DICEMBRE
1
L'ALBERGATORE DI BETLEMME
Mi avete messo
dalla parte di cattivi. Da secoli spio la mia statuina nei vostri presepi. La
vedo sulla porta dell'osteria, la faccia truce, lo sguardo severo, il dito
alzato in segno di rifiuto; oppure dietro le porte dell'albergo, china sui
profitti della giornata, incurante della coppia di galilei che bussa per
domandare un giaciglio.
Forse non avete l'idea di cosa significhi gestire una locanda in un borgo come
Betlemme. Pochi guadagni, lavoro di bassa lega, rogne a grappoli.
Clientela non selezionata, e ladri e farabutti pronti a portarti via i magri
ricavi appena giri le spalle. È vero: in quel periodo gli affari andavano bene.
Merito della follia di Cesare Augusto, e del suo ordine assurdo di bandire un
censimento. Ma più degli introiti, ad essere sinceri, crescevano le
preoccupazioni. La mia locanda era invasa da persone di ogni tipo: viaggiatori
sconosciuti, gente comune che veniva a farsi registrare, facce da galera pronte
a tagliare la gola per due denari, vagabondi di passaggio, avventori con pochi
soldi e tante richieste. E quella notte io, l'albergatore di Betlemme,
semplicemente non ce la facevo più.
Tutti a pretendere un posto, a gridare ordini, a tirarmi per i capelli, a
lamentarsi per la minestra insipida o il vino annacquato; tutti pronti a darmi
addosso perché il servizio era lento, il letto sporco, il cibo cattivo. Gli
uomini bestemmiavano, i bambini gridavano, le donne si accapigliavano.
Altro che notte di stelle e di amore, come cantate nelle vostre canzoni. Era una
bolgia, un inferno. C'erano persone sdraiate sul tavolo della cucina, bestie ed
esseri umani buttati l'uno sull'altro, animali e ragazzi coricati insieme.
Non mi restava nemmeno il mio letto, ceduto per quattro spiccioli all'ultimo
avventore, e dormivo in piedi, come un somaro.
E allora ho detto no. Non per cattiveria, non perché Maria e Giuseppe (si
chiamano così, vero?) erano dei poveracci che non potevano pagare. Semplicemente
perché non ce la facevo più.
Cosa ne sapete voi, che mi avete messo tra i cattivi? Magari - oltre a tutto
questo - avevo anch'io una vecchia madre malata, o una moglie bisbetica con cui
bisticciare, o un figlio scappato di casa, o un dolore sordo nel cuore, una
ferita nelle viscere, un rimorso, un fallimento, un rimpianto.
Da secoli vedo che fate come me, del resto. Come me chiudete le porte a Dio,
incatenati dai vostri dispiaceri, schiantati dalla stanchezza della vita,
torchiati da pesi che non riuscite a portare, da paure che vi tolgono la
speranza e il respiro. E Dio arriva, e bussa alla soglia.
Ma non ce la fate più, e la vostra casa rimane chiusa. Eppure - i vostri vangeli
non lo raccontano - eppure non è finita così. Quella notte, quella stessa notte,
mi sono destato di soprassalto. Un rumore, un tuono, un canto: non chiedetemi
cos'è stato. Ho aperto gli occhi di colpo, e ho rivisto come in un sogno Maria e
Giuseppe che camminavano verso la stalla che avevo loro indicato. Ho raccolto un
paio di coperte, un po' di formaggio, del pane avanzato. Mi sono messo il
fagotto sulle spalle e sono uscito dall'albergo di nascosto, come un ladro. La
capanna era poco distante, avvolta da una luce strana; qualcuno si allontanava
nel buio, verso le colline dei pascoli. Sono entrato quasi di soppiatto e mi
sono fermato in un angolo, nascosto dietro una trave di legno. Ho lasciato le
quattro cose che mi ero portato appresso, e sono caduto in ginocchio. Non so
quanto tempo sono rimasto, incantato, a fissare il Bambino. Quel tanto che basta
per capire che io gli avevo detto di no, ma lui mi diceva di sì. Che per lui non
c'era posto nel mio albergo, ma per me c'era posto nella sua vita, nel suo
cuore, tutte le volte che avrei voluto. E vorrei dirvi che poco m'importa se nei
vostri presepi e nelle vostre recite sarò sempre l'oste cattivo: perché lui non
mi vede così, perché - ne sono sicuro - mi aspetta di nuovo, come quella notte,
ogni notte, ogni giorno, in ogni istante. Siete, siamo ancora in tempo. Non
importa se gli abbiamo detto no. Non importa se l'affanno, la stanchezza, la
tristezza della vita ci ha fatto, un giorno, chiudere le porte a Dio.
C'è tempo. La sua casa rimane aperta, non ci manderà indietro.
E forse cadremo, finalmente, in ginocchio davanti a lui, nel pentimento e nel
perdono, in un sorriso di tenerezza o nella consolazione del pianto.
Buon Natale! DON DAVIDE CALDIROLA
2
DITELO PRIMA
Lui era un
omone robusto, dalla voce tonante e i modi bruschi. Lei era una donna dolce e
delicata. Si erano sposati. Lui non le faceva mancare nulla, lei accudiva la
casa e educava i figli. I figli crebbero, si sposarono, se ne andarono. Una
storia come tante.
Ma, quando tutti i figli furono sistemati, la donna perse il sorriso, divenne
sempre più esile, non riusciva più a mangiare e in breve non si alzò più dal
letto. Preoccupato, il marito la fece ricoverare in ospedale. Vennero al suo
capezzale medici e specialisti famosi.
Nessuno riusciva a scoprire il genere di malattia. Scuotevano la testa e
dicevano: “Mah!”
L’ultimo specialista prese da parte l’omone e gli disse: “Direi semplicemente
che sua moglie non ha più voglia di vivere!”.
Senza dire una parola, l’omone si sedette accanto al letto della moglie e le
prese la mano.
Una manina
sottile che scomparve nella manona dell’uomo. Poi, con la sua voce tonante,
disse deciso: “Tu non morirai!”
“Perché?” chiese lei, in un soffio lieve.
“Perché io ho bisogno di te!” rispose lui.
“E perché non me l’hai detto prima?” domandò lei.
Da quel momento la donna cominciò a migliorare.
E oggi sta benissimo. Mentre medici e specialisti continuano a chiedersi che
razza di malattia avesse e quale straordinaria medicina l’avesse fatta guarire
così in fretta.
Non aspettare
mai domani per dire a qualcuno che l’ami. Fallo subito.
Non pensare: “Ma mia madre, mio figlio, mia moglie lo sa già!” Forse lo sa. Ma
tu ti stancheresti mai di sentirtelo ripetere?
Non guardare l’ora, prendi il telefono: “Sono io, voglio dirti che ti voglio
bene!”
Stringi la mano della persona che ami e dillo: “Ho bisogno di te! Ti voglio
bene, ti voglio bene, ti voglio bene!”
L’amore è la vita.
Vi è una terra dei morti e una terra dei vivi. Chi li distingue è l’amore.
BRUNO FERRRERO.
3
L'ASINO E IL BUE
Mentre Giuseppe
e Maria erano in viaggio verso Betlemme, un angelo radunò tutti gli animali per
scegliere i più adatti ad aiutare la Santa Famiglia nella stalla.
Per primo, naturalmente, si presentò il leone. "Solo un re è degno di servire il
Re del mondo - ruggì - io mi piazzerò all'entrata e sbranerò tutti quelli che
tenteranno di avvicinarsi al Bambino!". "Sei troppo violento" disse l'angelo.
Subito dopo si avvicinò la volpe. Con aria furba e innocente, insinuò: "Io sono
l'animale più adatto. Per il figlio di Dio ruberò tutte le mattine il miele
migliore e il latte più profumato. Porterò a Maria e Giuseppe tutti i giorni un
bel pollo!". "Sei troppo disonesta", disse l'angelo.
Tronfio e splendente arrivò il pavone. Sciorinò la sua magnifica ruota color
dell'iride: "Io trasformerò quella povera stalla in una reggia più bella del
palazzo di Salomone!". "Sei troppo vanitoso", disse l'angelo.
Passarono, uno dopo l'altro, tanti animali ciascuno magnificando il suo dono.
Invano.
L'angelo non riusciva a trovarne uno che andasse bene. Vide però che l'asino e
il bue continuavano a lavorare, con la testa bassa, nel campo di un contadino,
nei pressi della grotta.
L'angelo li chiamò: "E voi non avete niente da offrire?". "Niente - rispose
l'asino e afflosciò mestamente le lunghe orecchie - noi non abbiamo imparato
niente oltre all'umiltà e alla pazienza. Tutto il resto significa solo un
supplemento di bastonate!".
Ma il bue, timidamente, senza alzare gli occhi, disse: "Però potremmo di tanto
in tanto cacciare le mosche con le nostre code".
