Il team Duna Rossa desidera ringraziare quanti a vario
titolo hanno contribuito e sostenuto la nostra partecipazione alla Libyke.
I pochi non ancora a conoscenza di questo evento
sportivo, sono rimandati a visionare l'articolo uscito la scorsa settimana sul
"Corriere della Sera" !
L'evento verra' seguito da una troupe di rai3 e da
altre TV straniere ; andando al sito internet ufficiale dell'organizzazion "www.ppoitaly.com" e' possibile
saperne di piu' e seguire giorno per gior no
gli avvenimenti dal deserto.
Il team Duna Rossa ( ispirato alle dune rosse al tramonto) e' forte di ben
cinque elementi ben assortiti,
affiatati e motivati (Gianni Vezzani, Carlo Vigiani, Ambrogio
D'Adda, Fausto Tozzi e me) che
intendono interpretare questa spedizione col solito spirito che ha da sempre
contraddistinto le nostre uscite in
Italia e nel mondo: il desiderio di conoscere nuovi posti e nuovi popoli, la voglia di avventura, l'allegria
dello stare insieme.
Malgrado il regolamento consenta l'uso del GPS,
nessuno di noi sara' provvisto di tale
strumento: faremo uso della bussola, cartina,
contachilometri e road book in rispetto dei principi che animano
questo genere di competizioni,
pedalando sempre in gruppo per meglio
affrontare le difficolta' del percorso e per avere piu' chances di
concludere tutti il raid in un tempo che consenta al team di ben figurare nella classifica a squadre.
Solo un paio di settimane fa, una ditta contattata su
consiglio di un'amica casualmente incontrata sul treno, si dimostra disponibile
ad una sponsorizzazione dell'allora
anonimo team Duna Rossa ...
E' stato come togliere il coperchio al vaso di Pandora
!
Dovevamo dare visibilita' allo sponsor ed allora
dovevamo proporci ai media, farci conoscere, incuriosire ...
Grande e' stato
l'entusiasmo ed il grado di coinvolgimento di molti a cui ci siamo appoggiati
seguendo il nostro istinto e/o i consigli che
ci sono piovuti addosso, mentre eravamo ancora impreparati.
Abbiamo deciso per la
multidisciplinarieta' del team: Duna Rossa non e' solo bici, ma e' ovviamente
vela a cui si ispira il nome, e' sci di fondo e alpinismo, e' canoa, trekking
... e' un modo di stare insieme godendo
dell'ambiente che ci circonda, e' cioe' tutto cio' che e' stato e che sara'.
Abbiamo deciso di
prefiggerci degli obiettivi e di fare un salto di qualita' mai pensato, cercato, sperato ...
Nel giro di un paio di settimane,
il team Duna Rossa e' apparso a piu'
riprese sui quotidiani:
martedi 12.02.02:
"Il giornale di
Vimercate"
giovedi 14.02.02:
"Corriere della sera"
sabato
16.02.02: "La gazzetta di Viterbo"
martedi
19.02.02: "il giornale di
Monza"
... per non parlare delle prossime pubblicazioni:
giovedi 21.02.02:
"Il cittadino di Monza e
Brianza"
?!? : "Il secolo XIX" di Genova
?!?: "Il
giorno" di Milano
?!?: "Il
corriere mercantile" di Genova
Gareggeremo
indossando due set di divise nuove fiammanti coi colori bianco e rosso ove campeggera' il nome
della squadra e quello degli sponsor
"MarZinc" di Viterbo e "Sportissimo" di Modena e
riposeremo utilizzando le attrezzature
fornite dalla "Ferrino" di Torino.
Non tutto, pero', e' andato a buon fine, infatti il
contatto con chi avrebbe potuto
fornirci le biciclette non ha avuto seguito per mancanza di lungimiranza dei
nostri interlocutori e soprattutto di
tempo da parte nostra ...
Concludo questo lungo comunicato ricordando ancora il
sito "www.ppoitaly.com" per seguire la gara su internet (immagini,
foto e testi scorreranno anche sulla TV
stream)
Questo e’ l’assegno che ci hanno dato
La " Libyke "
(2^ edizione: 22 febbraio / 1 marzo 2002)
E' una gara di orientamento
in autosufficienza alimentare che si corre in mountain bike con un programma
che ha previsto quattro tappe, di cui una notturna, della lunghezza variabile
da un minimo di 42 km ad un massimo di 65, da farsi nell'arco di quattro
giorni. Ciascun partecipante ha l’obbligo di portare il suo equipaggiamento
(acqua e cibo per la tappa oltre al materiale di sicurezza) in uno zaino per
tutta la durata della prova.
Pena la squalifica, ogni
tappa doveva essere terminata entro un’ora dalla partenza della tappa
successiva, transitando obbligatoriamente dai controlli intermedi disposti
lungo il percorso.
