Da una mail inviata già tempo fa ad alcuni di noi... |
|
cari amici e amiche, vi invio alcuni file (qui sotto ndr) per l'esame di rossi. uno riguarda il seminario di banca etica (doc. dal sito internet) e l'altro appunti di vito di soc. dell'org. per la parte monografica dell'esame.
dell'altro libro il giorno che o fatto l'esame non ha chiesto niente a nessuno. generalmente non fa altre domande all'infuori dell'argomanto portato a piacere, non si attiene scrupolosamente ai testi. tutto qui, spero vi serva. fate girare ad altri di cui non ho l'email.
buon lavoro domenico
|
|
SEMINARIO BANCA ETICA
Banca Etica sostiene il mondo no profit e l'economia solidale. Finanzia la cooperazione sociale, la cooperazione internazionale, la tutela dell'ambiente, la società civileL’ideaBanca Popolare Etica nasce per tradurre in pratica l'idea di una banca intesa come punto di incontro tra risparmiatori che condividono l'esigenza di una più consapevole e responsabile gestione del proprio denaro e le iniziative socio-economiche che si ispirano ai princìpi di un modello di sviluppo umano e sociale sostenibile, nel quale la produzione della ricchezza e la sua distribuzione siano fondati sui valori della solidarietà, della trasparenza civile e della realizzazione del bene comune.Le originiQualche anno fa molte organizzazioni del volontariato e della solidarietà sociale, iniziarono ad interrogarsi sul ruolo del denaro, della finanza e dell'impresa. Presero così coscienza di quanto lo sviluppo e il benessere di una collettività fossero in stretto rapporto anche con il denaro e con le attività ad esso collegate.
Principi Lo statuto, all'art. 5, riprende i princìpi base della finanza etica, che possono essere così riassunti: - la finanza eticamente orientata è sensibile alle conseguenze non economiche delle azioni economiche; - il credito, in tutte le sue forme, è un diritto umano; - l'efficienza e la sobrietà sono componenti della responsabilità etica; - il profitto ottenuto dal possesso e scambio di denaro deve essere conseguenza di attività orientate al bene comune e deve essere equamente distribuito tra tutti i soggetti che concorrono alla sua realizzazione; - la massima trasparenza di tutte le operazioni è un requisito fondante di qualunque attività di finanza etica; - va favorita la partecipazione alle scelte dell'impresa, non solo da parte dei soci, ma anche dei risparmiatori; - l'istituzione che accetta i princìpi della finanza etica orienta con tali criteri l'intera sua attività.
Strumenti di garanzia
Il Comitato Etico:
|
|
SOC. ORGANIZAZZIONE
Le organizzazioni sono ovunque intorno a noi. Nasciamo, veniamo educati e istruiti, trascorriamo il tempo libero, lavoriamo, siamo curati, moriamo in organizzazioni. Esse “sono date per scontate”, ma hanno un’immensa influenza sulla nostra vita. Finché un fenomeno sociale appare ovvio, noi non c’interroghiamo sull’esistenza di quel fenomeno. L’analisi sociologica si erge proprio contro la categoria dell’ovvietà: i fenomeni sociali non è detto che debbano essere come sono, ma vanno analizzati criticamente ed eventualmente trasformati, migliorati. Le organizzazioni sembrano però anche molto diverse fra loro; perciò vi sono stati per molto tempo studi specifici, ma senza alcuna generalizzazione. La sociologia dell’organizzazione nasce negli anni ‘40 del secolo scorso con la traduzione inglese delle opere di Weber. Lo statuto scientifico è poco consolidato, essendo una disciplina molto giovane. Questo porta a fratture epistemologiche, cioè ad una variazione dei paradigmi di lettura delle organizzazioni. Lo stesso studio della sociologia dell’organizzazione apparirà “frammentato”, ma se può sembrare una debolezza non avere un’unica prospettiva che dia garanzia scientifica, in realtà può essere una ricchezza in più. Infatti, non siamo in un percorso prestabilito, ma il campo lasciato aperto porta ognuno con i suoi ragionamenti a scegliere il tipo di approccio più utile e più confacente ai suoi obiettivi. Il ventaglio è aperto ed ognuno è libero di scegliersi una strada. Le organizzazioni sono state studiate dai primi del 1800, ma il fatto che un ufficio, una scuola, un ospedale, fossero così diversi, non permetteva di elaborare una scienza che si occupasse degli elementi comuni che attraversano organizzazioni così diverse.
Che cos’è un’organizzazione? Quali caratteristiche comuni hanno organizzazioni così diverse come una squadra di calcio, un carcere, un ospedale? Non è possibile dare una definizione immediata di organizzazione. Non esiste una definizione specifica, perché le organizzazioni sono fenomeni complessi. [Favola indiana dei ciechi e dell’elefante; ognuno, in base a ciò che tocca dell’animale si raffigura il tutto: è una pianta, una foglia, una corda…]. Le organizzazioni sono fenomeni così complessi, articolati, con così tanti elementi, indizi sfaccettati, che ogni studioso è come un cieco che coglie un aspetto e non riesce mai a cogliere l’intero, il tutto. Non c’è una definizione capace di descrivere tutti gli aspetti presenti in una organizzazione. Delle organizzazioni è possibile dare molte e diverse definizioni che partono da punti di vista, approcci teorici, e colgono solo un aspetto delle organizzazioni. Tuttavia abbiamo bisogno di una definizione che vada al di là di una definizione intuitiva, una specie di linea di partenza, un elemento comune che ci permetta di partire.
Definizione più semplice: “Un’organizzazione è un insieme di persone formalmente riunite per raggiungere uno scopo comune”. Allora, una coppia di fidanzati è un’organizzazione come una folla in uno stadio o i passeggeri di un treno? In base al senso comune, se fosse così, la cosa ci sembrerebbe veramente strana. Ci rendiamo conto che questa definizione è chiaramente insufficiente. L’elemento caratterizzante che taglia trasversalmente tutte le organizzazioni sulla base di questa definizione è lo scopo, l’obiettivo da raggiungere. Spesso però si ha il fine, ma non c’è organizzazione. Cerchiamo un altro elemento. “Chi fa che cosa?” I compiti cioè vengono differenziati ed integrati per arrivare ad un fine comune. Ad es., per organizzare una festa ognuno si occupa di qualcosa e poi si mettono insieme questi compiti per raggiungere un fine comune, la festa. Le organizzazioni sono, infatti, strutture di ruoli: ognuno si comporta in base alle regole del proprio ruolo. Anche l’ingresso temporaneo nell’organizzazione comporta l’osservanza di un ruolo. L’organigramma mostra la differenziazione, la distribuzione dei compiti, dei ruoli. Ad es., in una squadra di calcio cambiano i calciatori, ma non i ruoli; i compiti restano invariati/invariabili. L’ottica si sposta dunque dalle persone ai ruoli.
Quarta definizione: “Le organizzazioni sono sistemi di azione definiti da regole”. L’elemento caratterizzante che attraversa tutte le organizzazioni è quello delle norme che regolano i comportamenti degli individui. La sociologia dell’organizzazione nasce da qui e riflette su due poli: le strutture/norme e i soggetti. Tutta l’analisi sociologica ruota su questo problema occupandosi solo a livello più ampio di questa dialettica società-individui, cioè quello del “sistema sociale”. La sociologia studia e cerca di spiegare come i sistemi organizzati hanno una vita biologica più lunga di quella degli individui che li attivano; i sistemi vivono anche senza i soggetti. In questo rapporto tra soggetti e strutture, alcuni autori concentreranno l’attenzione su un polo, altri sull’altro polo, così come avviene nella sociologia generale (teorie strutturaliste e teorie soggettiviste). Il problema è allora quello di capire come si crea l’integrazione tra soggettività e struttura; ci si occupa perciò dell’analisi del comportamento umano nelle organizzazioni e dei meccanismi che generano la prevedibilità dei comportamenti. I nostri comportamenti sono soggetti a controllo sociale e in questo senso sono “prevedibili”. Questa forma di controllo sul comportamento degli individui può essere esercitata in maniere diverse. Mentre le prime teorie pensavano che potesse avvenire solo attraverso il richiamo esplicito a figure adibite al controllo, le successive comprendono che il controllo è tanto più efficace quanto più è invisibile, nascosto, inducendo gli individui a fare ciò che devono fare senza ricorrere a meccanismi di controllo espliciti e visibili. Si capì allora che nelle organizzazioni bisogna usare mezzi di controllo che passano per meccanismi di apprendimento della socializzazione e delle culture: gli individui vanno portati ad interiorizzare i fini e i valori che devono perseguire.
Una teoria organizzativa fondamentalmente si evolve attraverso il percorso sui poli strutture - soggetti, attraverso due metafore dell’organizzazione. Prima metafora: modello classico di organizzazione. La metafora dell’organizzazione come “macchina”. L’organizzazione è uno strumento razionale assoggettabile a controlli e manipolazioni per raggiungere in modo ottimale il fine. Le organizzazioni, come le macchine, sono “strumenti razionali” progettati per raggiungere un fine. Nello strumento c’è il concetto di “manipolabilità”: io progetto un’organizzazione per... Taylor è convinto che esiste un modello ottimale assoluto rispetto al fine (One best way): la macchina è definita una volta per tutte. Le interdipendenze fluiscono secondo gli schemi progettati; le varie parti sono connesse e tutti i meccanismi funzionano secondo lo schema previsto. Gli individui agiscono obbedendo tutti ad un’unica razionalità che è quella della macchina. La razionalità è un attributo della macchina, dello strumento, e non degli individui, che devono invece adottare la razionalità della macchina, dell’organizzazione-macchina. I principi della prima metafora sono quindi: -il carattere strumentale dell’organizzazione rispetto a scopi predeterminati e fissi; -gli scopi incarnano la razionalità dell’insieme e lo rendono coeso e coerente: è il fine la misura della razionalità della macchina; -il suo carattere omogeneo e coeso impone la sua razionalità sui comportamenti dei suoi membri; -i comportamenti negativi sono o frutto dell’irrazionalità individuale o della irrazionalità del modello organizzativo mal concepito. Cioè, se gli individui non assumono comportamenti conformi, o c’è un problema nell’individuo, oppure il congegno, la macchina, è stata mal progettata.
Secondo metafora: l’organizzazione è come un organismo. A questo si ricollega l’approccio funzionalista.
Terza metafora: l’organizzazione è produttrice di simboli e di culture, quindi di processi culturali. Un approccio che fa riferimento non all’organigramma (hardware), ma alle relazioni, ai valori, alle dinamiche (software).