L'angelo finalmente sorrise: "Voi siete quelli giusti!". BRUNO FERRERO
4
“UN ABBRACCIO PER PAPÀ”
Degli studenti
universitari ebbero come compito per il fine settimana: dare un lungo e caloroso
abbraccio al loro papà.
“Non posso farlo,” protestò uno, “mio padre morirebbe!”
“E poi,” disse un altro, “mio padre sa che lo amo!”
“Allora è
facile!” replicò il professore, “Perché non lo fai?”
Il lunedì seguente tutti parlavano, sorpresi, di come fosse stata soddisfacente
l’esperienza.
“Mio padre si è messo a piangere!” diceva uno.
E un altro: “Strano. Mio padre mi ha ringraziato!” BRUNO FERRERO
5
RACCONTO DI NATALE
Tetro e ogivale
è l'antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un
supplizio nelle notti d'inverno. E l'adiacente cattedrale è immensa, a girarla
tutta non basta una vita, e c'è un tale intrico di cappelle e sacrestie che,
dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà
la sera di Natale - ci si domanda - lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la
città è in festa? Come potrà vincere la malinconia?
Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha
la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il
vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, il carcerato la voce di un altro
dalla cella vicina. Come farà l'arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino,
segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L'arcivescovo ha
Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale
gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse!
Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera
di Natale Dio dilaga nel tempio, per l'arcivescovo, le navate ne rigurgitano
letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le
stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri
degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo
gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.
Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli
competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre
l'inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante.
Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a
una porta. "Chi bussa alle porte del Duomo" si chiese don Valentino "la sera di
Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?" Pur
dicendosi così andò ad aprire e con una folata di vento entrò un poverello in
stracci.
"Che quantità di Dio!" esclamò sorridendo costui guardandosi intorno, "Che
bellezza! Lo si sente perfino di fuori. Monsignore, non me ne potrebbe lasciare
un pochino? Pensi, è la sera di Natale".
"E' di sua eccellenza l'arcivescovo" rispose il prete. "Serve a lui, fra un paio
d'ore. Sua eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che
adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore."
"Neanche un pochino, reverendo? Ce n'è tanto! Sua eccellenza non se ne
accorgerebbe nemmeno!"
"Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo è chiuso al pubblico" e congedò il
poverello con un biglietto da cinque lire.
Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve.
Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio
non c'era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue,
baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso
e potente, era diventato all'improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio
d'ore l'arcivescovo sarebbe disceso.
Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella
piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c'era traccia di Dio.
Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti,
musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.
don Valentino uscì nella notte, se n'andò per le strade profane, tra fragore di
scatenati banchetti. Lui però sapeva l'indirizzo giusto. Quando entrò nella
casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano
benevolmente l'un l'altro e intorno ad essi c'era un poco di Dio.
"Buon Natale, reverendo" disse il capofamiglia. "Vuol favorire?"
"Ho fretta, amici" rispose lui. "Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato
il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro?
Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno."
"Caro il mio don Valentino" fece il capofamiglia. "Lei dimentica, direi, che
oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi
meraviglio, don Valentino."
E nell'attimo stesso che l'uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i
sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.
Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don
Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si
stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra
i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando.
don Valentino cadde in ginocchio.
"Ma che cosa fa', reverendo?" gli domandò un contadino. "Vuoi prendersi un
malanno con questo freddo?"
"Guarda laggiù figliolo. Non vedi?"
Il contadino guardò senza stupore. "È nostro" disse. "Ogni Natale viene a
benedire i nostri campi."
" Senti " disse il prete. "Non me ne potresti dare un poco? In città siamo
rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che
l'arcivescovo possa almeno fare un Natale decente."
"Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete
fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi."
"Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo,
solo che tu mi dica di sì."
"Ne ho abbastanza di salvare la mia!" ridacchiò il contadino, e nell'attimo
stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.
Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne
possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell'atto stesso che lui rispondeva di
no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).
Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio
all'orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga.
Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. "Aspettami, o Signore " supplicava
"per colpa mia l'arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!"
Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio,
ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?
Finché udì un coro disteso e patetico, voci d'angelo, un raggio di luce filtrava
nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel
mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di
paradiso.
"Fratello" gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli
"abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno
di Dio. Dammene un poco, ti prego."
Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo,
si fece, se era possibile, ancora più pallido.
"Buon Natale a te, don Valentino" esclamò l'arcivescovo facendosi incontro,
tutto recinto di Dio. "Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere
che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?" DINO BUZZATI
6
LEGGENDA DI NATALE
Creberg è
l'unico paese del mondo cristiano in cui le campane suonano la gloria della
nascita del Redentore cinque minuti dopo la mezzanotte.
Viveva a Creberg una vecchina di oltre cent'anni: si chiamava Greti. Una sera,
era la sera del ventiquattro dicembre, nella piccola casa entrò improvvisamente
la Morte: era passata dalla porta chiusa, silenziosamente. Gret, che stava
sferruzzando lestamente, alzò gli occhi su lei:
- È ora? - chiese ansiosa.
- È ora - rispose la Morte.
- Aspetta ancora un poco, te ne prego - supplicò la vecchina - Devo finire
questa maglia di lana.
- Quanto tempo occorre?
Gret diede un rapido sguardo al lavoro, fece un breve conto e rispose: - Due
ore. Due ore mi bastano.
- È troppo.
- Ma io devo assolutamente finire la maglia. Tutti gli anni ne faccio una per il
Bambino che nasce. E se non riesco a finirla, il Bambino avrà freddo. Non senti
che gelo?
- Due ore di ritardo nell'ubbidire alle leggi di Dio - rispose gravemente la
Morte - significano duecento anni di pene da scontarsi prima di raggiungere la
pace divina.
La vecchina ebbe un moto di sgomento.
Ma poi scosse il capo: - Non importa - rispose - Il Bambino, senza maglia,
soffrirebbe. Duecento anni? Pazienza.
E continuò a sferruzzare veloce, mentre la Morte, in un angolo, attendeva.
Mancavano pochi minuti alla mezzanotte, allorché Gret alzò il capo: Sono pronta,
disse alla Morte.
Uscirono insieme e s'incamminarono vicine sotto il cielo coperto di stelle.
Troc, troc, faceva la falce, picchiando sulle scapole nude della Morte.
Sulla grande strada alberata dovettero fermarsi.
Circondato da un alone di luce bianchissima, avanzava il Bambino che si recava a
Betlemme.
La vecchina si inginocchiò, e, quando Egli le fu vicino, gli porse umilmente la
maglia.
Gesù si fermò, guardò la Morte che attendeva, poco discosto e chiese: - Dove
andate?
- A scontar duecento anni di pene per raggiungere la felicità eterna - rispose
la vecchina.
Il Bambino la fece alzare e si rivolse alla Morte: - Vattene - le disse
- L'accompagno io.
La prese per mano e ritornò indietro sulla via percorsa, fino in Paradiso.
Poi riprese il cammino per andare a Betlemme: quando vi giunse era la mezzanotte
e cinque minuti.
Di cosa ha bisogno il Dio Bambino?
Di nulla, se non del calore dell'amore di chi si mette in gioco per lui, come
lui si è messo in gioco per salvare i suoi fratelli!
7
LA LEGGENDA DEL VISCHIO
Il vecchio
mercante si girava e rigirava, senza poter prendere sonno.
Gli affari, quel giorno, erano andati benissimo: comprando a dieci, vendendo a
venti, moneta su moneta, aveva fatto un bel mucchietto di denari.
Si levò. Li volle contare. Erano monete passate chissà in quante mani,
guadagnate chissà con quanta fatica. Ma quelle mani e quella fatica a lui non
dicevano niente.
Il mercante non poteva dormire. Uscì di casa e vide gente che andava da tutte le
parti verso lo stesso luogo. Pareva che tutti si fossero passati la parola per
partecipare a una festa.
Qualche mano si tese verso di lui. Qualche voce si levò: – Fratello, – gli
gridarono – non vieni?
Fratello, a lui fratello? Ma che erano questi matti? Lui non aveva fratelli. Era
un mercante; e per lui non c’erano che clienti: chi comprava e chi vendeva.
Ma dove andavano? Si mosse un po’ curioso. Si unì a un gruppo di vecchi e di
fanciulli.
Fratello! Oh, certo, sarebbe stato anche bello avere tanti fratelli! Ma lui
cuore gli sussurrava che non poteva essere loro fratello. Quante volte li aveva
ingannati? Comprava a dieci e rivendeva a venti. E rubava sul peso. E piangeva
miseria per vender più caro. E speculava sul bisogno dei poveri. E mai la sua
mano si apriva per donare.
No, lui non poteva essere fratello a quella povera gente che aveva sempre
sfruttata, ingannata, tradita.
Eppure tutti gli camminavano a fianco. Ed era giunto, con loro, davanti alla
Grotta di Betlemme. Ora li vedeva entrare e nessuno era a mani vuote; anche i
poveri avevano qualcosa. E lui non aveva niente, lui che era ricco.