Il teatro della competizione
e' stato il comprensorio nord del deserto libico dell'Akakus, nella regione di
Ghat, posta a sud-ovest della Libia ad una cinquantina di km dal confine con
l'Algeria; il percorso si e’ snodato in un paesaggio fantastico ricco anche di
siti archeologici, percorrendo ogni tipo di terreno: sabbia, dune, pietraie,
sentieri battuti e wady (fiumi prosciugati)
Le
condizioni di ammissione sono state tali da prevedere un numero chiuso di
partecipanti, rispondenti a determinati requisiti attestanti l’idoneita’ alla
prova, che hanno concorso ad una classifica generale. Erano anche ammesse le
iscrizioni di squadre (minimo tre
persone) per entrare in lizza per la corrispondente classifica.
In
contemporanea, sullo stesso percorso e con le stesse regole s e’ svolta la IV
edizione della Desert Marathon, gara a tappe di maratone.
Il team " Duna Rossa "
Gianni VEZZANI:
di origini venete, monzese
di adozione, poco piu’ di cinquantanni, scapolo di professione, tecnico in una
ditta di microelettronica; pratica piu’ discipline sportive senza prediligerne
una in particolare; conta al suo attivo trekking in diversi continenti,
spedizioni di sci-alpinismo in Norvegia e Marocco (oltre che sulle nostre
Alpi), raid anche estremi in montain bike (Tunisia, Cipro, Creta, …).
Carlo VIGIANI:
viterbese da qualche anno
abitante in brianza, scapolo trentenne, ingegnere elettronico; la corsa e la
bicicletta sono i suoi sport preferiti; la musica classica e le opere liriche
rappresentano uno dei suoi maggiori hobby.
Fausto TOZZI:
modenese al 100%,
trentacinque anni circa, non ha ancora trovato la donna dei suoi sogni, tecnico
informatico; predilige gli sport di resistenza, ma il suo fisico gli
consentirebbe di fare qualunque cosa: riesce a passare con estrema naturalezza
da una maratona ad un trekking sull’Himalaya e dalla canoa ad una lunga
pedalata nel deserto; tra i suoi hobby c’e’ anche la degustazione dei vini (e’
sommelier diplomato).
Ambrogio D’ADDA:
nato e vissuto
nell’hinterland Milanese da circa 45 anni, scapolo; tecnico elettronico; la
discesa di fiumi e torrenti in canoa e’ stato uno dei suoi primi amori, ma ora
e’ orientato alla mountain bike, anche se non disdegna altri sport.
Pierangelo TESORO:
nato a Genova meno di 45
anni fa, single con una figlia Stefania quattordicenne, ingegnere, lavora nel
campo della microelettronica e da oltre un decennio si e’ trasferito nell’area
Milanese; ha condiviso con Gianni tante esperienze ora di biker, o di trekker,
o in canoa; appassionato anche di sci di fondo e vela, nei suoi hobby c’e’ la
scrittura, infatti ha l’abitudine di tenere traccia dei suoi viaggi,
arricchendoli con note personali sui luoghi, sulle persone, sui cibi, sulle
curiosita’, …
PEDALARE DI NOTTE NEL DESERTO
(di Pierangelo Tesoro)
E’ mezzanotte e fa freddo, ma l’eccitazione e la tensione e’ tanta, per
cui non lo accuso affatto; inoltre, sia la salopette che la maglia in
“thermodress” riescono a darmi sufficiente confort per non battere troppo i
denti. Nella bagarre della partenza il nostro team “Duna Rossa” non e’ in prima
fila come nella tappa di esordio, ma al segnale del VIA, dato da Fiorini appollaiato
sul suo inseparabile jeeppone, iniziamo finalmente a pestare sui pedali per
sparare fuori la nostra tensione e vincere il freddo pungente.
Il nero assoluto delle tenebre ci inghiotte all’istante: la luna non e’
piena e non si ha una visibilita’ superiore a qualche metro davanti a se,
malgrado tutto il lavoro fatto nel pomeriggio per montare i fari alogeni alla
bici ed i frontalini fissati al nostro caschetto.
Ricordiamo che dobbiamo buttarci tutto a destra verso le montagne per
trovare il terreno pedalabile, perche’ altrimenti resteremo irrimediabilmente
impantanati se seguissimo la via piu’ diretta e, continuando a chiamarci per
nome l’un l’altro, procediamo con tanta apprensione nel buio della notte.
E’ praticamente impossibile riuscire a capire dove puntare la gomma
anteriore della bici per pedalare al meglio. Decidiamo di spegnere tutte le
nostre luci per abituare gli occhi alla sola luna; malgrado non sia ancora
piena, ha una luce fortissima capace di rischiarare sufficientemente la strada
anche per noi biker, ma il risultato non cambia: continuamo a scendere dalla
bici con troppa frequenza, poiche’ troppo spesso troviamo sabbia fine dove
affondiamo inesorabilmente.
