OTTOBRE
1
IL SOGNO
Un uomo aveva l’abitudine di dire ogni domenica mattina a sua moglie: “Vai in chiesa tu e prega per tutti e due!”
Agli amici
diceva: “Non c’è bisogno che io vada in chiesa: c’è mia moglie che va per tutti
e due!”
Una notte quell’uomo fece un sogno. Si trovava con sua moglie davanti alla porta
del Paradiso e aspettava per entrare.
Lentamente la
porta si aprì e udì una voce che diceva alla moglie: “Tu puoi entrare per tutti
e due!”
La donna entrò e la porta si richiuse. L’uomo ci rimase così male che si
svegliò.
La più sorpresa fu sua moglie, la domenica dopo, quando all’ora della Messa si trovò accanto il marito che le disse: “Oggi vengo in chiesa con te.” BRUNO FERRERO
2
IL SONNO PERDUTO PER UN INCUBO
Un uomo aveva
perduto il sonno perché era ossessionato da un incubo. Appena si coricava, aveva
la sensazione che un orribile mostro cominciasse a muoversi sotto il letto.
Trascorreva le ore con le orecchie tese paralizzato dal terrore.
Il medico tentò invano di farlo ragionare. Gli prescrisse un potente sonnifero. Ma l’incubo dell’uomo peggiorò. Un celebre medico gli consigliò l’agopuntura e poi una costosa cura omeopatica. Niente da fare. Gli incubi continuavano. Lo accompagnarono da un illustre psicanalista che gli consigliò una ventina di sedute, abbinate alle migliori tecniche ipnotiche.
La cura iniziò. Dopo due incontri, però, lo psicanalista non vide più il paziente. Che cosa era successo? Possibile che due sole sedute avessero fatto il miracolo? Incuriosito, il professore cercò il suo paziente e gli chiese notizie.
Tranquillo l’uomo rispose: “Una sera che mi sentivo particolarmente tormentato dal mio affanno, ne parlai al mio parroco. Mi ascoltò e mi suggerì di segare le gambe del letto in modo che il materasso appoggiasse sul pavimento. L’ho fatto e ho ritrovato il sonno e la pace…”
BRUNO FERRERO
3
IL VECCHIO MAI STATO GIOVANE
C’era una volta
un vecchio che non era mai stato giovane. In tutta la sua vita, in realtà, non
aveva mai imparato a vivere. E non avendo imparato a vivere, non riusciva
neppure a morire.
Non aveva speranze né turbamenti; non sapeva né piangere né sorridere. Tutto ciò
che succedeva nel mondo non lo addolorava e neppure lo stupiva. Passava le sue
giornate oziando sulla soglia della sua capanna, senza degnare di uno sguardo il
cielo, l’immenso cristallo azzurro che, anche per lui, il Signore ogni giorno
puliva con la soffice bambagia delle nuvole.
Qualche
viandante lo interrogava. Era così carico d’anni che la gente lo credeva molto
saggio e cercava di far tesoro della sua secolare esperienza.
“Che cosa dobbiamo fare per raggiungere la felicità?” chiedevano i giovani.
“La felicità è un’invenzione degli stupidi!” rispondeva il vecchio.
Passavano uomini dall’animo nobile, desiderosi di rendersi utili al prossimo.
“In che modo possiamo sacrificarci per aiutare i nostri fratelli?” chiedevano.
“Chi si sacrifica per l’umanità è un pazzo!” rispondeva il vecchio, con un
ghigno sinistro.
“Come possiamo indirizzare i nostri figli sulla via del bene?” gli domandavano
dei genitori.
“I figli sono serpenti!” rispondeva il vecchio, “Da essi ci si possono aspettare
solo morsi velenosi!”
Anche gli artisti e i poeti si recavano a consultare il vecchio che tutti
credevano saggio.
“Insegnaci ad esprimere i sentimenti che abbiamo nell’anima!” gli dicevano.
“Fareste meglio a tacere!” brontolava il vecchio.
Poco alla
volta, le sue idee maligne e tristi influenzarono il mondo. Dal suo angolo
squallido, dove non crescevano fiori e non cantavano neanche gli uccelli,
Pessimismo (perché questo era il nome del vecchio malvagio) faceva giungere un
vento gelido sulla bontà, l’amore, la generosità che, investiti da quel soffio
mortifero, appassivano e seccavano.
Tutto questo dispiacque molto al Signore, che decise di rimediare. Chiamò un
bambino e gli disse:
“Va’ a dare un bacio a quel povero vecchio!”