Entrò nella grotta insieme con gli altri; s’inginocchio insieme agli altri.
– Signore, – esclamò – ho trattato male i miei fratelli. Perdonami.
E proruppe in pianto. Appoggiato a un albero, davanti alla grotta, il mercante
continuò a piangere, e il suo cuore cambiò. Alla prima luce dell’alba quelle
lacrime splendettero come perle, in mezzo a due foglioline. Era nato il
vischio. I. DRAGO
8
LA LEGGENDA DELL’ALBERO DI NATALE
C’era una volta
un boscaiolo, che era sposato con una giovane donna che amava molto. Siccome la
amava molto ci teneva che lei avesse cose buone da mangiare e una casa sempre
calda e quindi passava molto tempo nei boschi a tagliare la legna, un po’ per
rivenderla e un po’ per scaldare la sua casa, che aveva un bel camino di pietra.
La sera di Natale stava tornando a casa tardi come al solito e vide, alzando lo
sguardo, un bellissimo abete alto e maestoso. Stava prendendo le misure per
vedere se poteva tagliarlo quando si accorse che tra i suoi rami, nella notte
che era buia che più buia non si può, riusciva a scorgere le stelle e che la
luce di queste sembrava brillare proprio dai rami.
Affascinato da questo spettacolo decise in quel momento due cose: la prima era
che avrebbe lasciato il vecchio abete lì dove stava e la seconda che doveva far
vedere alla moglie questo bellissimo spettacolo: tagliò allora un abete più
piccolo, lo portò davanti alla casa e lì accese delle piccole candele che mise
sui rami (senza dar fuoco all’albero accidentalmente). La moglie del boscaiolo,
dalla finestra, vide l’albero così illuminato e se ne innamorò al punto da
lasciar bruciare l’arrosto. Da quel momento in poi la bella moglie del boscaiolo
volle sempre avere un abete illuminato per Natale e i vicini, trovandolo
bellissimo a guardarsi, imitarono presto il boscaiolo. Quest’uso poi si estese e
l’albero di Natale divenne uno dei simboli del Natale.
9
LA LEGGENDA DELL’ABETE
S’approssimava l’inverno di tanti e tanti anni fa. Un uccellino, che aveva un’ala spezzata, non sapeva dove ripararsi dal freddo e dalla neve. Si guardò intorno per cercare un asilo e vide i begli alberi di una grande foresta. A piccoli passi si portò faticosamente al limitare del bosco. Il primo albero che vide fu una betulla dal manto d’argento.
-Graziosa
betulla, vuoi ospitarmi fra le tue fronde fino alla buona stagione?-
– Che curiosa idea! Ne ho abbastanza di custodire le mie foglie!-
L’uccelletto saltellò fino all’albero vicino. Era una quercia dalla fitta
chioma.
– Grande quercia, vuoi tenermi al riparo fino a primavera?-
– Che domanda! Se io ti riparassi mi beccheresti tutte le ghiande!-
L’uccellino volò alla meglio fino a un grosso salice che sorgeva sulla riva di
un fiume.
– Bel salice, mi dai ricovero fino a che dura il freddo?-
– No davvero! Va’, va’ lontano da me!-
Il povero uccellino non sapeva più a chi rivolgersi, ma continuò a saltellare…
Lo vide un abete e gli chiese: – Dove vai, uccellino?-
– Non lo so. Nessuno mi vuole ospitare e io non posso volare tanto lontano, con
questa ala spezzata.-
– Vieni qui da me, poverino. Riparati sul ramo che più ti piace-
– Oh, grazie. E potrò restare qui tutto l’inverno?-
– Certamente, mi terrai compagnia.-
Una notte il vento gelido sferzò le foglie, che caddero a terra mulinando. La
betulla, la quercia, il salice, in breve tempo si trovarono nudi e intirizziti.
L’abete invece conservò le sue foglie, e le conserva tuttora. Sapete perchè?
Perchè Dio volle premiarlo della sua bontà. G. BENZONI
10
I FOLLETTI E IL CALZOLAIO
C’era una volta
un calzolaio che nella bottega aveva il cuoio per un solo paio di scarpe.
Una mattina entrò nel suo negozio e vide sul deschetto un paio di scarpe già
belle e cucite.
Rimase stupito dal fatto, poi però le prese e le pose in vetrina. Poco dopo
entrò un signore e le comperò. Con quel denaro il calzolaio comprò il cuoio per
altre due paia di scarpe.
La mattina trovò nuovamente sul deschetto due paia di scarpe ben rifinite.
E non mancarono i compratori, così che il calzolaio poté comperare altro cuoio.
La mattina dopo trovò tutte le scarpe bell’e cucite. E così andò avanti: il
cuoio che preparava la sera, la mattina lo trovava in numero di scarpe sempre
maggiore.
Il Natale era vicino e il calzolaio disse alla moglie: Invece di andare a letto,
non potremmo aspettare per vedere chi è che ogni notte viene ad aiutarci? La
moglie rispose subito di sì e si nascosero in un angolo.
Ed ecco a mezzanotte in punto comparvero due ometti piccolini, belli e ben
fatti, vestiti della sola camicia, i quali sedettero uno di qua e uno di là
davanti al deschetto del calzolaio e, con le esperte manine cominciarono a
unire, a forare, a battere, a cucire.
Prima dell’alba filarono via senza che si potesse vedere di dove passavano per
uscire.
La mattina, la moglie disse al calzolaio: Non ti pare che dovremmo dimostrare la
nostra gratitudine a quei due ometti?
M’è venuta l’idea che con la sola camicia addosso forse hanno freddo: non
sarebbe bene che io cucissi per loro camicine,. mutandine, giacchettine,
berrettini e calzettini? Il marito rispose subito: Magnifica idea!
La moglie si mise al lavoro e quando tutto fu pronto disposero i doni sul banco
e si, nascosero per vedere che cosa avrebbero fatto i due folletti. A
mezzanotte, quando questi entrarono, e videro quei graziosi indumenti,
scoppiarono in una gioia indescrivibile.
In un momento indossarono tutto, si guardarono allo specchio, poi si misero a:
passeggiare dicendo: – Come siamo belli! Come ci stanno bene questi vestiti!
Si misero a ballare e a saltare sulle sedie e sui panchetti, finché così
ballando e saltando uscirono come sempre senza che si potesse vedere come.
Da quella sera non tornarono più.
Ma il calzolaio era ormai ricco e poteva vivere contento e felice.
11
LA STELLA DI NATALE
Quest’anno –
disse il signor Beltempo un mattino –dobbiamo pensare in tempo all’albero di
Natale e prepararne uno enorme e bellissimo.
– Bene – fu d’accordo la signora Beltempo – ce ne procureremo uno che arrivi
fino al soffitto.
I cinque bambini Beltempo pensarono che fosse un’idea meravigliosa. La sera, il
signor Beltempo arrivò a casa carico di pacchetti che contenevano splendidi
nuovi ornamenti per l’albero: grandi palline colorate e lucenti, frutta fatta di
vetro soffiato, campanelli che tintinnavano, uccellini dai colori
dell’arcobaleno; la cosa più bella era un grande angelo dorato e lucente.
– Questo andrà sulla cima dell’albero – disse il signor Beltempo. – Abbiamo
usato troppo a lungo la vecchia stella, è ora di sostituirla. A queste parole,
il viso della signora Beltempo si rabbuiò. Anche i bambini assunsero un’aria
scontenta.
– Quella stella era già sulla punta dell’albero quando io ero bambina – disse la
signora.
– Quando pensiamo al Natale noi pensiamo a quella stella! – dissero Maria e
Marco, i due bambini più grandi. Anche Michele e Miriam, i due bambini di mezzo,
volevano la stella. E Marta, la bambina piccola, disse: – Niente stella? Ma io
voglio la stella!
Allora il babbo ebbe un’idea: prese l’angelo e lo pose sulla cappa del camino.
– Ecco il posto adatto per l’angelo – disse. -Sta bene qui, vero? Dopotutto, il
nostro albero non deve essere grande e nuovo al punto che non sembri più neppure
il nostro albero.
Allora tutti i Beltempo trassero un sospiro di sollievo e andarono a cena con
gli occhi scintillanti di gioia, così scintillanti che pareva che un pezzetto di
stella fosse entrato in essi.
KATHRYN JACKSON, RICHARD SCARRY
12
LA NOTTE SANTA
Era la Notte
Santa. Un povero calzolaio lavorava ancora nella sua unica stanza, dove viveva
insieme alla moglie. Entro la mattina successiva avrebbe dovuto consegnare un
paio di scarpe per il figlio di un ricco signore. – Hai già pensato a quello che
potremmo comprarci con il guadagno di questo lavoro? – chiese il calzolaio alla
moglie.
