ISTITUZIONI POLITICHE
Il modo di essere della politica e delle istituzioni della politica, è quello di una forte separatezza rispetto al quotidiano della gente, una sorta di attività legata a un certo ceto che, bene o male, si muove secondo comportamenti e regole mai discusse concretamente.
La politica e le istituzioni politiche hanno la caratteristica di incombere pesantemente nella vita quotidiana e concreta sulla gente, non dando la possibilità a questi ultimi di incidere di contro sulle istituzioni.
Questo modo di essere della politica attiene al modo di essere dello stato nazionale moderno; infatti esso nacque per un verso, accentrando la sovranità, la politica per un altro, sottraendo al popolo ogni possibilità di interferire sulla vita politica stessa. Lo stato odierno è una forma storica dello stato, non è metastorico. Per tantissimi anni il modello era quello feudale: in una gerarchia piramidale, si trovava al vertice l’imperatore che delegava il potere ai feudatari; questi a loro volta lo delegavano ai vassalli, e così via sino ai servi della gleba condannati a lavorare sullo stesso suolo, dando altissime percentuali del prodotto ai propri sovrani. In questa gerarchia piramidale spiccavano forti legami personali tra superiore e inferiore, una stabilità di status che impediva la mobilità sociale, una distribuzione della risorse secondo norme codificate in maniera stabile; un sistema produttivo fondato sull’autoconsumo. Lo stato nazionale moderno nasce sulle ceneri dell’organizzazione feudale. Questa viene messa in crisi soprattutto tra il 1300 e il 1400, dal passaggio da un’economia di autoconsumo ad un’economia fondata sullo scambio, da una economia chiusa ad una aperta. In questo modo entrano nell’organizzazione sociale dei forti elementi di dinamismo. Dalle campagne ci si sposta ai centri abitati, le città, dall’agricoltura al commercio, all’artigianato. Nasce così la borghesia (coloro che abitano nel borgo) che prima sarà commerciale, mercantile, poi diventerà industriale. Nuovi diventano i rapporti tra gli individui, ma anche con il potere. Calano i vecchi ceti, sorgono i nuovi, in un processo di grandi cambiamenti (1300 – 1500) dove un nuovo mondo emerge prepotentemente, generando un certo disordine. Il problema centrale dei filosofi e dei politici è perciò quello dell’ordine. Qui nasce un concetto nuovo della politica che rimarrà fondamentale e fondante fino alla nostra epoca: compito della politica e del politico è di ripristinare l’ordine. Ma quale ordine. La partita si gioca su uno scontro di forze: da un parte i rappresentanti dell’anziano regime e dall’altra le nuove classi sociali soprattutto la borghesia. Questo scontro si protrae per almeno due secoli. Dal 400 al 600 nessuna delle due risulta vincitrice; la forma fenomenica che questo processo assume è quella dello stato assoluto. Parallelamente a ciò che avviene in campo economico e sociale, avviene in campo politico militare, con conflitti che interessano diversi pezzi della socialità feudale. Caduti l’imperatore e il papa, si apre una lotta per la successione. All’interno di realtà territorialmente definite, si affermano determinati casati che si alleano con le nuove classi sociali emergenti per potenziarsi militarmente. Qui, in questo vero e proprio “contratto”, ci sono le radici dello stato nazionale moderno. La borghesia affida al casato la gestione della politica chiedendo in cambio le migliori condizioni per lo svolgimento dei propri affari economici – commerciali. L’ordine da ricostruire deve infatti: 1) essere funzionale allo sviluppo e all’espansione della nuova economia (ecco la nascita degli stati nazionali), che riducano le frontiere e i dazi doganali; 2) garantire la certezza nei traffici, nella transazione, così anche un’unica moneta e un’unica normativa. La delega dunque non può che essere piena: da qui l’aggettivo assoluta sciolto da qualsiasi vincolo, con un potere non soggetto a confronto. Il sovrano ha un solo vincolo interno: si deve muovere in maniera razionale. Questo significa che deve assicurare la “salus” della propria costruzione politica. La razionalità che gli si chiede è tutto ciò che serve a rafforzare lo stato, il suo ordine, i suoi obiettivi; ciò che mette in discussione tali dogmi è da condannare o eliminare. Nasce la “ragion di stato”, ossia l’esigenza di anteporre il bene dello stato a qualsiasi altra cosa, persino all’interesse dinastico. La politica nasce allora come l’esigenza di definire un’ordine, di difenderlo e per fare ciò, il potere deve essere concentrato in poche mani.
Oggi conosciamo un parlamento articolato in due o più camere (camera alta o bassa, dei deputati o senato), ma alle origini dello stato moderno vi furono i parlamenti (al plurale). Questo significa che la funzione fondamentale che il parlamento oggi ha, ossia quella di legiferare, all’inizio non solo non era accentrata, ma era anche frammentata: tanti parlamenti e quindi tante fonti legislative. Questi parlamenti non sono altro che sedi di rappresentanza dei nuovi soggetti della nuova società civile, diversa dalla precedente, ma soprattutto più complessa. Il referente principale è la nascita del mercato: da un’economia autarchica, si passa ad un’economia fondata sulla divisione e sulla specializzazione del lavoro. Così lo scambio tra i soggetti è sempre meno basato sui legami di sangue, sulla gratuità, ma sempre più sulla monetizzazione; nasce appunto il mercato. E’ tipico il fiorire di fiere e mercati quali luoghi (anche di politica) per le nuove esigenze dei mercanti (ad es.la franchigia). Questo tipo di economia accelera vistosamente i ritmi produttivi: in una stessa quantità di tempo si produce una crescente quantità di merci. E’ il risultato di una specializzazione sia degli ambiti produttivi, sia delle figure di lavoratori, i quali si organizzano in ceti, ordini , organizzazioni, corporazioni, che costituiscono i cosiddetti parlamentari. Ciascuno di questi ceti vuol contare di più come oggi. La dinamica del passaggio alla nuova società comprende un grande sviluppo di soggetti sociali nuovi; l’organizzazione dei soggetti su basi corporative, il conflitto tra queste organizzazioni. Questo tipo di società, cetuale, è appunto convivenza sociale, emerge il bisogno quindi dell’ordine. Il problema centrale è come conciliare una produzione ed un’appropriazione di beni e servizi privatistica con un contesto in cui quei beni e servizi hanno sempre più una rilevanza sociale. Questo individuo, sempre più specializzato, sempre più spinto a produrre e ad acquistare, ha bisogno di accedere a cose che non sono sue, ma di tutti. Questo è il paradosso: allora ci chiediamo: come consentire che la logica del mercato, dello scambio, possa svilupparsi senza essere autodistrutta? Questo è il problema di una società che ha al centro il mercato, l’individuo, la quale ha bisogno sempre più di libertà per svilupparsi, ma per questo corre il rischio di cadere in uno stato sociale in cui vige la legge della giungla. Quando la società, come quella rinascimentale, conosce solo il momento della creatività, ma non quello delle leggi, andando in crisi. In Italia si deve attendere il 1800 per la nascita dello stato; la società cetuale si prolunga fino a quel momento. Il problema politico principale tra il 400 e il 500 è quello dell’ordine e i principali pensatori a riguardo sono Bodin e Hobbes. Hobbes è considerato il teorico, il fondatore dello stato assoluto, il teorico della sovranità per eccellenza; egli parte da un presupposto: l’uomo è cattivo. Egli sì, ha un’antropologia pessimista, ma non per un’opinione personale, bensì, perché guardandosi intorno, non vede la società cavalleresca, ma di mercato in cui ciascuno vuole la fetta più ampia di risorse acquisite ricorrendo a qualsiasi mezzo. Hobbes introduce due fondamentali categorie: il concetto di stato di natura e quello di società civile. Per lui l’uomo è un essere naturale, al pari dell’animale, ossia in guerra contro tutti. Se dovesse persistere in questa sua naturalità, cercherebbe il massimo delle soddisfazioni possibili pronto a prevaricare su chiunque. L’uomo è mosso da questo meccanismo naturale: homo hominus lupus, questo è l’uomo nello stato di natura, destinato a rimanere tale se non si costituisce politicamente la società; la politica allora non è solo una categoria sociale, ma diviene condizione esistenziale per la società. La politica porta l’uomo fuori dallo stato di natura e lo proietta nella società civile. Per Hobbes l’uomo ha in se stesso un elemento che lo diversifica dagli altri essere viventi: la consapevolezza, dunque elemento di razionalità. Dinanzi al baratro del nulla, della fine della specie, chiunque si fermerebbe e si renderebbe consapevole che c’è bisogno di regole, almeno una su cui ricostruire. La regola come principio primo, è il diritto alla vita, all’incolumità. Secondo Hobbes lo strumento per ricostruire l’ordine sta nella categoria nel “contratto”. Gli uomini stringono un patto secondo rapporti interpersonali, ma che non comportino l’eventuale messa a repentaglio della vita. Ciò nonostante, se vi è lo stato di natura, competitivo fino alle estreme conseguenze, se vi è il bisogno di una via di uscita, se si è convenuti sul contenuto a cui gli uomini devono pervenire, nulla è stato pattuito su come queste fattispecie devono essere perseguite e rispettate.
