebbe la seconda conferenza che, com’è noto, venne anch’essa tenuta a Chantilly, nei giorni 5, 6 ed 8 dicembre del 1915. L’accordo che in essa si raggiunse parve assai promettente, poiché i vari comandanti degli eserciti alleati, o per essi i loro rappresentanti, furono unanimi nel riconoscere che era necessario assicurare non soltanto l’unità nella direzione della guerra, ma anche una fattiva e costante cooperazione tra tutte le forze in campo, le quali avrebbero dovuto agire in base ad un comune piano di operazioni. Ma pur convinti di tali necessità, i detti delegati stabilirono di affidare la questione ad ulteriori studi e, quindi, di rimandare ad epoca indeterminata l’attuazione pratica dell’accordo che si sperava venisse raggiunto. E venne anche stabilito che, in attesa dell’espletamento di tali studi, i vari eserciti alleati avrebbero svolte, ciascuno sul proprio teatro di guerra, operazioni offensive che vennero denominate “offensive d’insieme”.

Tornati che furono alle loro sedi, i predetti comandanti si accinsero alacremente a predisporre i mezzi per lo svolgimento delle progettate offensive.

Ma il 21 febbraio i tedeschi attaccarono vigorosamente nel settore di Verdun. Coinvolti anzitempo in una grande battaglia, e sorpresi dalla violenza e dalla intensità della lotta, i francesi sono costretti a sospendere ogni preparativo ed a chiamare a raccolta tutte le loro forze. La lotta si rivela subito particolarmente accanita e decisiva. Perduta quella battaglia, si sarebbe indubbiamente perduta anche la guerra.

Poiché Verdun non era soltanto una fortezza, un baluardo contro cui dovevano infrangersi tutti gli sforzi dell’avversario, ma era anche e soprattutto una barriera di volontà, che si innalzava fiera, superba ed imponente, e si rivelava insuperabile. La tenacia del difensore superava l’accanimento dell’attaccante, il valore dell’uno equivaleva il valore dell’altro, ed entrambi conducevano una lotta veramente terribile.

 

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Tra l’ansare di quel respiro affannoso, sotto l’incubo di quella cupa ed assai grave minaccia, si riunisce a Chantilly, il 12 marzo, la terza conferenza. Convocati in un momento culminante di quella titanica lotta, ogni delegato sente il peso delle gravi responsabilità che assume di fronte ai popoli fortemente impegnati e duramente provati dalla lotta stessa.

Il pericolo detta anche questa volta la sua legge implacabile. E quantunque non si riesca a concretare una vera e propria unità di comando, tutte le volontà si avviano però, con lo spirito e con l’anima, decisamente, verso tale imprescindibile necessità. Pertanto, se pure la terza conferenza interalleata di Chandilly non dà ai popoli la notizia che tutti gli eserciti saranno da quel momento condotti da un solo capo capace e valoroso, e se pure essa non rivela agli eserciti il segreto pensiero che travaglia e che domina i loro comandanti, tuttavia essa determina in tutti la convinzione che gli accordi di Chantilly sono impegni d’onore ai quali nessuno può in alcun modo sottrarsi.

E perciò, sostengano i francesi a Verdun quella asprissima lotta, e vincano nel nome di tutti. A questa vittoria efficacemente potranno contribuire gli alleati tutti, inglesi, italiani e russi, impegnando sulla loro fronte l’avversario. E se la massa delle forze interalleate non sarà materialmente riunita sullo stesso teatro di guerra, le tempestive offensive che svolgeranno i singoli eserciti contribuiranno validamente ad incatenare l’avversario e costringerlo a non sottrarre forze per inviarle nel settore minacciato.

 

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Dal marzo al luglio 1916 vediamo infatti una continua  ed efficace esplicazione di tale accordo di animi e spiriti.

L’esercito italiano inizia per primo, nel marzo stesso, la sua offensiva di alleggerimento, attaccando nella conca di Plezzo, nella zona del Montesanto, a Plava, sul Sabotino e sul Carso fino a Monfalcone. Esso si accinge poi a sostenere, dalla sua parte, e da solo, una dura battaglia per la quale il suo diretto avversario concentrava già tutte le sue forze. Ma la Strafe expedizion, già destinata a fallire sin dal suo concepimento, fu presto contenuta e venne poi, subito dopo, in gran parte ributtata.

Intanto i russi, opportunamente e tempestivamente chiamati, rispondono pronti all’appello, e il generale Brussiloff scatena quella poderosa ed incontenibile offensiva che diede all’esercito dello Zar, e per l’ultima volta, una delle sue più grandi e strepitose vittorie. Subito dopo l’esercito italiano, passato dalla difesa all’offesa, conquistava Gorizia, e dava così, anch’esso, al suo popolo ed ai suoi alleati, un segno tangibile del suo valore e del suo alto spirito di vera, sentita ed efficace collaborazione.

Continua però a Verdun quella esasperante lotta di logoramento e di esaurimento, pur sempre condotta con strenua tenacia e grande valore. Ma ad un tratto i tedeschi, costretti ancora una volta a correre in aiuto dell’alleato sulla frontiera orientale, traggono forze da quel settore talché i francesi e gli inglesi possono, sulla Somme, strappare finalmente al nemico l’iniziativa delle operazioni e costringerlo a desistere da quella lotta infernale.

 

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Si chiude così questo periodo emozionantissimo della guerra mondiale. Siamo già al settembre del 1916.

A metà novembre si riunisce, sempre a Chantilly, la quarta conferenza nella quale gli alleati si propongono di concretare il piano per le operazioni che i vari eserciti dovranno svolgere nel 1917.

Se esaminiamo gli accordi raggiunti in questa conferenza, dobbiamo convenire che siamo pur sempre nel campo delle parole e della teoria. Delle parole, poiché non ci si avvicina alla soluzione dell’importantissima questione; della teoria – e cattiva teoria – poiché dopo una prova del fuoco così grave e terribile come quella sostenuta a Verdun, dopo un periodo di esperienza così fecondo di ammaestramenti, gli accordi intervenuti non solo appaiono manifestamente discutibili nei riguardi della loro pratica utilità, ma rivelano anche una sottile punta di ironia.

Dicono infatti quegli accordi: che gli eserciti alleati dovranno essere pronti ad iniziare le loro azioni offensive per la prima quindicina di febbraio; che ogni comandante, pur tenendosi pronto per quell’epoca, dovrà tuttavia regolarsi a seconda della situazione del momento; che “se le circostanze non vi si opporranno” le singole offensive “saranno iniziate su tutte le fronti non appena potranno essere concordanti con le date che saranno fissate di comune accordo fra i comandanti in capo …”.

Adunque, quale era lo spirito e la lettera dell’accordo raggiunto? Come potevano definirsi “offensive d’insieme” quelle azioni che i singoli eserciti avrebbero svolte a seconda della situazione del momento, e se le circostanze non si sarebbero opposte? Bisognava dunque fare i conti col nemico?

Si voleva e si pretendeva di fare in modo da non consentire all’avversario di riprendere l’iniziativa delle operazioni, di vincolarlo alla nostra azione, e tutti gli eserciti dovevano trovarsi pronti in modo che ad un dato momento ciascuno avesse gettato nella lotta tutti i suoi mezzi materiali e morali, tutte le sue forze, opportunamente e tempestivamente raccolte, per contribuire alla comune decisiva vittoria.

Ma gli accordi intervenuti erano forse tali da rendere possibile il raggiungimento di questo risultato? Quali erano gli obiettivi che gli eserciti avrebbero dovuto proporsi di raggiungere per realizzare la concordanza degli sforzi e la cooperazione ai fini della più grande vittoria? Poteva forse ritenersi adeguato allo scopo l’accordo che i comandanti si ripromettevano di raggiungere sulla data d’inizio delle offensive? Prive di un nesso logico di concatenazione e senza alcuna concomitanza negli sforzi e nelle direzioni, queste offensive non avrebbero forse rivelato all’avversario la ragione vera e profonda della debolezza della coalizione interalleata?