Il bambino obbedì. Circondò con le sue braccia tenere e paffute il collo del
vecchio e gli stampò un bacio umido e rumoroso sulla faccia rugosa. Per la prima
volta il vecchio si stupì.
I suoi occhi
torbidi divennero di colpo limpidi. Perché nessuno lo aveva mai baciato.
Così aperse gli occhi alla vita e poi morì, sorridendo.
A volte,
davvero, basta un bacio. Un “Ti voglio bene”, anche solo sussurrato. Un timido
“Grazie.”
Un apprezzamento sincero.
È così facile far felice un altro. Allora, perché non lo facciamo?
BRUNO FERRERO
4
LA CANDELA CHE NON VOLEVA BRUCIARE
Questo non si
era mai visto: una candela che rifiuta di accendersi. Tutte le candele
dell’armadio inorridirono. Una candela che non voleva accendersi era una cosa
inaudita! Mancavano pochi giorni a Natale e tutte le candele erano eccitate
all’idea di essere protagoniste della festa, con la luce, il profumo, la
bellezza che irradiavano e comunicavano a tutti.
Eccetto quella giovane candela rossa e dorata che ripeteva ostinatamente: “No e
poi no!
Io non voglio
bruciare. Quando veniamo accese, in un attimo ci consumiamo. Io voglio rimanere
così come sono: elegante, bella e soprattutto intera!”
“Se non bruci è come se fossi già morta senza essere vissuta!” replicò un grosso
cero, che aveva già visto due Natali, “Tu sei fatta di cera e stoppino ma questo
è niente. Quando bruci sei veramente tu e sei completamente felice.”
“No, grazie
tante,” rispose la candela rossa, “ammetto che il buio, il freddo e la
solitudine sono orribili, ma è sempre meglio che soffrire per una fiamma che
brucia.”
“La vita non è fatta di parole e non si può capire con le parole, bisogna
passarci dentro,” continuò il cero, “solo chi impegna il proprio essere cambia
il mondo e allo stesso tempo cambia sé stesso. Se lasci che la solitudine, il
buio e il freddo avanzino, avvolgeranno il mondo!”
“Vuoi dire che noi serviamo a combattere il freddo, le tenebre e la solitudine?”
chiese la candela.
“Certo,” ribadì il cero, “ci consumiamo e perdiamo eleganza e colori, ma
diventiamo utili e stimati. Siamo i cavalieri della luce.”
“Ma ci consumiamo e perdiamo forma e colore?” domandò ancora la candela.
“Sì, ma siamo
più forti della notte e del gelo del mondo!” concluse il cero.
Così anche la candela rossa e dorata si lasciò accendere. Brillò nella notte con
tutto il suo cuore e trasformò in luce la sua bellezza, come se dovesse
sconfiggere da sola tutto il freddo e il buio del mondo. La cera e lo stoppino
si consumarono piano piano, ma la luce della candela continuò a splendere a
lungo negli occhi e nel cuore degli uomini per i quali era bruciata.
BRUNO FERRERO
5
LA DOMANDA DI UN FILOSOFO ALLA FIGLIA
Un famoso filosofo, giorno dopo giorno, si tormentava per cercare il significato ultimo dell’esistenza. Aveva dedicato alla soluzione di questo enigma i migliori anni di vita e di studio.
Aveva
consultato i più grandi saggi dell’umanità e non aveva trovato alcuna risposta
soddisfacente alla domanda.
Una sera, nel giardino della sua casa, mettendo da parte i suoi pensieri, prese
in braccio la sua bambina di cinque anni che stava giocando allegramente. E le
chiese: “Bambina mia, perché sei qui sulla terra?”
La bambina rispose sorridendo: “Per volerti bene, papà!” BRUNO FERRERO
6
LA LEGGENDA DEL TRONCHETTO DI NATALE
Ogni sera,
quando il padre di Nellina rientrava dal bosco, scuoteva la neve dagli stivali e
brontolava: “Oh, là là! Che caldo fa, qui! Sembra un forno! Guarda, Nellina, i
vetri delle finestre sono tutti appannati! E poi, sempre questo odore di dolci e
creme bruciacchiate!
Toh, guarda tua madre, coperta di farina dalla testa ai piedi! Che idea che ho
avuto di sposare una fornaia!”
Naturalmente la mamma di Nellina non era contenta. I suoi occhi brillavano di
collera.
Gridava: “Che
cosa? Dolci bruciacchiati? Lo? I miei panettoni farciti sono i migliori dei
mondo!