Da un’organizzazione sociale e politica gerarchica, si passa ad una concentrica che darà vita allo stato nazionale moderno. In questo periodo, di circa 200 anni, nascono alcuni istituti che rimarranno nello stato moderno, ma con una funzione diversa da quella originaria
Ad es., i parlamenti della società cetuale sono forme di autogoverno di nuove figure sociali, , che prima o poi entreranno in conflitto tra di loro. Lo scenario politico e sociale è improntato ad una accentuata conflittualità tra classi, ma anche tra valori a cui diversi ceti si riferiscono. L’elemento centrale è quello dell’ordine sociale, che possa restituire alla società un carattere bellico, non dissolutivo. In questo contesto si introducono concetti nuovi, prima con Bodin e Machiavelli, poi con Hobbes. Il paradigma fino ad allora predominante è questo: l’uomo è un animale politico, socievole, ma lo è spontaneamente, pacificamente. Menenio Agrippa, aveva concepito la società come l’organismo dove ognuno aveva il suo ruolo, dove gli uni non possono fare a meno degli altri. E’ una visione organistica, funzionale, quella che va dalla polis greca alla civitas christiana. Saltato questo paradigma, l’antropologia degli individui cambia radicalmente. Hobbes sostiene che l’uomo tendenzialmente è un soggetto portato a confliggere con i suoi simili, mosso dall’ispirazione ad essere più ricco, potente, disposto a qualsiasi scontro per raggiungere i suoi obiettivi. Di qui la necessità di porre regole, per passare da questo stato di natura, allo stato civile, da questa situazione di conflitto ad una con norme che danno una effettiva libertà. Secondo Hobbes e una schiera di pensatori, questo passaggio avviene con una categoria detta del contratto, già nota al dibattito e al pensiero (ad es. nel diritto romano il contratto è di natura privatistica, attraverso la quale si relazionano gli individui). Questa categoria diventa di tipo pubblicistico, politico. Si può pensare ad un contratto con questi principi: dare a ciascuno il suo (si deve osservare il patto) non danneggiare nessuno. Questo apparato dovrebbe già di per se consentire una pacifica convivenza sociale; nel momento in cui, grazie alla ragione, si conviene a questo, il problema è risolto. Attraverso il patto di società, gli individui entrano nella società civile ed escono dallo stato di natura. Ma cosa potrebbe accadere nel momento in cui qualcuno, o più di qualcuno, dovesse entrare in conflitto per l’interpretazione dei contenuti di queste norme? In caso di dissenso, di contenzioso, chi decide in ordine al torto e alla ragione? In questo caso lo scontro si riproporebbe e andare avanti all’infinito. Stabilire questi patti fondanti la convivenza non basta: oltre al pactum societatis c’è da stabilire chi deve farsi carico di assicurare che l’ordine sia mantenuto. Certamente non gli stessi individui, i quali sono disposti a rinunciare ad enucleare le ragioni di parte. Serve il pactum subiectionis, un contratto con il quale gli individui rinuncino a farsi giustizia da soli, dunque alla prerogativa della autodecisione. I principi fondanti di questo tipo di patto sono: tutti devono essere d’accordo, e deve essere un patto universalmente condiviso; anche qui occorre la razionalità del singolo, gli individui perciò non possono non convenire su questo. Ma ciò non risolve ancora il problema dell’ordine perché, cosa accadrebbe se in rotta di collisione entrassero da una parte un gruppo di cittadini e dall’altra il terzo che giudica e governa? Anche qui subentrerebbe il conflitto per l’interpretazione del patto. Se si fondasse il pactum subiectionis sugli stessi principi del pactum unionis il conflitto sarebbe insolubile. Si tratta allora di rivedere i contenuti dell’obbligazione politica questa non può essere un contratto di natura privatistica, né essere un contratto tra due parti poste sullo stesso piano, tipico del contratto sociale privato. Nella sfera pubblica non può esserci una parità tra i contraenti: la natura dell’obbligazione politica raggiunge il suo scopo se è un contratto a favore di terzi, rispetto al quale i governanti sono destinatari e non parti; i governanti devono avere tutti diritti e nessun obbligo. Solo se la delega contenuta in questo pactum subiectionis è ampia solo se i cittadini si spogliano di ogni volontà politica, solo così l’ordine sociale può essere raggiunto. Se i contenuti di questo patto sono irrevocabili, quali devono essere i caratteri che i governanti finiscono per assumere? Quali i caratteri che la sovranità prende in questa prospettiva? Sono caratteri di natura assoluta, sciolta. Lo stato nazionale moderno nasce con la formula dell’assolutezza. La delega allora sarà irrevocabile, indivisibile originaria (cioè non derivata da altra, altrimenti sarebbe inferiore) imprescrittibile perpetua, senza soluzione di continuità. Le conseguenza sono notevoli. Viene eliminato qualsiasi corpo intermedio, il rapporto tra governanti e governati è diretto, perché se ci fossero corpi intermedi coesisterebbero più forme di potere con il rischio di vanificare l’ordine sociale. Non solo, ma qui nasce il problema di ciò che è giusto e ciò che è comandato. Il diritto medioevale aveva certo delle regole e norme, ma era diritto comune, era nella consuetudine, nella coscienza del comune sentire. Era dovuto ciò che si riteneva giusto ed era comandato ciò che era dovuto in quanto giusto. Con lo stato assoluto si capovolge il paradigma e la norma viene positivizzata come il comando politico: la norma è quella che promana dall’autorità di chi comanda. Ciò che è giusto non è ritenuto tale da parametri estrinseci (la morale, ad esempio) ma da ciò che è posto (diritto positivo) dal principio. Da qui deriva che solo il sovrano ha il monopolio legittimo della forza, perché ognuno ha rinunciato a fare giustizia da sè. Per il sovrano l’uso della coercizione è un diritto dovere, solo la coercizione del sovrano è legittima, quindi, monopolio del diritto, della forza. L’elemento caratterizzante della nascita dello stato moderno è un movimento di tipo dialettico e apparentemente contraddittorio; cioè proprio quando la società si organizza per darsi un ordine, i cittadini devono rinunciare a fare politica, altrimenti dissolverebbero ciò a cui hanno messo mano, la costruzione sociale. Geneticamente la politica è segnata da questa ambiguità: intanto la società può affermare il proprio diritto al governo in quanto rinuncia a fare politica. Paradossalmente il cittadino acquista la condizione di eguaglianza nel momento in cui diventa suddito. Quelle che erano le differenze di ceto, nella società di transizione, qui si annullano, perché il rapporto con i governanti è diretto; lo status di suddito, inoltre, rende uguali tutti i cittadini. Le differenze sociali esistono, ma proprio per essere ricacciate nel terreno privato diventano in qualche modo non aggregabili; ecco un altro paradosso; l’uguaglianza giuridica dei cittadini convive con la diseguaglianza reale dei cittadini stessi. Queste condizioni si perpetuano proprio in queste istituzioni. La logica di non contraddizione e quella dialettica convivono; solo ciò che è e non è, ha in sè i germi di un cambiamento, di una nuova situazine
Uno dei concetti fondamentali per capire come funzionano le istituzioni nello stato moderno è quello della rappresentanza. Nella fase aurorale dello stato moderno c’erano i parlamenti, istituzioni che tra il 400 e il 500 erano forme di autogoverno dei diversi ceti che andavano definendo una soggettività politica. Nello stato assoluto queste istituzioni o vengono messe in condizione di assoluta ingeratività concreta o vengono addirittura staccate via, perché il ruolo della rappresentanza nello stato assoluto non si concilia con alcuna forma di delega. Uno dei fondamenti dell’obbligazione politica dello stato assoluto è il contratto, un patto di duplice natura. E’ un patto che stringono tutti i consociati che ha per oggetto norme di regolamentazione di rapporti fra i consociati stessi. Inoltre un’altra natura di questo patto è la delega che fanno i consociati ad un terzo che li deve governare, poichè in caso di conflitto tra i consociati occorre un’autorità che non è parte in causa, per ricostruire l’ordine sociale. Questa seconda natura del contratto prevede che il sovrano è il destinatario dei contenuti di quel patto ma non è parte stipulante di quel patto, per non porsi sullo stesso piano dei contraenti ed evitare conflitti tra l’originaria volontà dei governanti e la volontà del governante; sarebbe, in questo caso, un conflitto tra individui o associazioni politiche o religiose di individui e le istituzioni sovrane costituite grazie a quel patto. Il fondamento dello stato assoluto è costituito da una delega irrevocabile a favore del sovrano che non conosce alcun vincolo esterno al suo potere. Quali conseguenze di ordine pratico derivano da questa impostazione? La prima è che non c’è posto per la rappresentanza. All’inizio il rapporto tra il sovrano e i governati è un rapporto che non può accettare una pluralità di soggetti, perché lo stato moderno nasce per unificare realtà sociali, commerciali, etniche. tra loro differenti e nasce dall’esigenza della struttura produttiva che è l’espansione e qualificazione dei mercati. Non a caso Macchiavelli nel il Principe assume come modello il Duca di Valentino, sanguinario, ma capace di mettere tutti d’accordo, con le buone o le cattive. In Europa, tra il 500 e il 600 sta accadendo questo; alcune grandi case regnanti stanno stabilendo un assetto geografico e politico totalmente nuovo rispetto al passato. Sarà il fenomeno che più tardi vivrà l’Italia con il risorgimento: un’occupazione territoriale militare da parte del regno Sabaudo. Non a caso, alla base della nascita degli stati nazionali, c’è la costituzione dell’esercito professionista. Si assiste ad un’espansione ed unificazione dei mercati mediante la forza militare, ecco perché la delega data al sovrano è assoluta senza vincolo di mandato, nè di rappresentanza. Questo non significa che sia una delega senza consenso; il punto è che le esigenze delle classi economiche in ascesa, i loro interessi, coincidono, e si conciliano con la realizzazione del disegno politico che lo stato assoluto assume su di sè. Lo stato e le istituzioni statali moderne nascono sul compromesso tra borghesia e grandi dinastie nazionali; i ceti borghesi cedono il compito di unificare, regolare il mercato e in cambio ottengono una sorta di carta bianca in ordine alla possibilità di migliorare la propria produzione e la propria e l’attività commerciale. C’è una coincidenza di interesse tra le classi economiche in ascesa e le grandi dinastie desiderose di espansione. Questo modo di intendere il rapporto tra politica e società, è un modo che si perpetuerà a lungo. La costituzione italiana afferma che il mandato dei parlamentari è senza vincolo di rappresentanza; sembra un assurdo se pensiamo agli artt. 1 e 2. La spiegazione sta nel fatto che all’inizio, la rappresentanza è senza delega, senza rappresentanti; ne può essere diversamente. Infatti, per evitare che l’ordine sociale sia messo in discussione, per legittimare la politica, come esercizio per una società ordinata, è necessario che i cittadini ripongano le proprie aspirazioni in un ambito privato e particolare. Si va definendo un rapporto tra politica e società civile in cui i confini non sono tout court aboliti. Infatti, il nuovo ordine dello stato assoluto non è autoritario, perché consente a tutti i cittadini di continuare ad avere le loro idee, di aderire alle diverse confessioni religiose, ma solo se queste assumano carattere di natura privatistica. Il sovrano assoluto non chiede ai sudditi di rinunciare alla propria fede religiosa, ma che questa si riduca ad una sfera