– Sono piccole ci daranno ben poco! – scherzò lei – Accontentiamoci, meglio
questo che niente! Il calzolaio appoggiò le scarpe sul banco e se le guardò
soddisfatto. – Guarda che meraviglia! -esclamò – e senti come sono calde con
questa pelliccia dentro!
Un paio di scarpette degne di Gesù Bambino – disse la moglie
– Hai ragione! – rispose il calzolaio mettendosi a spazzolarle.- Allora che cosa
pensi di comprare per il pranzo di domani? – riprese l’uomo dopo un attimo.
– Ma pensavo a un cappone –
– Già senza un cappone non sarebbe un vero Natale. –
– Forse anche mezzo –
– D’accordo e poi? –
– Due fette di prosciutto –
– Sicuro: il prosciutto come antipasto! E poi? –
– E poi il dolce –
– E poi la frutta secca –
– Giusto e da bere? –
– Una bottiglia di spumante –
– Si una bottiglia basterà ma che sia buono.-
A quel punto si sentì un colpo alla porta. – Hanno bussato – chiese l’uomo
– Ma chi sarà a quest’ora? Forse il cliente –
– No gliele devo portare io domattina –
– Allora sarà il vento –
Ma il rumore si sentì di nuovo. La donna aprì la porta ed ebbe un moto di
sorpresa, un bambino la guardava con grandi occhi neri, dalla soglia della
porta. I suoi capelli erano tutti spettinati e i vestiti erano laceri e sporchi
– Entra piccolo – lo invitò la donna.
Il bambino entrò, aveva le labbra bluastre dal freddo, il calzolaio guardò
subito i suoi piedini – Ma tu sei scalzo – gridò.
Il piccolo non parlò guardò le scarpe anzi le accarezzò con gli occhi ma senza
invidia.
L’uomo e la moglie guardarono prima i piedini nudi del bambino e poi le scarpe
sul tavolo, quindi la donna fece un cenno al marito e il calzolaio prese in mano
le scarpe le osservò contento e disse – Prendile te le regalo sono morbide e
calde- La moglie aiutò il bambino a infilarsele.
– Grazie – rispose sorridendo – Sono le prime che porto. Ora però devo andare,
buonanotte –
Il calzolaio e la moglie non ebbero neanche il tempo di salutarlo che il bambino
era già sparito.
– E’ fatta – esclamò l’uomo – Ora niente più prosciutto, né cappone, né frutta,
né dolce e neanche lo spumante, in fondo a me lo spumante non piace nemmeno –
– E io non digerisco il cappone, anche del prosciutto posso farne a meno e il
dolce poi ci è rimasta qualche noce e un po’ di pane raffermo – disse la donna –
Va benissimo passeremo un bel Natale –
Tutti e due pensavano al bambino – Penso che gli siano piaciute molto le mie
scarpe – aggiunse il calzolaio – Si mi sembrava molto contento –
In quel momento suonò la Messa di mezzanotte e la stanza si illuminò
all’improvviso, il calzolaio e la moglie furono abbagliati da quella luce; poi,
quando riaprirono gli occhi nel punto in cui il bambino aveva calzato le scarpe
videro spuntar miracolosamente un abete con una stella in cima. Dai rami
penzolavano capponi, prosciutti, dolci, frutta secca e bottiglie di spumante.
Soltanto allora capirono chi fosse quel bambino e si inginocchiarono a
ringraziare Dio.
13
IL RACCONTO DELLA STELLA DI NATALE
Di tutte le
stelle che brillavano nel cielo, quella era senz’altro la più bella di tutte.
Ogni pianeta e astro del cielo, la guardava con ammirazione, e si chiedeva quale
sarebbe stata l’importante missione che doveva compiere. E la stessa cosa si
domandava la scintillante stella, consapevole della sua incomparabile bellezza.
I suoi dubbi svanirono quando alcuni Angeli andarono a trovarla: – Vai! Il tuo
tempo è giunto, il Signore ti chiama per affidarti un importante compito.
Ed ella corse più rapidamente che poté per conoscere il luogo in cui sarebbe
accaduto l’evento più importante della storia. La stella si riempì di orgoglio,
si vestì con i suoi migliori fulgori e si dispose dietro gli Angeli che gli
avrebbero indicato la strada.
Brillava con una tale forza e bellezza che la potettero osservare in ogni luogo
della terra e anche un gruppetto di Re decise di seguirla, sapendo che stava
indicando qualcosa di universalmente importante.
Per giorni la stella seguì gli Angeli, che gli mostravano il percorso,
desiderosa di scoprire quale fosse il posto che avrebbe dovuto illuminare.
Ma quando gli Angeli si fermarono e con grande gioia dissero “Ci siamo, è qui il
posto” la stella non riuscì a crederci.
Non c’erano palazzi, castelli o dimore, non brillavano ne ori ne gioielli. Solo
una piccola casupola abbandonata, sporca e maleodorante.
– Oh, no! Ma cosa succede! Non posso sprecare il mio splendore e la mia bellezza
in un luogo simile! Sono nata per illuminare qualcosa di più grande e maestoso!
disse la stella.
Nonostante gli Angeli tentassero, con ogni mezzo, di calmarla, la furia della
stella crebbe a dismisura e si riempì di così tanto orgoglio che cominciò a
bruciare, fino a consumarsi del tutto, e a scomparire nel nulla.
Che problema! Mancavano solo un paio di giorni al grande momento, e gli Angeli
erano rimasti senza la luce più splendente. In preda al panico, raggiunsero Dio
per raccontargli ciò che era accaduto.
Egli, dopo aver pensato per un attimo, disse: – Cercate e trovate la più
piccola, umile e gioiosa stella tra le stelle.
Sorpresi dal mandato, ma senza indugio alcuno, perché il Signore era solito
chiedere certe cose, gli Angeli volarono per i cieli alla ricerca della più
minuta e felice stella fra le stelle.
Ne trovarono una piccolissima, così minuscola che pareva un granello di sabbia.
Di essa non ne avevano mai sentito parlare, però capirono che non dava alcuna
importanza alla sua luminosità e trascorse tutto il tempo, mentre la
osservavano, a ridere e chiacchierare con gli astri amici, molto più grandi di
lei.
Quando fu presentata a Dio, egli disse: – La stella più perfetta della
creazione, la più bella e brillante, ha fallito a causa del suo infinito
orgoglio. Ho pensato, allora, che tu, la più umile e gioiosa di tutte le stelle,
avresti di diritto preso il suo posto e dato luce all’evento più importante di
tutta la storia: la nascita del Bambino Gesù a Betlemme.
Di tanta emozione si riempì la stellina a quelle parole e provò moltissima gioia
quando giunse a Betlemme, però, si rese conto che la sua lucentezza era poco più
di quella di una lucciola, nonostante avesse provato a brillare molto di più.
“Chiaro”, si disse fra se e se “Quando mai avrei pensato di ricevere un simile
incarico, dal momento che sono l’astro più piccolo del cielo … ! È assolutamente
impossibile per me comportarmi come una grande stella splendente … Che peccato!
Ho perso l’occasione di essere invidiata da tutti gli astri del cielo … “.
Poi pensò ancora una volta “a tutte le stelle del cielo.”
“Certo che sarebbero rimaste incantate da una simile cosa!”
E senza esitazione, pattugliando i cieli lanciò un messaggio a tutti i suoi
amici: “Il 25 dicembre, a mezzanotte, voglio condividere con voi la più grande
gioia che mai più potrà avere una stella, di qualsiasi dimensione … : illuminare
la nascita di Gesù Bambino, figlio di Dio!! Vi attendo tutti nel paesello di
Betlemme, vicino a una piccola casupola, anzi meglio chiamarla stalla. A
presto!”
E in effetti, nessuna delle stelle respinse il suo generoso invito.
Così, tante e tante stelle si unirono fino a formare la Stella di Natale più
bella e luminosa che mai fu vista prima, nonostante la minuscola stellina non
fosse per niente distinguibile tra tanta lucentezza.
E incantato dall’ottimo compito svolto, Dio premiò la stellina per la sua umiltà
e generosità, trasformandola in una preziosa stella cadente, con il potere di
realizzare i desideri di chi, ogni volta, l’avesse vista brillare nel suo
percorso luminoso.
14
L’UOMO DI SALE E LA DONNA DI ZUCCHERO
Ai piedi di una
collina, c’era una piccola casetta costruita di sale. In questa casetta vivevano
un uomo di sale e una donna di zucchero. C’erano dei giorni in cui si amavano e
dei giorni in cui si detestavano. Un giorno si misero a litigare furiosamente.
L’uomo prese un grosso bastone di sale e cacciò la donna.
Gridava come un
ossesso: “Vattene e fatti una casa di mattoni!”
La donna se ne andò piangendo, ma non troppo, perché le sue guance di zucchero
rischiavano di sciogliersi. Si costruì una casetta di mattoni, poco lontano
dalla casetta di sale dell’uomo.
