VORREI
PROPRIO SAPERE CHI HA PIANTATO 'STO SPIT
Guida storica alle falesie del Centro Italia
Sperlonga, Parete del Chiromante
SERENA ALIENAZIONE
«Se so' fregàti er moschettone
de Serena alienazione
»
Attaccava così, con questa semplice rima, una
corta e allegra filastrocca divenuta presto celebre fra i non molti climbers che
frequentavano Sperlonga nell'inverno 1984-85. Il seguito non lo trascriviamo, perché dopo
la denuncia del misfatto (il furto del moschettone di calata del più classico 6b di quei
tempi), la filastrocca proseguiva designando per nome e cognome l'ipotetico colpevole, con
toni decisamente denigratori, e con basse allusioni alle sue presunte inclinazioni
sessuali. Il fatto è che l'autore dei versi in questione, vergati di propria mano sul Libro
delle vie a quel tempo depositato presso Guido (il «Mozzarellaro»), essendo divenuto
- con rapida e brillanta carriera - professore universitario, potrebbe oggi non a torto
querelarci per offesa alla sua pubblica immagine: argomentando, giustamente, che
trattavasi di innocue facezie giovanili, di piccanti spigolature retoriche volte solo a
far sorridere gli amici arrampicatori. Un modo, insomma, per distrarsi, o per indurre
rilassamento negli avambracci calcificati dalla fatica, prima dell'immancabile accanita al
biliardino.
E d'altra parte non sarebbe contento, a sua
volta, neanche colui che fu accusato di quel furto. Sebbene non sia diventato, nel
frattempo, professore all'università, anch'egli gode oggi di una vasta e unanime stima
quale figura di primissimo piano nell'alpinismo romano. Impensabile perciò riferire qui
il suo nome.
Ho detto alpinismo?
In effetti, fu proprio quella sua inflessibile
inclinazione per le grandi pareti, quel suo sdegnoso rivolgersi alle falesie laziali solo
nell'ottica del training, della pura preparazione di bicipiti e falangi onde meglio
affrontare i colossi dolomitici e il bianco calcare del Gran Sasso, a far cadere su di lui
i sospetti dell'imberbe - allora - poeta satirico. Infatti gli alpinisti di quei tempi, e
in particolare alcuni giovanissimi e talentuosi rocciatori romani che esordirono alla fine
degli anni '70, aderivano in modo compatto a due presunti capisaldi etici (perché, come
ognuno sa, l'alpinismo è anzitutto un'«etica»). Primo: i chiodi propriamente
fondamentali su una via di roccia, anche se lunga settecento metri, sono assai pochi.
Saranno due o forse tre. Gli altri vanno sempre tolti, soprattutto se non li abbiamo
piantati noi. O in altre parole: guarda, ho trovato un chiodo! Qui davvero non serve, non
puoi volare in questo punto
Togliamolo, prendiamocelo. E poi, se proprio sei così
pippa da avere paura, er chiodo te lo porti e te lo pianti di nuovo. E comunque, qui, se
sei bravo, vedi che puoi pure mettere un dado. Secondo caposaldo: il moschettone costa (se
lo compri al negozio) ancora più di un chiodo. Se dunque risparmiamo sui chiodi, perché
non dovremmo farlo sui moschettoni? Trovare un moschettone in parete, nuovo, ma anche
vecchio e ossidato
Dopo un attimo, quel moschettone pende dalla nostra imbracatura.
E poi, se proprio ti devi ricalare, fai la doppia e lasci tutt'al più una vecchia
fettuccia o un cordino
La sequenza logica è abbastanza immediata. Oggi
chi ruba un moschettone dalla sosta di una via, lo fa, per lo più, come dispetto (verso
chi ha chiodato la via, per esempio
). In quell'epoca oramai lontana (gli anni '80,
gli anni dei miei diciotto anni
), ciò accadeva per presunzione: il moschettone qui
non serve, pensa l'alpinista, e anzi serve di sicuro più a me che vado in montagna. Qui
siamo a cento metri dalla strada: qual è il senso di una parete tutta perfettamente
attrezzata? Di una parete senza più incognite, senza avventura?
Meravigliosa avventura del nostro giovane poeta
satirico! Parte a freddo su «Serena» (dopo la quinta o sesta salita, scompare, come per
una regola grammaticale di certe lingue classiche, la seconda parte del nome della via).
Il Poeta, così oramai lo chiameremo, affronta dunque «Serena» come riscaldamento. E
ciò sebbene la difficoltà della via sia terribilmente vicina al suo grado limite,
identificabile in quel periodo con un 6c o 6c+ (alcuni suoi amici nutrono in effetti,
ancora oggi, qualche dubbio sulla sua presunta libera di Odino, 6c; e anzi qualcuno
ricorda, proprio lì, un volo mostruoso, da far passare la voglia di arrampicare; leggenda
o realtà, difficile dirlo). Insomma, il Poeta supera con eleganza i primi dieci metri di
via. Nel tratto dove oggi si incontrano due o tre spit, non c'era all'epoca alcuna
protezione. «E te credo, sarà terzo grado
». Arriva così al famoso fettuccione
che contorna una solida clessidra alla base dello strapiombo. Il Poeta sa che passare un
rinvio nel fettuccione sarebbe, agli occhi degli altri arrampicatori presenti, un segno di
imperdonabile codardia. Si dà il caso che «Serena» si trovi proprio sulla verticale del
luogo in cui da sempre (cioè da un anno prima al tempo di questa storia) a Sperlonga si
lasciano gli zaini. Ci si prepara ad arrampicare, si infilano improbabili tute e
pantaloncini, perché la moda del pantacollant è ancora di là da venire. E si guarda
sopra, in alto. Ecco il Poeta tendersi per moschettonare il primo spit. Il corpo si
slancia all'infuori, su dodici metri di vuoto. Impossibile non pensare a cosa accadrebbe
se perdesse la presa o l'equilibrio
Ma il Poeta ha già messo la corda, prima in
bocca tra i denti, varie volte, e poi finalmente nel moschettone. Arcua le dita di una
mano sulla prima tacca orizzontale, poi la seconda. Di sotto un vago, inconfessato sospiro
di sollievo. Sappiamo che ora non cadrà, conosce la via troppo bene.