privata. Questo comporta che da ora si mette in moto un processo in base al quale ogni cittadino è uguale e allo stesso tempo diverso da tutti gli altri. E’ diverso poichè gli viene assicurata la possibilità di avere una propria opinione; è uguale perché di fronte alla politica (al sovrano) non ha elementi di differenzazzione rispetto agli altri. Spostandoci dalle disuguaglianze economiche, per il modo in cui è strutturato lo stato moderno, al suo interno vive l’eguaglianza politica dei cittadini e la loro disuguaglianza economica materiale. Questo perché viene superato il terreno della società civile da quello della politica; questa scissione sussiste fino a quando i due terreni non sono canali di comunicazione, cioè sussiste con una rappresentanza senza rappresentati, diversamente si rispecchierebbero le diversità della sfera sociale e si creerebbe una situazione di disordine. La rappresentanza nasce senza che ci siano canali diretti di collegamento tra società e istituzioni. Come fa a sussistere una struttura del genere? Lo abbiamo detto: gli interessi dei deleganti e delegati coincidono, sono convergenti. Questo modo di costruirsi dello stato nazionale moderno non ha nulla di repressivo, perché l’assolutezza del sovrano in apparenza è priva di vincoli, ad eccezione di quello interno che è di comportarsi in maniera razionale, ragionevole; se così non fosse non ci sarebbe differenza tra Luigi XVI e il sultano turco e non si capirebbe perché sempre le forme dittatoriali, nonostante l’uso della forza, la propaganda ossessiva, hanno avuto vita breve ed invece i sistemi democratici permangono più a lungo. Lo stato assoluto è positivo perché asseconda le esigenze della borghesia che sono le più opportune in quel contesto storico. L’obiettivo primo del politico è il bene dello stato, non in termini etici, ma nel senso che difende la sua integrità; nasce, dunque la categoria della Ragione di Stato. Un altro elemento positivo dello stato assoluto è la costruzione di una società di eguali. Con la costituzione dello stato assoluto la prima conseguenza è l’uguaglianza dei cittadini, essi sono diversi per etnia, economia, religione, ma eguali rispetto allo stato, e alla possibilità di poter utilizzare il complessivo strumentario giuridico. Proprio a partire dalla condizione di sudditi, tutti i cittadini sono uguali. Questa maniera di essere dello stato nazionale moderno costituisce un modello di organizzazione, non solo della convivenza sociale, ma tra le esigenze delle forze produttive e le leggi che regolano queste forze; è un modello progressivo, unico fino ad oggi per forza di novità
Il meccanismo di rappresentanza che si determina nello stato nazionale moderno sembra porre dei rappresentanti senza rappresentati. Infatti, i meccanismi della delega politica paradossalmente paiono presupporre a prescindere da un lungo legame tra rappresentante e rappresentato. Questo però non vuol dire che il sovrano non avesse una sua rappresentatività, in questo paradossale sistema assolutistico. E’ vero che il sovrano non ha vincoli esterni, ma egli ha un vincolo interno, che più che un limite, diventa un parametro di comportamento. Il limite del sovrano all’altezza della forma dello stato nazionale europeo moderno, è dato dal rispetto della cosiddetta ragion di stato. Per cui non solo non è messa in discussione, ma è rafforzata, ampliata, la consolidatezza sia in termini di consenso che di apparato, prima fra tutti quello militare, poi l’amministrativo, della giustizia e l’intervento nell’economia (in quest’ultimo ambito si pensi al ruolo che lo stato svolge per assicurare che il processo di accumulazione del capitale vada avanti e si incrementi). Questi comportamenti del sovrano dettati dalla giusta ragione altro non sono che quelli che si consolidano alla borghesia come classe sociale emergente, per il rafforzarsi del nuovo sistema economico capitalistico. Il governo politico, delle istituzioni, pur senza avere una delega, non per questo aveva una rappresentatività reale e corposa. Inoltre, lo stato nazionale moderno nella sua variante assolutistica nasce da un patto tra monarchie e borghesie nazionali.: la borghesia delega il potere politico e in cambio riceve le condizioni per affermarsi e svilupparsi come classe socialmente ed economicamente fondamentale. Dalla coincidenza tra gli interessati della borghesia e delle monarchie nazionali è derivato un periodo considerevole di stabilità istituzionali e politica.. Lo stato moderno assolutista, infatti, permane dalla fine del 500 alla fine del 700. Si pongono comunque due questioni importanti: 1) lo stato assolutista nelle sue espressioni normative può o non, considerarsi uno stato di diritto? 2) Nel momento in cui affermiamo che tra la fine del 700 e gli inizi dell’800 comincia lo stato di diritto, intendiamo dire che esso è una novità assoluta o tra questa forma e la precedenza c’è un rapporto di continuità? In verità, nello stato assoluto l’ordinamento non solo è ben presente ma, per due secoli, finisce per essere l’elemento centrale attorno al quale si organizzano le istituzioni e la società civile. Tra gli inizi del 600 e la fine del 700 avviene il processo di codificazione, ossia quell’insieme di norme che avevano segnato il trapasso dallo stato cetuale allo stato assoluto, quella pluralità di ordinamenti giuridici (vedi i parlamenti) si unifica, si semplifica, si ricostituisce attorno ad alcuni istituti fondamentali: la proprietà (diritto sulle cose), il contratto (obbligazioni, condizione necessaria per far circolare le merci), la responsabilità (forma di garanzia e che i traffici si svolgono nel modo più ordinato e coerente). Questo processo di codificazione assume la forma del diritto positivo e dunque la codicistica, innanzitutto civile, ma anche mercantile, commerciale, diventa la griglia normativa attraverso la quale si regolano i rapporti della società in trasformazione ed espansione. Lo stato assoluto si rivela quindi come l’incunabolo, il punto di partenza di un’organizzazione giuridica della società, articolata e complessa. Lo stato assoluto è già una forma di organizzazione di convivenza civile in cui l’elemento giuridico è presente ed assume un ruolo ed un’importanza crescente. Perché questa forma politica ed istituzionale comincia a presentare delle crepe? Come mai questo apparato, sempre più lubrificato, ad un certo punto comincia a perdere colpi? Le ragioni della crisi dello stato assoluto vanno ricercate nel concetto di rappresentanza. C’è un momento in cui gli interessi delle monarchie nazionali e quelle delle borghesie interne coincidono (momento della crescita del capitale, dell’accumulo commerciale). Quando però gli interessi delle monarchie nazionali non corrispondono più con quelle della borghesia, si ha la crisi. Quando accade questo? Quando la costruzione in chiave personalistica dello stato nazionale moderno si accentra al di là della sua valenza funzionale. Il cammino che abbiamo seguito ci ha fatto capire che lo stato si personifica, in una persona fisica, oltre che negli apparati. La personificazione è tale che l’individuo si trasfigura nella dinastia, che dà la continuità (è morto il re, il re vive). La dimensione che viene accentuata in questa dinamica è quella della potenza, dello stato come macchina da guerra. Questo, per un certo periodo fa il gioco delle borghesie nazionali che vedono allargati i mercati ricavando dalle nuove conquiste materie prime a bassissimo costo, quando poi non ci sono più nuovi mercati, ne altre risorse da accaparrarsi, cioè nel momento in cui alla floridità subentra lo scontro tra le diverse dinastie monarchiche nazionali, l’elemento prevalente diventa quello bellico. A questo punto la delega data ai rispettivi sovrani dai borghesi è messa in discussione. Quale è il punto di rottura? Il nervo scoperto, sul quale quel compromesso fu fondato, è proprio quello fiscale tributario. Più lo stato si comporta come macchina da guerra per l’espansione dinastica, più aumenta il bisogno di risorse. A questo punto l’interesse della monarchia, che è di espansione territoriale, finisce per non coincidere più con quelli della borghesia. Questa infatti vuole produrre ricchezza, non distruggere, pagare un prezzo alto in cambio di condizione più vantaggiose. Quando si accorge che il giogo non vale più la candela, allora la delega al sovrano viene meno. La borghesia comincia ad assurgere ad un ruolo non più socio economico, ma politico; il modo in cui assume soggettività politica è la rivendicazione a decidere quanto dare, come e per quali scopi. Il terreno di scontro dunque è quello fiscale, tributario. Qui viene ad essere rivalutato un istituto che perse peso nel periodo in cui lo stato assoluto andava costituendosi ossia l’istituto parlamentare. I Parlamenti, a lungo in silenzio, entrano ora in gioco e diventano il terreno a partire dal quale si vuole ricostruire una nuova razionalità nello stato nazionale. La forma sarà quella del c.d. stato di diritto; all’interno della persona giuridica stato, all’interno della razionalità dello stato monarchico, viene introdotto il principio della rappresentanza parlamentare. Sul dorso di questa nuova forma si gioca l’accordo tra monarchia nazionale e borghesia e nasce lo stato di diritto. In questa nuova forma lo stesso sovrano non può cambiare la norma sulla base dell’interesse dinastico, (che non coincide più con quello della società), ma rende conto, cioè, segue procedure e rispetta i comportamenti dettati dalla norma. Nello stato assoluto vi era una riserva di legge che consentiva al sovrano di rovesciare la procedura; ora con la borghesia quale soggetto politico, lo stato, rimane un apparato distinto dalla società civile, che deve sottostare alla norma e per cambiarla deve rispettare le procedure stabilite dalla norma. Questo non vuol dire ancora che la politica sia stata espunta dalle sedi istituzionali, perché questo nuovo sovrano e il parlamento sono ancora coloro che decidono. La prima trasformazione profonda che emerge, è la nascita del governo parlamentare. Sono compresenti i due principi; quello monarchico e quello parlamentare, in un equilibrio dialettico, dinamico. Il re sa che è libero, ma con limitazione; il parlamento sa che ha competenze in alcune materie, ma non può intaccare le prerogative che spettano al re. Fino a che vi è concordanza, tutto bene, ma quando questo non accade si propone un conflitto di natura istituzionale tra monarchia e parlamento. Gli esiti rischiariono di essere catastrofici, con l’esclusione di uno dei due contendenti. Ma questo in Inghilterra non succede, anzi i due soggetti istituzionali, re e parlamento, sono il perno della potenza inglese. Si verifica però un altro fenomeno; nel corso del ‘700 il re va sempre in Parlamento e sempre più va il suo gabinetto i suoi ministri e, soprattutto il primo ministro, portavoce del re, capo di gabinetto, del governo. Dalla compresenza di re e parlamento si passa alla presenza del re in parlamento. Il conflitto resta, ma il punto è che che ora non necessariamente deve risolversi in termini drammatici, ma con un voto di sfiducia al parlamento nei confronti del governo. Il re mai avrebbe potuto essere oggetto di censura da parte del parlamento, ma il capo di gabinetto si; infatti, viene destituito. Questo meccanismo della rappresentanza viene ripristinato in un rapporto tra società e politica ancora come sfere separate; ma questa forma di rappresentanza è fondata sulla fiducia che il governo riceve da un parlamento che rappresenta le ragioni della borghesia. Certo, il limite di questa rappresentanza è che l’unica classe, egemone, è appunto quella borghese. E’ da sottolineare che, dove le istituzioni non evolveranno in questo modo, si avranno effetti drammatici: es. la rivoluzione francese.