Probabilmente, poco distanti da noi (avanti, dietro, di fianco) ci sono
altre persone, ma cio’ che si vede, a parte il fantastico cielo stellato, e’ la
siluette nera delle montagne.
Pedalare in quel deserto dal terreno cosi’ variegato in cui sabbia,
pietraie, rocce, erg, … si alternano e si mischiano fra loro in continuazione e
senza soluzione di continuita’, richiede una grossa concentrazione e continua
attenzione per non rischiare di andare a finire contro un arbusto secco
provvisto di quei micidiali aculei di acacia che mordono la pelle e forano le
gomme, per non rischiare di andare gambe all’aria per un qualunque banale
motivo, o piu’ semplicemente per diminuire le probabilita’ di restare
insabbiati …
Quando si e’ giu’ a spingere la bici nella fastidiosissima sabbia e’
decisamente piu’ faticoso procedere e soprattutto meno divertente (sono un
biker non un podista), ma il lato positivo e’ dato dall’estrema tranquillita’
di cui si e’ pervasi: il silenzio assoluto interrotto solo dal soffiare del
vento, l’opportunita’ di potersi guardare intorno e sopra le nostre teste senza
alcun affanno e preoccupazione.
Il tempo scorre lentamente e la mente viene attraversata da pensieri di
ogni tipo.
Per questa tappa notturna, ci eravamo studiati il percorso sulla cartina
russa 1:20.000 confrontandolo con la descrizione riportata sul road-book,
giusto per avere la conferma che Patrizio aveva scelto come terreno di gara un
territorio decisamente meno infido del giorno prima: in questo caso ci
trovavamo su un plateau e bastava stare ai margini delle montagne per restare
su un percorso fattibile che si sovrappone, solo a tratti su quello ideale. Nel
briefing, Patrizio ci aveva detto di aver infittito il numero delle balise
piantate a segnalare il percorso (una ogni 1-2 km) ed inoltre su ogni picchetto
aveva anche assicurato la trekking light, un aggeggio che sprigiona una luce
fosforescente per diverse ore (teoricamente doveva durare tutta la notte); in
queste condizioni, i paletti che indicavano la retta via dovevano essere piu’
visibili ed era sempre piacevole rilevarli ad intervalli per nulla regolari,
poiche’ troppe volte ci discostavamo dal percorso che aveva tracciato
l’organizzazione.
Dopo qualche ora dalla partenza della tappa, avvistiamo la tenda del
primo punto di verifica; ci dicono che abbiamo ancora diversi altri concorrenti
dietro di noi, ma non siamo poi cosi’ interessati alla competizione, siamo piu’
intenzionati a vivere in modo completo questa fantastica esperienza.
Tira un forte vento e sono sudato, dopo la punzonatura del mio
cartellino, scendo dalla bici, infilo il k-way e mi siedo in terra al riparo
della ruota anteriore del fuoristrada dell’organizzazione per mangiare qualcosa
prima di ripartire. Scambio qualche chiacchiera coi verificatori e mi accorgo
che sono copertissimi a confronto di come eravamo noi: sciarpe, berretti di
lana, piumini e mi rendo conto che deve fare parecchio freddo … Altri ciclisti
e podisti improvvisamente sbucano dal nulla, eseguono il controllo, bevono
qualcosa e spariscono nuovamente, nel mentre che noi allegramente oziamo fino a
quando avvertiamo con insistenza i brividi provocati dal sudore che si
raffredda sotto i nostri indumenti: abbiamo coperto appena 14 km dei 65 previsti
ed e’ bene riprendere il cammino.
Per un lungo tratto il terreno e’ favorevole ai ciclisti nel senso che ha
la giusta consistenza che permette una buona pedalata senza particolari
preoccupazioni: tutte le mie luci sono spente, spingo sui pedali e mi affido
alla luna focalizzando di tanto in tanto una sagoma scura piu’ avanti, o piu’
indietro, o piu’ a destra, o piu’ a sinistra che non so esattamente a quale dei
mei compagni appartiene, ma e’ li’, e’ con me e mi da’ affidamento. Non si e’
mai certi di andare nella giusta direzione, ma sono sereno e mi sento
particolarmente leggero.
E’ in situazioni come questa col vento che eccheggia nelle orecchie, col
terreno che crepita sotto le ruote, col cielo limpido che ti avvolge
interamente trapuntato di stelle, che la mente se ne va per conto proprio e
mille pensieri si presentano contemporaneamente: penso a mia figlia Stefania di
tredici anni, penso a chi il giorno prima si era perso in questo territorio
cosi’ fantastico, ma altrettando infido e pericoloso, penso a quegli altri
amici coi quali ho diviso altre sensazioni di questo tipo e che non hanno
ritenuto opportuno cimentarsi, penso a quello che potrei dire quando
raccontero’ questi giorni cosi’ intensi, penso a quanto e’ bello il Piccolo
Carro ed a come si vede nitida la costellazione di Orione e la seguo per
individuare quanto sono luminose le Pleiadi … ma non faccio in tempo a
scorgerle che vengo sbalzato dalla bicicletta ! Un grosso sasso aveva deciso di
porsi sulla mia strada e la mia ruota anteriore ci e’ sbattuta contro con le
conseguenze del caso.