Che cosa avrebbe fatto l’avversario? Sarebbe forse rimasto ad attendere senza far nulla, senza tentar nulla?

I fatti rispondono in modo esauriente a tutti questi interrogativi, e dimostrano la vera efficacia dell’accordo.

Già nel dicembre del 1916 il Joffre, insofferente della inframmettenza e della invadenza di alcuni membri del parlamento, venne sostituito dal Nivelle. Non ci si può certo meravigliare se, cambiato l’uomo, cambi anche il programma: questo fatto è nella natura umana delle cose, e maggiormente si verifica in guerra ove enormi sono le responsabilità che gli uomini devono assumersi.

Giungiamo così alla quinta conferenza. Il 6 ed il 7 gennaio 1917 si riuniscono a Roma i capi politici e militari dell’Intesa. Essi si propongono di perfezionare gli accordi di Chantilly e realizzare l’unità di comando.

Fervevano intanto in Francia i preparativi per la grandiosa offensiva che doveva portare alla conclusione della guerra: questa era la premessa e la promessa del nuovo comandante francese.

In un’atmosfera satura di grandi e seducenti speranze, la nuova conferenza inizia il suo poderoso ed oneroso lavoro. La discussione assume subito particolare, notevole importanza. Gli animi di tutti sono sospesi e tutti sognano e sospirano la parola tanto attesa, quella parola che doveva fare intravedere la fine di quella lunga lotta così dura e penosa per gli eserciti, ma ancor più dura e più penosa per i popoli. Questa attesa è però, purtroppo, subito delusa poiché assai lungo e difficile si rivela il cammino che bisogna ancora percorrere.

Vi fu però un uomo, in quella conferenza – il Cadorna – che parlò chiaro, che trovò in sé la forza morale di dire tutta la verità. Egli disse che vedeva la guerra, quella guerra, in un modo tutto diverso di come la vedevano gli alleati; disse che concepiva la lotta, quella lotta, come se essa si dovesse svolgere su di unico grande teatro di guerra costituito sì dai singoli teatri orientale, occidentale, italiano e balcanico, ma tutti insieme considerati in intima relazione di interdipendenza l’uno dall’altro, come condotta da un unico grande esercito che obbedisse agli ordini di un solo capo.

Disse che l’esperienza insegna che per vincere bisogna attaccare in massa il punto debole dell’avversario, e propose di concentrare tutte le forze contro l’Austria. Orbene, se questa era la grande verità, se qualcuno la vide ed agli altri la indicò, ci si può domandare perché mai non si sia concluso nulla.

Semplice invero è questa domanda, ma altrettanto semplice è la risposta: non si è concluso nulla perché per concludere sarebbe stato necessario stabilire che alcune divisioni alleate, ed un adeguato quantitativo di artiglierie, sarebbero state inviate alla fronte italiana; che queste divisioni e queste artiglierie sarebbero state tratte dal fronte francese, e perciò l’offensiva in corso di preparazione su quella fronte non sarebbe stata più la principale; che infine sarebbe stato anche necessario affidare il comando delle forze, così raccolte sul fronte italiano, al generale italiano.

Vi è però un’altra considerazione che non possiamo tacere, ed è la seguente: se tutto fosse andato per il meglio – concesse cioè dagli alleati le dieci divisioni ed i 400 pezzi di artiglieria richiesti, e affidato il comando al Cadorna – la vittoria che ne sarebbe risultata, quella grande, immancabile vittoria che avrebbe determinato la fine del conflitto, sarebbe stata ottenuta sulla fronte italiana, dall’esercito italiano, assai modestamente rinforzato da poche divisioni alleate.

Ma gli alleati non avrebbero potuto veder tanto!

 

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Non intendiamo indugiarci a fare altre considerazioni su questo argomento poiché esse riuscirebbero penose a noi e forse anche agli altri: oggi che Vittorio Veneto ha segnato il trionfo dell’idea del nostro pur sempre grande condottiero, è bene stendere un velo su quel triste passato. Ma prima di proseguire dobbiamo rilevare che l’idea del Cadorna trovò in quella conferenza un grande sostenitore in Lloyd George. Epperò, a malgrado un così valido ed autorevole appoggio, la proposta del Cadorna non venne accettata.

Anche altre proposte furono avanzate e respinte in quella conferenza. Assai timidamente i francesi avanzarono la proposta di affidare al loro generale il comando unico. Più prudente e guardingo, Lloyd George propose la costituzione di un consiglio superiore di guerra. In definitiva venne stabilito di iniziare gli studi per la costituzione di uno stato maggiore interalleato. Fallita perciò completamente al suo scopo, la conferenza chiude i suoi lavori e ciascuno ritorna al suo posto portando con sé il peso di una grave responsabilità.

Il Nivelle, però, non intendeva rinunziare al suo grande progetto. Salito al comando con uno scopo ben determinato, gli occorreva, per realizzarlo, concentrare tutte le forze che la Francia e gli alleati avrebbero potuto mettere a sua disposizione per quella grande offensiva che doveva portare alla fine del conflitto e dare ai popoli la pace tanto attesa e tanto sospirata. In vista di questo grande scopo, nulla poteva né doveva essergli negato: nemmeno il sacrifizio, da parte dell’Inghilterra, di quel sentimento che aveva sino allora impedito la realizzazione dell’unità di comando. Questo sacrifizio si palesava necessario poiché ben note erano le particolari condizioni in cui la grandiosa offensiva si sarebbe dovuta svolgere.

L’esercito inglese, infatti, avrebbe dovuto operare in stretta e costante collaborazione con quello francese col quale era ad immediato contatto. Se l’unità di comando non fosse stata assicurata, sarebbe forse stato possibile questo intimo accordo, questa indispensabile cooperazione dei due eserciti? Quale grave danno sarebbe derivato allo svolgimento dell’offensiva dalla mancanza di questo imprescindibile fattore di vittoria?

Convinto di tale necessità, il giovane generale francese si pone alacremente all’opera. Il 15 gennaio egli si reca a Londra ove si incontra con Lloyd George e riesce a convincerlo talché il 25 dello stesso mese, a Calais, viene firmata una convenzione per effetto della quale il maresciallo Haig deve, durante l’offensiva, seguire le direttive del Nivelle. È questo il primo e più importante passo verso l’unità di comando che si sia compiuto dall’inizio della guerra. Occorre rilevarlo. Ma ottenuto un tale risultato può il Nivelle dichiararsi del tutto soddisfatto?

Era quello, indubbiamente, un gran passo, un passo da gigante, sebbene timido ed assai circospetto, ma era necessario pensare anche alla fronte italiana. Quale contributo avrebbe potuto portare l’esercito italiano a quella grande offensiva?

Per determinare ed assicurare questo contributo, noi vediamo il Nivelle svolgere trattative col Cadorna. Egli viene alla fronte italiana ove si incontra col nostro comandante. I due capi esaminano insieme la situazione, e mentre il Cadorna sostiene la sua idea, quella cioè di un concorso diretto per l’azione sulla fronte italiana, il Nivelle giudica invece sufficiente un concorso indiretto alla sua offensiva, e chiede che l’esercito italiano svolga una vigorosa azione contemporanea a quella in preparazione alla fronte francese.

Siamo pur sempre all’eterno bisticcio di due volontà. Quale delle due è destinata ad avere ragione? Potremmo oggi rispondere in modo esauriente a questa domanda poiché il successivo svolgersi degli avvenimenti ha dato ampia conferma della fondatezza e della esattezza della concezione del Cadorna.