Era una casetta di mattoni molto graziosa, con i balconi fioriti e il camino di
pietra, ma la donna era triste. Pensava notte e giorno all’uomo di sale. Un
giorno si decise. Andò alla casetta di sale e bussò alla porta. Domandò all’uomo
un po’ di sale per la minestra.
Ma l’uomo prese
il suo grosso bastone di sale e minacciò la donna: “Vattene immediatamente o
sarà peggio per te!”
La donna tornò a casa piangendo, ma non troppo, per non rischiare di sciogliere
le sue guance di zucchero. Il cielo, grande e pietoso, aveva assistito alla
scena e si commosse e cominciò a piangere anche lui.
Così cominciò a piovere.
A piovere a secchiate. La graziosa casetta di sale cominciò a sciogliersi. In
fretta, fretta, l’uomo corse verso la casetta di mattoni.
Bussò alla
finestra: “Lasciami entrare, ti prego, o questa pioggia mi farà fondere
completamente!”
“Ah, ah! È finita la festa!” ridacchiò la donna, “Tu mi hai rifiutato un po’ di
sale, adesso arrangiati!”
Ma l’uomo riuscì a trovare parole così gentili e tenere che la donna s’impietosì
e gli aprì la porta.
Si gettarono una nelle braccia dell’altro e si scambiarono un lungo bacio
dolce-salato.
Ma siccome l’uomo di sale era bagnato fradicio si trovò incollato alla donna di
zucchero.
Gli ci volle un bel po’ per asciugare e ritrovare la libertà. Da quel giorno
l’uomo di sale ha la bocca di zucchero e la donna di zucchero ha la bocca
salata. E non litigano più.
Sono proprio le differenze che fanno la ricchezza strabiliante dell’amore…BRUNO FERRERO.
15
PADRE, IO TI AMO COME IL SALE DA CUCINA!
C’era una volta
un re che rispondeva al nobile nome di Enrico il Saggio. Aveva tre figlie che si
chiamavano Alba, Bettina e Carlotta. In segreto, il re preferiva Carlotta.
Tuttavia, dovendo designare una sola di esse per la successione al trono, le
fece chiamare tutte e tre e domandò loro: “Mie care figlie, come mi amate?”
La più grande rispose: “Padre, io ti amo come la luce del giorno, come il sole
che dona la vita alle piante. Sei tu la mia luce!”
Soddisfatto, il re fece sedere Alba alla sua destra, poi chiamò la seconda figlia.
Bettina
dichiarò: “Padre, io ti amo come il più grande tesoro del mondo, la tua saggezza
vale più dell’oro e delle pietre preziose. Sei tu la mia ricchezza!”
Lusingato e cullato da questo filiale elogio, il re fece sedere Bettina alla sua
sinistra.
Poi chiamò Carlotta. “E tu, piccola mia, come mi ami?” chiese teneramente.
La ragazza lo guardò fisso negli occhi e rispose senza esitare: “Padre, io ti
amo come il sale da cucina!”
Il re rimase interdetto: “Che cosa hai detto?”
“Padre, io ti amo come il sale da cucina!”
La collera del
re tuonò terribile:
“Insolente!
Come osi, tu, luce dei miei occhi, trattarmi così? Vattene! Sei esiliata e
diseredata!”
La povera Carlotta, piangendo tutte le sue lacrime, lasciò il castello e il
regno di suo padre.
Trovò un posto nelle cucine del re vicino e, siccome era bella, buona e brava,
divenne in breve la capocuoca del re.
Un giorno arrivò al palazzo il re Enrico. Tutti dicevano che era triste e solo.
Aveva avuto tre figlie ma la prima era fuggita con un chitarrista californiano,
la seconda era andata in Australia ad allevare canguri e la più piccola l’aveva
cacciata via lui…
Carlotta riconobbe subito suo padre. Si mise ai fornelli e preparò i suoi piatti
migliori.
Ma invece del sale usò in tutti lo zucchero.
Il pranzo
divenne il festival delle smorfie: tutti assaggiavano e sputavano poco
educatamente nel tovagliolo. Il re, rosso di collera, fece chiamare la cuoca.
La dolce Carlotta arrivò e soavemente disse: “Tempo fa, mio padre mi cacciò
perché‚ avevo detto che lo amavo come il sale di cucina che dà gusto a tutti i
cibi.
Così, per non dargli un altro dispiacere, ho sostituito il sale inopportuno con
lo zucchero!”
Il re Enrico si alzò con le lacrime agli occhi: “E il sale della saggezza che
parla per bocca tua, figlia mia. Perdonami e accetta la mia corona!”
Si fece una gran festa e tutti versarono lacrime di gioia: erano tutte salate,
assicurano le cronache del tempo. BRUNO FERRERO.
16
IL BAMBINO E L’AQUILONE
Una tersa e ventilata mattina di settembre, un bambino, aiutato dal nonno, fece innalzare nel cielo un magnifico aquilone. Portato dal vento, l’aquilone saliva e saliva sempre più in alto finché divenne solo più un puntolino. Il filo si srotolava e seguiva l’aquilone verso l’alto,
ma il nonno
aveva legato saldamente una estremità del filo al polso del bambino.
Lassù, nell’azzurro, l’aquilone dondolava tranquillo e sicuro, seguendo le
correnti.
Due grassi piccioni chiacchieroni, che volavano pigramente, si affiancarono
all’aquilone e cominciarono a fare commenti sui suoi colori.
“Sei vestito proprio in ghingheri, amico.” disse uno.
“Dai, vieni con
noi. Facciamo una gara di resistenza.” disse l’altro.
“Non posso.” disse l’aquilone.
“Perché?” chiesero i due piccioni.
“Sono legato al mio padroncino, laggiù sulla terra!” rispose l’aquilone
I due piccioni guardarono in giù.
“Io non vedo nessuno.” disse uno.
“Neppure io lo vedo,” rispose l’aquilone, “ma sono sicuro che c’è perché ogni tanto sento uno strattone al filo!”
Sii felice se
ogni tanto Dio dà uno strattone al tuo filo. Non lo vedi, ma è legato a te.
E non ti lascerà perdere. BRUNO FERRERO.
17
IL GUERRIERO PIÙ DEGNO
Tre giovani
africani furono fatti entrare nella capanna delle riunioni. Il capo era seduto
in fondo, circondato dai vecchi guerrieri. I ragazzi gli s’avvicinarono.
“Per sei giorni,” egli disse, parlando lentamente, “siete stati lasciati nella
foresta per mettere alla prova le vostre capacità, affinché noi potessimo
giudicare se siete degni di essere considerati guerrieri. Siete ritornati sani e
salvi, nonostante i mille pericoli. Ma non basta.
Che cosa avete
fatto per meritare il nome di guerrieri?”
Tra l’attento silenzio degli uomini della tribù, i ragazzi narrarono le loro
imprese.
Uno aveva ucciso un leopardo, un altro aveva lottato con un pitone.
Solo il terzo dei ragazzi non parlò. “E tu, Mamadù, che cosa hai fatto?” chiese
il capo.
“Ho preso un orcio di miele dalle api selvatiche!” rispose sommessamente Mamadù.
I ragazzi
sorrisero. Che cos’era rubare del miele dalle api?
Ci voleva pazienza, audacia anche, ma non era una prova degna di un guerriero
della tribù.
“Perché hai preso il miele e non hai cacciato qualche animale feroce?” chiese il
capo.
“Tu sai,” rispose Mamadù, “che i miei genitori sono vecchi e ammalati; dovevo
pensare a loro e l’ho fatto portando loro il miele.”
Il capo si
alzò. Tese la lancia verso Mamadù e disse: “Prendila, perché fra tutti tu sei il
più degno.
Prima di essere cacciatore, un uomo deve essere uomo. E c’è solo un modo per
sapere quando egli è tale: quando sopra ogni cosa egli mette l’amore e il
rispetto per i suoi genitori.”
ALBERTO MANZI
18
IL LEONE SUPERBO
Un leone
superbo era affamato.
Non mangiava ormai da un po’ e, per questa ragione, il suo stomaco brontolava.
Sapeva che nella zona in cui viveva non c’erano abbastanza prede.
Capì, quindi, di dover essere paziente e cauto durante la caccia, dato che, se
si fosse presentata una preda e l’avesse perduta non ne avrebbe trovata
facilmente un’altra.
Per questa ragione, il leone rimase tranquillo dietro un cespuglio.
Trascorsero
alcune ore e non si presentò alcuna preda.
Quando aveva ormai perso le speranze, comparve una lepre nelle vicinanze.
C’era un pascolo e la lepre uscì per mangiare dell’erba, senza prestare
attenzione.
Conscio della velocità delle lepri, il leone sapeva che avrebbe dovuto sferrare
un attacco improvviso e deciso. In caso contrario, la lepre sarebbe scappata.
Aspettò un po’ e si mise sull’attenti. Quando stava per saltare addosso alla sua preda, all’improvviso vide un bel cervo camminare a qualche metro di distanza. Gli venne l’acquolina in bocca.