Al km 28 c’e il secondo punto di controllo: i nostri contachilometri
avevano misurato ben oltre quel chilometraggio, ma nessuna traccia della tenda
verde.
Mi tornano in mente quei podisti che erano nella nostra tenda. Ricordo
quando, appena ricevuto il road-book e le note aggiuntive, avevano inserito nei
loro GPS tutti i way-point e penso a quanto poteva essere utile in casi come
questo avere uno strumento che ti dice dove devi andare per trovare quello che
stai cercando: spero di non doverci pentire per aver scelto di non ricorrere
all’aiuto della tecnologia per l’orientamento ...
Cercavo di individuare i bagliori del fuoco del punto di controllo,
piuttosto che la sagoma scura della tenda, quando Carlo rompe il silenzio
urlando: “Tenda-tenda !”, parafrasando il grido “Terra-terra !” dei naviganti. Anche il secondo “check
point” e’ raggiunto.
Sara’ stata la presenza di Simona, capelli lunghi castani e gradevoli
forme sinuose, appartenente allo staff medico al seguito della carovana, sara’
stato il calo della tensione emotiva, sara’ stata la stanchezza ed il freddo,
sta di fatto che non ho affatto fretta di ripartire e ne approfitto per
sostituire la camera d’aria anteriore che da diversi km mi costringe a fermarmi
per rigonfiare la ruota: trovo un paio di spine piantate nel copertone che
avevano attraversato anche il nastro protettivo interno e pizzicavano di tanto
in tanto la camera d’aria.
Quando ripartiamo, sono passate le 3.30 di notte ed abbiamo ancora tanti
chilometri da macinare: il morale e’ buono, le gambe vanno ancora bene e
malgrado la stanchezza, la tensione ed il timore di fare errori di valutazione
lungo il percorso, troviamo parecchi motivi per goderci ugualmente la nottata.
Se si escludono i pochi sporadici incontri ora con podisti ora con
ciclisti, siamo sempre rimasti soli coi nostri pensieri e fantasie a seguire il
nostro percorso, di tanto in tanto facendo riferimento alla luce artificiale
montata su una delle nostre biciclette. E’ proprio seguendo il lampeggiare
della luce rossa posteriore di Fausto che realizzo nuovamente quanto
l’imprevisto e’ sempre presente; infatti, improvvisamente scompare la luce
montata sulla bici e non vedo nemmeno la sua trekking light verde appesa allo
zainetto: pochi istanti e metto a fuoco i contorni di un uomo che si rialza ed
una bici a terra.
Da un po’ di
tempo continuiamo a vedere davanti a noi delle luci che non sono nostre e che
piano piano diventano sempre piu’ vicine; sia noi che loro stiamo seguendo la
stessa pista, ma sono leggermente piu’ lenti di noi. Li raggiungiamo
all’approssimarsi di un tratto roccioso ove di tanto in tanto dobbiamo scendere
dalla bici per prevenire pericolose conseguenze: si tratta del duo Andrea-Roberto
e dei cinque componenti la squadra svizzera. Compiamo in loro compagnia un
lungo tragitto non disdegnando di fare battute e scambiarci impressioni,
finche’ le nostre scelte divergono e via via i due gruppi si allontanano fino a
restare nuovamente soli con i nostri pensieri.
Continuo a
pestare sui pedali, ma la stanchezza inizia a farsi sentire.
Ennesima foratura
… questa volta, addirittura doppia ! Sia Gianni che io dobbiamo sostituire la
nostra camera d’aria all’unisono: abbiamo con noi un numero elevato di camere
di scorta, ma non sono state sufficienti; siamo tutti e cinque al lavoro: uno
smonta la ruota, l’altro ripara la camera d’aria, un altro pregonfia … siamo
tutti indaffarati ed infreddoliti (il vento soffia insistentemente ed ogni
volta che ti fermi, ti si asciuga addosso il sudore gelido) … quasi non ci
accorgiamo di due ombre che arrivano correndo dalle montagne. Riconosco Karim Mosta insieme ad un altro francese: “Ou
e’ le point de repere !” … capiamo subito che avevano compiuto un giro piu’
largo e stavano cercando il terzo punto di controllo, quello che per loro
podisti rappresentera’ l’arrivo della tappa e la fine delle fatiche e il
meritato riposo al caldo del sacco a pelo.