Il passaggio dallo stato assoluto allo stato costituzionale è un passaggio che si sviluppa secondo tempi e cadenze differenti a seconda dei paesi europei. Questo significa che le forme specifiche variano da nazione a nazione, in relazione alle forme che questo processo assume nelle varie nazioni deriverà un assetto costituzionale variegato e articolato nei diversi stati. Da un punto di vista classico, il restringimento della prerogativa regia avviene soprattutto in Inghilterra nel secolo XVII. Questo secolo risulta cruciale per la storia europea in quanto si registra una crisi profonda della cultura europea. Il secoli 1400 e 1500 erano stati i secoli che avevano riscoperto la saggezza degli antichi e avevano posto all’ordine del giorno i punti forti della cultura occidentale (Platone, Aristotele, Seneca, Cicerone), secoli che avevano prodotto una rottura profonda con il Medioevo, generando l’età moderna. A confronto di questo processo che ebbe toni entusiastici, il 1600 risulta un’epoca di crisi, poichè si fa strada un atteggiamento meno ottimistico e più problematico. Una forte spallata all’equilibrio di quella società europea la diede la riforma protestante e dalla seconda metà del 1500 parte la crisi di quell’ordinamento per ceti che diede vita allo stato assoluto. Questo era nato con la progressiva espropriazione dell’attività politica ai cittadini; questo fu il prezzo che i sudditi pagarono per la pace sociale. Questo contesto di depoliticizzazione però, per le coscienze intellettuali significò un forte ripiegamento interiore, nel ‘600. Il problema e la possibilità di un intervento sul mondo per una trasformazione di esso, viene come rimosso. Neutralizzatosi, il conflitto sociale, la creatività si spegne. Nulla più è certo, di tutto si dubita, è la conclusione a cui giunge Cartesio; ma vien fuori anche con una certezza: il soggetto è certo, vive, esiste perchè pensa. Dalla certezza dell’esistenza soggettiva si comincia a ricostruire il soggetto che assume però come problema il rapporto con gli altri e con il mondo. Nel momento in cui la costruzione dello stato assoluto è completata, la nascente classe borghese, che si avvia ad essere cosciente di sé come soggetto politico, si incrocia con una situazione dello stato che le sfugge perché le sedi della partecipazione politica sono venute a mancare. Da un lato c’è l’esigenza di riaffermare e consolidare l’ordine costruito con lo stato assoluto, dall’altro l’affacciarsi della soggettività borghese, che non si riduce solo ad essere soggetto economico, ma soggetto politico, storico, morale. Questo avviene in Inghilterra per la crisi monarchica verificatasi tra il 1500 e il 1600. Alla fine del 500 si estingue la dinastia dei Tudor, che fece dell’Inghilterra uno stato nazionale; altrove invece le grandi monarchie hanno una continuità dinastica. Inoltre in Inghilterra, ha avviato l’accumulazione capitalistica. Questa enorme accumulazione di risorse viene realizzata o con la forza (pirateria) oppure recintando le terre comuni facendole diventare proprietà della nobiltà (Lord), trasformate in pascoli per l’allevamento di bestiame per la produzione di materie prime per la manifattura. La borghesia sia nella sua variante agraria che cittadina realizza così un’accumulazione capitalistica che la rende forte sul piano sociale, oltre che economico. In Inghilterra i tentativi assolutistici degli Stuart si scontrano con questa borghesia che ha già una soggettività ben definita. A monte di tutto questo, in Inghilterra si ha quel diritto comune (common low) che, sulla base della Magna Carta, rimase un punto fermo in termini di garanzie per i cittadini che non ha eguali in europa. Dunque, mentre vi è una tendenza a consolidare lo stato assoluto, la posizione della borghesia si rafforza anche di strumenti normativi collaudati. Si assiste così ad un braccio di ferro che avrà cadenze drammatiche: decapitazione di Carlo I (1649), guerre civili, protettorato. La nuova monarchia (Carlo II, Giacomo II), dovrà fare i conti con questa situazione e accettare un rapporto paritario con il parlamento. Si arriva addirittura a mettere in crisi la stessa successione dinastica (diventa monarca non il figlio di Giacomo II, ma Guglielmo II d’Orange). La prerogativa del monarca, l’ambito di decisione discrezionale, si riduce in chiave esecutiva. Secondo il principio “nessuna tassa senza rappresentanza”, il ruolo del re è sempre meno il ruolo di “uno che comanda” (monarca) e sempre più quello di “uno che governa”. Il punto di avvio è il “re nel parlamento”; re e parlamento sono i centri di imputazione della decisione politica. Questo primo passaggio dallo stato assoluto allo stato costituzionale, comporta un mutamento dei termini del contratto sociale: non c’è più il contratto di Hobbes, ma quello di Locke. I nuovi termini del contratto della monarchia parlamentare, disegnati da Locke, sono questi: è un patto che gli individui stringono tra di loro, ma insieme anche con i loro rappresentanti a cui delegano il proprio diritto di autodeterminarsi. Il patto stretto tra sudditi e governanti è un patto che risolve nella rappresentanza la facoltà politica della società civile, ma questa rappresentanza non è più sciolta da vincoli, ma deve muoversi in modo da essere in sintonia con i bisogni e gli interessi della società civile. Se così non fosse, sarà lecito, allora, invocare la rivoluzione. Sotto l’aspetto istituzionale, si è passati dalla monarchia assoluta alla monarchia parlamentare, ma sono cambiati anche i rapporti tra società civile e istituzioni politiche.
L’elemento caratterizzante dello stato costituzionale, è la divisione dei poteri, introdotta da Montesquieu, il quale, assumendo come modello l’Inghilterra del XVII secolo e contrapponendola alla Francia di Luigi XIV, individuò nel frazionamento del potere assoluto, la garanzia perché si potesse passare da forme di potere assolutistiche a forme di potere limitato. Classica è la divisione in potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Queste tre sfere erano così definite: il potere legislativo aveva il compito di produrre le leggi (che erano tali se avevano i caratteri della generalità e dell’astrattezza – Kant -) che devono valere per tutti, altrimenti si avrebbero avuti atti amministrativi, ossia i decreti; il potere esecutivo che aveva invece il compito di applicare le leggi e creare quegli strumenti perché la legge passasse dall’astrattezza alla specificità; il potere giudiziario aveva il compito di applicare le leggi al caso concreto. Questa schematizzazione del modello tipico, per un verso trova pochi riscontri storici, e per l’altro verso, forza il pensiero. Già Montes quando pensava alla ripartizione aveva in mente un’idea di governo misto, più che limitato; impropriamente pensa al modello inglese. Egli intendeva riattivare i parlamenti e, in particolare, le parti alte di esso, rappresentanti del ceto nobiliare, aristocratico, non perché Montes è l’ideologo della borghesia, ma essendo aristocratico, vuole limitare il potere assoluto del sovrano. Dal 500 al 600, l’aristocrazia europea si rintana sempre più a corte, diventa ceto percettore di rendite e lì dove aveva ancora una certa egemonia (Spagna) farà da freno all’espansione degli stati nazionali. Quello di Montes è quindi il tentativo di conservare i privilegi dei ceti nobiliari, più che incentivare le forze progressiste. La divisione dei poteri che Montes ipotizza impropriamente prende come punto di riferimento concreto l’Inghilterra, perché il ruolo del parlamento in questo stato è diverso da quello che Montes vuole conferirgli. In Inghilterra non c’è distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo; c’è un re nel parlamento che al tempo stesso svolge funzioni legislative ed esecutive, proprio perché il meccanismo che fonda la politica dell’Inghilterra del XVII secolo, è una forma di governo in cui il rapporto tra governanti e governati è di separazione. Generalmente si dice che la teorizzazione politica di Locke è diversa da quella di Hobbes. Ricordiamo come per H. esiste uno stato di natura, con individui senza freno, in cui l’uomo è aggressivo, competitivo., tanto che non vi è norma, ma una guerra di tutti contro tutti. Ad un certo punto, grazie alla ragione, l’uomo capisce che in questo modo rischia di mettere in gioco la sua stessa esistenza. Per questa ragione gli uomini stringono un patto e si danno delle norme per transitare verso un ordine sociale. E’ un patto di unione, un accordo per darsi regole di comportamento, prima di tutto; ma poiché è precario a questo si aggiunge un patto per cui, se nascono controversie o qualcuno si sottrae alla norma, l’ordine viene ristabilito dall’intervento di un terzo, il leviatano, soggetto al quale i governanti delegano il compito i far rispettare le norme. Egli è beneficiario, ma non contraente; diversamente si ricadrebbe nel conflitto. Per Hobbes, dunque, il sovrano è eterno rispetto alla società civile e lo è non perché impone “armata manu” le regole, ma il potere gli viene conferito dai governati in base alla loro rinuncia ad autogovernarsi. La politica esiste e si afferma nel momento in cui gli individui rinunciano deliberatamente alla politica e la affidano al politico conferendo a quest’ultimo il potere di assicurare l’ordine e la convivenza. Questa teoria o meglio questa sintassi, ha elementi comuni sia in Hobbes che in Locke (teoria del costituzionalismo). Anche Locke usa i termini “stato di natura”, società civile, contratti; ma l’opposto di Hobbes, per Locke lo stato di natura è una condizione felice non di conflitto. Nello stato di natura (secondo Locke), ci sono risorse in abbondanza e siccome ogni individuo ha una limitata possibilità di consumo, che senso ha l’appropriazione di risorse che non si possono consumare? Razionalmente parlando, non vi è spazio per i conflitti. Che bisogno c’è allora di uscire dallo stato di natura e di creare istituzioni come quella dello stato moderno? Locke dice che ad un certo punto nella storia viene introdotta la moneta; questo consente un’accumulazione di risorse senza che queste possano deperire. Quella originaria situazione di eguaglianza viene meno e l’accumulazione diventa possibile. Così vi sono alcuni che accumulano risorse in maniera notevole, altri in modiche misure, altri per niente. Dunque, la necessità di una regolamentazione della società nasce quando le originarie situazioni di uguaglianza si diversificano e si articolano. Sullo sfondo di questo pensiero ricordiamo che vi è il fenomeno dell’accumulazione capitalistica in Inghilterra, bisogna quindi fare in modo che chi non ha aggredisca chi ha accumulato. E’ una politica, quella teorizzata da Locke, non già di tipo assoluto, ma con una delega finalizzata a compiti specifici; primo fra tutti l’ordine sociale, la certezza che il meccanismo dell’ordine sociale non si inceppi. Il ruolo che