Comunque, sta di fatto che il nostro capo non ritenne di potere assicurare il comandante francese sulla contemporaneità della sua offensiva, e l’accordo non venne raggiunto.

Ma anche l’accordo di Calais si rivelò subito poggiato su basi assai poco solide poiché, dopo solo sei giorni dall’inizio dell’offensiva, sorse asprissimo il conflitto tra l’Haig ed il Nivelle, e fu solo dopo l’autorevole intervento dei due governi che esso venne appianato.

 

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Siamo alla metà di marzo. Già in quell’epoca alcuni grandi avvenimenti accennavano a mutare radicalmente la situazione. Anzitutto i tedeschi si erano abilmente sottratti alla poderosa offensiva del Nivelle, e perciò questo formidabile colpo di clava, così lungamente ed accuratamente preparato, appariva già destinato a cadere, e cadde poi, infatti, nel vuoto. Nel contempo i russi, dominati da quel fremito folle che doveva tutto travolgere, se pur non abbandonavano ancora del tutto la lotta, davano già poco affidamento di continuare la guerra con spirito di efficace collaborazione.

Per contro, un inestimabile contributo di carattere morale veniva dato all’Intesa dall’America, con la sua decisione di scendere in campo. Più tardi questo prezioso appoggio morale sarà centuplicato e diverrà anche materiale, poiché una poderosa valanga di uomini, di materiali, e di macchine si apprestava ad attraversare l’Oceano incurante di ogni insidia e di ogni pericolo.

Invero, quest’ultimo avvenimento è il raggio di sole che penetra attraverso le nubi assai cupe e minacciose addensantisi nel cielo in un giorno di tempesta furiosa.

I primi due avvenimenti, invece, determinarono uno dei momenti più tragici della guerra mondiale. Poiché il fallimento di quella grande offensiva, che avrebbe dovuto portare alla pace, produsse in tutti una delusione amarissima. Per esso ebbe inizio, nell’esercito francese – e non soltanto nell’esercito – quella lunga e profonda crisi morale che potè essere superata solo dopo la sagace e proficua opera del Pétain.

Il grandioso sconvolgimento politico che dissolveva tutta la Russia rese ancor più grave la crisi che travagliava il popolo francese, il quale vedeva impallidire quella vittoria che gli avevano fatto intravedere imminente e completa. La minaccia era indubbiamente grave. I tedeschi, quasi del tutto liberi nelle mosse, avrebbero potuto concentrare la massa delle loro forze sulla frontiera occidentale ancor prima che l’America avesse potuto far sentire il peso del suo decisivo intervento. Quanto mai dura ed incerta non sarebbe stata in tal caso la lotta?

L’esercito francese era già stanco e profondamente scosso; quello inglese, lasciato solo a persistere nell’offensiva, era anche esso stanco e sfiduciato. In una situazione così poco favorevole, di fronte ad un avversario che avrebbe certamente serrate le file non appena avrebbe potuto definire la partita sulla frontiera orientale, in attesa di un aiuto che non poteva essere immediato, che cosa avrebbero dovuto fare gli alleati?

In analoghe circostanze gli imperi centrali avevano dato prova, pur dopo grandi incertezze, di una saggezza che era da meditare. L’Austria, sebbene molto a malincuore aveva tacitato il suo orgoglio e, vinta ogni riluttanza, aveva aderito a che il comando delle forze dei due imperi – o almeno la direzione suprema della guerra – venisse affidata ad una sola persona.

Gli inglesi, invece, di fronte a un pericolo così grave ed evidente, ritirarono subito la tenue ed assai circospetta fiducia che avevano accordata al Nivelle, e perciò i due eserciti ritornarono ad essere indipendenti come lo erano sempre stati in passato.

Riportata così in alto mare, la questione del comando rimane in balìa delle onde tempestose sino al novembre: sei mesi durante i quali l’ansia penosa e terribile dominò tutti gli animi, sei mesi di dubbi e di incertezze, di vivi timori e di grandi speranze; sei lunghissimi mesi durante i quali l’Italia non lesinò il suo contributo alla causa comune, e profuse sul Carso e sulla Bainsizza il sangue dei suoi figli migliori.

Ma la bufera si faceva sempre più cupa. I giorni passavano rapidi come il baleno, e mentre i tedeschi sulla frontiera orientale decisamente imponevano la loro volontà ad un avversario dilaniato e sfinito dalla estenuante lotta interna, gli alleati continuavano invece la loro guerra non preoccupandosi affatto di ciò che sarebbe potuto accadere da un momento all’altro.

Fortuna volle che i tedeschi non traessero dalla rivoluzione russa tutto quel profitto che avrebbero potuto trarre; fortuna volle altresì che l’Italia riuscisse, e prontamente, a riaversi da quel vivo senso di smarrimento che l’aveva presa nell’ottobre del 1917 e riprendesse da sola, fiera e sicura, la strada che aveva sino allora brillantemente percorsa.

In ogni modo, sta di fatto che mentre il 5 novembre si riuniva a Rapallo una nuova conferenza per riesaminare, su proposta del primo ministro inglese, la costituzione di un Segretariato Superiore interalleato, sulla fronte italiana, invece, veniva data la prova più tangibile del come gli alleati continuassero ad intendere la questione dell’unità di comando. E questa prova appare veramente probatoria qualora si considerino le possibilità di azioni che avrebbero potuto avere quelle poche divisioni franco-inglesi venute in Italia, che non si vollero porre agli ordini del capo di stato maggiore italiano.

Ci sembra che in quell’epoca si sia riprodotta, in più cattivo esemplare, la situazione che si era venuta a creare all’inizio della guerra, per effetto delle ben note istruzioni impartite dal governo inglese al generale French.

Fortuna volle, abbiam detto, che l’Italia riuscisse – da sola, ripetiamo – a contenere il suo accanito avversario, e fu veramente un gran bene poiché solo per ciò noi possiamo oggi apertamente, ed a gran voce, esaltare tutta la nostra vittoria.

Ma veniamo alla conferenza di Rapallo.

Assai laboriosi furono i lavori di questa conferenza, tuttavia essa si chiuse il 7 novembre, dopo di aver dato alla luce un “Consiglio Superiore Interalleato” del quale furono chiamati a far parte, per ogni singolo paese, un membro del governo ed un’alta personalità militare. [Per l’Italia il rappresentante militare fu il Cadorna]

Non era questo un vero e proprio stato maggiore interalleato, e nemmeno poteva dirsi che la questione del comando fosse per giungere alla sua naturale soluzione, poiché il Consiglio Superiore, così come era stato costituito, trovava decise ed irriducibili opposizioni non solo in Inghilterra, ma anche nella stessa Francia.

Esso si dimostrò poi, sin dalla prima seduta (2 dicembre), del tutto inadeguato allo scopo.

A questo punto entrò in funzione un nuovo ed importantissimo elemento: l’America, con la sua decisa volontà, con la sua imponente e preziosa teoria di mezzi materiali, morali ed economici.

L’esercito americano infatti – la cui avanguardia era già in terra di Francia – costituiva l’ancora della salvezza alla quale si aggrappavano tutte le speranze nell’attesa ansiosa e fremente. Ognuno vedeva e comprendeva che con l’arrivo delle balde e fresche legioni americane non solo sarebbe stato del tutto eliminato il pericolo, ma si sarebbe anche determinata, netta e precisa, la superiorità dell’Intesa, talché la vittoria sarebbe stata immancabile.

In questa atmosfera di fidente e pur timorosa aspettativa, il Consiglio Superiore Interalleato si riunisce per la seconda volta, il 30 gennaio 1918, a Versailles.