Mentre Gianni ed io completiamo la gonfiatura dei nostri pneumatici,
Fausto, Ambrogio e Carlo ripartono per non ghiacciare nell’attesa. Trascorrono
piu’ di una ventina di minuti prima che raggiungiamo due dei tre, infatti
Fausto aveva seguito una pista che si spostava ad ovest verso le montagne,
mentre tutti gli altri avevano preferito restare al limite della catena, memori
del percorso segnato sulla cartina. Accendiamo tutte le nostre luci e
proseguiamo urlando il suo nome, finche’ non udiamo una sua risposta e
finalmente il team Duna Rossa si ricompatta. Rinfrancati e sollevati
(soprattutto Fausto) pedaliamo verso il terzo chek-point.
E’ a questo punto che sentiamo un sordo rombo e vediamo dei fari in
lontanza; e’ il fuoristrada con Fiorini a bordo che ci viene incontro: “Ci sono
stati dei problemi causati dalla sabbia, per cui l’arrivo delle bici e’ quello
dei podisti” - “Ma allora ci manca poco, siamo arrivati” - “Si’, ormai ci
siete. C’e’ qualcun altro oltre voi ?” - “Dovrebbero essere in zona Karim ed un
suo socio, per il resto non sappiamo …”
Nessuno di noi chiede informazioni sul perche’ della riduzione del
percorso decisa durante lo svolgersi della tappa e pensa gia’ al sorso di the
caldo ed all’enorme falo’ per scaldarsi che troveremo una volta giunti al campo
e spinge con maggiore decisione sui pedali.
E’ proprio vero che gli ultimi chilometri sono i piu’ lunghi: un attimo
prima sei concentrato e determinato per portare a termine una prova che
richiede ancora piu’ di un’ora di impegno ed ora non vedi l’ora di arrivare ed
ogni minuto sembra un’eternita’ …
Non sono trascorse
cinque ore dalla partenza, infatti sono circa le cinque del mattino quando
arriviamo al termine della tappa: non c’e’ neppure montato l’arco per indicare
l’arrivo, ma la cosa non mi interessa … rimandero’ ad un altro momento il
capire perche’ sono cambiate le cose e che cosa e’ successo, ora devo andare a
scaldarmi davanti al fuoco ed a cercare il mio sacco a pelo .
L’equipaggiamento
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In base alle condizioni climatiche (di giorno la media e’ stata
superiore ai 35^ e di notte e’ andata anche al di sotto dello zero) ed al
proprio fabbisogno, ogni concorrente ha affrontato ogni tappa selezionando il
materiale da portarsi appresso, rispettando l’obbligatorierata’ di:
-
uno zaino o equivalente: per contenere tutto il necessario
-
un casco: per proteggere la testa
-
una bussola, un contachilometri: per orientarsi e scegliere il percorso
-
una pila, un accendino, un coltello: accessori per varie ed eventuali
-
una pompetta anti-veleno: in caso di brutti incontri troppo ravvicinati
-
un fischietto, uno specchio di segnalazione: per farsi sentire e vedere
-
un telo di sopravvivenza: utile, se si e’ costretti a trascorrere la
notte all’addiaccio
-
acqua per almeno 1.5 litri, cibo per almeno 2000 kcalorie:
alimentazione di base
-
un kit di sicurezza comprensivo di un bastoncino luminoso, due razzi di
segnalazione, carta in scala della zona , road book delle tappe
-
macchina fotografica con rullini: per fissare qualche immagine
significativa
Andare in Libia
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La Libia puo’ rappresentare
il fascino di una terra antica e straordinaria, custode di capolavori artistici
che hanno sfidato il correre dei secoli; e’ un paese rimasto chiuso al turismo
per lungo tempo, la cui politica, pero’, nel corso degli ultimi anni e’ mutata
profondamente, aprendosi verso l’esterno come non era mai avvenuto in
precedenza.
A dispetto’ pero’ della
decisione del colonnello Gheddafi di aprire i confini libici al turismo
internazionale, estremamente complicate sono ancora le procedure per
l’immigrazione ed e’ ancora assolutamente impensabile credere di potersi
organizzare autonomamente un viaggio in questo deserto.
Tanto di cappello percio’
alla PPO organization ed al suo fondatore Patrizio Fiorini, che e’ riuscito tra
mille difficolta’ a realizzare un volo charter che da Roma Fiumicino ci ha
portati direttamente in pieno deserto fino a Ghat, ben 1.500 km all’interno
della Libia e a poche centinaia di km dal teatro di gara.
Accostarsi alla Libyke
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Per affrontare
prove di questo genere non occorre un programma di allenamento specifico in cui
si prevedono solo uscite in bicicletta, bisogna curare tanti aspetti che vanno
dalla resistenza alla fatica, alla saldezza di nervi, alla capacita’ di
adattarsi alle circostanze, al prevenire i possibili problemi. In altre parole,
non basta curare solo la propria forma fisica (condizione necessaria, ma non
sufficiente) occorre aver raggiunto anche un buon stato mentale; la determinazione
deve sempre accompagnarsi al ragionamento; le cose non vanno improvvisate,
bensi’ attentamente ponderate.