Locke assegna alla politica non è più così diverso da quello di Hobbes. Entrambi vogliono che sia assicurato l’ordine, certo cambia la dimensione e l’estensione della delega politica che in Locke è più finalizzata e più specifica. Ma la natura della delega rimane quella; il politico è soggetto esterno rispetto alla società civile e deve ingerirsi il meno possibile, perché la società civile funziona da sé e il suo compito è di permettere che essa funzioni ancora. Il politico deve perseguire questo scopo conservando la propria “terzeità” rispetto alla società; deve assicurare che il governo svolga in armonia e sia stimolato dalle esigenze della società. Non sarà un governo assoluto, sarà il governo di un parlamento, di un’assemblea, che ma rimarrà comunque “esterno” perché la sua legislazione sarà la griglia normativa in cui la società dovrà svilupparsi e organizzarsi. La divisione dei poteri è perciò artificiale e teorica. Il parlamento inglese nei suoi rappresentanti ha soggetti che non sono investiti di delega diretta. E’ una rappresentanza generale; anche i membri della Camera dei Comuni rappresentano i ceti possidenti, ma senza un meccanismo di delega diretta. C’è una sorta di affinità di interessi tra rappresentanti e una classe egemone della società. Osserviamo ora da vicino il passaggio dallo stato costituzionale allo stato di diritto. Nello stato di diritto, diversamente da altre forme, anche i governanti sono soggetti alla norma; invece, nello stato assoluto il sovrano non è soggetto alla norma in quanto crea e disfa le leggi a suo piacimento. Questa semplice e chiara definizione di stato di diritto sembra corretta, al punto che i teorici dello stato di diritto sono stati i primi pensare allo stato come a un qualcosa di impersonale (per Hobbes era il monarca assoluto; per Locke il re e il parlamento; per Montesquieu il re e le camere). I pensatori tedeschi per la prima volta introducono la categoria di uno stato impersonale. Lo stato è un ordinamento giuridico, un’insieme di norme; ogni norma è posta in virtù di un’altra norma di rango superiore e, seguendo una procedura predefinita, anche essa giuridicamente consacrata, da vita ad una piramide di norme rovesciata , con al vertice una norma fondamentale, dalla quale si dipana l’intero ordinamento giuridico. Questo ripropone quel meccanismo della politica come sfera separata, poiché ogni norma è posta in un processo rispetto al quale i doversi soggetti produttori di norme sembrano svolgere un ruolo funzionale, non sostanziale. Questo è dimostrato dal fatto che la legittimità della norma sta nella sua forma non nel suo contenuto, ossia nella legittimità dell’iter che ha seguito per diventare legge. La caratteristica quindi dello stato di diritto è quella di eliminare ogni elemento di politicità rispetto alla produzione della norma. Ma cosa viene meno se accettiamo questa costruzione? Alla fine la norma fondamentale da chi viene posta? Nonostante tutto la sfera politica si presenta e funziona come sfera separata rispetto alla società civile. Questa costruzione della politica e delle istituzioni politiche non è casuale, ma è quella condizione che risolve una antinomia; tenere insieme in maniera ordinata e secondo un principio di uguaglianza formale una società che è segnata dal conflitto e dalla diversità. Lo stato pone un’eguaglianza formale, mediante l’ordinamento giuridico che, finisce per perpetuare salvaguardandolo tenendolo insieme, un ordine sociale segnato da diversità e disuguaglianza di ogni tipo.
Alla fine del ‘700 nasce una tradizione di pensiero fortemente critica sul modo in cui si è cosituito e sugli esiti che ha avuto lo stato costituzionale. I punti di riferimento più significativi sono Rousseau e Marx. In prima battuta sembra che la sintassi politica che Rousseau usa non sia diversa da quelle precedenti. Anche R. parte da un dato: quello che lo circonda è una società civile e questa costituisce qualcosa di assolutamente diverso da una precedente, la società naturale, di cui è punto di approdo dopo una lunga evoluzione storica. L’uso di questa dialettica, società naturale e società civile, è fatto però in maniera diversa. Il punto di partenza di R. più che politico in senso stretto, sembra essere antropologico, culturale in senso lato. Quello che domina, afferma R., è un comportamento in cui l’individuo è costretto a sdoppiarsi. E consiste nell’accettare convenzioni e regole che lo costringono a vivere in una condizione di sofferenza, di infelicità. La società, che i contemporanei di R.dicevano segnata dalla ragione con una forte valenza di progresso, la migliore dei mondi possibili (Voltaire), con la prodigiosa applicazione della scienza e della tecnica al mondo produttivo (e sviluppi della borghesia), questa società è fortemente criticata da R., perché è in una condizione di grande infelicità, una condizione in cui l’individuo comincia ad avvertire il disagio della civiltà. Infatti, la civiltà non è solo sviluppo, ma anche imposizione di ritmi produttivi e di condizioni sociali in cui le persone ormai interpretano, come su una scena, parti date.R. coglie innanzitutto il fatto che questa è una società diseguale. C’è una divaricazione delle situazioni e collocazioni degli individui nella società (essa sorride a chi l’ha); inoltre proprio questa divisione in classi della società fa si che entrino di meccanismi di emulazione e modelli di comportamento che fanno violenza all’indole propria dell’uomo. R. formula questo dato sotto forma di divaricazione tra l’essere e l’apparire; gli individui, con disagio e con violenza, vivono dilacerati. Questo non è un fatto naturale, afferma R., ma il frutto del rafforzarsi della società civile. Lo stato di natura era una condizione felice e questa si è persa quando si è passati dallo stato di natura, alla società fondata sulla proprietà privata. Attraverso l’introduzione della società privata si è determinata una situazione in cui è succeduta all’uguaglianza, una sostanziale diseguaglianza degli individui. Qui inizia la polemica con Hobbes; lo stato di natura era una condizione di felicità, dice R., non solo, ma la società civile è ancora più infelice da quando si è data delle regole. Apparentemente queste regole hanno salvato l’uomo, in realtà ciò che Hobbes descrive come società naturale altro non è che la società moderna, borghese in cui egli stesso viveva. Una società caratterizzata dalla competizione, dal conflitto dalla spinta ad accumulare risorse. Quel contrattto che per Hobbes ha portato gli individui alla società civile, per R. è un rimedio peggiore del male, perché altro non ha fatto che cristallizzare le situazioni esistenti, legittimare la società di diseguali. Tant’è che ben ha visto Locke quando ha affermato che il governo deve tutelare la proprietà privata, perché proprio questo patto perpetua quella società. Hanno creduto di liberarsi delle catene, ma hanno sottoscritto la condizione della loro schiavitù. Così come nella società civile si è cristallizzata la disuguaglianza e nell’economia la distanza tra chi ha e chi non ha, all’interno della politica il patto di Locke e di Hobbes ha comportato la creazione di schiavi e tiranni, proprio perché la delega che gli individui hanno operato a beneficio del sovrano ha avuto come prezzo la rinuncia alla propria libertà, alla possibilità di autodeterminazione. R. ci aiuta a capire che la costruzione finora avutasi dello stato nazionale moderno è una costruzione all’interno della quale, si sono realizzate condizioni opposte. L’analisi di R. è importante perché, non solo ci rivela i caratteri veri dello s.n.m, ma anche perché inaugura un nuovo filone di pensiero che cerca di riportare la sovranità politica nelle mani dei cittadini. A inizio la parte propositiva del discorso di R.. Se le cose stanno così come le ho descritte, per uscire da questa situazione di infelicità si cono due strade. La prima è quella di tornare all’originario stato di natura. Ma è possibile fare a meno di ciò che si è costruito nel corso di questi secoli? Non è convinto nemmeno R: che lo stato originario di natura sia mai esistito; anche per lui più che un’ipotesi storica è teorica: serve a dire che l’uomo sarebbe felice “se non fosse costretto dal sistema lacerante di questa società divisa in classi”. Tornare indietro è impossibile, pensarlo è utopico. Allora, se il disagio della civiltà nasce dal fatto che ha fondato l’obbligazione politica, basta cambiare i contenuti di quel patto per venirne fuori ora il contenuto del patto voleva guadagnare un ordine sociale, pagando però il prezzo della consegna della libertà. Per R. va conservata la ragione del contratto sociale. Il contenuto a prima vista è identico al “pactum subiectionis” di Hobbes: trasferimento di ogni facoltà di autodecisione politica. Ma a chi trasferire questo potere: al sovrano terzo o alla comunità dei cittadini, come dice R.? In questa visione l’esigenza dell’ordine passa attraverso lo spogliarsi che gli individui fanno all’autogovernarsi, a gestire in prima persona le vicende storiche, ma per la prima volta questa rinuncia non passa più il conferimento di questi poteri ad un soggetto etraneo ed esterno agli individui, bensì alla comunità stessa. Qui c’è la radice teorica del principio di sovranità popolare. Ma il popolo di un’attimo prima è lo stesso di un’attimo dopo? Prima è una moltitudine di individui; è solo attraverso l’accettazione di una sovranità e il riconoscimento reciproco degli individui che diventa popolo, e questo lo fa, riconoscendosi come soggetto sovrano, cioè soggetto apportatore di una volontà generale. Apparentemente il problema è risolto; ma è proprio così? secondo R:, questo meccanismo consente per un verso di fondare l’uguaglianza degli individui, poichè tutti rinunciano alla libertà, e per l’altro verso consente a tutti di essere in una condizione di libertà. Infatti, avere consegnato il potere ad una comunità di cui si fa parte, e come averlo consegnato a se stessi. Inoltre quel potere non è quello di prima (personale, individuale, suscettibile di conflitto con gli altri), perché avendolo trasferito alla comunità ora quel potere è garantito, perché appartiene collettivamente alla comunità di cui si parte. Questo meccanismo consente di mantenere l’uguaglianza (tutti rinunciano a......., consegnano a.......) e la libertà. Il potere ritorna con una garanzia maggiore che prima non aveva; la garanzia della libertà dove le regole sono dettate dalla volontà generale che si chiamano leggi. E’ una libertà assistita dalla forza della legge che la società si è data con la volontà generale. R. è considerato il teorico della democrazia. Ma questa volontà generale, che è di tutti, in che modo prende forma? Attraverso quali istituzioni politiche è possibile, se è possibile, conciliare quell’antagonismo logico di fondo della società moderna: tenere insieme ordine e conflitto?