Il filo rosso di tutto il modo di leggere le organizzazioni è vedere come il discorso organizzativo si sposti lentamente dalle strutture ai soggetti (metafora macchina: strutture / lavoro per ruoli / chi fa che cosa; metafora organismo e metafora produttrice di simboli: soggetti / autonomia condizionante degli individui). Quale rapporto lega i sistemi organizzati (che sembrano avere un’autonomia indipendente dagli individui) e gli individui? A questo interrogativo vuole rispondere la sociologia delle organizzazioni.
La forza delle organizzazioni è la loro “apparente ovvietà” che si impone a noi, e alla quale ci adattiamo. L’elemento importante di un’organizzazione è che vi sia una differenziazione, una distribuzione di ruoli. Non solo, ma la corrispondenza al ruolo viene misurata dal sistema stesso: lo vogliamo o no, il nostro ruolo lo svolgiamo e lo valutiamo così come il sistema sociale, le organizzazioni vogliono. La società, le organizzazioni esercitano per questo un controllo invisibile sugli individui, molto più efficace del controllo formale, perché motiva dall’interno gli individui, affinché compiano atti conformi al sistema. Quando i mezzi di controllo si fanno visibili, vuol dire che il sistema è mal funzionante. Interessante sarà vedere come le organizzazioni riescono ad introiettare i propri valori negli individui in modo tale che essi non sentano più la costrizione dell’organizzazione: i fini dell’organizzazione diventano i fini degli individui, quelli da loro scelti. (Teoria del simbolismo organizzativo).
Il nodo da sciogliere dell’età moderna è questo: come si giustifica una forma di lavoro che assume come fondamento il principio dell’ineguaglianza? Come legittimare questo nuovo sistema senza ricorrere al potere coercitivo? La società per funzionare ha bisogno di legare valori del sistema economico con valori del sistema sociale che sembrano discordi con i primi; si tratta di conciliare due sottosistemi. Si delega alla scienza il compito di trovare una maniera tale che legittimi le nuove forme di economia e le metta in linea con i valori politico-sociali. La scienza porta nell’organizzazione un discorso neutrale, oggettivo, vantaggioso per tutti. Quando la scienza non è più neutrale, diventa allora ideologia, cioè conoscenza strumentalizzata da chi detiene il potere.
Taylor e il taylorismo. Non c’è un’unica posizione interpretativa del pensiero di Taylor. Di solito taylorismo è sinonimo di organizzazione lavorativa parcellizzata, alienante; è stata prevalente dunque l’enfatizzazione degli aspetti negativi del taylorismo. In realtà, per comprendere Taylor e coglierne l’importanza, si deve storicizzare la sua opera, il suo pensiero. Lo stesso Bonazzi afferma che la proposta di Taylor non può essere assunta in maniera astorica, aprioristica. Taylor non è un sociologo, né uno psicologo, né un filosofo, ma un ingegnere che cerca di risolvere delle antinomie dell’organizzazione del lavoro a lui contemporanea. Si continua a parlare di taylorismo perché non si riesce a capire se oggi esso è superato o no. Alcuni studiosi hanno sostenuto che sotto apparati concettuali diversi rimangono delle forme di organizzazione del lavoro di tipo taylorista. L’informatizzazione del lavoro che pone oggi ancora una volta l’uomo di fronte alla macchina, secondo alcuni rimette in gioco il pensiero di Taylor. Per avere un’idea del pensiero taylorista si pensi al film “Tempi moderni” (C. Chaplin): l’uomo è un’appendice della macchina. Taylor è il primo che impatta con l’era del processo di industrializzazione: le fabbriche da piccole diventano sempre più grandi, enormi, con migliaia di operai. Taylor capisce che non solo si trasformano le dimensioni delle fabbriche, ma la stessa tecnologia, che porterà ad un’organizzazione nuova del lavoro. Da macchine polivalenti - universali (ad es. il tornio), con la capacità di fare molte operazioni, perciò flessibile e affidata alla professionalità dell’uomo, si passa a macchine monovalenti - specializzate, capaci di fare solo un tipo di operazione; l’uomo qui non deve intervenire per decidere che operazioni deve fare la macchina. Le macchine vengono “parcellizzate” nelle operazioni da svolgere, l’individuo perde il controllo di tutto ciò che la macchina fa, non afferra più il senso della sua operazione sulla macchina, il suo stesso lavoro. In questo modo la produzione viene triplicata, quadruplicata, senza tempi morti. Si pensi inoltre all’impatto con la catena produttiva che avevano coloro che venivano dalle campagne: con estrema difficoltà si adattavano a quel lavoro. Le fabbriche piccole, presenti sino agli inizi del 1900, sono definite “black box”, cioè scatole nere, perché non si sapeva ciò che realmente succedeva. Era affidata ai “capi” la gestione del lavoro, con una serie di tecniche empiriche, con un’unica regola: ciò che entrava (le materie prime) e ciò che usciva (i prodotti). Questo è il mondo delle fabbriche precedente a Taylor: i capi reparto avevano il potere assoluto sui lavoratori, potevano sfruttarli come licenziarli. Taylor pensa: occorre un’organizzazione scientifica del lavoro, con regole e metodi precisi, stabiliti in maniera scientifica. Si aggiunga a tutto ciò la teoria marxiana dello “sfruttamento”, del plusvalore derivante dal pluslavoro, del profitto, etc. Gli operai cominciarono a protestare in maniera diversa; ad es. con il “soldiering”, cioè il sabotaggio della produzione, il rallentamento della catena di produzione. Taylor vuole allora scientificizzare l’organizzazione del lavoro: tutto deve essere regolamentato e previsto, sulla base della convinzione che c’è una sola maniera ottimale di lavorare. Taylor stravolge anche l’idea del “cottimo” (più produci e più guadagni): guadagnerà di più chi rispetta i movimenti, i ritmi, i tempi che sono stati stabiliti, senza iniziative individuali, fossero anche più efficaci ed efficienti. Il concetto della razionalità si sposta dagli individui alle strutture produttive; gli individui devono spogliarsi della razionalità e adeguarsi alla razionalità delle macchine. L’elemento forte è la tecnologia incorporata nella macchina; ad essa deve adattarsi l’uomo e non viceversa. Un modo di lavorare che elevi la capacità produttiva è vantaggioso per tutti: i salari saranno più elevati, i proprietari guadagneranno di più. Taylor dice: fidiamoci della neutralità della scienza; razionalizzare il mondo delle produzioni significa renderlo più efficiente e vantaggioso per tutti. Con Taylor inizia anche la selezione del personale per valutare le loro capacità e la loro resistenza fisica, per destinarli a compiti loro congeniali. Il taylorismo in realtà ha un effetto perverso che nessuno poteva prevedere: la standardizzazione produce l’identificazione dei lavoratori come categoria, il riconoscimento di comuni diritti da difendere. Questo segna la nascita dei sindacati, che con i primi scioperi daranno la prima spallata alle teorie di Taylor. L’umanizzazione del lavoro, l’ideologia delle relazioni umane, diventa allora una nuova frontiera, che si trasmuterà in ideologia delle relazioni umane, maniera nuova per addomesticare ancora una volta le masse dei lavoratori.
Relazioni Umane Il taylorismo crea un paradosso: mentre la teoria di Taylor si diffonde e raccoglie consensi (quasi tutte le grandi fabbriche adottano le sue teorie), notevoli sono anche le critiche. Queste sono di carattere teorico e di carattere empirico. Le critiche di carattere teorico provengono quasi tutte da marxisti. Essi criticano questo tipo di organizzazione del lavoro ritenendolo solo una copertura scientifica di un’organizzazione del lavoro fondata sullo sfruttamento. Secondo la teoria marxista, nel sistema capitalistico il rapporto non è tra eguali, ma è fondato sullo sfruttamento dei lavoratori da parte dei proprietari dei mezzi di produzione. Le critiche di carattere empirico si fondavano sul risultato di alcune ricerche effettuate nelle fabbriche. Gli psicologi del lavoro cominciarono a studiare empiricamente come nelle fabbriche funzionava il rendimento, cioè in quali situazioni gli operai producevano di più. La variabile osservata era “la fatica”. Gli psicologi sostenevano che non era possibile individuare una soglia universale della fatica, in quanto questa era condizionata da variabili di tipo psicologico, e quindi soggettive. Questo metteva in crisi tutta l’organizzazione scientifica di Taylor che pretendeva di costruire modelli generali di organizzazione del lavoro. Uno dei risultati era che la fatica era differente a seconda dei modi di lavorare: a) meno fatica di fronte a un lavoro che impegnava mentalmente; se si trattava di un lavoro coinvolgente la fatica affiorava dopo molto tempo; b) si faceva poca fatica a svolgere un compito molto meccanico, ripetitivo, ma con la totale evasione della mente che era distolta da ciò che si faceva; c) la fatica affiorava prima se si trattava di un lavoro meccanico e ripetitivo, ma senza poter distrarre la mente dal compito, quindi sempre all’erta. Era proprio di questo tipo il lavoro svolto nelle fabbriche, secondo gli psicologi; si doveva allora trasformare il modo di lavorare, piuttosto che pensare a quale fosse il modo migliore per adeguare l’individuo a questo modo di lavorare. Il coinvolgimento, variabile psicologica motivazionale, è importante per l’organizzazione del lavoro. In questo senso è importante ricordare gli esperimenti che su iniziativa del management furono effettuati in una fabbrica di componenti elettrici di Chicago. Si voleva vedere come il livello di illuminazione condizionava il lavoro e quindi la fatica degli operai. Si misero due gruppi in due stanze: una con un’illuminazione stabile e un’altra con un’illuminazione variata per veder quale fosse il livello di illuminazione ottimale per aumentare il lavoro e abbassare la fatica. Durante l’esperimento si notò che non solo con l’aumento dell’illuminazione le operaie aumentavano il livello di lavoro, ma che tornando al livello iniziale di illuminazione e addirittura abbassandolo ulteriormente, pian piano, le operaie aumentavano sempre più il livello di produzione. Questo risultato fu talmente sconvolgente che il management della Western Electric chiamò gli psicologi dell’università di Chicago, guidati da Mayo, per spiegare la stranezza di questi risultati. Il nesso tra lavoro e fatica era determinato da un “fattore umano”, perciò furono chiamati gli psicologi. La spiegazione fu che le operaie avevano interpretato come una sfida l’essere messe sotto osservazione. Il fattore umano era quel fattore che faceva emergere nel mondo della produzione elementi di emozionalità, di motivazione, che prima non si erano affatto considerati.