In un paio di secondi cambiò idea e attaccò il cervo, che aveva però avuto il tempo di vederlo e di iniziare a correre. La lepre, ovviamente, scappò.
È meglio non lasciar andare via ciò che rappresenta una certezza, in cambio di qualcosa che ci affascina all’improvviso.
19
IL LUME
Un uomo
soffriva la cosa peggiore che può capitare a un essere umano: suo figlio era
morto, e per anni non poteva dormire e piangeva tutta la notte finché
albeggiava.
Un giorno gli apparve un angelo nel sogno e gli disse: “Basta piangere!”
“Non posso sopportare di non vederlo più!” rispose l’uomo.
Così l’angelo
disse: “Lo vorresti rivedere?”
L’uomo annui; quindi, l’angelo lo prese per mano e lo portò in cielo e disse:
“Pazienta un po’, lo vedrai passare.”
Al cenno dell’angelo una moltitudine di bambini iniziarono a passare vestiti
come angeli con un lume in mano. Così l’uomo incuriosito domandò: “Chi sono?”
E l’angelo rispose: “Sono i bambini che hanno lasciato la vostra terra troppo
presto, tutti i giorni fanno questa passeggiata con noi perché hanno il cuore
puro.”
Disse l’uomo: “Mio figlio è tra di essi?”
“Si lo vedrai tra un po’.” rispose l’angelo.
Finalmente tra
i tanti bambini passò anche il figlio di quell’uomo, che radiante scappò ad
abbracciarlo, quando improvvisamente si accorse che aveva il lume spento.
Angosciosamente disse al ragazzo: “Figlio mio, perché il tuo lume è spento?
Perché non infiamma la tua anima come agli altri?”
Il bambino lo guardò e disse:
“Papà, io accendo la mia candela come quella di tutti, ogni giorno, ma le tue
lacrime la spengono la notte!”
20
IL LUSTRASCARPE
In Scozia,
nella città di Glasgow, c’era un lustrascarpe di nome Jack.
Un giorno questo ragazzo pensò che avrebbe potuto fare qualcosa di meglio nella
vita e decise di diventare commesso in un elegante negozio della città. Senza
perdere tempo, Jack andò a presentarsi sul posto e chiese di parlare con il capo
del personale.
Questi diede una rapida occhiata al ragazzo, lo vide a piedi nudi e gli disse:
“Per poter lavorare qui dovresti almeno avere un paio di scarpe.”
Senza dire una parola il lustrascarpe se ne andò.
Ritornò al suo
posto all’angolo della strada e continuò a lavorare per giorni e giorni fino a
che non riuscì a guadagnare abbastanza per comprarsi un discreto paio di scarpe.
Allora, tutto contento, corse al negozio e si presentò al capo del personale.
Questi, un po’ sorpreso della visita di Jack, ascoltò la richiesta del ragazzo e
poi osservò:
“Non hai nemmeno un vestito decente; non puoi lavorare per noi con quegli
stracci addosso!”
Anche questa volta Jack se ne andò senza fiatare e ritornò al suo vecchio
lavoro.
Ce la mise tutta, risparmiò ogni centesimo e, dopo alcuni mesi, ecco che poté
comprarsi il vestito necessario.
Ora, abito indosso e scarpe ai piedi, viso e mani pulite, Jack si presentò per
la terza volta al capo del personale. Egli lo guardò con interesse e simpatia.
“Bene,” gli disse, “riempi questo modulo!”
Triste e
sconsolato Jack mormorò: “Non so scrivere!”
“Mi dispiace davvero,” ribatté il capo del personale, “ma non puoi essere
assunto se non sai né leggere né scrivere!”
Deluso, ma non scoraggiato, Jack ringraziò e andò via.
L’essersi procurato un paio di scarpe e un vestito sviluppò in lui rispetto per
sé stesso e l’ambizione di potere riuscire nel suo intento di fare qualcosa di
meglio del lustrascarpe.
Allora trovò un lavoro diverso. Si iscrisse a una scuola serale. Dedicò tutto il
tempo libero a studiare con successo altre materie e, nel giro di due anni,
eccolo in grado di ripresentarsi al grande negozio, dove venne subito assunto.
“Mi sa che un giorno quel ragazzo prenderà il mio posto!” disse fra sé il capo
del personale.
Questa non è una storia inventata, ma un fatto veramente accaduto tanti anni fa.
Jack era deciso a raggiungere il suo scopo e si impegnò con tutta la sua
abilità.
Era un ragazzo pieno di buona volontà, paziente, perseverante ed anche gentile e
ben educato.
Sul lavoro intuiva ciò che si doveva fare e lo faceva senza aspettare che glielo
chiedessero.
Dopo pochi anni, Jack divenne non solo capo del personale ma socio e azionista
del negozio.
FIORELLA CARELLI FERRARO
21
IL MAESTRO DI TIRO CON L’ARCO
C’era una volta
un maestro zen che era un vero campione nell’arte del tiro con l’arco.
Una mattina invitò il suo discepolo preferito a osservare una dimostrazione
della sua abilità.
Il discepolo lo aveva visto centinaia di volte, ma comunque obbedì al suo
maestro.
Si recarono nel
bosco accanto al monastero e raggiunsero un albero di quercia.
Lì, il maestro prese un fiore che aveva infilato nella sua cintura e lo mise su
uno dei rami.
Poi aprì la borsa che aveva portato con sé e tirò fuori tre oggetti: il suo
splendido arco in legno pregiato, una freccia e un fazzoletto bianco ricamato.
Successivamente si spostò allontanandosi di cento passi dal punto in cui aveva
riposto il fiore.
A quel punto chiese al suo discepolo di bendargli accuratamente gli occhi con il
fazzoletto ricamato. Il discepolo lo fece.
“Quante volte
mi hai visto praticare lo sport nobile e antico del tiro con l’arco?” chiese il
maestro.
“Ogni giorno.” rispose il discepolo.
“E sono sempre riuscito a colpire il centro del bersaglio da trecento passi?”
domandò ancora il maestro.
“Certo!” esclamò il discepolo.
Con gli occhi coperti dal fazzoletto, il maestro piantò saldamente i piedi per
terra, tirò indietro la corda con tutte le sue forze e poi scoccò la freccia.
La freccia sibilò nell’aria, ma non colpì il fiore e nemmeno l’albero: mancò il
bersaglio con un margine imbarazzante.
“L’ho colpito?” chiese il maestro, rimuovendo subito dopo il fazzoletto dagli
occhi.
“No, l’hai mancato completamente!” rispose il discepolo con un po’ di disagio.
Poi aggiunse: “Pensavo che tu volessi dimostrami il potere del pensiero e della
sua capacità di eseguire magie.”
“È così. Ti ho appena insegnato la lezione più importante circa il potere del
pensiero!” rispose il maestro, che poi concluse: “Quando vuoi conquistare un
obiettivo, concentrati solo su di esso, perché nessuno potrà mai colpire un
bersaglio che non vede!” STORIA ZEN
22
PEPPINO E LA TORRE MALEDETTA
C’era una volta
un villaggio costruito in una valle lunga e stretta, in mezzo a montagne alte e
rocciose, che si spalancavano qua e là in distese di prati e di pascoli.
Gli abitanti del villaggio erano moderatamente soddisfatti: le loro mucche e le
loro pecore erano ben pasciute, latte e formaggio si vendevano bene, anche se il
mercato era lontano.
Ma sulla loro felicità aleggiava un’ombra nera.
L’ombra nera della Torre Maledetta. La Torre Maledetta era una ruvida formazione
rocciosa che chiudeva la valle e incombeva sul villaggio impedendogli di essere
illuminato dal sole, se non pochi minuti all’alba e altrettanto pochi al
tramonto. Per il resto del giorno il sole illuminava solo i fianchi più alti
della valle. Così il villaggio passava la sua giornata all’ombra. Per colpa
della Torre Maledetta.
A Peppino, un
giovane dall’aria sveglia e dal carattere aperto e deciso, la cosa non andava
proprio giù. Gli sarebbe tanto piaciuto avere un giardino davanti alla casa, con
i fiori e un ciliegio e due albicocchi e un melo. Ma non sbocciavano fiori nel
villaggio, né ortaggi, perché c’era troppo poco sole. Chi voleva un orto doveva
andare a coltivarlo lontano dal villaggio.
Per questo molti andavano ad abitare altrove e, piano piano, il villaggio
perdeva abitanti.
Il villaggio rischiava di morire per colpa della Torre Maledetta. Era l’unica
cosa che riusciva a guastare il buonumore di Peppino. Ogni mattino, mentre si
stirava sul balcone della sua camera e si lasciava accarezzare dai raggi del
sole, prima che fossero inghiottiti dall’ombra, fissava la superba roccia nera
con gli occhi che mandavano lampi di dispetto.