Con R., per la prima volta viene evidenziato che quel rapporto conflittuale degli individui non è ascrivibile alla loro indole naturale, ma è la risultante di una società storicamente determinata. Merito principale di R. è quello di averci mostrato come la teorizzazione della politica fatta fino ad allora altro non era che il riflesso di una situazione sociale storicamente puntuale. Ora, se questi comportamenti sono il frutto di un determinato contesto sciale, allora la soluzione politica data è peggiore del male, dice R. La società moderna, senza fondamenti metafisici, ontologici, naturalistici, se ha il problema dell’ordine sociale, la soluzione politica data è contraddittoria rispetto all’esigenza originaria di ordine sociale. Delegando la politica ad un “terzo” gli uomini hanno dato il via ad una diminuzione della politica che li ha soggiogati: essi, infatti, non possono autodeterminarsi, nè possono ripristinare una condizione di eguaglianza effettiva e tanto meno di libertà. Secondo R., i contenuti del contratto vanno radicalmente cambiati. Innanzitutto, la delega che gli individui fanno va rivolta all’insieme degli individui medesimi cioè alla comunità; questa non è una espropriazione delle proprie capacità di autogoverno, perché il beneficiario di questa delega è in fondo lo stesso individuo, il quale non è solo governato, ma governante, con e nella sua appartenenza alla comunità. Questo tipo di contratto consente di ripristinare condizioni di uguaglianza e di libertà. Di eguaglianza, perché ciascuno egualmente, consegna la propria capacità di decidere. Di libertà, perché questa delega viene fatta non a qualcosa di “altro da se” ma a qualcosa di cui ciascuno fa parte: il corpo sociale. Inoltre, questa capacità di governo viene ridata dal corpo sociale aumentata nella qualità: infatti, essa è legittimata dal consenso generale, al riparo da qualsiasi pericolo. La condizione essenziale del contratto sociale, dice R., è che esso sia stipulato da tutti. Tutto è quindi risolto? No e R. stesso ne è consapevole. Se vi è identità tra governati e governanti, chi governa e su chi? Ovvero, in cosa consiste questa mitica volontà generale? E’ la volontà della maggioranza? Ma la generalità è qualcosa di più della maggioranza. E la volontà di tutti? Nemmeno, perché la volontà di tutti è la sommatoria di interessi. La volontà generale secondo R.allude ad una sintesi di interessi, ad un trascendimento di posizioni particolari, al riconoscimento di una sorta di interesse generale. Se è questa la volontà generale, allora chi la interpreta? In quali sedi, con quali soggetti essa prende forma? Come si passa dalla somma delle volontà particolari all’interesse generale? R. individua una figura particolare, che egli chiama “il legislatore”. Rispetto all’apparato razionale, alla soluzione concreta del rapporto governati - governanti, la strada che sceglie R. è per certi versi irrazionale e sconcertante. R. si rende conto che tutti gli individui insieme non possono governare; dunque un’ identità tra governati e governanti si scontra con la difficoltà di produrre le norme, soprattutto se non si vuole rinunciare al principio secondo il quale “non deve esserci delega”. Il “legislatore”, di cui parla R., chi è? Proprio nel 900 si possono trovare esempi ad hoc. Si pensi al ruolo che i partiti unici hanno avuto nei regimi totalitari. Nell’URSS il partito comunista bolscevico formalmente non aveva nessun ruolo: c’era infatti un parlamento, un governo, un presidente della repubblica, dei ministri; tuttavia, le decisioni più importanti le prendeva il segretario del partito. Come dice R.”un soggetto che interpreta le istanze vere del popolo, i contenuti autentici del contratto sociale”. Quando viene meno la formalizzazione della politica, l’esito non è uno stato di diritto, ma una società retta sulla base di un principio di forza. Ci chiediamo: il pensiero di R., democratico nella sua radice, come mai ha un’esito totalitario? R. ha visto solo un’aspetto della modalità di essere della società moderna; ha visto precisamente la politica come alienazione e dunque voleva la riappropiazione della facoltà politica del popolo. Egli non ha colto il fatto che nella società borghese moderna la politica non è alienata a caso, ma lo è perchè si tratta di una società di diseguali, una società divisa in classi, all’interno della quale si contrappongono non solo interessi individuali ma anche interessi tra classi economiche autoreferenziali, tra classi politiche antagoniste. Il modello di R. può funzionare solo in una società che già in partenza è omogenea; in un’altra società attraversata dal conflitto, si hanno esiti contrari ai fini. Una sorta di eterogenesi dei fini. Si deve dunque analizzare la struttura della società moderna per capire che nesso c’è tra sfera della società civile e sfera della politica all’altezza dell’affermarsi della produzione economica capitalistica, e capire come questa funzione, in questo sistema moderno, e non solo economico, ma anche sociale e politico
La critica di R. non riesce però a cogliere che l’istanza coerentemente democratica non può misurarsi con la maggiore o minore omogeneità della società che egli assume come punto di riferimento, il limite è che una società, non organica, non omogenea, divisa in classi, non può trovare nelle istituzioni che R. ipotizza, la sua forma politica. Questo non significa che una coesione politica e un funzionamento istituzionale lo stato moderno non la conosca tra il 1800 e il 1900. Il problema è quello di capire come possa la politica, e in particolare le istituzioni della politica, tenere insieme una società civile sempre più attraversata da differenze profonde e da conflitti radicali. Chi ci fornisce delle chiavi di lettura in ordine alla spiegazione di come la politica possa compiere il miracolo è Marx. Egli si muove da un’angolazione non immediatamente politica ma economica. Su un punto particolare si innesta la riflessione marxiana: come funziona strutturalmente la società moderna (siamo in pieno (800). La società moderna è una società caratterizzata da alcuni elementi forti, specifici nuovi rispetto alle società precedenti: 1) la proprietà privata, ed in particolare gli strumenti di produzione, elemento che differenzia la società moderna sotto il profilo della proprietà privata rispetto alle società precedenti, 2) la divisione del lavoro, che costituisce una tendenza inarrestabile della società moderna. Da questi due presupposti scaturisce una prima conseguenza; questa società può funzionare solo grazie allo scambio; proprio perchè nessuno è in grado di fare tutto da se ognuno è costretto a scambiare i propri prodotti e servizi con quelli degli altri. Lo scambio generalizzato e crescente è un’ulteriore caratteristica della società moderna. Il luogo in cui lo scambio avviene è il mercato, lo strumento dello scambio è il contratto. Corollari di questi principi sono l’uguaglianza degli individui e la necessità continua di relazionarsi gli uni con gli altri senza poter fare a meno di questa condizione di eguali. Da questo punto di vista la società moderna si mostra più libera, più progressiva, più egualitaria rispetto alle società precedenti. La tendenza connaturata a questa società è quella di espandere sempre più queste sue caratteristiche e prerogative, quali l’uguaglianza e la libertà, se questa è l’istantanea della società moderna, come mai ci sono tante diseguaglianze (magari con protagonisti e modi sempre cangianti? E’ una società questa libera, dinamica, e tuttavia una società che, in qualsiasi “fotogramma” la cogliamo, presenta condizioni profonde di diseguaglianze. Anzi queste diseguaglianze, stratificate, sono una produzione proprio di questa società moderna, progressista e liberale, Marx parte dalle viscere “della produzione”, dallo scambio fondamentale che avviene tra lavoratori e detentori degli strumenti di produzione (la borghesia, classe numericamente ristretta). I lavoratori sono i produttori, ma non i proprietari dei mezzi; sono proprietari solo delle proprie braccia. Siccome per produrre i lavoratori devono congiungersi agli strumenti, il primo scambio è fra coloro che vendono il proprio lavoro salariato e coloro che l’acquistano, fra proletariato e borghesia. Quali sono le caratteristiche di questo scambio? A prima vista si presenta come libero ed eguale. Libero nella misura in cui nessuna autorità costringe il proletariato a vendersi sul mercato. Quindi uno scambio libero, come è libero qualsiasi contratto in questa società moderna. E’ inoltre uno scambio eguale, perché avviene tra soggetti giuridicamente uguali, anche se diversi sociologicamente parlando. Uno scambio eguale nella forma, ma anche nella sostanza, nel senso che il prezzo del salario è a sua volta oggetto di una libera contrattazione. Allora i lavoratori accettano di vendere la propria capacità lavorativa, quando la ritengono adeguatamente remunerata. Se lo scambio tra proletari e borghesi è uguale, perché al termine del ciclo produttivo, nelle mani dell’imprenditore, detratti tutti i costi della produzione ivi compresa la retribuzione dell’imprenditore resta un di più che si chiama “profitto”? Se uno scambio è eguale, dove nasce il profitto? E’ un’arcano, dice Marx. Non vi è alcuna astuzia, si suppone che gli imprenditori raggirano i lavoratori; questi infatti ricevono un salario pari ai costi per la sussistenza, perciò equo. Il punto è che la merce forza - lavoro diversa dalle altre merci, ha una sua peculiarità unica e irripetibile: tutte le altre merci si consumano, mentre la merce forza - lavoro non solo non si consuma, ma produce una quantità di valori o di valore superiore a quella che è stata anticipata sotto forma di salario. Il plus valore che il lavoratore produce resta nelle mani dell’imprenditore. La logica di funzionamento del mercato sviluppa un’aumento delle differenze sociali, anche in termini assoluti la condizione dei proletari migliora. Anzi quanto più cresce la ricchezza, tanto più essa si concentra in poche mani. Gli scambi sono sì eguali, ma è il modo in cui la società funziona che rende diseguali le classi. La politica è il luogo in cui trovano consacrazione i principi e le regole di funzionamento di questa società perché prevede l’eguaglianza dei cittadini e l’unificazione degli interessi e delle scelte in funzione della garanzia dell’ordine esistente. Lo stato, gli apparati, la politica, non sono altro che la strumentazione che garantisce il mantenimento di questo “ordine”, che apparentemente si presenta naturale e ovvio, ma storicamente è un processo lungo e finalizzato al funzionamento di questa macchina.