Tanti possono
essere i motivi che spingono verso questo genere di competizioni sportive: il
puro e semplice agonismo, la ricerca di nuove emozioni, il mettersi alla prova,
la curiosita’ di provare nuove sensazioni, … qualunque sia comunque la ragione,
non sono d’accordo con chi partecipa in maniera avventata, rischiando di
mettere a repentaglio la propria sopravvivenza; penso che ci debba essere
sempre il rispetto per gli altri, oltre che per se stessi.
Perdersi nel deserto
significa non solo mettere in pericolo se stessi, vuol dire mettere in moto una
complessa operazione di ricerca che non puo’ certo garantire il risultato e se
l’organizzazione poi ha anche qualche piccola pecca, si puo’ arrivare al
marasma piu’ completo. In definitiva, perdersi nel deserto per un proprio
errore di valutazione puo’ far parte dei tanti rischi calcolati a cui si sa di
andare incontro, ma perdersi nel deserto perche’ si e’ messo in conto di
seguire gli altri o di sfruttare le tracce del passaggio di chi ti precede
senza preoccuparsi di affinare le proprie conoscenze di orientamento per
acquisire almeno un minimo di autosufficienza, direi che e’ da incoscienti.
Pur avendo
ammirato ed applaudito quella persona che, malgrado il suo handicap, ha portato
a termine la prima tappa la sera alle dieci, dopo aver vagato per oltre 13 ore
nel deserto sotto un sole implacabile, resto del parere che non mi sento di
giustificare la sua scelta ad esserci e credo di poter dire che
l’organizzazione aveva il dovere di essere piu’ rigorosa riguardo il rispetto
dei pre-requisiti per la partecipazione, in virtu’ soprattutto dei limiti che
ha mostrato e che probabilmente sapeva di avere, se chiamata ad affrontare
malaugurati casi di emergenza.
Accorgimenti per la bici e
per se stessi
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Non occorre una
bici speciale per fare una Libyke: puo’ andare bene anche una non ammortizzata
piu’ leggera possible.
Meglio non
adottare i pedali con gli attacchi perche’ la sabbia finissima li bloccherebbe
inesorabilmente, per cui sono anche consigliate le scarpe da ginnastica
(running) anche in considerazione che si scendera’ spesso a spingere nella
sabbia.
Eliminare il
portapacchi e serrare tutte le viti ed i bulloni; le incredibili vibrazioni cui
e’ sottoposto il mezzo meccanico, porterebbero ad inconvenienti vari, per cui
il materiale che serve per la tappa va messo in uno zaino portato sulla
schiena.
Non oliare la
catena ! La sabbia si incollerebbe e rovinerebbe gli ingranaggi, per cui
occorre pulirla bene e mantenerla asciutta; durante la gara abbiamo ogni giorno
usato un pennello per asportare i granelli di sabbia e sparso del borotalco per
tenerla il piu’ possible pulita.
Il problema della
riserva idrica puo’ essere risolto adottando uno zainetto che ha anche lo
scomparto per il Camel-back, oppure installando sulla bici i supporti per
almeno due borracce; ricordarsi che bisogna bere spesso, anche se non si sente
la sete per non rischiare la disidratazione.
La scelta dei
copertoni e’ molto importante. Due sono i fattori da tenere in considerazione:
la presenza di tratti con rocce aguzze nonche’ gli arbusti secchi con le
temibilissime spine di acacia, che significano frequenti forature; come
affrontare nel modo migliore il terreno principalmente sabbioso.
Noi avevamo
pensato di proteggere le camere d’aria dalle spine inserendo tra queste ed i
copertoni uno spesso nastro di gomma distribuito uniformemente lungo la parte
interna dei copertoni. Ha funzionato solo in parte sia perche’ le punte di
acacia a volte riuscivano a superare tutti gli sbarramenti, sia perche’ a volte
le spine penetravano lateralmente il copertone laddove non c’era la protezione
interna in gomma.
Tutto cio’ per
dire che la soluzione “tubeless” rappresenta forse la piu’ dispendiosa in
termini economici, ma anche la piu’ valida per la loro mescola piu’ dura e
resistente dei normali copertoni (meno forature) e perche’ in caso di forature
e’ sufficiente una goccia di “attack” ed una bomboletta per riprendere a pedalare
(meno tempo impiegato per la riparazione).
Non consiglierei
di dare ascolto a chi suggerisce di praticare uno o piu’ fori addizionali nel
cerchione per consentire l’uscita di una o piu’ valvole delle relative camere
d’aria alloggiate all’interno dello stesso copertone: non appena si fora la
camera d’aria in uso, si puo’ subito gonfiare quella di riserva per poi
sostituire tutte le camere d’aria in una botta sola, quando sono tutte bucate.