Il successo di Mayo e della scuola delle Relazioni Umane fu frutto di ricerche “non ortodosse” in termini di risultato. Ma era la modalità con cui gli esperimenti venivano effettuati che faceva pensare ad una nuova maniera di organizzare il lavoro. Mayo e la sua èquipe condusse esperimenti dal 1927 al 1933. Furono fatti tre tipi di ricerche: a) sui fattori che innalzano il rendimento lavorativo; b) sui fattori che determinano la soddisfazione lavorativa; c) sul funzionamento dei piccoli gruppi in una fabbrica.
a) Mayo tentò di vedere se il rendimento degli operai aumentava: - se si alzava il livello del reddito senza modificare altri fattori, altre variabili; - se si organizzavano diversamente le pause di riposo, lasciando sempre immutate le altre variabili; - se si instauravano rapporti amicali tra gli operai, sempre con le altre variabili immutate. Risultato: la variabile che incideva di più sul livello di rendimento era il clima cordiale, amicale, all’interno del gruppo di lavoro. Viene formulata quella che è la prima ipotesi generale della scuola delle Relazioni Umane: è la qualità delle relazioni umane la variabile cruciale che fa aumentare il rendimento. Alcune critiche vennero dal constatare che sostituendo due operaie, a causa del clima di eccessiva amicizia e complicità, la produzione ebbe un’impennata. È forse, allora, la paura della punizione il fattore del rendimento? Un’altra critica: Mayo non tenne conto di ciò che succedeva fuori del luogo di lavoro, ignorando che in quel periodo (siamo intorno al 1929) imperversava la più grande crisi economica della storia, con migliaia di licenziamenti e disoccupati. Questo non poteva forse condizionare gli operai sotto osservazione? Gli operai non si sentono forse minacciati di licenziamento, come le operaie dell’esperimento dell’illuminazione, vistisi osservati e studiati? Dunque - e questa è la critica - è un fattore esterno che condiziona il lavoro. Inoltre, Mayo non tiene in conto se si tratta di operai sindacalizzati o meno, cioè con obiettivi lavorativi diversi o coincidenti con quelli dei padroni delle fabbriche.
b) Mayo legge i risultati delle numerose interviste fatte agli operai in una maniera riduttiva: riguardo alle “lamentele” sulle condizioni di lavoro, l’unico riscontro oggettivo, secondo lui, sta nel fatto che gli armadietti degli operai hanno spesso maniglie mal funzionanti. Questo è l’unico elemento che, essendo oggettivo, può essere migliorato/modificato. Gli altri elementi emersi dalle interviste, invece, sono elementi soggettivi di lamentela. Ad es., chi chiede l’aumento del salario lo fa perché ha la moglie ammalata, quindi bisognosa di cure, di medicine; chi chiede un miglior rapporto con il capo, lo fa perché ha avuto un rapporto conflittuale con il padre. Mayo pensa che i motivi di soddisfazione hanno cioè sempre una causa nella soggettività degli individui, ma l’organizzazione del lavoro non è messa affatto in discussione (a parte le maniglie degli armadietti). Quindi le organizzazioni devono dotarsi di psicologi capaci di scoprire individui con problemi di adattamento al mondo del lavoro. Per Mayo il metodo di lavoro è un elemento immodificabile, rispetto al quale gli psicologi devono adattare la soggettività degli individui più adattabili. Ciò che dice Mayo non capovolge l’impianto teorico taylorista, ma afferma che l’organizzazione deve essere una “grande madre”: oltre che porre regole deve prendersi cura dei lavoratori, intervenendo lì dove i lavoratori presentino problemi e difficoltà. Se, come dice Durkheim, è la perdita di valori di riferimento (“anomia”) il problema, Mayo suggerisce che il ruolo di una istituzione in cui il lavoratore deve sentirsi integrato è la grande fabbrica moderna: istituzione intermedia in cui l’individuo, minacciato dall’anomia, viene integrato come in una famiglia di cui condivide i valori.
c) Come funzionano i piccoli gruppi in una fabbrica. I gruppi di lavoro funzionano come gruppi formali: creano regole, norme e modi in cui il gruppo fa sì che tutti si adeguino alle norme che il gruppo si è dato. Mentre però nei gruppi formali le regole sono dettate dall’alto, qui è il gruppo stesso che detta regole e si autodisciplina nell’osservanza delle stesse. Quello che cambia nel 1929 è il modo di produzione: la linea di montaggio viene spezzata mediante le “isole produttive”. Si tratta di un gruppo di operai autonomi nella loro produzione, che forniscono i pezzi della produzione ad un’altra isola produttiva. Questa è una produzione più flessibile: un pezzo di catena di montaggio viene reso circolare in maniera autonoma rispetto al resto della produzione. Qui non cade tutto su un singolo individuo e ciò che doveva fare separatamente, ma su un piccolo gruppo di lavoro, un insieme di individui che insieme dovevano dare un risultato. Questo era in sintonia con la teoria di Mayo sul funzionamento dei gruppi nelle fabbriche. Alcuni esperimenti furono dunque effettuati per capire il rendimento del gruppo di lavoro, cercando di individuare gli elementi determinanti per il rendimento e la soddisfazione. A parte le critiche (Bonazzi dà una lettura negativa di Mayo: dagli uomini-bue di Taylor [resistenza fisica] si passa agli uomini-mucche di Mayo [maggiore soddisfazione = maggiore rendimento]) Mayo coglie il fatto che vanno trovati valori che non siano in contrasto con ciò che si vive nelle fabbriche. È un approccio paternalista al soggetto lavoratore, da coccolare; siamo lontani dall’operaio quale soggetto portatore di diritti che lo pongono sullo stesso livello del padrone. Il lavoratore trova nella fabbrica “la grande madre”, ma resta subalterno. La logica capitalista viene accettata, ma viene sollecitato nei lavoratori il sentimento di essere protetti, curati, coccolati.
Scuola Motivazionalista Il pensiero della Scuola delle Relazioni Umane viene capovolto da quello della Scuola Motivazionalista: la variabile indipendente non è l’organizzazione, ma l’aspetto umano, l’uomo. Scuola delle Relazioni Umane: variante: l’uomo; invariante: l’organizzazione del lavoro. Scuola Motivazionalista: variante: l’organizzazione del lavoro; invariante: l’uomo.
Le teorie dette Motivazionaliste sono di tipo psicologico e, pur essendo diverse tra loro, fanno tutte perno sulla struttura motivazionale dell’uomo, rifacendosi alla scala dei bisogni di Maslow. Maslow ha la pretesa di descrivere un modello di scala motivazionalista universale, che appartiene a tutti gli uomini per il fatto che sono uomini. È una scala di tipo gerarchico, cioè tutti i bisogni non sono uguali. Ci sono alcuni più pesanti rispetto agli altri. Essendo strutturati gerarchicamente, dice Maslow, non si accendono tutti insieme, ma in successione: quello di rango superiore viene acceso quando è soddisfatto quello di rango inferiore (ad es., se non è soddisfatto il bisogno di sopravvivenza, non si potrà percepire il bisogno di autorealizzazione). Scala dei bisogni: sopravvivenza, sicurezza, bisogni sociali, dell’ego, di autorealizzazione. Questa scala di Maslow è importante perché è il punto di innesto della teoria motivazionalista sull’organizzazione del lavoro. Non si possono soddisfare i bisogni di rango superiore se gli individui sono tesi alla ricerca di un bisogno che viene prima. Le organizzazioni devono soddisfare i bisogni dei lavoratori in progressione. La teoria di Maslow viene utilizzata per giustificare una lettura delle precedenti teorie. Il taylorismo, allora, nel momento in cui è nato, incontrò individui mossi ancora da un bisogno fondamentale: guadagnare per sopravvivere e basta (uomini-bue). Invece, con la Scuola delle Relazioni Umane, siamo in un periodo in cui gli uomini, avendo già soddisfatto il bisogno primario della sopravvivenza, sono orientati a soddisfare il “bisogno di socialità” (avere relazioni sociali soddisfacenti), cioè un bisogno superiore a quello fisiologico. Avendo soddisfatto questi bisogni di rango inferiore, gli individui sono alla ricerca di soddisfare un nuovo bisogno: l’autorealizzazione nel lavoro. È questo il problema di fronte al quale si trovano ora (anni ‘60) le organizzazioni del lavoro. Da questo presupposto nasce la Scuola Motivazionalista, i cui autori danno una serie di indicazioni concrete di modifiche empiriche da apportare all’organizzazione del lavoro (arricchimento delle mansioni, rotazione dei compiti, leadership dal basso, ecc.). Gran parte della ricerca, effettuata tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70, mostra un filo rosso: gli psicologi vogliono dimostrare che non è contrario all’efficienza produttiva un modo diverso di organizzare il lavoro, cioè basarlo sui bisogni dell’individuo. Una buona maniera per aumentare la produttività è quella di render più soddisfacente il lavoro per chi lo fa. Questa non è una posizione tanto differente da quella di Mayo; si distingue da quella perché propone concretamente cosa fare. Attenzione però: l’autorealizzazione dell’individuo nel lavoro, mediante la modificazione dell’organizzazione del lavoro, è strumentale all’efficienza produttiva. L’obiettivo finale è sempre quello di massimizzare l’efficienza produttiva di tipo capitalistico. Ancora una volta, un individuo asservito all’organizzazione.
C. Argyris, psicologo, si preoccupa di sviluppare alcuni aspetti della teoria di Maslow. Tra questi in particolare quello di “crescita psicologica dell’individuo”. Questo concetto crea un’insuperabile tensione, un conflitto, tra gli individui e le organizzazioni. Gli individui si sviluppano psicologicamente con una sorta di crescita diversa da quella fisica. C’è una “crescita mentale” che avviene in ogni individuo segnando il passaggio dallo stadio dell’infanzia mentale allo stadio della maturità mentale. I due stadi, polari, hanno caratteristiche loro proprie che si contrappongono a quelle dell’altro stadio (ad es., passività/attività, mancanza di interessi/molti interessi, ecc.). Argyris dimostra che il modo in cui gli individui sono stati condotti a lavorare nelle organizzazioni (struttura burocratica, norme, mancanza di autonomia) si adatta allo stadio di infanzia mentale, là dove l’individuo non ha ancora sviluppato una maturità mentale. Quando invece gli individui si trovano nello stadio della maturità mentale, non possono adattarsi all’organizzazione del lavoro; ecco il carattere conflittuale insuperabile. Paradossalmente, le organizzazioni funzionano bene là dove hanno al proprio interno uomini-bambini, ancora nell’infanzia mentale. Argyris si sofferma a descrivere tutte le patologie che si sviluppano nelle organizzazioni. Gli individui non abbandonano le organizzazioni, ma mettono in atto dei meccanismi di difesa di tipo psicologico, come vere e proprie barriere tra sé e l’organizzazione. Argyris propone allora dei meccanismi affinché gli individui non si autoescludano dall’organizzazione lavorativa (arricchimento delle mansioni, rotazione dei compiti, leadership dal basso). Argyris e Maslow fanno discorsi che tendono a generalizzare il modello di uomo. Quando parlano di bisogni e di strutture mentali generalizzano i modelli, non pensando che tra questi ci possa essere una differenza tra gli individui portatori di bisogni diversi, non tutti omologabili. Da qui la pretesa di progettare un’organizzazione che sia la migliore rispetto a quel modello di uomo.