E poi io faccio delle cose con le mie mani. Tu, grand’uomo, non fai che demolire
dei poveri alberi che non t’hanno fatto niente. Guardalo, Nellina, tutto coperto
di segatura dalla testa ai piedi!”
Nellina ne aveva abbastanza di questi litigi. Si arrotolava le trecce bionde
forte forte intorno alle orecchie e non sentiva più niente. Ma il papà
continuava a gridare: “Questa sedia è tutta appiccicosa. È ancora la tua crema!”
E la mamma
urlava: “Crema? ma quale crema: è la resina dei tuoi maledetti alberi. La
spiaccichi dappertutto!”
Quella sera, Nellina piangeva nel suo lettino. Amava tanto il papà e la mamma.
Ma ora stavano esagerando. Due giorni dopo era Natale e loro non facevano
nessuno sforzo per andare d’accordo e passare una bella festa insieme. Il papà
si era rifiutato di ridipingere l’insegna della pasticceria. La mamma non aveva
voluto rammendare il gilet dei marito. I grossi lacrimoni di Nellina bagnavano
la sua bambola preferita. Il giorno dopo Nellina raccontò tutto al cugino
Gianni.
“Non serve a niente piangere!” le disse Gianni. “Devi fare qualcosa. I tuoi
genitori ti vogliono bene. Prepara tu la festa. Fabbrica un regalino, addobba la
casa e Natale sarà una festa fantastica!”
Nellina tornò a
casa di corsa. Aprì le finestre, spazzò fuori farina e segatura. Pulì e lucidò.
Decorò la casa con rametti di agrifoglio e carta crespa, aggiustò il gilet del
papà e stirò il nastro che la mamma si annodava nei capelli.
Poi si disse: “E adesso preparo una bella sorpresa! Almeno a Natale non
litigheranno!”
E mentre mamma e papà erano al lavoro, Nellina preparò la sua sorpresa, ridendo
da sola.
Quando il padre rientrò, non riuscì a trattenere un fischio di sorpresa: “Oh,
là, là! Che bella casa! E il mio gilet riparato per Natale.”
La madre a sua volta: “La casa addobbata e il mio nastro lavato e stirato. Che
meraviglia!”
Il giorno di Natale, andarono a Messa tutti insieme e poi tornarono per il
pranzo.
Al momento del dolce, Nellina portò la sua sorpresa.
Mamma e papà
aggrottarono le sopracciglia.
La mamma domandò: “Che cos’è? Sembra un tronco d’albero, con la corteccia scura
e un po’ di neve. È disgustoso!”
Il papà annusò e disse: “Sa di biscotti, cioccolato e zucchero in polvere. È
disgustoso!”
Poi, tutto d’un colpo, la mamma scoppiò a ridere e disse: “È un dolce, è per me.
Grazie Nellina!”
Il papà scoppiò a ridere anche lui: “È un tronchetto d’albero, è per me. Grazie
Nellina!”
Nellina, felice, gridò: “È per tutti e tre.
E lasciatene un po’ anche per me”. BRUNO FERRERO
7
LA METÀ DI UN SOGNO
C’era una ragazza che, ogni notte, guardava la luna. In quell’occhio del cielo dai riflessi d’argento, le sembrava di intravedere il profilo di un giovane sconosciuto.
O forse era
solo il riverbero misterioso di un sogno. La ragazza aspettava e sospirava.
Nell’altra parte del mondo, c’era un giovane che, ogni notte, guardava la luna.
Su quel pallido schermo gli pareva di vedere il profilo dolce e seducente di una
ragazza.
Il giovane era un provetto arciere.
Così, una
notte, incoccò la sua freccia più resistente e veloce sull’arco, lo tese con
tutte le sue forze e mirò al volto placido della luna. La freccia, dura come
l’acciaio e rapida come il lampo, colpì la luna e ne staccò un frammento.
Cadendo, il frammento si spaccò in due parti.
Una cadde in grembo alla ragazza, l’altra ai piedi del giovane arciere.
Tutti e due si legarono al collo, come un gioiello, il frammento di luna. Si
incontrarono poi?
Forse.
Ma noi tutti, esseri umani, siamo come loro ed erriamo per il mondo portando
ciascuno con sé la metà di un sogno. BRUNO FERRERO
8
LA PARABOLA DEI VETRI COLORATI
Uscirono dalla
vetreria lo stesso giorno. Gli operai le trattarono con attenzione e cautela.
Le impilarono tra morbidi panni e poi le riposero in una cassa immerse di
soffici materiali antiurto. Erano sei lastre di vetro colorato. Lastre blu,
verde, fucsia, giallo, rosso, viola.