Altra nostra
scelta non azzeccata e’ stata quella di montare i copertoni artigliati a danno
degli “slick”. Vero che sulle rocce il “grip” che esercitavano i pneumatici
scolpiti dava piu’ stabilita’ nel procedere, ma altrettanto vero che sulla
sabbia e’ necessario montare copertoni slick il piu’ largo possibile. Ricordo
che la prima tappa mi ero messo alle spalle di Lillo (vincitore della Libyke
precedente) mantenendo il suo passo e
soprattutto ricalcando le sue scelte di percorso: mentre lui andava via quasi
galleggiando sui tratti sabbiosi, io ero costretto a pestare molto di piu’ e
spesso dovevo scendere a spingere; in pratica, i miei artigliati crepavano
maggiormente lo strato superficiale piu’ duro della sabbia favorendo
l’affondamento dei miei pneumatici quando la velocita’ diminuiva al di sotto di
un valore limite … gli slick invece garantivano una superficie di appoggio sul
terreno sabbioso uniforme e molto piu’ vasta, decisamente piu’ favorevole e
renumerativa a parita’ di sforzi.
Per quanto
riguarda l’orientamento, noi avevamo scelto di fare ricorso ai soli mezzi tradizionali,
per cui il supporto per il road-book e magari anche per la bussola e’ assai
utile; in questo modo si hanno sempre sottomano le informazioni utili per la
navigazione nel deserto. Il regolamento pero’, non solo ammette l’utilizzo del
GPS, bensi’ le coordinate del punto di arrivo e dei controlli intermedi sono
note a priori e quindi memorizzabili nel proprio sistema di navigazione
assistita, sgravando il corridore di uno dei compiti piu’ impegnativi in gare
di questo genere: l’orientamento. Perdersi e’ una questione di un attimo e lo
stress legato al timore di aver sbagliato e’ altrettanto penalizzante … se
resta in vigore l’attuale regolamento, suggerirei di mettere da parte tutte le
nobili intenzioni di fare i “puri” usufruendo della tecnologia del GPS montato
anche lui possibilmente sulla consolle. Per inciso, ben oltre la meta’ dei
concorrenti aveva questo strumento ed ho ancora in mente, quando alla partenza
della terza tappa il gruppone si e’ immediatamente diviso in due: una parte
(podisti e biker) che seguiva le indicazioni del road-book (bussola a CAP 190^)
ed un gruppo che si dirigeva decisamente piu’ a sud-est privilegiando la strada
piu’ breve che congiungeva il punto di controllo memorizzato sul proprio
strumento elettronico; probabilmente avranno seguito un tragitto meno
pedalabile, di certo si sono risparmiati un largo giro che puntava verso le
formazioni rocciose.
Per finire, le
crème “sun-block” (fattore di protezione 36 in su’) sono fondamentali, ma chiudono
i pori e non fanno respirare la pelle; meglio non esagerare col loro uso
restando coperti il piu’ possible ed utilizzando una specie di telo per il
collo.
Essenziali gli
occhiali da sole per proteggersi dai raggi del sole ed in caso di vento che
solleva la sabbia (altro spietato killer degli occhi).
Dell’acqua si e’
gia’ detto, mentre il cibo non e’ poi cosi’ critico: attenzione a non esagerare
col dosaggio degli integratori in polvere, bene l’uso moderato di barrette
energetiche, ottima la frutta secca, bene anche qualcosa di salato (cracker) …
assolutamente da bandire il cioccolato, ottimo in montagna, ma poco adatto al
calore del deserto che lo scioglie inesorabilmente
Confronto tra i maratoneti ed i ciclisti:
si e’ detto che uno degli
aspetti peculiari della gara era che due diverse discipline venivano poste
quasi sullo stesso piano, infatti vedere fianco a fianco maratoneti e ciclisti
ha senz’altro rappresentato una novita’ anche spettacolare, per certi versi. La
“bagarre” sotto l’arco che indicava la partenza della tappa, vedeva ciclisti a
sinistra e podisti a destra che non si sono mai danneggiati l’un l’altro. In
teoria il percorso dei ciclisti, due tappe su quattro, doveva essere piu’ lungo
di quello dei maratoneti (65-70 km contro 42), ma in realta’, per motivi a me
poco chiari (non escludo quelli logistici) l’organizzazione ha deciso durante
lo svolgimento della tappa (proprio quella notturna) di chiuderla per tutti al
traguardo dei podisti.