F. Herzberg è il primo che introduce nell’analisi dei bisogni umani un elemento che mette in discussione la pretesa universalità dei bisogni che orientano l’uomo. Elabora infatti un modello più complesso, che pur generalizzando molto, afferma che non tutte le persone nelle organizzazioni portano gli stessi bisogni e quindi non tutti gli uomini hanno al vertice dei loro bisogni l’autorealizzazione. Herzberg, attraverso ricerche empiriche, cercò di studiare i fattori connessi alla soddisfazione autorealizzativa. Quando si parlava di autorealizzazione nelle interviste, gli individui facevano riferimento a fattori “intrinseci” al lavoro, ai contenuti del lavoro. Quando invece Herzberg chiedeva della loro insoddisfazione, gli individui facevano riferimento a fattori “estrinseci” al lavoro (il reddito, le condizioni igieniche, ecc.). Herzberg pensò allora che fossero due le classi di fattori che regolano in modo autonomo la soddisfazione e l’insoddisfazione. La soddisfazione e l’insoddisfazione non sono su un’unica linea che ci permette di concludere che più gli individui sono soddisfatti e meno sono insoddisfatti. Esse si regolano autonomamente, perché fanno riferimento a due classi diverse di fattori. La soddisfazione è collegata ai contenuti del lavoro (fattori intrinseci), l’insoddisfazione è collegata a fattori estrinseci al lavoro. Herzberg nominerà questi fattori: fattori “igienici” (ambientali, fuori del contenuto del lavoro) e fattori motivazionali (interni al lavoro, collegati alla soddisfazione). Herzberg giunge ad individuare, sulla base di questa sua indagine, due diversi tipi di popolazione, di individui: i ricercatori di igiene e i ricercatori di motivazioni. Questo, secondo Herzberg, significa che non tutti sono rivolti a soddisfare un bisogno di autosoddisfazione per quello che fanno, ma solo chi è un ricercatore di motivazioni (fattori intrinseci). Per un ricercatore di igiene sono importanti i fattori estrinseci del lavoro, quelli di contorno. In un tabella Herzberg incrocia i tipi di individui e i tipi di soddisfazione del bisogno che l’organizzazione mette in campo.
Negli anni ‘60 R. Likert scrive due opere, divenute famose, occupandosi del tema della leadership e del modo di strutturare la leadership all’interno delle organizzazioni. Già K. Lewin negli anni ‘30 aveva studiato le “dinamiche di gruppo” con degli esperimenti a cui parteciparono studenti universitari. Egli mise in relazione i risultati dei compiti affidati e i tipi di leadership all’interno del gruppo che modificavano le modalità e la qualità dei risultati stessi. Likert trasferisce la teoria della “dinamica di gruppo” alle organizzazioni lavorative. Likert si accorge che lavorare dove c’è meno controllo, dove non c’è un leader dall’alto significa lavorare meglio. Egli individua quattro modelli di leadership: - modello autoritario sfruttatorio, - modello autoritario benevolo, paternalistico, - modello consultivo, - modello partecipativo. I modelli di leadership di tipo autoritario producono in tempi brevi maggiore efficienza; tuttavia, c’è poi un calo di rendimento. Al contrario, i gruppi partecipativi, senza leader autoritario, lavorano in maniera meno produttiva all’inizio, ma su lungo periodo tendono ad aumentare i livelli di rendimento. Dal momento che le organizzazioni vogliono mantenere nel tempo un buon rendimento, è perciò più redditizio far nascere gruppi in cui emerge una leadership dal basso, e in cui si stabiliscono rapporti più orizzontali, partecipativi. Questi discorsi sulla leadership Likert li trasferì al ruolo strategico della comunicazione all’interno del gruppo di lavoro, con la cosiddetta “teoria dei perni connettori”. Likert disegna gli organigrammi soddisfacenti dal punto di vista della comunicazione tra i membri. Ci sono degli individui (perni connettori) che fanno parte simultaneamente di due gruppi, di un gruppo di rango inferiore e di un gruppo di rango superiore, con la funzione di aprire la comunicazione dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso. Gli studi di Likert tendono ad umanizzare il lavoro puntando sull’organizzazione e la comunicazione nei gruppi di lavoro, ma lo stesso Likert dice alla fine che è possibile migliorare il lavoro, renderlo più soddisfacente, ma non è possibile pensare che tutti i lavori siano uguali. Ci sono lavori altamente ripetitivi, svuotati di contenuto, semplici, che non possono non essere eseguiti come Taylor li aveva pensati. L’influenza della variabile tecnologica è talmente forte che tutte le modifiche non possono migliorare né modificare l’organizzazione e il suo livello di soddisfazione. È per questo che la Scuola Motivazionalista si occupa quasi esclusivamente di contesti di lavoro medio - alti. È insufficiente, dice Bonazzi, un approccio “volontaristico” per umanizzare le organizzazioni, perché esiste la variabile tecnologica che diventa la variabile causale, indipendente, che determina effettivamente la maniera in cui gli uomini devono lavorare.
Teoria marxista Accanto a questa linea di pensiero dei motivazionalisti si pone un’altra che cerca il superamento del taylorismo, ispirandosi alla teoria marxista, che è diversa dall’approccio degli psicologi. Quella marxista, infatti, è una teoria che si ispira ad un discorso di tipo politico, assente fino a quel punto. Essa sostiene che non è possibile modificare il contenuto, il senso, il significato del lavoro se non modificando i rapporti di produzione, cioè modificando il sistema sociale, mediante una rivoluzione da parte della classe operaia. I marxisti accusavano quindi il taylorismo, e le teorie ad esso collegate, di essere una copertura ideologica alla struttura sociale fondata sull’ineguaglianza e lo sfruttamento. Questo sistema per essere superato andava distrutto. Questo tipo di analisi politica, viene tradotto da alcuni autori in analisi e ricerche di tipo empirico, con il risultato sorprendente che questi studiosi riconoscono che dentro al sistema economico capitalistico non è vero che tutti i lavori siano uguali. Essi allora tentano di individuare una differenziazione nei contenuti, nei significati che il lavoro assume per l’individuo collegandolo ad un tipo di tecnologia che viene adoperata nel lavoro (c’è dunque una tecnologia umanizzatrice). La ricerca più famosa è quella di A. Touraine sulla Renault. Egli individua tre tipi di tecnologie e il fatto che, legati a queste, si modificano tutti gli aspetti collegati al lavoro (in base alla variabile tecnologica adoperata). Touraine fa vedere come ci sia una maggiore complessità nell’organizzazione del lavoro del sistema capitalistico. Ci sono, secondo Touraine, tre fasi che non si susseguono, ma sono compresenti nel sistema capitalistico, il quale può, quindi, inglobare stili e modi di lavoro differenti tra di loro. In questo senso il taylorismo, lungi dall’essere l’ideologia corrispondente al capitalismo, era corrispondente ad una precisa fase, la fase B, quella del macchinismo industriale. Dunque, il taylorismo non è una teoria universale, ma corrisponde ad una precisa fase di tecnologia industriale. Ci sono però altre fasi, altre modalità di lavoro, in cui non è il taylorismo l’organizzazione del lavoro corrispondente. Nella fase A si lavora nelle fabbriche con macchine polivalenti; c’è dunque una tecnologia semplice che fa venir fuori una organizzazione del lavoro diversa da quella della fase B, in cui si usano macchine monovalenti - specializzate. La fase B, che corrisponde all’organizzazione di tipo taylorista, è diversa poi dalla fase C, la fase della robotica industriale, delle macchine automatizzate. Qui cambia ancora la maniera di organizzare il lavoro, cambia il tipo di professionalità richiesta, cambia il modo di organizzare la leadership. La professionalità nella fase A era legata alla capacità di modificare la macchina, di gestirla. Nella fase B l’operaio viene invece addestrato a compiere una serie di operazioni, identiche, ripetitive. Nella fase C si ritorna ad un operaio cui è richiesta una professionalità non più manuale bensì tecnica: deve saper controllare le macchine che si muovono autonomamente. Il controllo nelle organizzazioni cambia. Nella fase A c’è un caposquadra, il più esperto/anziano, che controlla direttamente il lavoro degli altri. Nella fase B si esercita un controllo effettuato dalla tecnologia: è la macchina che detta i tempi e le modalità di lavoro, non c’è più bisogno di un controllo personale, diretto. Nella fase C apparentemente l’individuo è lasciato più libero (è di fronte ad una macchina che deve saper controllare), ma anche in questo caso l’individuo è controllato (controllo burocratico), perché c’è un controllo regolato sull’apprendimento di norme, secondo la logica dell’“if - then”: interpretare dei segnali e mettere in atto un’azione rispondente a tali segnali. Nell’analisi di Touraine non c’è un tono giustificatorio. Egli vuole però far capire che lo sviluppo del macchinismo è una fase necessaria dello sviluppo del capitalismo, in cui ci si avvia ad un tipo di organizzazione del lavoro, la fase C, che non ci sarebbe stata se non ci fosse stata la fase B: le operazioni più semplici, ripetitive, prima fatte dagli uomini vengono ora fatte dalle macchine. I diversi modi di lavorare sono necessari in quanto dentro il capitalismo stesso ci può essere un tipo di lavoro che libera l’uomo, che gli elimina cioè un tipo di lavoro dequalificante, alienante, grazie appunto alla tecnologia. La celebre frase “la tecnologia libera l’uomo” è azzeccata, da una parte perché la tecnologia, pur nel capitalismo, libera l’uomo da lavori alienanti, privi di reale contenuto e di significato; d’altra parte, è azzeccata perché Touraine presagiva che man mano che le macchine inglobavano i lavori semplici sarebbe cresciuta la disoccupazione, bastando pochi controllori di macchine automatizzate (la tecnologia libera l’uomo dal lavoro, cioè lo rende disoccupato).