Dobbiamo segnare questa data a grossi caratteri poiché in questa riunione sorse quel tale Comitato esecutivo militare che tanti malumori suscitò in Inghilterra. Ma il dato era tratto. Il Comitato esecutivo militare, supremo organo presieduto dal Foch, costituiva infatti la base di partenza che doveva condurre all’unità di comando.

Possiamo affermare che sin da quel momento si incominciò ad intravvedere quel tenue raggio di sole che è spesso felice e lieto presagio del bel tempo dopo la tempesta. Possiamo affermare che solo da quel momento si incominciò a valutare un po’ più razionalmente il pericolo: si preannunziava, infatti, imminente e possente l’urto dell’esercito avversario, e si comprendeva che la nostra forte e tenace volontà di resistere – per vincere poi, allorché sarebbero giunti gli americani – sarebbe stata insufficiente a contenere lo sforzo titanico (l’ultimo sforzo forse) dell’accanito avversario.

Pure, nella viva speranza, si era tutti presi da una serena ma laboriosa attività, volta a centuplicare l’efficienza della nostra difesa ed a renderla insuperabile per la prova suprema.

 

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Il Comitato esecutivo militare decise subito, appena nato, la costituzione di una riserva interalleata. L’opposizione inglese contro tale decisione si rivela subito tenace ed irriducibile al punto da determinare le dimissioni del capo di stato maggiore imperiale. Memori della dura lezione che era stata loro inflitta nell’aprile del 1917, in occasione dell’infelice esito dell’offensiva del Nivelle, gli Inglesi non intendevano adattarsi all’idea di dover sottostare nuovamente agli ordini del generale francese.

Ma il 21 marzo i tedeschi iniziano l’offensiva ed infliggono all’armata del generale Gough una grave sconfitta. E allora i tempi si accelerano, poiché, preoccupato dall’aggravarsi della situazione e convinto finalmente della opportunità di abbandonare quel sentimento di orgoglio, causa determinante di molti episodi tristi e dolorosi, il maresciallo Haig chiede al suo governo di addivenire subito alla unità di comando.

Veniva in tal modo ad essere eliminato l’ostacolo maggiore, e pertanto, il 25 marzo del 1918, si riuniscono a Doulens i ministri inglese e francese. L’accordo viene subito raggiunto, e noi vediamo il Foch salire a supremo coordinatore delle operazioni degli eserciti inglese e francese operanti in Francia.

 

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Successivamente, il 14 aprile, a Beauvais, il comando unico interalleato è finalmente un fatto compiuto che viene subito accettato dai belgi (il 15 aprile) e dagli americani (il 17). Poco dopo, il 1° maggio, anche il ministro Orlando dà la sua adesione per le sole truppe che operavano in Francia.

Il 18 luglio 1918, dopo di aver contenuto l’impeto dell’avversario, gli eserciti alleati operanti in Francia muovevano alla controffesa e subito dopo, l’8 agosto, iniziavano quella serie di poderose e vittoriose offensive destinate a sospingere implacabilmente l’esercito tedesco, ed a costringerlo a sgombrare il territorio che aveva per così lungo tempo invaso e calpestato. Si avvicinava così a grandi passi il giorno della grande vittoria, ma quale lunga e dolorosa odissea non aveva travagliato tutti i popoli in lotta?

Volgendo lo sguardo a quel triste passato possiamo oggi comprendere quanto siano stati malefici, ai fini della condotta della guerra, taluni sentimenti che si annidano ed hanno profonde radici nell’animo umano.

Ragioni politiche e di prestigio nazionale, fierezza o presunzione di uomini, rancori personali, falso orgoglio e malinteso spirito nazionale, sentimenti questi che animano e infiammano tutti gli atti di un popolo in guerra, ci apparvero nella loro luce più trista, né valse il pericolo, sebbene grave e temibile, a fugarli dagli animi.

Orbene, guardando oggi verso l’avvenire, pur sotto l’impressione di quel brutto passato, possiamo forse affermare che quei sentimenti, la cui influenza si rivelò così funesta, siano stati in quel tempo tutti soffocati, ed abbiano lasciato il posto ad una cordiale e spontanea collaborazione ai fini della vittoria finale?

E soprattutto, possiamo oggi affermare, pur dopo la dura lezione subìta, che in una eventuale guerra avvenire tali sentimenti non faranno nuovamente sentire tutta la loro penosa e deleteria influenza, e che sapremo trarre profitto dalla nostra stessa dolorosa esperienza?

O non è questa una grande e pur fatale illusione per chi se la crea e per chi riponga in essa le sue più vive speranze? Fatale invero è questa illusione poiché lo spirito e l’orgoglio nazionale, così profondamente radicati nell’animo dei popoli, assai difficilmente potranno essere tacitati. Essi continueranno a far sentire invece tutta la loro grande e decisiva influenza. E allora?

Allora rivivremo quella lunga e penosa odissea che tanto travagliò tutti i popoli in lotta, e la dura lezione che la storia ci ha dato rimarrà pur sempre inascoltata e dimenticata.

E i popoli tutti, col loro falso orgoglio e col loro malinteso spirito nazionale, rivivranno quel lungo ed infinito martirio che noi abbiamo subìto, fino a che i dirigenti della politica ed i capi militari non avranno trovato la via che riconduca alla assoluta osservanza dell’immortale principio.

 

 

 

LA RIPARTIZIONE DELLE FORZE

 

La ripartizione delle forze è problema quanto mai arduo e difficile. Lo abbiamo già detto: con essa, il comandante esprime, in sintesi, le linee generali del suo concetto d’azione, ed è perciò che questo essenziale aspetto del principio sommo della guerra ha sempre avuto, ed ha tuttora, un’importanza veramente notevole.

Gli avvenimenti della guerra mondiale, non soltanto confermarono tale importanza, ma anche conferirono al problema una fisionomia tutta nuova, assai diversa da quella che era stata ad esso attribuita sino allo scoppio del grande conflitto. Poiché, se è vero che la storia, prima della guerra, ci tramandava questo problema in tutta la sua importanza, e ce lo additava come uno dei fattori imprescindibili per ottenere la vittoria, anche vero è che la storia stessa ce lo rivelava, con la nota frase del Moltke – già da noi citata nella premessa – nei suoi veri limiti e nella sua vera sostanza.

Aveva detto il Moltke, infatti, che sarebbe stato assai difficile riparare durante un’intera campagna ad un errore nello schieramento iniziale. In effetti, così era in passato, perché allora il problema si poneva soltanto all’inizio della guerra. Il comandante di un esercito, poi che aveva stabilito quale dovesse essere il teatro principale della lotta, ed aveva in conseguenza ripartite le sue forze, non doveva più, durante la lotta stessa, preoccuparsi gran ché di questo importante problema: sul teatro principale la lotta assumeva il carattere di particolare asprezza perché lì si riunivano le masse dei due eserciti avversari per combattere la battaglia decisiva.

Accadeva, però, talvolta – ed i casi che la storia registra sono assai rari – che dopo d’aver perduta la prima grande battaglia, l’esercito vinto, ovvero una parte di esso, ripiegasse o si rinchiudesse in una piazza, mentre l’altra parte continuasse a combattere in aperta campagna. Ed allora il problema si ripresentava, ma la sua soluzione era invero assai semplice poiché ben determinati erano tutti i suoi termini. Fu il caso dell’esercito tedesco del 1870, dopo la battaglia di Metz.

Ben a ragione, adunque, il Moltke proclamava che un errore nello schieramento iniziale delle forze sarebbe stato irreparabile.