Lo scambio che si verifica tra borghesia e proletariato è apparentemente egualitaria; non vi è infatti alcun elemento di coazione, si è in un meccanismo istituzionalizzato. Il lavoro che viene fornito nella prima parte è capace di essere retribuito dal salario, ma di quello in più, il plus lavoro, e di quello che ne deriva, il plus valore se ne appropria il capitalista, l’imprenditore. Se questo è lo schema che Marx individua nel cuore della produzione e che gli consente di spiegare come e perché le diseguaglianze si producono e si riproducono, rimane da spiegare il rapporto, il nesso che tutto questo ha nei confronti delle istituzioni politiche. Marx usa categorie di critica della politica . Mrx parte da un fatto: l’uguaglianza giuridica non solo è un dato reale, ma è un dato positivo e progressivo (di progresso) rispetto a forme precedenti di società. Marx va oltre la critica di chi si limita a rinfacciare alla società moderna il fatto che la stessa uguaglianza giuridica e politica non sia sempre rispettata (basti pensare al ristretto numero degli aventi diritto di voto). Marx afferma che anche se le condizioni di uguaglianza formale, giuridica, dovessero realizzarsi fino in fondo negli assetti istituzionali e negli apparati decisionali, non si verificherebbe una vera democrazia. Anzi, continuerebbe a riproporsi un meccanismo di alienazione simile a quello economico - lavorativo. Il lavoratore, nel momento in cui entra nel ciclo produttivo, vede il proprio lavoro alienarsi e nel momento in cui tutti si recano a votare, delegano la loro sovranità e quindi alienano la propria capacità di autogovernarsi a vantaggio di una minoranza di individui, rispetto al corpo elettorale che la espressa. Questo cosa significa che c’è qualche inganno? No dice Marx ma è l’inevitabile conseguenza del modo in cui la politica è venuta a strutturarsi all’altezza dello stato moderno. Infatti, lo stato n.m.nasce dalla privatizzazione del conflitto, a cominciare da quello religioso (confronta il periodo successivo alle guerre di religione). Questo meccanismo si è ripetuto fino a far si che la spoliticizzazione arrivi a toccare il sociale. Le istituzioni non a caso, hanno una collocazione e un funzionamento separato dalla società. Se il conflitto travarica il sociale, le istituzioni politiche esplodono. Questa spoliticizzazione è un dato che si costituisce in maniera organica con i processi di funzionamento della società moderna. (per Hegel, la stessa rappresentanza politica deve farsi estranea alla società, ossia al conflitto). Fino a quando la sfera della produzione sarà segnata dal meccanismo che genera la diseguaglianza, la conseguenza sarà un’assetto delle istituzioni sempre più separato, alienato, attraverso una serie di apparati e strumenti di consenso e di controllo/repressione. Questa idea della politica di Marx investe il modo stesso di funzionare e di essere della società. Questa critica sposta il punto d’attacco, nel senso che fino a quando la critica della democrazia e dei limiti della democrazia rimarrà estranea alla critica della produzione, rimarrà infeconda incapace di cambiamento. La conseguenza è di questo tipo: Come l’ordine feudale è stato rovesciato grazie all’iniziativa di un soggetto sociale, la borghesia, che si è costituita come soggetto politico, decapitando il vecchio ordine, così dai limiti e dalle agonie politiche si verrà fuori solo se si sarà costituito un nuovo soggetto storico, portatore di cambiamento antagonistico all’ordine costituito. Con l’arma della critica, Marx vuole opporsi all’ordine dato. Quando si sarà costituito un soggetto economicamente e politicamente protagonista, allora è possibile il capovolgimento della società capitalista. Come si potrà costituire questo soggetto? Come dovrà e potrà ribaltare l’ordine esistente? Come e perché questo soggetto politico non è riuscito a ribaltare le istituzioni moderne? quali risposte gli stati moderni hanno dato. Marx parte dall’economia: lo scambio tra lavoro salariato e capitale, ha come conseguenza la sovraproduzione e il sotto consumo. L’insieme delle risorse nelle mani dei proprietari dei mezzi di produzione non vengono sempre spese completamente; una parte si risparmia e non è detto che vadano nel ciclo produttivo. La distruzione di risorse (stop) è divenuta una necessità per ripartire (and go). Le guerre sono un’occasione favorevole per una distruzione delle risorse, anche umane, e gli ultimi due secoli lo hanno dimostrato. Per Marx, le crisi di sovraproduzione e di consumo aumenteranno; cresceranno i profitti e quella parte che non viene reinvestita (cfr.Wall Street, 1929 : disoccupazione, inflazione, povertà, tangibile). Dopo questa crisi entreranno in scena nuove forme politiche: fascismo e nazismo. Marx preconizza la proletarizzazione crescente, cioè la classe proletaria è destinata ad aumentare, mentre la borghesia a ridursi sempre di più. Crisi economiche continue, caduta del saggio medio del profitto porteranno, secondo Marx, all’estinzione dello stato liberale. Questo si verificherà sino alla fine della I guerra mondiale con una serie di novità politiche e istituzionali.
Lo stato odierno è diverso da quello di un secolo fa, anche se la cornice complessiva della politica e delle sue istituzioni, entro cui ci troviamo oggi è analoga a quella dello stato ottocentesco. Si tratta allora di capire: 1) come mai vi siano state differenze anche radicali rispetto alla variante liberale dello stato ottocentesco; 2) come mai, nonostante queste trasformazioni, i meccanismi di funzionamento siano riconducibili a quelli dello stato ottocentesco. quando M.. critica la società borghese, lo fa non per una ragione di carattere etico; non dice “questa è una società ingiusta”, perché un giudizio di valore resta comunque soggettivo. La competitività ad es., può essere giudicata sia come aggressività che come creatività. Il problema è capire invece se all’interno dei meccanismi descritti vi siano o no elementi di contraddizione. Si tratta cioè di capire se i modi di produzione e i modi di organizzazione della società capitalistica abbiano elementi tali da provocare crisi al sistema stesso. Secondo la lettura dei teorici del liberalismo, contraddizioni non dovrebbero esserci; anzi, proprio questo sistema dovrebbe assicurare libertà e possibilità di sviluppo per tutti. Il nostro sistema - dicono - non può che essere di equilibrio, nel senso che attraverso il libero confronto della domanda e dell’offerta si giunge ad un complessivo equilibrio che trae sanzione nei prezzi che si definiscono nel mercato; tutto dunque va in ordine. Infatti, se di una merce vi è un’eccesso di offerta, diminuirà il prezzo e salirà così la domanda fino a bilanciarsi con l’offerta. Questo meccanismo, secondo i teorici dello stato liberale si riflette su tutti gli aspetti della società di mercato, al quale dovrebbe conoscere situazioni di disequilibrio puramente transitorio. Il punto è che questa è una enunciazione teorica che non trova riscontri a livello pratico. Soprattutto non trova riscontro la teoria secondo cui non dovrebbero esserci crisi di sovraproduzione e sottoconsumo. Nella realtà, ad es. nel settore delle abitazioni, vi è un’eccesso di offerta tante case sfitte e un eccesso di domanda (tanti cercano casa). Nel mercato del lavoro convivono situazioni di grave disoccupazioni e situazioni dove la domanda di forza lavoro non trova risposta. Gli ideologi politici del liberalismo sostengono che lo stato deve avere in tutto ciò un ruolo minimale , percchèpartono dal presupposto che la tendenza è l’equilibrio. Ogni intervento esterno non potrebbe che peggiorare le cose. La teoria politica del liberalismo vuole dunque una rigida distinzione tra politica e economia, governo e società. Le istituzioni politiche dovrebbero al massimo assecondare le naturali tendenze del sistema. Ma se si determina uno squilibrio nel mercato e da questo nella società, ad essere messa in discussione per prima sono state le istituzioni politiche. Viene subito messa in crisi la legittimità e la legittimazione a governare della classe dirigente. Marx, avendo colto le ragioni strutturali in base alla quale la società capitalista andava incontro alla crisi dei suoi meccanismi, profetizzò una vicina caduta dello stato liberale. La dimensione della crisi economica tra l’800 e il 900 fu tale che ebbe un’andamento cercando di evitarlo con il colonialismo, in una sorta di esportazione delle contraddizioni interne all’occidente capitalista. Ma quando la soluzione coloniale si rivelò insufficiente, venne fuori la soluzione classica, la guerra, ma questa volta in una dimensione ed intensità a dir poco inaudita. La conseguenza fu una grande insubordinazione sociale: la messa in discussione della legittimità a governare delle vecchie classi dirigenti.. negli anni ’20 è lampante l’attualità della rivoluzione, ossia di rovesciamento dello stato liberale. Da questa situazione si viene fuori in due modi: 1) o attraverso la sostituzione dello stato liberale con lo stato totalitario; 2) oppure attraverso una modificazione profonda del rapporto tra politica e economia, ossia un rimodellamento del modo di funzionare delle istituzioni nello stato liberale. La seconda è la risposta che danno alla crisi, gli stati che conservano un sistema democratico – liberale e passano dallo stato liberale al cosiddetto stato kenesiano. Keynes è un economista inglese, che scrive le sue opere più importanti negli anni ’20 sotto lo stimolo delle vicende di cui era diretto osservatore. Intenzione di K. È di evitare che la crisi abbia le stesse soluzioni adottate in Russia, cioè la soppressione del capitalismo e del mercato. K. critica la teoria economiche liberali fino ad allora dominanti e mette in discussione quelle leggi economiche teoricamente valide, ma non dal punto di vista pratico. K. riconsidera