Mentre Touraine aveva parlato di una sorta di sviluppo storico (in realtà le varie fasi potevano essere compresenti), R. Blauner, un altro studioso marxista, fa una ricerca in cui mostra le diverse modalità di lavorare passando attraverso diversi settori produttivi. Utilizzando una tecnologia diversa per ogni settore, riemerge la tecnologia quale variabile causale che determina il diverso tipo di organizzazione del lavoro. Nel settore della grafica, il livello di tecnologia è meno sviluppato. Il settore tessile e della chimica, invece, incorpora una tecnologia tipica della catena di montaggio (organizzazione del lavoro taylorista). Nel settore meccanico, vi è la tecnica più avanzata e l’organizzazione del lavoro non è più di tipo taylorista. Blauner pone in correlazione il lavoro e la tecnologia con il grado e il livello di alienazione, concetto marxista analizzato non come categoria astratta ma come elemento misurabile attraverso concreti indicatori. La domanda è: “Tutto il lavoro capitalistico è alienante/to o dipende dal livello tecnologico?”. Blauner smonta il concetto di alienazione (estraneità del lavoro dell’uomo) in quattro indicatori: a) mancanza di potere: il grado di alienazione può essere misurato attraverso le capacità più o meno sviluppate di intervenire sui processi produttivi; b) l’assenza di significato: un lavoratore o un gruppo di lavoratori sono più o meno alienati a seconda che essi sono dediti alla produzione di prodotti standardizzati oppure prodotti parcellizzati (si producono parti di un prodotto più complesso); c) la mancanza d’integrazione, in altre parole tanto più un lavoratore è alienato quanto più lavora in una condizione di isolamento, senza uno spirito comunitario, senza spirito di squadra; d) autoestraneazione, mancanza totale di coinvolgimento in quello che il lavoratore fa (un atteggiamento di tipo esclusivamente strumentale verso quello che si fa). Blauner trova dunque indicatori oggettivi della tecnologia e del modo in cui la tecnologia si applica alla produzione, dimostrando come il concetto di alienazione non sia un concetto intrinsecamente legato al modo di produzione capitalistico, ma come sia una variabile in relazione al tipo di tecnologia impiegata nella produzione. Altri autori parlano di “produzione flessibile”. La produzione industriale se avviene attraverso una “dimensione” diversa (variabile causale) darà una forma diversa di organizzazione del lavoro. In quest’ottica si parla di “distretto industriale” (o industria distrettuale): un’economia di tipo capitalistico e industriale può realizzarsi attraverso una specializzazione di certe aree geografiche - territoriali nella produzione di alcuni beni, per cui non c’è più il grande impianto che produce (produzione verticale). Questo tipo di produzione industriale non produce alienazione perché si sviluppa in una dimensione di tipo comunitario (produzione orizzontale), quasi a carattere artigianale (cfr. il Salento per il settore calzaturiero o l’area Santeramo - Altamura per la produzione di salotti).
Max Weber Con Max Weber la scienza sociologica ha una svolta. Mentre in ambito francese la sociologia s’innesta nell’impianto filosofico-scientifico dell’illuminismo e successivamente del positivismo, in Germania, culla degli studi storici (Università di Tubinga), il pensiero sociologico assume altri connotati. Gli storici tedeschi ritenevano inconciliabili, per contenuto e per metodo, le scienze della natura e le scienze dello spirito. Mentre nelle scienze della natura è possibile osservare i fatti naturali e, dopo una verifica empirica, formulare delle leggi, nelle scienze umane questo non è possibile. È necessario, dice Weber, “interpretare i dati” e non semplicemente descriverli (come ha fatto Durkheim): occorre avere una “comprensione empatica” di colui o di coloro che agiscono. Weber è perciò definito il sociologo dell’“azione sociale”: egli si domanda perché gli individui compiono certe azioni, cosa li spinge ad agire in un modo piuttosto che in un altro. Weber, inoltre, fa notare che lo stesso osservatore delle azioni sociali, lo stesso sociologo è attore di interpretazione, è portatore di senso, poiché ha una sua cultura, ha dei valori personali. Ciò che si conosce è dunque sempre orientato dall’interpretazione di chi osserva. Da qui l’“a-valutatività” della sociologia. Secondo Weber, c’è una realtà che sovrasta la capacità di osservazione di un essere umano; ciò che vediamo è sempre il risultato di una sola prospettiva, di un solo punto di osservazione. Tutta la conoscenza è quindi segnata dalla soggettività di chi osserva. Weber è convinto che l’osservazione dei fenomeni sociali non è una registrazione oggettiva della realtà, di fatti sociali; tanto è vero che persino gli stessi concetti usati dai sociologi non hanno un significato assoluto. Da questo presupposto nasce il concetto di “tipo ideale” (corrispondente cioè ad un’idea), in cui Weber, nella definizione di un certo fenomeno, mette insieme tutti gli elementi che a suo parere lo caratterizzano. I “tipi ideali” servono per orientarsi nella lettura della realtà sociale, ma sono già carichi di soggettività. Il pensiero di Weber smonta così la pretesa di Marx di spiegare in maniera “oggettiva” il capitalismo, addirittura formulando una legge assoluta, universale. Weber dimostra nel suo libro “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, che è proprio ciò che Marx riteneva una sovrastruttura, la religione, il fattore che è all’origine del capitalismo. Secondo Weber le azioni sono guidate da tre tipi di logiche: - del sentimento, - di un valore da perseguire, - di uno scopo da raggiungere attraverso degli strumenti (razionalità strumentale: l’individuo mette a confronto i mezzi che ha con l’obiettivo da raggiungere; è la logica tipica delle azioni economiche). Weber utilizza quest’impianto per descrivere le caratteristiche che assume la società moderna, partendo dal fatto che il fattore precipuo è quello del diffondersi dell’“agire razionale”, e in particolare l’installarsi della burocrazia. Questo è l’elemento che caratterizza la società moderna: con le burocrazie si afferma l’agire razionale rispetto allo scopo. Per analizzare un sistema occorre partire dal fatto che c’è una disuguaglianza tra gli individui e che questi l’accettano. Occorre interrogarsi su ciò che spinge gli individui ad essere diversi, dice Weber. Questo viene collegato al concetto di potere. Gli individui possono accettare di essere diversi ed occupare posizioni differenziate perché c’è un potere coercitivo che li obbliga ad obbedire; ma questo non può durare a lungo. Allora gli individui trovano forme con cui legittimare il potere: il potere legittimo è quello fondato su principi che giustificano la diversità tra gli individui. Weber chiama il potere legittimo “autorità”. Nella storia gli individui fanno riferimento a diversi modi o criteri di legittimazione: la legittimazione del potere di tipo “tradizionale” (ad es., l’autorità dei genitori oppure il potere monarchico), quella di tipo “carismatico” (ad es., l’autorità di un capo religioso o del capo di un movimento rivoluzionario; è un potere che scompare però con la persona che lo detiene) e la legittimazione di tipo “legale”, basata su norme alle quali chi detiene il potere deve necessariamente rifarsi (chi ha questo potere non può fare ciò che vuole, ma deve sottostare egli stesso alle norme che lo legittimano). Il “potere razionale” è la forma tipica delle società moderne che eliminò l’arbitrarietà tipica degli altri due tipi di potere. È un potere che non è legato alla soggettività, è spersonalizzato, perché è legato alle norme. Le società moderne si caratterizzano per il potere razionale e impersonale, fondamento delle organizzazioni burocratiche. A fronte di una distribuzione diseguale del potere (la gerarchia) le burocrazie, rifacendosi a norme, quindi restando impersonali, e alla razionalità orientata ad uno scopo, sono efficienti. Quanto più gli uomini rispettano le norme, tanto più spersonalizzano il proprio comportamento, tanto più l’organizzazione è efficiente. Weber e Taylor, paradossalmente, arrivano a coincidere nelle conclusioni del loro pensiero; infatti, l’adeguarsi alla “One best way” (oggettivazione delle norme e spersonalizzazione del lavoro) è simile all’agire secondo norme che rendono impersonale lo stesso agire nelle organizzazioni. La razionalità verso uno scopo è un attributo non più degli individui, ma dei sistemi organizzati; la misura della razionalità mezzi - fini viene assunta dalle organizzazioni che definiscono le norme per l’ottimizzazione mezzi - fini. Weber parla di una “gabbia d’acciaio” della razionalità rispetto allo scopo; le organizzazioni estendono sempre più la razionalità strumentale. Che fine fa allora la “razionalità rispetto ai valori”? È la conclusione che Weber pone alla sua analisi.
T. Parsons, a partire dal pensiero weberiano, si propone di creare un modello generale per lo studio, l’analisi, la spiegazione di tutti i sistemi sociali (modello funzionalista). Negli organismi viventi, osserva Parsons, ogni parte svolge una funzione per la sopravvivenza dell’intero organismo, del sistema; ogni parte, attraverso input e output, è connessa alle altre, costituendo una struttura funzionalista. È un funzionalismo detto “forte” perché Parsons sostiene che il sistema sociale è sempre fortemente integrato, in cui tutto funziona come deve funzionare. Le trasformazioni in alcune parti del sistema non mutano l’identità e la struttura del sistema. La teoria funzionalista di R. Merton (funzionalismo “debole”) muove da rilevanti critiche a questo modello parsonsiano. Merton rifiuta l’analogia tra scienze sociali e biologia riguardo alla funzione. Infatti, mentre in un organismo biologico è possibile applicare ad ogni parte un’identità funzionale, nei sistemi sociali non esiste un’identità funzionale tra elemento e funzione: elementi diversi possono svolgere la stessa funzione e diverse funzioni possono essere svolte da uno stesso elemento. La sociologia non può elaborare teorie generali, ma solo teorie di medio raggio, quelle che possono essere sviluppate sulla base dell’osservazione della realtà. I postulati fondamentali del funzionalismo “debole” elaborati da Merton, che sceglie la burocrazia come campo di applicazione, sono i seguenti: a) le società non costituiscono unità integrate in cui tutto funziona per il mantenimento del sistema; b) il grado di integrazione può variare; la società può anche integrare elementi che non hanno alcuna funzione o hanno una funzione contraria al mantenimento in vita del sistema (sono cioè disfunzionali al sistema, come ad es. le religioni sono state spesso elementi di cambiamento in certi sistemi sociali); c) nei sistemi sociali c’è una differenza tra il concetto di “scopo” e quello di “funzione” che non è presente nei sistemi ideologici (ad es. la danza della pioggia ha lo scopo di provocare la pioggia, ma ha la funzione di rafforzare l’integrazione del gruppo). Lo scopo è il fine che l’azione ha agli occhi dell’individuo; la funzione è il fine che l’azione ha in quanto inserita in un sistema da far sopravvivere. Merton parla anche di “funzione manifesta”, quella di cui gli individui sono consapevoli, e di “funzione latente”, quella di cui non sono consapevoli. Il concetto di latenza resta però complesso e ardito (le funzioni sono latenti per chi?). Merton opera una “critica interna” del funzionalismo nel campo delle organizzazioni. Vi sono funzioni latenti, non volute, che determinano l’inefficacia del modello weberiano di burocrazia. Weber parla, ad es., del “ritualismo burocratico”. Nel modello weberiano l’uso di norme generali, astratte, impersonali, è voluto per una maggiore efficienza. Però, di fatto, nelle organizzazioni gli individui imparano a comportarsi secondo le norme, e i burocrati finiscono per trasformare la norma in fine, senza chiedersi se la norma raggiunge il fine per cui è stata creata. Questo è il “ritualismo burocratico”, effetto non voluto: il fine diventa la norma, lo scopo dell’individuo è la norma a prescindere dalla funzione che essa ha nel sistema.