 

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Ma la guerra mondiale, invece, fu assai lunga ed asprissima. Come tale essa ebbe, necessariamente, periodi di intensa attività combattiva, intervallati da soste più o meno lunghe, durante le quali i due avversari, protetti da una fitta rete di reticolati e di trincee, apprestavano nuovi e più poderosi mezzi di difesa e di offesa, moltiplicavano le loro forze, si preparavano insomma, con la massima cura ed accortezza, a riprendere al più presto possibile l’offesa.

Era questa una gara accanita e tenace per superarsi a vicenda; un continuo, intenso lavorìo compiuto nella penosa incertezza del domani, durante il quale però tutti gli animi erano presi dalla viva speranza di riuscire ad imporre la propria volontà all’avversario. Ma a fianco a questa affannosa opera di preparazione materiale, un’altra se ne svolgeva anch’essa dura e complessa, fatta tutta di meditazione e di ponderazione.

Nell’operoso silenzio del suo studio, il comandante dell’esercito che si accingeva a riprendere l’offesa esaminava la situazione delle forze dell’avversario che gli stava di fronte, ne valutava più o meno approssimativamente l’entità e l’efficienza, calcolava esattamente i limiti di tempo entro cui dovevano essere compiute le sue mosse, studiava il terreno e ripartiva le sue unità assegnando a ciascuna compiti ed obiettivi, elaborava insomma il suo piano d’attacco e dava al suo pensiero forma e sostanza adottando tutte quelle previggenze e predisposizioni che gli avrebbero consentito di tradurlo in atto prontamente.

Orbene, se poniamo ben mente, che cosa era tutto questo complesso lavorìo intellettuale e materiale se non una vera e propria ripetizione di tutti quegli atti che si erano già compiutu all’inizio della lotta?

Ogni nuova offensiva richiese sempre una nuova ripartizione delle forze, e perciò non fu essa, forse, una nuova piccola guerra – nel senso della durata, s’intende – inserita nel quadro complessivo della guerra lunghissima ed asprissima? Il problema quindi, posto e risolto una prima volta all’inizio della lotta, si ripresentò più volte durante tutta la durata della guerra. Il comandante ebbe adunque la possibilità di fare la sua esperienza; egli ebbe modo, pertanto, di rimediare all’errore eventualmente commesso.

E allora, quale è il significato che dobbiamo oggi attribuire alle parole del Moltke?

All’inizio della guerra i tedeschi violarono apertamente il principio poiché ripartirono le loro forze in modo pressocché uniforme su tutta l’immensa fronte di battaglia. È bensì vero che essi costituirono alla destra una massa di forze veramente considerevole, ma è pure vero che anche all’ala sinistra assegnarono notevoli forze con compiti offensivi. Adunque, dispersione delle forze.

Assai diverso era il piano che aveva concepito lo Schlieffen. Questi, su 41 corpi d’armata schierati sulla fronte occidentale, ne assegnava ben 36 all’azione decisiva. Ma commesso l’errore una prima volta all’inizio della lotta, e svanita, con la Marna, la possibilità di vincere subito la guerra sulla fronte francese, i tedeschi furono ben presto costretti a riesaminare la situazione che si era in tal modo venuta a creare.

La corsa al mare, nei suoi vari episodi offensivi, ora da una, ora dall’altra parte, ci dà la sensazione netta e precisa di quanto stiamo esponendo. Per correre e superarsi al fine di avvolgersi, tedeschi e franco-inglesi riunirono, ciascuno dalla loro parte, masse considerevoli di forze a scopo prettamente offensivo, ed altre ne lasciarono su altre zone con compiti difensivi o controffensivi.

Non è forse questa una prova evidentissima del continuo ripetersi del problema, con tutte le sue necessità ed in tutti i suoi termini?

Ma vi sono altre prove – evidentissime anch’esse – dell’esattezza della nostra affermazione.

È noto che i tedeschi avrebbero voluto risolvere subito la guerra sulla frontiera occidentale, per potersi rivolgere poi contro i russi. Perduta però questa speranza, e poiché sin dai primi mesi del 1915 essi compresero che era possibile infliggere ai russi una seria sconfitta, noi vediamo che il Falkenhayn prende una decisione veramente importante: quella cioè di spostare il teatro principale della lotta dalla frontiera occidentale a quella orientale. Per effetto di tale decisione considerevoli forze furono tratte dalla fronte francese e si concentrarono nella zona prescelta per svolgere quella poderosa offensiva di Gorlice-Tarnow che fu per gli eserciti degli imperi centrali una indiscutibile grande vittoria. Orbene, per preparare questa grande offensiva, che cosa fecero i tedeschi se non una vera e propria nuova ripartizione delle forze?

E che cosa fecero nei primi mesi del 1916 per preparare l’offensiva di Verdun?

Dall’interno del paese, dalla frontiera orientale, dalle altre zone della frontiera occidentale – ridiventato teatro principale della lotta – le forze tedesche si concentrarono sotto quella piazza e vi si logorarono in sei mesi di lotta accanita ed estenuante. Fu in tal modo che l’esercito tedesco, costretto a svolgere la sua manovra centrale tra l’est e l’ovest non potè trovare la via che doveva portarlo alla vittoria.

E invece se avesse scelta una direzione unica, sin dal primo momento della guerra, ed avesse in quella persistito e concentrati tutti i suoi sforzi, chi può dire oggi quale sarebbe stata la conclusione di quegli avvenimenti?

 

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Anche da parte dell’Intesa il problema presenta aspetti del tutto identici a quelli finora da noi esposti. Anche gli alleati, cioè, si vennero a trovare nella condizione di dover risolvere più volte il problema, poiché ogni comandante, nell’elaborare il progetto di una nuova offensiva, non poteva tralasciare dal considerare tutte le sue forze, e ripartirle razionalmente, in base al suo concetto d’azione.

E perciò, nel decidere quali unità dovessero ad essa partecipare, nel chiamare a raccolta quel numero prestabilito di divisioni che giudicava necessarie per poter sperare in un felice risultato dell’offensiva progettata, altro non compiva se non quel laborioso lavorìo intellettuale che già nella premessa abbiamo definito una manifestazione artistica del comandante.

 

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Non abbiamo l’intenzione – né d’altra parte sarebbe necessario – di citare qui tutti quei casi in cui i vari comandanti degli eserciti belligeranti si sono trovati nelle condizioni di doversi occupare di questo importante problema. Ci basti soltanto l’aver rilevato al riguardo alcuni fatti circostanziali e precisi.

Da tali fatti ci sembra che la nostra affermazione possa trarre ampia documentazione, e perciò ci sentiamo autorizzati a concludere che le parole di Moltke, pur rimanendo vere nella sostanza – riferite a quel tempo, s’intende – abbiano bisogno oggi di un’interpretazione che, un po’ meno assoluta di quella data sinora, tenga nel dovuto conto l’esperienza e gli ammaestramenti della grande guerra.

 

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La grande guerra, però, con la sua caratteristica di universalità e di integralità in ogni campo, ci induce anche ad un altro ordine di considerazioni.

Abbiamo parlato di una concezione unica della guerra nel campo politico ed in quello economico-industriale, nel comando e nell’impiego delle forze. Orbene, guardando la guerra mondiale da questo punto di vista, non possiamo non rilevare che, anche nei riguardi della ripartizione delle forze, notevoli furono le manchevolezze, poiché le due opposte coalizioni violarono sempre il principio. Privi dell’unità di comando, gli eserciti avversari vagarono da un teatro di operazioni all’altro, corsero dall’occidente all’oriente e viceversa, dal nord al sud, si spinsero fin nella lontana penisola di Gallipoli, sbarcarono poi a Salonicco, senza peraltro riuscire, in nessun tratto delle varie fronti di battaglia, a produrre quello squilibrio materiale delle forze che desse un certo affidamento di vittoria decisiva.