“Accidenti, accidentaccio.” Brontolava, “Un villaggio senza fiori, senza
farfalle e senza canzoni è un villaggio senza bambini, un villaggio che muore…”
Girava gli occhi sui tetti d’ardesia che avevano riflessi d’argento e sui camini
che con il loro fumo facevano propaganda alla fragrante polenta che borbottava
nei paioli di rame, pensava agli abitanti che conosceva tutti per nome, cognome
e soprannome e si diceva:
“Devo assolutamente fare qualcosa…
Sono il più giovane del villaggio e quindi tocca a me!”
Un mattino, appena il sole si nascose dietro la parete nera della Torre prese la
decisione.
Si mise sulle spalle il piccone nuovo che aveva comprato alla fiera e si
incamminò, con passo risoluto verso la montagna.
“Dove vai?” gli chiese la mamma.
“Vado a buttare
giù la Torre Maledetta!” rispose semplicemente Peppino.
“Ma cosa dici? Sei diventato matto? Non ce la farai mai!”
“Qualcuno deve incominciare una buona volta!” ribadì caparbio.
Arrivato ai piedi della Torre, alzò lo sguardo verso l’immensa parete scura che
incombeva su di lui con un vago senso di minaccia.
“A noi due!” disse Peppino. Gli rispose un rombo cupo, come una grassa risata
sussultante, che terminò nel sibilo maligno del vento.
“Comincerò dall’alto.” si disse e cominciò a salire.
La vetta della Torre aveva qualche chiazza di neve, ma Peppino non degnò di uno
sguardo il panorama.
Alzò il piccone e lo abbatté con tutte le sue forze contro la roccia.
“Te, beccati questo!”
Con un po’ di sorpresa, si accorse che il suo colpo di piccone aveva staccato un
grosso blocco di pietra che lentamente rotolò giù dalla vetta, trascinandosi
dietro un corteo di sassi più piccoli.
“Allora si può!” esultò.
Moltiplicò i
colpi, con rabbia, con gioia. “Aprirò la strada al sole!”
Dopo qualche ora si buttò a terra, sudato, spossato. E guardò il risultato della
sua opera.
Aveva buttato giù un bel po’ di sassi, ma non aveva abbassato la Torre neanche
di un millimetro. “Dovessi impiegarci tutta la vita ce la farò!” si disse.
Ma gli sembrò di riudire il rombo sussultante che era la risata di scherno della
Torre.
Si rialzò e riprese a picchiare con il piccone. “Beccati questo! E anche
questo!” gridava sbrecciando, scheggiando, frantumando le rocce della vetta.
Passò quel giorno e quello dopo. Così per un mese.
Ogni mattina, Peppino rinnovava la sua sfida alla Torre Maledetta. Ma il
risultato non era granché: l’immane picco sembrava più alto e saldo che mai.
“Lascia perdere!” gli dicevano i concittadini, che cominciavano a crederlo un
po’ matto, “Tanto ci siamo abituati.”
Scuotendo la testa, Peppino insisteva: “Farò arrivare il sole sul vostro balcone
tutto il giorno…
E sbocceranno i fiori nella piazza.”
Tornava lassù e ricominciava a picconare.
Dopo qualche
mese, il «pic… pic…» del suo piccone divenne un rumore familiare per le pecore e
le mucche degli alti pascoli. Ma era così grande e solida quella roccia…
Un mattino, però, successe una cosa straordinaria. Peppino stava spingendo giù
dalla Torre un grosso masso che aveva appena staccato, quando udì chiaramente
una vocina che lo chiamava: “Peppino, Peppino!”
Si guardò intorno sorpreso. La voce riprese a chiamare. La cosa più strana era
che la voce proveniva da dentro la montagna.
“Dove sei?” chiese Peppino.
“Qui, sotto i tuoi piedi, dentro la roccia!” rispose la vocina.
Peppino si inginocchiò e scrutò con attenzione nel buco lasciato dal masso. Sul
fondo si apriva una fessura e, dentro la fessura, piccola piccola si agitava una
manina bianca. “Liberami!” implorò la vocina.
Impugnò il piccone e in poco tempo scavò fino ad arrivare alla mano, poi
continuò con attenzione e infine si trovò davanti una bambina dagli occhi color
lago alpino e vestito color spuma di torrente.
“Grazie!” disse la bambina, mentre Peppino la guardava con l’aria stralunata.
“Sono la fata delle sorgenti, ma il maligno architetto della Torre mi ha
imprigionata.
Ma ora che mi hai liberata, il tuo desiderio si avvererà!”
“E come farai?
Sei così
piccola e fragile!” chiese Peppino.
“Con la pazienza, un po’ di tempo e la forza dell’acqua!” sorrise la fatina.
Alzò la mano, come fosse il cenno di attacco di un direttore d’orchestra. Mille
gorgoglii, saltelli, risate, sciacquii riempirono l’aria. Mille sorgenti
sbocciarono sulla Torre Maledetta.
Piccole all’inizio, si riunirono a formare ruscelli, torrenti, cascate.
E ognuno di essi incideva, smerigliava, scavava, trasportava a valle ghiaia,
sassi, detriti.
“Stanno facendo a pezzi la Maledetta!” gridò Peppino e fece volare in aria il
cappello. Voleva ringraziare la fata delle sorgenti, ma quella non c’era più.
Corse a dare la notizia al villaggio, che adesso era fiancheggiato da un
torrente giovane e forte che scendeva dalla Torre Maledetta. Oggi quel villaggio
è inondato dal sole dal mattino alla sera, ed è pieno di fiori, farfalle e
bambini.
Al posto della Torre c’è una serie di piccole rocce smozzicate, coperte dal
muschio e dai cespugli. Ci vanno i vecchietti a cercare i funghi.
BRUNO FERRERO.
23
Il bambino e l’uccellino
Un giorno
d’estate, il nipotino di un famoso scienziato, si presentò al nonno.
Nella mano, che teneva nascosta dietro la schiena, il ragazzino stringeva un
uccellino che aveva preso nella voliera del giardino.
Con gli occhi sprizzanti di maliziosa furbizia chiese al nonno:
“Il canarino
che ho nella mia mano è morto o vivo?”
“Morto!” rispose il saggio nonno. Il ragazzo aprì la mano e ridendo lasciò
scappare l’uccellino che prese immediatamente il volo.
“Hai sbagliato!” rise.
Se il nonno avesse risposto: “Vivo!” il ragazzo avrebbe stretto il pugno e soffocato l’uccellino.
Il saggio guardò il nipotino e disse: “Vedi, la risposta era nella tua mano!” BRUNO FERRERO
24
IL MAESTRO E LO SCORPIONE
Un maestro Zen
vide uno scorpione annegare e decise di tirarlo fuori dall’acqua.
Quando lo fece, lo scorpione lo punse. Per l’effetto del dolore, il padrone
lasciò l’animale che di nuovo cadde nell’acqua in procinto di annegare. Il
maestro tentò di tirarlo fuori nuovamente e l’animale lo punse ancora.
Un giovane discepolo che era lì gli si avvicina e gli disse: “Mi scusi maestro, ma perché continuate? Non capite che ogni volta che provate a tirarlo fuori dall’acqua vi punge?”
Il maestro rispose:
“La natura
dello scorpione è di pungere e questo non cambierà la mia che è di aiutare.”
Allora il maestro, dopo aver pensato ad una soluzione, con l’aiuto di una
foglia, tirò fuori lo scorpione dell’acqua e gli salvò la vita, poi rivolgendosi
al suo giovane discepolo, continuò:
“Non cambiare la tua natura se qualcuno ti fa male, prendi solo delle
precauzioni.
Perché, gli uomini sono quasi sempre ingrati del beneficio che gli stai facendo.
Ma questo non è
un motivo per smettere di fare del bene, di abbandonare l’amore che vive in te.
Gli uni perseguono la felicità, gli altri lo creano.
Preoccupati più della tua coscienza che della tua reputazione.
Perché la tua coscienza è quello che sei e la tua reputazione è ciò che gli
altri pensano di te.”
STORIA ZEN
25
IL MAESTRO ED I TRE DISCEPOLI
Dopo un lungo
periodo di vita comune, trascorso nello studio e nella meditazione, tre
discepoli lasciarono il vecchio maestro per incominciare la loro missione nel
mondo.
Dieci anni più tardi, i tre discepoli tornarono a far visita al maestro.
L’anziano monaco li fece accomodare intorno poiché gli acciacchi ormai gli
impedivano di alzarsi. Ognuno cominciò a raccontare la propria esperienza.
Cominciò il
primo, con una punta di orgoglio, e disse: “Io ho scritto tanti libri e venduto
milioni di copie!”
“Tu hai riempito il mondo di carta!” rispose il maestro.
Il secondo, con
fierezza, esclamò: “Io ho predicato in migliaia di posti.”
“Tu hai riempito il mondo di parole!” replicò il maestro.
Si fece avanti
il terzo: “Io ti ho portato questo cuscino perché tu possa appoggiare senza
dolore le tue gambe malate!”