La riflessione di Gouldner e Selznick parte dall’osservazione e dall’esame di casi concreti di organizzazione, da cui ricavano poi dei principi teorici. Secondo Gouldner e Selznick le organizzazioni, fondate sul modello burocratico (razionalità strumentale) non funzionano come dovrebbero funzionare. Per quali motivi dunque le organizzazioni si spostano dal modello per il quale vengono progettate? La risposta è: perché sono proprio i modelli organizzativi che contengono fattori di disfunzionalità; i principi organizzativi stessi determinano disfunzioni. L’attenzione degli studiosi dell’organizzazione si sposta sempre più dai modelli all’agire degli individui; dalle strutture formali, dai progetti si passa ad analizzare l’agire specifico degli individui che vivono e danno vita alle organizzazioni. Già Merton aveva cominciato a pensare alle disfunzioni quali effetti delle intenzioni soggettive dal senso che gli individui davano alle proprie azioni (come le strutture sono progettate - come gli individui agiscono secondo la razionalità individuale; scarto tra il fine e lo scopo).
La ricerca di Gouldner. Egli viene chiamato a studiare il funzionamento di una fabbrica in un momento delicato, ossia quello della successione da un capo ad un nuovo capo. Secondo Gouldner il momento della successione poteva essere analizzato come un momento di burocratizzazione dell’organizzazione: si passa da una gestione informale e personalistica ad una gestione fondata su norme generali e impersonali. Una miniera, proprietà di una multinazionale proprietaria di altre miniere nel mondo, non rendeva più come doveva. La miniera era fatta da settori molto rigidi, senza possibilità di passaggio da un settore all’altro: uffici di superficie (fabbrica di gesso) e miniera vera e propria. Questa miniera aveva un rendimento molto basso, perché c’era stato un capo che gestiva in maniera personalistica, informale, con una serie di regole di carattere paternalistico. Il lavoro era certamente molto umanizzato, ma con uno scarso rendimento. Morto il capo, viene inviato un altro con il compito di applicare le stesse norme lavorative che governano le altre miniere. Il nuovo capo, Peele, cerca prima di tutto di trovare un gruppo di dipendenti che forniscano l’appoggio per rompere la diffidenza. Quindi promuove un gruppo di dipendenti a capi intermedi; questi però ritengono di aver acquisito un titolo già meritato e continuano ad osteggiare il capo. Allora, Peele altera i criteri di protezione, licenziando alcuni per l’arrivo di nuovi macchinari. Il gruppo dei nuovi capi è grato al direttore e accetta le nuove norme, con un conseguente miglioramento del rendimento. Nella miniera, invece, il lavoro era estremamente pericoloso, dove ciò che contava era che chi comandava (squadra di puntellatori) era legittimato a comandare per la competenza e la professionalità acquisita, da cui dipendeva la vita degli altri. Non c’era spazio quindi per altri criteri di promozione. Questo sistema creato nelle miniere fece in modo che la gestione del nuovo direttore non avesse buon esito. Gli operai promossi rifiutarono addirittura le promozioni arbitrarie, perché la professionalità, base per la promozione, doveva essere legittimata da tutti. Il direttore Peele fu quindi rimosso dalla multinazionale. Gouldner fa una serie di riflessioni. La prima cosa che possiamo rilevare da questa vicenda è che tutto l’agire del direttore, orientato alla burocratizzazione, era stato invece arbitrario e discrezionale. Noi non possiamo pensare alle norme come qualcosa che viene dall’alto; le norme in un’organizzazione reale funzionano se le colleghiamo al concetto di potere. Le norme per il direttore erano un’arma per raggiungere il potere, il suo obiettivo. Le norme, dice Gouldner, vanno lette in un modo più complesso di come l’ha fatto Weber. È vero che le norme servono a controllare il comportamento delle persone nelle organizzazioni, dal momento che il controllo diretto è troppo dispendioso. Tuttavia le norme hanno funzioni sia manifeste che latenti. Le funzioni manifeste delle norme sono quelle di: a) schermare chi dà gli ordini (chi comanda non fa ciò che vuole, ma applica la norma); b) rendere legittime le punizioni (l’uso delle punizioni è legittimo, dettato da norme); c) controllo a distanza (senza che ci sia qualcuno che li supervisiona, gli individui hanno un parametro per regolare il loro comportamento nelle organizzazioni). Ci sono anche funzioni latenti, “funzioni di deriva”. Secondo Gouldner, l’esistenza della norma dà la possibilità a chi detiene il potere di contrattare l’uso delle norme; la norma può diventare una sorta di moneta di scambio con i subordinati che può essere utilizzata come un’arma strategica da parte di chi comanda, per raggiungere i propri fini. Infatti, non di tutte le norme si fa lo stesso uso; chi detiene il potere decide su quali norme si può chiudere un occhio, chiedendo in cambio l’obbedienza ad altre norme. Con l’uso contrattualistico delle norme si ottiene la legittimazione di una parte di norme, ritenute fondamentali, e si ottiene il consenso rispetto all’obbedienza di alcune norme. Gouldner dice che nelle organizzazioni le norme sono quasi sempre ridondanti, cioè sono di più di quelle che governano l’organizzazione; poi, in base al rapporto personalistico tra capo e subordinato si stabiliscono quali norme vanno osservate tassativamente. Una seconda conseguenza per Gouldner è che alla fine della ricerca egli teorizza il fatto che ci possono essere non un solo modello di organizzazione, ma almeno due differenti modelli organizzativi: uno basato sul principio della competenza e uno basato sul principio della disciplina. Weber, secondo Gouldner, ha costruito un modello di burocrazia in cui i due principi sono sovrapposti: nella scala gerarchica sembrerebbe che il principio della disciplina coincida con il principio della competenza; quindi gli ordini discendono sia per via gerarchica sia per via di professionalità. Secondo Gouldner, i due principi non sono sovrapponibili; infatti, la fabbrica del gesso funzionava per via gerarchica e la miniera per via di professionalità. Quindi i due sistemi si organizzano con logiche differenti e la differenza si fonda sul tipo di lavoro che si svolge nelle due organizzazioni: per la bassa professionalità, la disciplina, per l’alta professionalità, la competenza. Vi è una terza conclusione di Gouldner, la più importante, conclusiva rispetto al pensiero di Merton. Gouldner riconosce l’esistenza di almeno due modelli teorici di organizzazione: 1) l’organizzazione come sistema razionale, 2) l’organizzazione come sistema naturale. La 1) è quella pensata da Taylor e da Weber, la 2) è quella dell’analisi funzionalista. L’organizzazione come sistema razionale è un’organizzazione in cui il punto fondamentale è la struttura formale dell’organizzazione e le norme che regolano il funzionamento. Vige una razionalità strumentale (mezzi orientati ad un fine); gli individui si adeguano alle norme. L’agire dell’individuo deve adattarsi. La razionalità è nella macchina, nel sistema. Ogni mutamento è un mutamento voluto per rendere più razionale la macchina. Secondo Gouldner è il modello che meglio si adatta alle organizzazioni secondo il principio della disciplina. Il secondo modello teorico concepisce l’organizzazione come un sistema naturale, cioè un insieme di parti interagenti tra loro. Gli scopi dell’organizzazione e il loro raggiungimento sono solo uno degli elementi di funzionamento dell’organizzazione. Le organizzazioni in prospettiva funzionalista hanno come scopo ultimo, infatti, quello di sopravvivere. Paradossalmente un’organizzazione potrebbe trasformare i fini per cui è nata per non scomparire. Perciò ciò che si deve studiare non sono le strutture formali e le norme, ma gli aggiustamenti, le transizioni che fanno sì che l’organizzazione rimanga in vita. L’attenzione si sposta quindi ai soggetti, che contrattano, cercano compromessi tra di loro al fine di mantenere in vita la stessa organizzazione. L’analisi di Gouldner introduce una novità: tra una visione consensualistica e una visione conflittualistica, c’è una via intermedia. Né tutto è consensuale né tutto è conflittuale: ci sono transizioni, compromessi tra chi comanda e chi obbedisce; si contratta sulle norme. Tre modelli diversi di burocrazia: 1) burocrazia apparente: le norme non vengono riconosciute da nessuno perché provenienti dall’esterno; 2) burocrazia impositiva: le norme non sono legittimate da una delle due parti; 3) burocrazia reale: le norme, attraverso una contrattazione, sono legittimate da tutti. Secondo Gouldner, il modello weberiano risulta perciò insufficiente perché non comprende, non ingloba la varietà di forma che le organizzazioni burocratiche assumono nella realtà.