la formula principale delle economie liberali; il reddito è l’insieme dei consumi sommati agli investimenti. Perché vi sia equilibrio nel mercato è necessario che questa equazione si tale: R = C+I. Se questa equazione si realizza, tutto è in equilibrio, se la realtà non è in equilibrio allora questa equazione non si è realizzata.uno dei termini C o I, non si è tradotto in entità; precisamente non tutte le risorse sono state investite. Se C è tradotto in domanda e non c’è equilibrio, vuol dire che non tutto il profitto si è tramutato in investimento. Cioè una parte della capacità produttive del sistema non ha trovato utilizzo. Il problema è che non tutto il risparmio si traduce in I (investimento). Il risparmio riviene da quella che è l’accumulazione capitalistica, quindi non tutti i capitali accumulati si sono reinvestiti. Perché? Evidentemente per due ordini di ragioni: 1) o perché non vi è domanda sufficiente; 2) o perché non c’è una remunerazione adeguata per il capitale. Può non esserci domanda sufficiente? Teoricamente, no. Ma i prezzi delle merci non possono scendere al di sotto del loro costo. K. afferma se rimangono risorse inutilizzate e che quel livello di prezzi non si realizza una domanda adatta ad assorbire quelle merci, si è condannati ad una situazione di non equilibrio del mercato. Perché la domanda non riesce ad incontrare l’offerta? Se non c’è una domanda spontanea, naturale, ci vuole una domanda aggiuntiva, solo così si possono vendere quelle merci in più. Se non viene dal mercato, la domanda, in questo caso aggiuntiva, non può che venire dallo stato. E’ essenziale per la precisione introdurre una quantità aggiuntiva di moneta che diventi domanda aggiuntiva capace di rimettere in moto il sistema. Ma anche se con questa domanda aggiuntiva rimane comunque in risparmio non investito, cosa si deve concludere? Non tutto il risparmi accumulato trova interesse a reinvestirsi, perché il saggio di interesse è superiore al saggi di profitto, cioè, se porto in banca il danaro e percepisco il 5% di interesse, mentre se lo investo percepisco il 4%, preferirò portarlo in banca, non investirlo. Se invece il saggio di interesse dovesse scendere al di sotto del saggio di profitto, allora avrei interesse ad investire nella produzione. Lo stato allora deve fare il regista, intervenendo nei saggi di interesse. Non a caso nascono le banche centrali, che lavorano su due leve: domanda aggregata e saggio di interesse, e rimettono in funzione la produzione, creando così nuovi posti di lavoro e aumentando i consumi, in una sola parola conservando il consenso sociale. Ecco lo snodo: per conservare la proprietà privata caposaldo del capitalismo è necessario che cambi il ruolo dello stato e delle istituzioni; non più mero guardiano notturno, ma soggetto attivo, regista dell’economia. Questa rilettura del rapporto politica – economia, con una politica che governa il ciclo economico, comporta un ruolo nuovo del governo e delle istituzioni nei paesi occidentali, un ruolo sempre più invasivo non solo nell’economia, ma in tutte le sfere della vita sociale.ad es.nasce la scuola di massa, l’industria di stato, i lavori pubblici. Iin questo spazio di tempo, dagli anni 20 agli anni 30, si modificano radicalmente le istituzioni politiche, anche sul terreno della democrazia. Una delle ragioni di fondo della crisi dello stato dopo la prima guerra mondiale, è data anche dal fatto che quasi ovunque viene introdotto il suffragio universale, con l’irruzione in parlamento di un nuovo soggetto politico. Il moderno partito politico di massa. Con la crescita della soggettività politica delle classi subalterne, si modifica il quadro. Questa classi da puramente economiche assumono un’identità politica e trovano voce nei partiti; il partito popolare cattolico (contadini) e il partito socialista (operai). La più grande novità è che per la prima volta le decisioni che contano non vengono più prese in parlamento, ma nelle segreterie dei partiti. Il parlamento prima protagonista, nel 900 viene esautorato. Anche dove non ci sarà totalitarismo, ci sarà una crescita del peso politico dei governi, degli esecutivi, luoghi di decisione a forma triangolare governo – imprenditori – lavoratori. La politica è sempre meno giocata nel parlamento ed è sempre più nel governo; in quest’ultimo si sposta il baricentro della politica. Proprio perché in questo modo si corporativizzano le stesse classi subalterne, si da loro importanza a patto che rinuncino ai loro propositi di rovesciamento politico dell’ordine esistente. Si conserva il capitalismo, ma muta radicalmente il rapporto tra politica ed economia.
Lezione dell’1.3.01
Qual è la natura e quali sono le ragioni della contraddizione dello stato nazionale moderno? Marx da una critica a partire dall’economia e precisamente dallo scambio tra lavoro salariato e capitale, da una parte i detentori degli strumenti di produzione e dall’altra i detentori della forza lavoro. Il mezzo di questo scambio è il contratto, mentre il luogo è il mercato, caratterizzato apparentemente secondo Marx, da libertà e uguaglianza. Importante è il fatto che il fenomeno del plusvalore ha ripercussioni sulla politica. I meccanismi della politica, attraverso la delega e alla rappresentanza del ceto politico, determinano una sorta di alienazione del potere decisionale, che rimane estraneo al corpo elettorale. Le istituzioni politiche solo apparentemente sono neutrali; la logica di funzionamento a cui sono improntate è assecondare una sorta di organizzazione sociale i cui capisaldi non devono essere toccati; questi capisaldi sono la proprietà privata e i meccanismi di mercato, che non devono subire influenze dall’esterno, perché portano da se ad un equilibrio. Dunque le istituzioni devono, per un verso, assicurare che l’ordinamento non venga alterato e per l’altro devono avere un ruolo di riconduzione all’ordine nel caso in cui ci fosse l’insubordinazione sociale, la lotta sindacale, il conflitto politico. Lo stato è il guardiano dell’ordine sociale, apparentemente neutrale ma in realtà conservatore dell’ordinamento esistente., a partire dagli anni 30 si verifica una trasformazione profonda nel rapporto tra istituzioni e società. Per la prima volta la politica e le istituzioni hanno un intervento diretto nei meccanismi della società civile. L’elemento di frattura è nel fatto che nel 900 i governi, le istituzioni, non sono più guardiani notturni, ma attori della scena sociale sociale economica. Approfondiamo. I profitti se non vengono reinvestiti provocano una sovrapproduzione senza domanda. Una parte dei profitti si trasforma in risparmio, i profitti però si reinvestono in quanto vi è la ragionevole attesa di parte degli imprenditori che possano offrire nuovi profitti. Queste due situazioni determinano una condizione d’instabilità dell’economia, perché l’organizzazione del proletariato come soggetto economico e politico, intaccando per questo i profitti. Si verifica una caduta tendenziale del saggio di profitto, per cui i risparmi calano; a questo si aggiunge uno spostamento agli operai di una quota dei profitti e una diminuzione della domanda. Sovrapproduzione e sottoconsumo, queste le due colonne di una crisi che nemmeno la guerra riesce a risolvere, come storicamente avveniva. A questo punto la domanda che il mercato non è più in grado di esprimere sarà surrogata dalla politica, sarà essa ad esprimerla. Le istituzioni politiche sempre più entreranno nel mercato, nel cuore della produzione e della riproduzione sociale. Nella produzione attraverso la domanda aggregata che regolarizza il ciclo economico (spesa pubblica) mentre la fissazione dei tassi di interesse viene affidata al governo, che permette la determinazione della trasformazione delle risorse in investimenti. Le istituzioni entrano anche nel versante della riproduzione sociale, livelli in cui vengono soddisfatti bisogni nuovi in base alla crescita del benessere di una società (case cultura trasporti, consumi di lusso). La crescita di soggettività politica della classe operaia determina la spinta a voler usufruire di modi e mezzi di vivere più alti, più costosi, ossia di una miglioramento generale delle condizioni di vita. La conseguenza e che la distribuzione delle risorse deve essere limitate alla quantità di salario strettamente necessaria al soddisfacimento dei bisogni primari si allarga a quote che vanno al di la dei bisogni primari. Ma chiedere più salari significa ridurre più profitti, e quindi disincentivare gli investimenti. Inoltre, tanto più la classe operaia diventa consapevole della propria soggettività politica, tanto più è difficile imporle in maniera repressiva i vecchi ruoli. C’è un protagonismo di massa: partiti politici popolari, movimento giovanile, movimento femminista. Questo fa si che gli equilibri della politica mutino radicalmente; il parlamento che era una sorta di camera di compensazione degli interessi della borghesia, ora vede affacciarsi nuovi soggetti, partiti, nuovi interessi; vengono rivendicati spazi di libertà, benessere, sconosciuti nel passato. La risposta viene data dalle istituzioni intervenendo anche sul versante della riproduzione sociale. La scuola, sanità, trasporti diventano pubblici, opere dello stato; per un verso alleggerisce le spese dei lavoratori, per l’altro queste opere diventeranno un’occasione di aumento di consenso nei confronti delle istituzioni, che non devono più reprimere il dissenso, ma favorire il consenso, attraverso l’integrazione sociale(cinema, televisione, cultura). La forma istituzionale dello stato K. assumerà la forma di W.State, che comincerà negli anni 50. questo fino a quando negli anni 90 non entreranno in crisi questi meccanismi a causa della globalizzazione con il tramonto degli stati nazionali moderni.
Lezione dell’8.3.01
Illustrazione dei testi di Matteucci e di Poggi.