“Tu… Tu hai trovato Dio!” concluse sorridendo il maestro.
STORIA ZEN
26
IL MAESTRO ED I TRE OSTACOLI
Un giorno un
Maestro accolse tre candidati che volevano diventare suoi discepoli.
Al primo incontro il Maestro iniziò a comportarsi in modo eccentrico a tavola,
facendo discorsi assurdi e avendo atteggiamenti strani.
Disse anche
talune parolacce e mangiò il suo cibo con le mani, asciugandosi la bocca al
polsino della camicia.
Uno di questi tre discepoli se ne andò, scandalizzato di questo atteggiamento.
Il secondo fu avvisato dai discepoli anziani (istruiti così dal Maestro) che
questi era un truffatore, che si stavano organizzando per fargliela pagare e che
lui doveva stare ben attento a fidarsi di un uomo così. Anche il secondo uscì
dal gruppo.
Al terzo il Maestro proibì categoricamente di prendere la parola ogni volta che la chiedeva e di porre qualsiasi tipo di domande. Anche il terzo se ne andò, sdegnato ed offeso.
Quando il
Maestro fu solo con i suoi allievi disse: “Il comportamento di coloro che se ne
sono andati illustra tre validi concetti.
Il primo “non giudicare a prima vista.”
Il secondo “non giudicare cose di grande importanza da ciò che dicono gli
altri.”
Il terzo “non fare della tua percezione di stima ed apprezzamento altrui il
metro per il tuo giudizio su di loro.” STORIA ZEN
27
IL BAMBINO ED IL MISSIONARIO
Un missionario viaggiava su un veloce treno giapponese ed occupava il tempo pregando con il breviario aperto. Uno scossone fece scivolare sul pavimento un’immaginetta della Madonna.
Un bambino, seduto di fronte al missionario, si chinò e raccolse l’immagine.
Curioso, come tutti i bambini, prima di restituirla, la guardò. “Chi è questa bella signora?” chiese al missionario.
“È … mia
madre!” rispose il missionario, dopo un attimo di esitazione.
Il bambino lo guardò, poi riguardò l’immagine.
“Non le assomigli tanto.” disse.
Il missionario sorrise: “Eppure, ti assicuro che è tutta la vita che cerco di assomigliarle, almeno un po’.”
BRUNO FERRERO.
28
IL MAESTRO ED IL BISCOTTO
C’era una volta
un discepolo che rivolse al suo maestro questa domanda:
“Quante discussioni si sono fatte e si fanno ancora su Dio. Grande maestro, tu
cosa ne pensi?”
“Vedi
quell’ape?” rispose il maestro, “Senti il suo ronzio?
Esso cessa quando l’ape ha trovato il fiore e ne succhia il nettare.”
Poi continuò: “Vedi quest’anfora? Ora vi verso dell’acqua. Senti il gorgoglio? Cesserà quando l’anfora sarà colma.
Ed ora osserva questo biscotto che pongo crudo nell’olio bollente. Senti come frigge e che rumore fa? Quando sarà ben cotto tacerà.”
STORIA ZEN
29
IL BARILOTTO
Tempo fa, in
una terra lontana, viveva un signore potente e famoso in ogni angolo del regno.
Sull’orlo di una nera scogliera aveva fatto costruire una roccaforte così solida
e ben armata, da non temere né re, né conti, né duchi, né principi, né visconti.
E questo possente signore aveva un bell’aspetto, nobile e imponente.
Ma nel suo cuore era sleale, astuto e ipocrita, superbo e crudele.
Non aveva paura né di Dio né degli uomini.
Sorvegliava come un falco i sentieri e le strade che passavano nella regione e
piombava sui pellegrini e mercanti per rapinarli.
Aveva da tempo calpestato tutte le promesse e le regole della cavalleria.
La sua crudeltà era divenuta proverbiale.
Disprezzava
apertamente la gente e le leggi della Chiesa.
Ogni Venerdì santo invece di digiunare e rinunciare a mangiare carne organizzava
grandi festini e lauti banchetti per i suoi cavalieri.
Si divertiva a tiranneggiare vassalli e servitù.
Ma un giorno, durante un combattimento, un colpo di balestra lo ferì gravemente
ad un fianco.
Per la prima volta, il crudele signore provò la sofferenza e la paura.
Mentre giaceva ferito, i suoi cavalieri gli fecero balenare davanti agli occhi
la gola spalancata e infuocata dell’inferno a cui era sicuramente destinato se
non si fosse pentito dei suoi peccati e confessato in chiesa.
“Pentirmi io? Mai!
Non confesserò
neppure un peccato!” tuttavia il pensiero dell’inferno gli provocò un po’ di
spavento salutare.
A malincuore gettò elmo, spada e armatura e si diresse a piedi verso la caverna
di un santo eremita.
Con tono sprezzante, senza neppure inginocchiarsi, raccontò al santo frate tutti
i suoi peccati:
uno dietro l’altro, senza dimenticarne neppure uno.
Il povero eremita si mostrò ancora più afflitto:
“Sire, certamente hai detto tutto, ma non sei pentito.
Dovresti almeno fare un po’ di penitenza, per dimostrare che vuoi davvero
cambiare vita!”
“Farò qualunque penitenza. Non ho paura di niente, io! Purché sia finita questa
storia!” replicò il signore.
“Digiunerai ogni venerdì per sette anni…!” disse allora il santo eremita.
“Ah, no! Questo puoi scordartelo!” rispose il crudele signore.
“Vai in
pellegrinaggio fino a Roma…” suggerì allora l’eremita.
“Neanche per sogno!” esclamò il cavaliere.
“Vestiti di sacco per un mese…” proseguì l’eremita.
“Mai!” continuò il crudele signore.
Il superbo cavaliere respinse tutte le proposte del buon frate, che alla fine
propose: “Bene, figliolo.
Fa’ soltanto una cosa: vammi a riempire d’acqua questo barilotto e poi
riportamelo!”
“Scherzi?
È una penitenza da bambini o da donnette!” sbraitò il cavaliere agitando il
pugno minaccioso.
Ma la visione del diavolo sghignazzante lo ammorbidì subito.
Prese il barilotto sotto braccio e brontolando si diresse al fiume.
Immerse il barilotto nell’acqua, ma quello rifiutò di riempirsi.
“È un sortilegio magico,” ruggì il penitente, “ma ora vedremo!”
Si diresse
verso una sorgente: il barilotto rimase ostinatamente vuoto.
Furibondo, si precipitò al pozzo del villaggio.
Fatica sprecata!
Provò ad esplorare l’interno del barilotto con un bastone:
era assolutamente vuoto.
“Cercherò tutte le acque del mondo!” sbraitò il cavaliere, “Ma riporterò questo
barilotto pieno!”
Si mise in viaggio, così com’era, pieno di rabbia e di rancore.
Prese ad errare sotto la pioggia e in mezzo alle bufere.
Ad ogni sorgente, pozza d’acqua, lago o fiume immergeva il suo barilotto e
provava e riprovava, ma non riusciva a fare entrare una sola goccia d’acqua.
Anni dopo, il vecchio eremita vide arrivare un povero straccione dai piedi
sanguinanti e con un barilotto vuoto sotto il braccio.
Le lacrime scorrevano sul suo volto scavato.
Una lacrima piccola piccola scivolando sulla folta barba finì nel barilotto.
Di colpo il barilotto si riempì fino all’orlo dell’acqua più pura, più fresca e
buona che mai si fosse vista. BRUNO FERRERO
30
“IL MAESTRO ED IL DISCEPOLO”
Un giorno un
discepolo si macchiò di una grave colpa.
Tutti si aspettavano che il maestro lo punisse in modo esemplare.
Ma passò un anno e il maestro non diede segno di reazione.
Allora un altro discepolo protestò:
“Non si può
ignorare ciò che è accaduto: dopo tutto, Dio ci ha dato gli occhi!”
Il maestro replicò:
“È vero, ma anche le palpebre!”
31
LA PREDICA DI SAN FRANCESCO
Un giorno, uscendo dal convento, san Francesco incontrò frate Ginepro. era un frate semplice e buono e san francesco gli voleva molto bene. incontrandolo gli disse. «Frate Ginepro, vieni andiamo a predicare ». «Padre mio » rispose, «sai che ho poca istruzione. come potrei parlare alla gente? ». Ma poiché san Francesco insisteva, frate Ginepro acconsentì. girarono per tutta la città, pregando in silenzio per tutti coloro che lavoravano nelle botteghe e negli orti. Sorrisero ai bambini, specialmente a quelli più poveri. Scambiarono qualche parola con i più anziani. Accarezzarono i malati. aiutarono una donna a portare un pesante recipiente pieno d’acqua. Dopo aver attraversato più volte tutta la città, san francesco disse: «frate Ginepro, è ora di tornare al convento ». «E la nostra predica? ». «L’abbiamo fatta...» rispose sorridendo il santo.