P. Selznick è allievo di Merton, usa perciò l’approccio funzionalista. Anch’egli si sofferma sugli effetti non voluti. Selznick analizza le organizzazioni semplicemente per mettere in evidenza gli effetti disfunzionali, l’impossibilità per le organizzazioni di essere strumenti razionali. Gouldner dice di Selznick che il suo pessimismo è tale che nelle sue analisi non c’è traccia di possibili soluzioni alle disfunzioni. Selznick pare interessato solo alle patologie dell’organizzazione. Il fatto è che Selznick si era ispirato alle opere di R. Michels, studioso tedesco che aveva analizzato il partito socialdemocratico tedesco evidenziandone l’incapacità strutturale, una volta che prende forma, a perseguire il proprio obiettivo, cioè gli interessi delle massi popolari. Il fine originario viene sostituito da quello della propria autoconservazione. Selznick concepisce le organizzazioni come “mezzi di azione” che si muovono poi con una logica propria che porta a non raggiungere il fine originario (strumenti imperfetti di azione, strumenti recalcitranti rispetto al fine da raggiungere, capaci di cambiare il fine per cui sono nati). Secondo Selznick le organizzazioni sono strutture adattive e reattive, si adattano e reagiscono. Si adattano e reagiscono a delle “forze tangenziali”, cioè che fanno pressione sulle organizzazioni e alle quali le organizzazioni devono cercare di adattarsi e reagire per poter sopravvivere. Queste “forze tangenziali” provengono in primo luogo dall’ambiente esterno in cui l’organizzazione si trova calata. L’ambiente è dunque visto come una forza “negativa” che spinge l’organizzazione a deviare dai fini per cui l’organizzazione stessa è nata. La seconda “forza tangenziale” è invece interna e proviene dalla stessa soggettività degli individui che stanno dentro alle organizzazioni. Questi sono uomini dotati di propria razionalità che nessuna norma può condizionare completamente o renderla prevedibile. Con queste categorie Selznick cerca di analizzare la “vita naturale” delle organizzazioni, una “storia” capace di farci vedere le diverse fasi (nascita, sviluppo, consolidamento, forma finale) che attraversa una struttura organizzativa, che come un organismo agisce in modo adattivo e reattivo. Selznick analizza in concreto la Tva (Tennessee Valley Authority): istituzione di livello federale che doveva operare in una zona depressa, che doveva incentivare le forme di sviluppo locali (un forte apparato burocratico, con un programma tecnico cospicuo da realizzare, cercando risorse locali per sostenere le strutture dal basso). Secondo Selznick la finalità è portare aiuto alle popolazioni locali. I fini dichiarati però sono generici, come in tutte le organizzazioni. La popolazione locale è un concetto astratto perché in realtà vi erano gruppi differenti, con interessi diversi; quindi si trattava di scegliere quale tipo di aiuto per aiutare chi. La Tva sceglie di allearsi con i grandi proprietari terrieri, con una serie di clausole tecniche nei progetti. Selznick introduce due concetti importanti: 1) la cooptazione, attraverso cui un’organizzazione può reagire e adattarsi alle forze tangenziali: a) cooptazione formale; è la più evidente, la più esplicita: l’organizzazione coopta forze esterne all’interno dell’organizzazione per partecipare alle decisioni. Secondo S. questo tipo di cooptazione non cambia granché; b) cooptazione informale; permette all’organizzazione di incamerare gli interessi; si piega implicitamente ai valori delle forze esterne. Questo processo è capace di far deviare le organizzazioni dai fini per cui sono nate. Selznick distingue tra a) organizzazione e b) istituzione. a) L’organizzazione è una struttura progettata, vuota, pensata, senza vita propria; b) l’istituzione è un’organizzazione che ha incorporato valori e ideologie, interagendo con l’ambiente in cui vive. Nel processo di trasformazione dall’organizzazione all’istituzione un ruolo fondamentale è svolto dalla leadership, da quegli individui che assumono la capacità di prendere delle decisioni e quindi di dare dei valori e delle ideologie.Si possono distinguere: 1) Decisioni di routine: non sono importanti, perché tutto è prevedibile attraverso le norme; 2) Decisioni strategiche: sono importanti, perché le decisioni prese sono tali da poter anche cambiare il senso e le finalità di un’organizzazione. In questo senso la “storia naturale” della Tva è emblematica: l’organizzazione ha perseguito il fine incorporando l’ideologia di un certo strato sociale dell’ambiente. Secondo Selznick le organizzazioni sono destinate a non raggiungere il fine per cui sono nate. Nell’ultima parte della sua opera egli si occupa della leadership. Alcuni autori hanno inteso questo modo di intendere la leadership da parte di Selznick quale elemento capace di introiettare elementi positivi, valori che permettano all’organizzazione di non deviare dai fini per cui le organizzazioni nascono. Leader è colui che è chiamato a motivare gli individui, a trasmettere i valori e renderli condivisibili (decisioni strategiche).
Alcuni anni dopo si parlerà non più di valori e ideologie, ma di cultura organizzativa, di modo effettivo in cui l’organizzazione prende forma in un certo contesto e agisce. In questo senso il funzionalismo, l’approccio funzionalista, fa ponte tra l’approccio razionalista e quello culturalista. M. Crozier è il sociologo dell’organizzazione il cui pensiero è “più vicino” a noi. Il termine “burocrazia” in Crozier finisce per assumere quella connotazione peggiorativa/negativa che oggi è così diffusa, esattamente l’opposto del senso con cui il termine nacque con Weber. Per Crozier “burocrazia” significa irrazionalità e inefficienza. Questo manifesta la presa d’atto dell’incapacità strutturale delle grandi organizzazioni di essere razionali ed efficienti. I mali maggiori che affliggono la società moderna, secondo alcuni studiosi francesi, e alcuni avvenimenti dagli effetti imprevedibili (ad es., il nazismo con lo sterminio degli ebrei) sono stati causati dalle burocrazie: una grande razionalità che deresponsabilizzava i singoli individui. L’uomo, spogliato della razionalità individuale, ha agito per fini che con la propria volontà e razionalità non avrebbe mai perseguito. L’analisi della scuola francese ristabilisce un principio: il principio della riattribuzione della responsabilità personale degli individui nelle organizzazioni. Crozier ritiene che bisogna restituire responsabilità, libertà, autonomia, agli individui nelle organizzazioni. La progettazione per obiettivi si fonda su questo principio: l’obiettivo viene fatto proprio dall’individuo ed egli stesso sceglie gli strumenti per perseguirlo. Il concetto fondamentale di Crozier è questo: l’analisi organizzativa ha trattato e pensato gli individui prima come braccia (Taylor: uomo capace di produrre energia e quindi lavoro) poi come cuore (Mayo: ruolo delle emozioni). Secondo Crozier ogni individuo è una mente: ogni individuo tende a perseguire delle strategie d’azione. Nessuna regola formale può ingabbiare l’individuo, che pur inserito in un campo strutturato da regole di comportamento, mai cessa di perseguire obiettivi strategici individuali. Crozier tenta di generalizzare ciò che produce le strategie di azione: tutti gli individui, pur in contesti strutturati di azione, mirano ad acquisire un maggiore potere personale sugli altri individui. Crozier riprende così il concetto di potere di Weber (per il quale era fondato sull’esistenza di regole, gerarchico), ma lo capovolge: il potere definito dalle regole formali non esprime il vero potere perché quando è definito dalle regole diventa un potere prevedibile (tutti sanno cosa aspettarsi) e si svuota quindi di significato. La battaglia del vero potere si gioca negli interstizi in cui il comportamento degli individui non è regolato da norme. Il vero potere si annida là dove gli individui possono rendere il proprio comportamento imprevedibile agli altri. Gli operai addetti alla manutenzione era il gruppo più potente nel Monopolio dei tabacchi francese, perché sfuggiva a qualsiasi norma. La dirigenza invece non aveva potere perché si muoveva con assoluta prevedibilità. Il gruppo della manutenzione poteva invece di sua iniziativa decidere su cosa intervenire, come intervenire, per quanto tempo, con conseguenze notevoli sul lavoro degli altri individui, in sostanza “dipendenti” dal gruppo della manutenzione che cercavano di ingraziarsi. Il potere è avere margini di autonomia e di libertà nel proprio comportamento. Le organizzazioni così come sono state progettate, dice Crozier, sono destinate all’inefficienza e alla paralisi. Secondo Crozier, sono incapaci di mutamento perché essendo scheletri di norme, possono mutare semplicemente quando hanno degli apici assoluti di crisi, degli scossoni. Dopo, le organizzazioni si ristabiliscono in una fase di immobilità. Dunque, le organizzazioni possono cambiare solo con violente crisi, che superate, queste tornano a darsi regole che le mantengono immobili. Il funzionamento di un’organizzazione di servizio che si riproduce sempre identica e la dinamica di trasformazione della società creano una separazione tra le due. Per uscire da questa insanabile contraddizione tra organizzazione e società, se è vero che le organizzazioni sono mondi chiusi, ma all’interno gli individui agiscono secondo strategie personali, allora la soluzione è quella di mettere l’organizzazione nelle mani degli individui. L’organizzazione è tanto più efficiente quanto più si può fidare degli individui e si affida alla loro azione. L’organizzazione, in questo caso, si identifica in una serie di obiettivi modificabili, con individui che si attivano per il raggiungimento di essi. In questo senso si parla di “organizzazione flessibile”. L’artefice dell’organizzazione è l’individuo, non la struttura. Se l’individuo ha dimostrato di essere più forte delle strutture di norme, occorre poter puntare sugli individui. Nel momento in cui le organizzazioni allentano le loro regole formali, devono essere certe che gli individui “si devono comportare come si devono comportare”. Muta quindi il rapporto tra individuo e organizzazione: maggiore libertà degli individui significa per le organizzazioni maggiore capacità di controllare in modo non visibile la “cultura” degli individui nelle organizzazioni. Se le organizzazioni si devono fidare, senza allentare il controllo, devono cercare di influenzare il comportamento degli individui dando loro valori (invisibili) che devono diventare i guardiani invisibili (soft) del comportamento degli individui. La cultura è la nuova variabile strategica del modello organizzativo.
Il concetto di “cultura organizzativa” fu introdotto da Crozier, il quale però pensava alla cultura esterna alle organizzazioni. La cultura del contesto nazionale, ad es., influenza il modo di essere degli individui nelle organizzazioni. Crozier fa riferimento alla cultura francese. I francesi hanno un grande rispetto per l’autorità “lontana”, ma sono insofferenti al controllo autoritario diretto, ravvicinato. I francesi vogliono un potere impersonale e indiretto. Secondo Crozier, le organizzazioni assorbono attraverso il comportamento degli individui i tratti caratteristici di un contesto culturale esterno alle stesse organizzazioni. Questo richiamo alla cultura esterna (che entra dall’esterno nelle organizzazioni) diventa diverso nell’approccio “culturalista”, che utilizza cioè la metafora culturale per vedere le organizzazioni come esse stesse “produttrici di cultura”, trasmettitrici di simboli, valori, assunti che influenzano il comportamento dei soggetti che ne fanno parte (su questo s’incentra l’analisi organizzativa degli anni ‘70 – ’80). Questo tipo di approccio cerca di analizzare come le culture diventano un mezzo per controllare gli individui che vi fanno parte. Questo è uno degli approcci che oggi ha più risonanza perché ha come oggetto il problema di se e come le organizzazioni riescono a manipolare la cultura di una società. Questo approccio si è diffuso nella letteratura manageriale che ha cercato di diffondere una sorta di manualistica su come è possibile che chi ha potere in un’organizzazione manovri una serie di simboli che possono trasmettere agli individui elementi che essi incorporano nella loro cultura. Il manager diviene creatore di simboli, manipolatore di comportamenti degli individui, trasmettitore di significati, esperto e gestore dell’emotività in una azienda (le emozioni, muovendosi tra razionalità e irrazionalità, sono un elemento che è difficilmente manovrabile dall’esterno, dagli altri individui).