Fu soltanto con l’arrivo delle balde e fresche legioni americane che venne a determinarsi, sulla fronte francese, quella netta superiorità di forze che ci portò poi, attraverso alla nostra luminosa vittoria – tutta nostra – alla fine della guerra. Eppure, nessuno potrà mai affermare che si fu sempre in condizioni da non poter riunire la massa delle forze sul teatro principale della lotta. La verità fu invece ben altra: inesorabile, sicura, essa si fa strada col tempo. Ed è questa: che non si volle mai vedere quale fosse effettivamente il teatro decisivo della lotta, che si preferì sempre disperdere le forze e gli sforzi inviando armate per forzare i Dardanelli e per ricostituire la fronte balcanica, e svolgendo offensive mal coordinate, mal preparate e, spesso, peggio condotte.

 

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Ma, nella nostra concezione della guerra avvenire, alla questione della ripartizione delle forze è riserbato un posto d’onore. Essa, infatti, non è soltanto il primo di quegli atti preordinati e complessi che bisogna accuratamente studiare e compiere poi con assoluta precisione, ma è anche vera e propria funzione di comando.

E poiché trattando dell’unità di comando abbiamo detto che nella guerra avvenire una sola sarà la via per potere aspirare alla vittoria – quella dell’unità assoluta, completa, integrale – noi pensiamo che il problema della ripartizione e della dosatura delle forze sia uno di quei problemi sul quale più a lungo si dovrà fermare l’attenzione del futuro condottiero. Il quale dovrà accuratamente esaminare e valutare con la massima ponderatezza tutto il teatro della lotta dal punto di vista della sua costituzione geografica, o, ciò che fa lo stesso, dal punto di vista delle varie possibilità strategiche che esso offre per sé e per l’avversario, e stabilire in conseguenza quale teatro debba essere considerato principale. Dovrà anche poter contare, in ogni momento, sulla libera ed assoluta disponibilità di tutte le sue forze e di quelle di tutti i suoi alleati, per ripartirle e muoverle a suo piacimento, in base ad un preciso piano di operazione. Infine, dovrà anche avere una forza d’animo e di carattere indomita, per esigere la più assoluta e completa obbedienza dai singoli comandanti, che dovranno essere tutti posti ai suoi ordini, siano essi italiani, francesi, tedeschi, inglesi, cinesi, russi, od anche … senegalesi.

E in tutto ciò la politica – apertamente, senza sotterfugi e senza malintesi, eliminando tutte le ragioni di contrasto – dovrà essere sempre, in ogni evenienza, dalla sua parte, decisamente.

 

 

LA RIUNIONE DELLE FORZE

 

Se fermiamo la nostra attenzione sugli avvenimenti della guerra mondiale, possiamo agevolmente constatare come essi non abbiano sostanzialmente modificato questo aspetto del principio sommo della guerra.

Ritorniamo per un istante verso il passato più o meno remoto e meditiamo sui vari avvenimenti guerreschi che rapidamente si ripresentano alla nostra mente: vediamo tutto un continuo succedersi di disposizioni, di movimenti, di mosse celerissime che traducono in atto i più audaci e geniali disegni. Vediamo che, nell’offensiva e nella difensiva, la riunione delle forze è stata sempre la risultante di questo complesso di predisposizioni e di movimenti tendenti tutti a formare la massa sul punto e nel momento decisivo della lotta; ed è pure stata, sempre, quella tale manifestazione artistica che, concepita dalla mente del condottiero e tradotta in atto dalle resistentissime gambe dei soldati, ha determinato, il più delle volte, la vittoria completa, bella e decisiva.

Nell’offensiva, il principale fattore di questa vittoria era pur sempre, dopo il valore dei combattenti, la capacità del capo che sapientemente predisponeva le sue forze e le riuniva poi, tempestivamente, per svolgere il suo piano d’attacco; il tempo, fattore dal quale non si poteva, né si potrà mai prescindere, aveva anch’esso la sua parte importantissima. Nella difensiva, invece, il fattore tempo, agli effetti della riunione delle forze, assumeva sempre il carattere di massimo determinante della vittoria. E la concomitanza degli sforzi, nel tempo e nelle direzioni, costituiva essa pure una di quelle tante assolute necessità che contribuivano a determinare la vittoria.

La guerra mondiale non ha per nulla alterato, nella sostanza, queste caratteristiche del nostro principio, anzi le ha tutte pienamente confermate non solo, ma le ha anche poste talmente in rilievo da farle apparire evidentissime e perciò inoppugnabili.

Orbene, se questa è la nostra premessa, a che vale indugiarci intorno ad una questione che potrebbe apparire oziosa? A che vale accennare a questo od a quel fatto d’armi, a questa od a quella battaglia, sia essa combattuta sul Carso o sul Piave, in Fiandra od in Champagne, se riteniamo già di non poterne trarre una conclusione nuova, un insegnamento nuovo, un nuovo ammaestramento per l’avvenire?

 

                                                                                              *          *          *

 

La guerra mondiale, così varia e multiforme in ogni campo, asprissima ed intensissima come essa fu, offre pur sempre allo studioso elementi di profonda meditazione. Essa è, indubbiamente, una miniera inesauribile. Come tale, non potrà mai esservi alcuno che possa riuscire ad analizzarla tutta e a scoprirne tutte le verità.

Pertanto, noi vogliamo essere una di quelle innumerevoli piccole goccie d’acqua che battendo sulla grande ruota di quel tale mulino, contribuisce anch’essa, sebbene in assai minima parte, alla molitura del grano. E perciò, un po’ forse per quella più o meno piccola dose di presunzione che ognuno di noi tiene strettamente nascosta in sé, ma anche e sopratutto perché dominati da una grande ed inestinguibile fede, vogliamo anche noi, in piena, cosciente ed assoluta modestia, dire la nostra parola che, per altro, non ha – né potrebbe avere del resto – alcuna pretesa.

 

                                                                                              *          *          *

 

Dunque, la guerra mondiale non ha portato alcun elemento nuovo, sostanziale, nei riguardi della riunione delle forze. Ciò è indiscutibilmente vero. Ma se la sostanza non è stata in nulla modificata, che cosa è invece accaduto della forma?

In passato, per riunire le forze, bastava che il comandante avesse emanato il suo ordine, e che le truppe, perfettamente allenate e resistenti alle marce, fossero prontamente accorse alla battaglia, tutte animate e sospinte da un ardente spirito combattivo. Gran fatica invero era necessaria per ottenere ciò, e noi ben sappiamo quale prontezza di intuito e quali sentimenti di fattiva ed intelligente cooperazione nei capi in sottordine e di abnegazione nei gregari fossero necessari.

Oggi, però, dopo l’esperienza della guerra mondiale, possiamo forse affermare che questi sentimenti, che queste virtù nei capi e queste precipue capacità fisiche e morali dei combattenti siano elementi sufficienti, tali cioè da determinare in noi la convinzione che potremo, con essi e soltanto per essi, avere la possibilità di riunire la massa delle nostre forze sul posto e nel momento decisivo della lotta?

Rispondiamo senz’altro negativamente a questa domanda e cerchiamo di vederne il perché.

 

                                                                                              *          *          *

 

La sera del 14 gennaio 1797 non era ancor spenta l’eco della battaglia sull’altipiano di Rivoli, allorché Napoleone dava al Massena l’ordine di accorrere a Roverbella e di puntare poi su Mantova ove il Provera tendeva, per riunirsi al Würmser. Orbene, ricevuto quest’ordine, che cosa era indispensabile al Massena per poterlo eseguire? Non gli erano forse sufficienti le capacità fisiche ed il valore dei suoi soldati? E non risposero essi meravigliosamente?