Blu: “Avete visto come ci trattano?”
Giallo: “Siamo certamente tra le cose più preziose dell’universo!”
Rosso: “I migliori tra i migliori però siamo noi! Siamo il colore del sangue,
della vita, della lotta!”
Verde: “I rossi si credono sempre speciali!”
Fucsia: “Sono solo dei palloni gonfiati!”
La cassa fu chiusa, sollevata, caricata su qualcosa di veloce e puzzolente.
Le lastre,
timorose e sorprese, tacquero per un po’.
Il viaggio fu lungo, ma alla fine la cassa tornò ad essere posata sulla salda
terra e aperta.
Tutte: “Finalmente un po’ d’aria!”
Si trovavano in un grande stanzone, formicolante di operai indaffarati.
Uno di essi afferrò la prima lastra, quella blu, e tracciò sulla sua superficie
degli strani ghirigori.
Blu: “Ehi! Smettila di farmi il solletico!”
Ma l’uomo impugnò uno strumento affilato e cominciò a tagliare la lastra in
frammenti di varie dimensioni.
Blu: “No! Non rompermi, non rompermi!”
Tutte: “Qui ci fanno a pezzi!”
Rosso: “Facciamo sciopero!”
Ma non servì a niente.
Una dopo l’altra furono fatte a pezzi.
Solo la lastra viola, facendo finta di niente, riuscì a nascondersi dietro un armadio.
Gli operai
raccolsero i pezzi di vetro e li disposero attentamente su un grande tavolo.
Un pezzo rosso e uno giallo si trovarono a contatto e cominciarono a litigare.
“Non voglio stare vicino a questo qui!” protestavano il pezzo giallo e quello
rosso.
“State lontano profeti di sventure!” gridavano i gialli ai verdi.
Ma i solerti operai non avevano finito e tra frammento e frammento fecero
scorrere una lama ardente di piombo fuso che saldò in modo indissolubile un
pezzo di vetro all’altro.
Questa volta i pezzi di vetro colorato non ebbero neanche la forza di
protestare.
Si rassegnarono. Il loro destino era segnato per sempre.
Seguirono altri
trasferimenti, altre sistemazioni. Si trovarono in una specie di cantina buia,
sotto una grande volta. “Qui siamo tutti uguali: grigi e squallidi. Così va la
vita!” sospirò un pezzo di giallo. Giocarono un po’ agli indovinelli per passare
il tempo ma si annoiavano e si addormentarono. Poi arrivò la luce.
Furono svegliati da una sfilza di ” ohhhhhhhh ohhhhhh ohhhhh!”
Meravigliati, videro davanti a loro una folla che si accalcava con il naso
all’insù.
Gli occhi della gente erano sgranati per lo stupore. E nei loro occhi i vetri si
rispecchiavano e poterono vedersi per la prima volta. Ammutolirono per la
sorpresa: erano diventati una sbalorditiva vetrata multicolore che rappresentava
una splendida Madonna con il bambino Gesù in braccio.
La luce del sole, che li aveva inondati, faceva risaltare ogni colore in tutta la sua intensità.
“Gente, siamo
una bomba!” gridarono i rossi.
“Tutti insieme, effettivamente facciamo un certo effetto.” replicarono i verdi.
“Puoi ben dirlo, fratello!” esclamò il giallo.
Non aveva mai chiamato ‘fratello’ nessuno.
Finalmente i pezzi di vetro, nel loro piccolo colorato cuore, erano felici e
appagati.
Insieme avevano capito il motivo per cui erano stati creati.
E la lastra viola? La trovarono alcuni mesi dopo, dietro l’armadio. Era coperta
di polvere e, non sapendo che farsene, la buttarono nella discarica.
BRUNO FERRERO
9
LA PICCOLA ARIANNA E LA MAMMA
La piccola
Arianna era passata dal seggiolone ai primi passi, con la sua bella dose di
cadute e ginocchia sbucciate, come succede a tutti i bimbi. In quelle occasioni
di solito la mamma apriva le braccia e le diceva: “Vieni da me!” Allora Arianna
andava a gattoni verso di lei, le saliva sulle ginocchia e mamma e bambina si
abbracciavano.
La mamma le chiedeva: “Sei la mia bambina?”
Piangendo Arianna faceva “si” con il capo.
Poi aggiungeva:
“La mia dolce nespolina Arianna?”
La bambina annuiva ancora, ma con un sorriso.