In definitiva, la quarta
edizione della Desert Marathon e la seconda Libyke si sono svolte esattamente
sullo stesso percorso teorico; dico teorico perche’ ognuno sceglieva il suo
proprio, seguendo il GPS, oppure la bussola, oppure il road book, oppure
l’istinto, basandosi sul terreno che “leggeva” di volta in volta di km in km,
sentendo dove tirava il vento …
Mediamente un ciclista
riusciva a completare la tappa in poco piu’ di tre ore, mentre ad un maratoneta
occorrevano circa quattro ore e mezzo per coprire la stessa lunghezza; mentre i
piu’ forti ciclisti impiegavano due ore e mezzo (con minimi di poco piu’ di due
ore), i loro pari podisti sfioravano le tre ore; le distanze si allungavano
considerevolmente per i piu’ lenti, infatti i ciclisti viaggiavano sulle cinque
ore con punte di anche sei, mentre i maratoneti restavano in ballo otto-nove
ore con punte superiori alle 13 ore.
Questi numeri nudi e crudi
la dicono lunga sulla differenza di impegno e di ripercussioni tra gli
appartenenti alle diverse specialita’.
Chi riusciva a completare il
percorso restando nei tempi medi, aveva il tempo per riposare, non restava
sotto il sole implacabile che nel pomeriggio diventava anche insopportabile per
l’assenza (per lunghi tratti) della brezza piacevolmente secca tipicamente
mattutina, aveva la possibilita’ di distrarre corpo e mente dalla fatica e
dallo stress di perdersi, aveva la possibilita’ di rifocillarsi e di
chiacchierare, …
Mentre i ciclisti non
ricorrevano (tranne qualche raro caso) all’infermeria, i podisti (tutti) erano
costretti a curare le loro innumerevoli vesciche che immancabilmente si
formavano e si estendevano di giorno in giorno sui loro piedi martoriati.
Pedalare nel deserto:
insieme all’orientamento, la
pedalabilita’ rappresentava la nostra piu’ grossa incognita alla partenza
dall’Italia. Le indicazioni che ci aveva fornito Patrizio, mutuate con quanto
avevamo letto sull’edizione precedente della Libyke, avevano permesso di tratteggiare
in modo piuttosto approssimativo un quadro che lasciava ancora troppi punti
oscuri: quale poteva essere la percentuale di pedalabilita’ ? … come affrontare
il grosso problema delle frequenti forature causate dale spine di acacia ? …
meglio usare le gomme slick o quelle artigliate ? … come proteggere la catena e
gli ammortizzatori dalla sabbia finissima che si infila dappertutto ? …
Il primo impatto con la
realta’ del terreno c’e’ stato subito dopo aver rimontato le biciclette ed aver
espletato tutte le formalita’ ed i controlli pre-gara: tanta fatica e poco
risultato …
Tante sono le accortezze da
tenere in considerazione che si acquisiscono a poco a poco a furia di provare e
sbagliare:
-
il colore della sabbia: se e’ piu’ scura significa che e’ piu’ fredda,
se e’ piu’ fredda e’ piu’ compatta, per cui piu’ tenuta
-
dove soffia il vento: la sabbia viene portata ed accumulata sottovento,
per cui sopravvento restano i granelli piu’ pesanti e quindi quelli che danno
maggiore tenuta
-
tracce di pista: sugli altipiani, ove il terreno e’ caratterizzato da
sabbia e sassi, di tanto in tanto ci si imbatteva in piste tracciate dale ruote
dei fuoristrada; sicuramente il passaggio dei pneumatici aveva spianato il
terreno, altrimenti oltremodo fastidioso per le sue rugosita’, ma aveva anche
spaccato la parte superficiale e rimosso la sabbia favorendo l’insabbiamento
-
velocita’: se si era in grado di mantenere un certo dinamismo, non solo
diminuiva sensibilmente il tremore che si trasmetteva sul manubrio determinato
dal terreno irregolare, ma si riusciva anche a procedere con minori problemi
poiche’ quasi si riusciva a far galleggiare le ruote al limite della sottile
crosta superficiale … vero che si pedalava con la sensazione di avere la
bicicletta trattenuta da un elastico, ma almeno non si scendeva a spingere …
Pedalare in quel deserto
significava non solo assolutamente non distrarsi cercando di riconoscere la
sabbia che teneva di piu’, evitando sempre gli infidi arbusti secchi che
spuntavano dal nulla ricchi di acuminate e lunghe spine di acacia, eseguendo i
pericolosi passaggi tra gli incavi delle rocce con la massima determinazione e
concentrazione perche’ troppo spesso erano sede di sabbia che bloccava
inesorabilmente la ruota anteriore provocando rovinose cadute …
era anche fare un qualcosa
che da’ piacere e sensazione di liberta’ in un ambiente che riesce ad estendere
tutto al limite, anche le percezioni positive.
Pedalare nel deserto e’
stato anche intimamente respirare la liberta’, teneramente abbracciare la
solitudine, tranquillamente cullarsi nella serenita’, estasiaticamente
inebrarsi degli scenari e dei paesaggi.