Con tutto l’entusiasmo di cui erano capaci, animati dall’impeto che li aveva trascinati alla vittoria in quella radiosa giornata, instancabili ed insuperabili, essi marciarono tutta la notte e tutto il giorno seguente fino al tardo pomeriggio, giungendo sul nuovo campo di battaglia ed impedirono al Provera di riunirsi al Würmser, talché Mantova dovette poi, dopo breve tempo, cadere. Si disse poi, per effetto di questi prodigi di celerità e di attitudine delle truppe a marciare per lungo tempo, celerissimamente, che Napoleone vincesse le guerre con le gambe dei soldati.

Ma ad un secolo di distanza, allorché la scienza e l’industria hanno posto a disposizione degli eserciti nuovi e più poderosi mezzi di lotta, e le fronti di battaglia si sono smisuratamente ingrandite, e la guerra si è estesa in ogni campo, potevano forse bastare ai combattenti della guerra mondiale le loro capacità a marciare celermente, una grande resistenza ai disagi, alle fatiche, il loro valore, per assicurare la riunione delle forze e, con essa e solo per essa, la vittoria?

In altri termini, poteva il combattente della guerra mondiale correre dall’Alsazia in Fiandra, dal Carso al Trentino, dall’oriente all’occidente senza l’ausilio di adeguati mezzi? E giunto sul nuovo teatro della lotta, avrebbe egli trovato sul posto tutti quei mezzi che gli erano indispensabili per poter vivere, combattere e vincere?

 

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Si affaccia qui, assai timidamente, un problema della più alta importanza.

Intendiamo parlare di quel problema logistico che, poderoso e complesso com’è, rifugge da ogni discussione, non ammette alcun compromesso ed è pur sempre la premessa e la base indispensabile di ogni operazione di guerra.

La possibilità di riunire le forze trova in esso il suo peggiore nemico, il quale peraltro impone, sempre decisamente, le sue ferree leggi. La sua principale caratteristica è la positività. Fatto tutto di numeri, di quantità, di potenzialità esso è essenzialmente matematico. Sintetico e chiarissimo, severo ed inesorabile ci richiama alla sua dura realtà, ed aspramente, senza alcun sottinteso, ci dice: “Se le vostre forze sono disperse su 300 km di fronte, e se il vostro avversario ha improvvisamente sfondata la vostra estrema sinistra, provatevi a riunire in quel tratto, in 24 ore, la massa delle vostre forze, senza disporre di ferrovie, di strade, di autocarri”.

In questo chiaro ammonimento si sintetizza tutta l’importanza di questo problema e si precisano tutte le sue assolute necessità, dalle quali non potremo mai, in nessun caso, prescindere. Dobbiamo quindi considerarlo un po’ più da vicino.

 

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Rileviamo anzitutto che il problema presenta caratteristiche perfettamente diverse a seconda che trattasi di offensiva o di difensiva. Nell’offensiva esso viene posto e risolto in condizioni di spirito e di ambiente in cui domina una tranquillità che, pur essendo relativa, ha però la sua ragione di essere nella fiducia che ispirano il valore dei combattenti, la quantità e la potenza dei mezzi a disposizione, talché certa ed immancabile appare la vittoria. Chi offende, sente – talune volte pretende – di avere sull’avversario la prevalenza delle forze materiali e morali. I più importanti fattori di vittoria sono perciò dalla sua parte, e questo è, indubbiamente, un grande vantaggio.

Ma, nei riguardi del nostro principio, un altro inestimabile vantaggio offre l’offensiva. Chi si propone di assumere l’offesa ha a sua completa ed assoluta discrezione il fattore tempo. Perché chi offende può preparare il suo piano con calma e con accuratezza, tenendo ben conto di tutti gli elementi determinanti; può disporre uomini, materiali e mezzi, adeguandoli in forza, in potenza, in quantità; può preparare la riunione delle forze in ogni minimo particolare, accuratamente e minuziosamente, e può anche rimandare l’esecuzione della più gran parte dei movimenti previsti, al momento che giudicherà più opportuno. Potrà, così, ottenere la sorpresa.

 

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Non è necessario riportarsi agli esempi della guerra mondiale per dimostrare la verità di quanto stiamo esponendo. Ciascuno di noi ha in sé i ricordi della sua stessa esperienza e perciò, ricercando tra di essi, può facilmente trovare numerosi esempi di offensive tutte accuratamente studiate e da lunga mano predisposte.

Pertanto, ogni parola che si volesse dire al riguardo potrebbe apparire, ed è infatti, del tutto superflua.

Dal canto nostro, però, non possiamo non rilevare che questa ampia libertà di azione e di movimento che il fattore tempo accorda all’offensore, nel periodo di preparazione, fa sì che il problema logistico da risolvere si presenti senza notevoli difficoltà.

 

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Assai ben avaro è invece il fattore tempo nell’azione difensiva. Sotto l’assillo del momento, colpito all’improvviso su di un punto che è, sempre, il più delicato per tutto lo schieramento, occupato e preoccupato della violenta e continua pressione dell’avversario, incerto sulla situazione dell’oggi, ed ancor più su quella del domani, il difensore deve risolvere con rapidità ed esattezza tutto il complesso ed importante problema oggetto del nostro esame.

Non v’è chi non veda quali e quante difficoltà occorra superare, quali e quante questioni occorra prendere in rapido ed attento esame, e risolverle con avvedutezza e precisione per poter riuscir a riunire le forze sul punto e nel momento decisivo della lotta. Non v’è chi non comprenda come perdere un’ora possa significare la sconfitta, commettere un errore essere impossibile porvi rimedio, lasciarsi sfuggire un dettaglio, essere causa di un mancato intervento nella battaglia di intere divisioni, ed è facile immaginare quali potrebbero essere in tal caso le tristi conseguenze.

 

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Posto in questi termini il problema appare poderoso e complesso in tutte le sue forme.

La strategia, chiamata a sé la logistica, le richiede tutto il suo valido contributo, e questa, ponendosi subito e completamente al servizio di quella, mette in movimento rapido, ordinato e perfetto, tutta l’immensa teoria di mezzi che il paese sarà ruscito a mettere a sua disposizione ai fini della lotta. E questi mezzi, chiamati a raccolta dai più lontani parchi, accorrono seguendo gli itinerari più brevi, raggiungono le truppe già pronte a muovere, le caricano e rapidamente le trasportano nelle località che la strategia avrà indicato.

Per altre vie, con altri mezzi, viene accumulato in adatte località, in corrispondenza del settore da cui avanza minaccioso il pericolo, tutto ciò che è indispensabile alle truppe per poter vivere e combattere. E così, il settore più tranquillo diviene in un baleno quello su cui si decidono le sorti della guerra, talché ognuno sente che in quel tratto della fronte e per quella lotta dovranno essere prodigate tutte le forze con ogni dovizia, generosissimamente per difendere palmo a palmo il terreno e contenere il nemico, fermarlo per poi respingerlo e vincerlo.

In questa lotta accanita, serrata e difficile, vissuta da tutti gli eserciti belligeranti dell’ultima guerra – da ognuno in misura più o meno preoccupante, ma sempre intensa e penosa – si provano tutte le forze materiali e morali degli eserciti, tutte le energie e tutte le capacità dei popoli, in ogni campo. Le industrie, le risorse di ogni genere, la saldezza e la compagine della nazione, lo spirito nazionale, le tradizioni, tutto rimane coinvolto ed assorbito da questa lotta immane, talché colui che comanda, colui che deve condurla, non può non sentire il peso della grave responsabilità che su di lui incombe.

Riportiamoci agli esempi della guerra mondiale, e citiamone alcuni, brevemente, solo per meditare su di essi.