La parola “cultura”, a livello etimologico, richiama il “coltivare”, seminare qualcosa che poi deve germogliare. È possibile mettere dentro gli uomini dei “semi” di idee, di valori, che costituiscono poi la struttura a partire dalla quale l’individuo svilupperà tutte le sue capacità. Negli anni ’80 Schein, uno psicologo sociale, parlando delle organizzazioni ha importato il concetto di cultura nell’analisi organizzativa definendolo e articolandolo su differenti livelli posti in una posizioni gerarchica: a) uno molto profondo e implicito, di cui l’individuo non è consapevole; b) uno di cui è consapevole; c) uno che si manifesta nel comportamento dell’individuo. L’assunto fondamentale di Schein è questo: il rapporto che l’individuo ha con la cultura è come quello di un pesce nell’acqua, la quale è un elemento talmente dato per scontato che il pesce non si fermerà mai a riflettere su di esso. La cultura rappresenta quella ragnatela di significati dentro cui gli individui si muovono e hanno una visione del mondo, talmente interiorizzati che gli uomini il più delle volte non ne sono consapevoli. 1) Gli assunti, taciti, condivisi (le verità profonde, ciò che gli uomini credono sia vero; le percezioni, i pensieri di base, i sentimenti). 2) I valori dichiarati (le strategie, gli obiettivi, le filosofie), tutto ciò a cui si associa un giudizio di positività (un valore, appunto). 3) Gli artefatti; sono oggetti concreti, visibili, ma anche modi di comportamento, rituali, cerimonie. Questo livello è quello visibile di una cultura, ma sotto ci sono i valori e gli assunti. Questa catena che Schein delinea ci insegna che ciò che noi osserviamo nella vita di un’organizzazione è la punta visibile di un mondo culturale che all’interno dell’organizzazione è fatto di valori e assunti. Secondo Schein, ciò che noi vediamo in un’organizzazione può essere o meno in sintonia con i valori dichiarati; artefatti diversi possono basarsi su valori dichiarati identici. Evidentemente c’è un terzo livello, più profondo: quello degli assunti taciti. Una cultura di impresa si formalizza attraverso il modo in cui un’azienda nasce, si struttura e ha successo. Gli individui imparano che ci sono dei modi “giusti” di fare. Gli assunti taciti sono quelli che si sedimentano man mano che gli individui imparano quali sono i modi giusti di fare; gli individui non li imparano con dei corsi, ma con il racconto della saga, della storia dell’azienda, delle strategie vincenti, dell’esperienza storica che ha dato successo all’impresa. La cultura è profonda, la cultura è ampia, la cultura è stabile, è prevedibile. La cultura di un’organizzazione non è perciò manipolabile, secondo Schein; sono modi di fare consolidati, ritenuti gli unici possibili, convalidati dalla storia dell’impresa. Si possono manipolare simboli, artefatti, cose esteriori, ma non gli assunti taciti. La cultura è il modo di essere di un’organizzazione e crea la parte più stabile dell’organizzazione, quella meno soggetta a cambiamento. Il modello giapponese è quello capace di soppiantare il vecchio modello organizzativo perché contiene in sé una cultura (quella del clan) tipica del mondo giapponese (ad es., l’operaio anziano fa da “balia” al neoassunto).
Il modello post-fordista è quel modello organizzativo che dalla fine degli anni ’80 è stato introdotto da americani ispirandosi al modello giapponese, per teorizzare su questa base dell’esperienza nipponica quello della “fabbrica flessibile” che segnava, a loro avviso, la fine di un’era organizzativa fondata sul modello fordista e l’inizio di una nuova era del lavoro. Sostanzialmente si teorizza la possibilità di un lavoro che nella fabbrica post-fordista diventava creativo, “libero”, dotato di significato. Le organizzazioni post-fordiste erano in grado di ricostituire un lavoro intelligente, governato dagli uomini e dalla loro razionalità; inoltre, questo era un elemento centrale del modello, che tagliava trasversalmente tutti i tipi di lavoro, da quello manuale a quello intellettuale, da quello meno a quello più qualificato. Tutto il dibattito degli anni ’90 ruota attorno a questo tema: la capacità reale che questo modello aveva di trasformare il modello fordista. In Italia la Fiat a Melfi ha introdotto per prima la teoria post-fordista. Il nocciolo della questione è in due termini: autonomia e libertà. Un lavoro più autonomo equivale o no ad un lavoro più libero? Oppure l’autonomia di cui si parla non coincide con la libertà reale dell’individuo ma è un modo diverso di rendere l’individuo succube dei fini produttivi e dei fini organizzativi? Un teorico afferma che nel modello post-fordista c’è un autosfruttamento: l’uomo in realtà essendo più autonomo decide da se stesso di intensificare i livelli del suo sfruttamento a fini produttivi. Qualcuno ha parlato di post-fordismo diviso in un nucleo e in una corteccia. C’è un aspetto esterno che cambia visibilmente; c’è un aspetto interno, il nucleo, nascosto, quello che impone la razionalità del fine produttivo, che rimane invariato, tant’è che lo stesso termine “post-fordismo” in questa linea di ragionamento dimostra che non c’è stata una vera sostituzione del modello, nella sostanza non è cambiato nulla (si è solo aggiunto il “post”).
Lettura commentata del testo di Bonazzi (pag. 166 e seguenti). Passaggio fondamentale: trasformare i vincoli in risorse (intuizione di Ohno), cioè inventare un nuovo modo di organizzazione produttiva che si basasse sui limiti come sue risorse (nasce così l’idea della “fabbrica flessibile”). La logica fordista si basava sulla rigidità della domanda e dell’offerta, con enormi scorte di materie prime per garantire la costanza della produzione. Ohno si rese conto di avere macchine così semplici ed elementari che andavano allestite più volte: questa poteva essere una risorsa a patto che il riallestimento dei mezzi di produzione fosse rapido e praticato da tutti gli operai. Ohno puntò così sulla crescita di professionalità degli operai che, nel giro di pochi anni divennero abilissimi nell’allestimento dei mezzi di produzione (cfr. la fase pre-industriale in cui tutti gli operai erano capaci di modificare i mezzi, ad es. il tornio, per renderli flessibili, adatti alla produzione). La produzione Just-in-time (giusto in tempo) era la produzione variabile, con un approvvigionamento di scorte “giusto in tempo” per produrre. Il primo vantaggio è che il modello organizzativo di Ohno riesce a rispondere ad una domanda flessibile, diversificata e personalizzata. Si parla di “produzione flessibile”: cambia il modo di teorizzare il mercato, la domanda esterna all’organizzazione. Il secondo vantaggio sta nella “qualità totale” dei prodotti. La produzione, essendo a piccoli lotti, poteva essere controllata nella qualità; si poteva arrestare la produzione ed eliminare subito il difetto scoperto. Il target della logica fordista era la quantità; l’efficacia e l’efficienza erano misurate in termini quantitativi. Nella logica del modello giapponese della Toyota l’obiettivo è la qualità.
MIT università di Boston: concettualizzò il modello giapponese come “produzione snella”. Just-in-time: sincronismo tra domanda - produzione - materie prime per la produzione. Sistema “pull”: la domanda “tira” la produzione. Sistema “push”: il management “spinge” la produzione. Just-in-case: approvvigionamento eccedente, risorse di riserva.
La logica del modello giapponese si fonda sul concetto dell’eliminazione degli sprechi, cioè tutto ciò che non è assolutamente utile alla produzione (tempi morti, pause inutili, movimenti eccessivi). La logica del miglioramento continuo (kaizen) è la conseguenza dell’eliminazione dello spreco. Tutti i dipendenti collaborano al fine di migliorare la qualità della produzione (nelle fabbriche giapponesi all’ingresso c’è una lavagna su cui si scrivono osservazioni; ognuno ha una lampadina che, quando vede lo spreco, accende e blocca la produzione per permette di eliminare subito lo spreco rilevato). Nella fabbrica giapponese non esiste una One-best-way a cui tutti devono adattarsi, ma sempre tutto è perfettibile. La ricerca della Qualità Totale (sia ricerca della Qualità di ciò che si produce, che ricerca della Qualità del modo in cui si produce) è un obiettivo che deve sempre impegnare tutti. Non c’è un management che deve preoccuparsi di migliorare la qualità, ma questo controllo nasce dal basso e coinvolge tutti. Proverbio: l’occidentale si ferma nel togliere sassi dal fiume considerando un’altezza ottimale per navigare (One-best-way), il giapponese non finirebbe mai di togliere sassi per rendere il fiume navigabile per navi di stazza sempre maggiore. Ecco perché la tecnologia non deve essere tanto complessa da risultare estranea a chi la deve usare, altrimenti è bloccato il miglioramento continuo.
Secondo Bonazzi il modello giapponese non è un modello organizzativo chiaramente definibile. Ci sono zone d’ombra, meccanismi ambigui, che lasciano aperta la possibilità di operare differenti interpretazioni. Infatti, da un lato è un modello che libera l’uomo e lo rende artefice del proprio lavoro, dall’altro è un taylorismo mascherato, che le organizzazioni attuano per intensificare lo sfruttamento degli individui. Il processo di conoscenza del modello giapponese da parte dell’Occidente lo si può dividere in tre fasi. La prima fase vede il modello fordista quale modello produttivo prevalente in Giappone (tanto da parlare di “nippo-fordismo”. Tuttavia, emergono alcuni aspetti caratteristici delle aziende giapponesi: l’impiego a vita (il legame con l’azienda era fortissimo, a tal punto da connotare l’identità sociale dell’individuo: “Chi sei? Dove lavori?”); la presenza del sindacato è a base aziendale e non a base nazionale (in ogni azienda si stabiliscono i benefici e i costi da garantire; c’è un’autonomia delle organizzazioni nel definire i vantaggi per i lavoratori); il “padrinaggio” (il nuovo venuto viene affidato ad un operaio anziano, che lo segue e lo protegge all’interno dell’organizzazione). La seconda fase inizia verso la metà degli anni ’70 quando si diffonde la moda dei Circoli di Qualità: trascurando gli aspetti organizzativi del modello giapponese, ci si concentra sulla qualità della valorizzazione delle risorse umane; non a caso in quegli anni si registra un’accentuata conflittualità all’interno delle aziende. La terza fase comincia nei primi anni ’80, quando si scopre il successo che risiede in alcune caratteristiche strutturali del processo produttivo, come ad es. la riduzione delle scorte e dei tempi di allestimento. Il JIT rende le imprese estremamente più vulnerabili; infatti, è un modello efficiente se tutti collaborano, ma se uno solo dei membri non apporta la propria collaborazione, tutto il modello va in crisi. Il modello fordista, invece, era più rigido, ma meno vulnerabile, perché si affidava poco agli individui. Nelle fabbriche giapponesi è forte l'idea che chi non collabora non è degno di rispetto; perciò l’operaio si sente motivato al miglioramento della produzione, ad es. con l’utilizzazione ottimale del tempo. Nel taylorismo l’operaio è obbligato a seguire una modalità che gli è stata imposta dal management, mentre nel toyotismo è l’individuo stesso che ha proposto e ha migliorato quella modalità lavorativa che lo sfrutta. È vero che l’operaio interiorizza il fine dell’organizzazione, ma è anche vero che l’operaio ha ottenuto in cambio un impiego a vita, un salario che contratta dentro l’azienda, vale a dire dei benefici consistenti. Il controllo nel modello giapponese è dato dalla produzione che deve evadere una domanda di merci che regola il lavoro degli individui; ciò che possono fare i lavoratori è migliorare i tempi di produzione, la qualità del prodotto e la qualità del flusso di produzione. In questo senso, allora, se la domanda è sempre più sofisticata e i tempi sempre più ristretti, si deve concludere che non c’è un limite allo sfruttamento dell’individuo? |