Eppure, se potessimo guardare dentro la sua
testa, scopriremmo forse con sorpresa che egli non possiede le nostre stesse certezze. Per
un attimo, brevissimo, esita. Il dubbio di aver preso troppa poca magnesite, la sensazione
che quell'appiglietto per la sinistra sia oggi un po' più svasato del solito
E i
più piccoli, i più bassi, in effetti, qui si rannicchiano meglio. Poi mi vengono a dire
che io salto il passaggio più ignorante (cioè rude, faticoso). Ecco per fortuna la presa
buona. Sensazione davvero positiva, eppure rovinata da un quesito tragico, e che pare
alludere misteriosamente all'eternità, su dove mettere la punta del piede destro.
Il chiodo (la seconda protezione) ovviamente si
salta. Sempre per orgoglio, per non essere esposto - più tardi, magari la sera da Guido -
alla più infamante delle insinuazioni: quella di essere un pavido, di non avere la pompa
(cioè il cuore) per certe cose. Per queste ragioni il Poeta prosegue con gesto
ostentatamente sicuro, e sale, sale, con gli avambracci che pian piano si induriscono.
L'ultimo chiodo pure si salta. E stavolta davvero con un po' di apprensione per quegli
interminabili sei o sette metri, specie per quell'ultimissimo passaggio per ribaltarsi sul
terrazzino. Davvero una calla (cioè una cavolata) di passaggio, ma con queste braccia
ormai dure, le dita che non le sento
Il riscaldamento è bello e fatto.
Un'occhiata alla sosta. E poi espressioni qui, di
nuovo, irriferibili, stavolta non poetiche, ma di odio e disprezzo verso Dio (addirittura)
e la Vergine Maria. Il moschettone di calata non c'è, se lo sono fregato. «'Sti stronzi,
porca puttana»: questo sì, lo possiamo - un po' a malincuore - riferire.
Perché tanta rabbia?
Ma semplicemente perché il Poeta non ha con
sé moschettoni, e nemmeno un cordino o una fettuccia.
Aveva soltanto quei tre rinvii, che ha utilizzato
per salire la via.
Perché soltanto quei tre?
Le ragioni sono al tempo stesso semplici e
complesse. Proviamo a sintetizzarle.
L'orgoglio e l'audacia vanno in qualche modo
incoraggiati. Attaccare la via con la quantità minima indispensabile di rinvii, vuol dire
per il Poeta costringere se stesso, nel momento dei vari possibili moschettonaggi (momento
storicamente segnato, un po' per tutti, da improvvise crisi mistiche: con visioni dei
familiari, della fidanzata, degli amici più cari), a non cedere alla tentazione. Vuol
dire che se moschettono adesso, non potrò farlo dopo, quando davvero un rinvio può
salvarmi la vita. Soltanto tre opportunità di auto-protezione: opportunità da non
dissipare, da non sprecare.
L'arrampicata libera è uno sport bello ed
elegante. Bisogna dunque essere agili e soprattutto leggeri. Portarsi un rinvio in
meno, vuol dire essere più leggeri. Vuol dire anche stancarsi di meno.
Il Poeta - chi lo ha conosciuto lo sa bene - ama
lanciare nuove tendenze. O quanto meno farsene portavoce in prima persona. Sa ad esempio
che in Inghilterra si pratica una forma di arrampicata molto più audace (rischiosa)
rispetto alla nostra. In alcuni posti è proibito piantare gli spit! Si arrampica per
metri senza mettere un cazzo! Certo, quella è, e resta, l'Inghilterra. E gli inglesi sono
pazzi. Ma il Poeta, nel suo piccolo, quando mi incontrerà, la sera da Guido, o la
domenica successiva lungo il sentiero, potrà ora dirmi: «Oh, lo sai no? Adesso Serena si
fa con tre rinvii
Altrimenti
Altrimenti sei un vecchio, sì sei proprio un
vecchio».
Dopo aver meditato sulle ragioni di quella scelta
(portarsi solo tre rinvii), e dopo averle trovate pure un po' cretine, incontestabili ma
cretine, resta ancora al Poeta il problema di come calarsi dalla sosta. La sua
intelligenza creativa lo soccorre. Il sacchetto della magnesite che pende dietro la
schiena è tenuto da un piccolo moschettone. C'è inciso sopra 300 Kg. Ed ecco
l'intelligenza analitica: 70 kg, il mio peso, è molto, molto meno di 300.
Ma l'intelligenza non è la pompa. E la corda
doppia (che potremmo definire un coatto gesto alpinistico, in tutti i sensi) per ritornare
all'attacco di «Serena», è per il Poeta una lunghissima e gelida scossa di adrenalina.
Quella sera da Guido, scrivendo sul Libro, nella satira feroce troverà la sua
vendetta.
Potrebbe definirsi il primo capitolo di un libro
che
(probabilmente) non scriverò mai.......................................
CIAO!
LUCA BEVILACQUA
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