Maggio 1916: Asiago. – Quale ansia e quanta trepidazione negli animi! Fu una lotta disperata e terribile durante la quale fiero e tenace il Fante d’Italia scrisse, sul Pasubio e sul Grappa, una delle sue pagine più gloriose. Per questa accanita e valorosa resistenza il condottiero dell’esercito italiano, muovendo il suo congegno dagli ingranaggi che si rivelarono perfetti, riuscì a riunire nel piano quella tale 6a armata che avrebbe sì strenuamente lottato, ma avrebbe anche e certamente vinto perché grande era la sua fede e forte la sua volontà. La prova non fu necessaria: tanto meglio così, perché subito dopo, per virtù di un’altra manovra di riunione delle forze – e questa volta a scopo offensivo – l’esercito italiano potè dare una nuova prova del suo valore e delle sue capacità manovriere e combattive.

Giugno 1916: Lutzk-Czernowtz. – Brussiloff giunse sui Carpazi e stava per valicarli mentre l’esercito austriaco era fortemente impegnato in una dura battaglia sulla fronte italiana. Epperò, leste accorsero da ogni parte le divisioni tedesche per turare la falla, e il colosso russo, incapace di sfruttare a fondo quel suo primo facile, ma pur grande successo perché, privo di riserve, aveva quasi del tutto esaurita la sua capacità penetrativa, fu costretto a segnare il passo e fermarsi.

Marzo 1918: Arras. – Tutta una armata, la 5a inglese, subì una dura sconfitta. La posta del giuoco era però veramente grandiosa poiché, vinta quella battaglia, i tedeschi avrebbero raggiunto Calais. La minaccia apparve subito particolarmente grave. Il pronto accorrere delle riserve, la rapida e bene organizzata affluenza di forze nel settore minacciato riuscirono a scongiurarla. Fu così impedito ai tedeschi ogni ulteriore progresso in quella direzione.

 

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Assai interessante potrebbe riuscire lo studio delle disposizioni e dei movimenti che, negli esempi indicati, portarono alla riunione delle forze nella pianura di Vicenza, nella zona dei Carpazi e nel settore di Arras. Ma tale studio, di per sé stesso lungo perché minuzioso, ci porterebbe un po’ oltre nel nostro lavoro, mentre noi preferiamo giungere senz’altro alla conclusione.

 

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Dunque, se tale e tanta è l’importanza di questo problema nell’azione difensiva, come si concretano le sue esigenze e le sue necessità?

Ecco: anche questo problema – come tutti gli altri del resto – trova la sua base essenziale nelle possibilità economiche e finanziarie della nazione, e nelle capacità costruttive delle sue industrie. Infatti, esso abbraccia tutto ciò che si riferisce alla costruzione delle ferrovie e degli autocarri (e perciò deve tener conto dei progressi dell’industria costruttiva e della tecnica), alla provvista delle materie prime e del combustibile, alla viabilità delle zone in cui si dovrà svolgere presumibilmente la lotta, ecc. Inoltre, per potere essere adeguatamente risolto, esso richiede, sin dal tempo di pace, una somma rilevante di cure, uno studio accurato e continuo, un’attenzione ed un’oculatezza senza limiti.

Nella sua multiforme e complessa attività, l’organo che presiede alla preparazione della nazione per la grande guerra avvenire, non potrà mai prescindere da questo importantissimo problema la cui soluzione dovrà dare al comandante dell’esercito la possibilità di riunire le sue forze sempre che se ne presenti la necessità: abbondanza di mezzi di trasporto, rapidità e sicurezza di movimenti, ottima viabilità in tutta la zona di probabile impiego, sono i cardini fondamentali su cui poggia, sin dal tempo di pace, questa possibilità. Se manca uno solo di questi fattori determinanti, non vi sarà genio di condottiero né valore di combattenti che potranno riuscire a darci la tanto attesa e sospirata vittoria.

 

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Precisate in tal modo le esigenze e l’importanza di questo vitale problema ai fini della riunione delle forze, passiamo senz’altro a trarre le nostre conclusioni.

 

 

CONCLUSIONE

 

Il nostro lavoro è finito.

Attraverso una rapida e sintetica esposizione di avvenimenti, abbiamo esaminato il principio della massa ed i suoi vari aspetti quali ci è sembrato vederli oggi, dopo l’esperienza veramente grandiosa della guerra mondiale.

Orbene, giunti al termine del nostro lavoro, dopo di aver percorso un così lungo cammino, è necessario sostare un istante. Ripensiamo ai problemi che ci siam posti, alle soluzioni prospettate. Un’infinità di interrogativi si affollano nella nostra mente e richiedono tutti una esauriente risposta.

Abbiamo forse esaurito l’esame di una questione così importante e complessa, o non l’abbiamo forse soltanto delibata? Questa era la frase del compianto Generale Guerrini, ed invero noi oggi non sapremmo trovarne un’altra che meglio esprima il concetto: è vero, abbiamo soltanto delibato l’argomento. La nostra trattazione è stata tutta assolutamente sommaria, e tale doveva necessariamente essere perché in caso contrario saremmo dovuti scendere nel dettaglio del caso particolare, cosa questa che non ci eravamo proposti di fare.

Abbiamo forse scoperto il segreto per ottenere la vittoria? Possiamo forse, da quel che abbiamo detto, dedurre che il comandante supremo, mantenendosi ossequiente a tutti gli aspetti del principio, potrà essere sicuro di ottenere la vittoria? Così potrebbe sembrare infatti, ma sarebbe una assai vana pretesa poiché ben diversa è la realtà. Non è necessario insistere su ciò. Siamo ben convinti che la guerra è pur sempre un momento nella vita dei popoli, momento però così complesso e difficile che a volerlo tutto racchiudere in un sol quadro sia pure grandioso, a volerlo tutto abbracciare con un solo sguardo o considerarlo da un solo punto di vista, si potrebbe incorrere in un equivoco colossale. E allora?

Quale è dunque il risultato della nostra fatica?

Riteniamo che non sarà possibile:

 

Siamo pure convinti che a malgrado la probatoria esperienza della grande guerra, non si potrà mai giungere a considerare in vera e propria unità geografica tutto il teatro della lotta, per stabilire quale settore debba essere considerato principale, e quindi riunire su di esso la massa delle forze di tutti gli alleati, per conquistare la più grande vittoria.

 

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Se queste sono le nostre convinzioni, quale è dunque il significato che attribuiamo alla ben nota frase che la storia è la maestra somma della vita, ripetuta da tutti, e da nessuno ascoltata?

Quale è il significato delle soluzioni da noi prospettate?

Purtroppo, è d’uopo riconoscerlo: abbiamo compiuto una pura e semplice esercitazione intellettuale che è, e rimarrà, nel campo assoluto della teorica.

Resta però a vedere se e fino a qual punto l’avvenire ci potrà dare ragione.

 

 

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PRINCIPALI OPERE CONSULTATE

 

V. BERNARDI – La guerra dell’avvenire.

CADORNA – La guerra alla fronte italiana.

COLIN – Les transformations de la guerre.

   Id.    Les grandes batailles de l’histoire.

CARLO DE CRISTOFORIS – Che cosa sia la guerra.

FOCH – Des principes de la guerre.

   Id.   De la conduite de la guerre.

GIODA – La guerra mondiale.

GIARDINO -  Rievocazioni e riflessioni di guerra.

GUERRINI – Introduzione allo studio della storia militare.

MARAVIGNA – Storia dell’arte militare moderna.

VACCA MAGGIOLINI – La guerra nei secoli XVII e XIX.

VERDY DU VERNOIS – Au grand quartier général 1870-71 – Souvenirs personnels.

FULVIO ZUGARO – Il grano (conferenza tenuta agli Ufficiali della Scuola di Guerra nell’aprile 1928).