La mamma, infine, le diceva: “Ed io ti voglio bene, sempre, in eterno e ad ogni
costo!”
Dopo una risata ed un abbraccio, la bambina era pronta per un’altra sfida.
Anche a cinque anni Arianna continuava a ripetere la scenetta del “Vieni da me”
per le ginocchia sbucciate e i sentimenti feriti, per scambiarsi il “Buongiorno”
e la “Buonanotte.”
Un giorno capitò alla mamma di avere una giornataccia.
Era stanca,
irritabile e stressata dall’impegno che richiede prendersi cura di un marito, di
una bambina di cinque anni, di due ragazzi adolescenti e del lavoro che svolgeva
da casa.
Ogni volta che squillava il telefono o che suonavano alla porta arrivava del
lavoro che l’avrebbe impegnata per un giorno intero e che doveva essere fatto
immediatamente.
Raggiunse il punto di rottura nel pomeriggio e si rifugiò in camera a piangere
in santa pace.
Arianna corse subito a cercarla e le disse: “Vieni da me!”
Si accoccolò vicino alla mamma, mise le manine sulle sue guance bagnate dalle
lacrime e disse: “Sei la mia mammina?”
Piangendo la mamma fece “sì” col capo.
Poi continuò:
“La mia dolce nespolina mamma?”
Sorridendo la donna fece “sì” con il capo.
Alla fine Arianna concluse: “E io ti voglio bene, sempre, in eterno e ad ogni
costo!”
Una risata, un abbraccio e anche la mamma era pronta per la prossima sfida.
Anche i genitori a volte hanno bisogno di essere consolati, e Arianna questo lo
ha capito benissimo! BRUNO FERRERO
10
MASTELLINA
Tanti, tanti
anni fa, in un piccolo villaggio, vivevano un uomo e una donna. Prima essi
avevano abitato in una città, in un palazzo bello e ricco. Ora invece vivevano
poveramente in una misera capanna. In tanta sfortuna, la loro unica consolazione
era la figlia che avevano.
Sebbene ancor molto giovane, tutti l’ammiravano già per la sua straordinaria
bellezza.
Ma, ahimé, prima che la ragazza fosse cresciuta, il padre morì e dopo pochi mesi
anche la madre cadde gravemente malata.
“Che sarà di mia figlia, quando anch’io sarò morta?” ripeteva piangendo la
donna, “È povera, e la sua bellezza sarà per lei soltanto un castigo.”
Quando la poverina sentì d’esser prossima a morire, chiamò a sé la ragazza, le
raccomandò di essere buona e coraggiosa, e le disse di portarle il mastelletto
di legno che stava dietro la porta. La ragazza ubbidì e si inginocchiò accanto
al letto della madre morente.
La donna alzò il mastelletto e lo mise in testa alla figlia in modo da
nasconderle quasi completamente la faccia.
“Ora, figlia mia,” disse la donna, “promettimi di non toglierti mai di testa
questo mastelletto.
Altrimenti, sarai molto infelice.”
La ragazza promise.
Morta che fu la
madre, la ragazza campò come meglio poteva. Lavorava sodo aiutando i contadini
nei campi, e mai nessuno udì da lei una parola di lamento per quel che doveva
fare.
La gente che la vedeva sempre col mastelletto in testa cominciò a chiamarla
Mastellina.
A poco a poco tutti dimenticarono che sotto quella strana maschera si nascondeva
il più bel volto del paese.
Un ricco possidente nei cui campi la ragazza lavorava, finì per accorgersi di
lei, ammirato dalla sua modestia e diligenza. Un giorno la chiamò, e le offrì di
andare a servizio nella sua casa a curare la moglie ch’era molto malata. La
ragazza accettò l’incarico e svolse così bene il suo compito da meritarsi la
fiducia di tutti.
Un giorno, il maggiore dei figli del padrone tornò a casa dalla città dove
studiava.
Conobbe Mastellina, prese ad ammirare il suo carattere tranquillo e la sua
indole buona, e andava chiedendo alla gente del villaggio notizie su di lei.
Seppe così che era un povera orfanella, da tutti chiamata Mastellina a causa
appunto del mastelletto che portava in testa per nascondere, si diceva, i brutti
lineamenti del suo viso. Ma una sera, il giovanotto si avvicinò a Mastellina che
portava un pesante secchio pieno d’acqua e vide il volto della ragazza riflesso
nell’acqua del secchio. Era di una bellezza eccezionale. Egli decise subito di
sposare la giovane serva. I suoi genitori non approvarono la sua scelta, ma il
giovane fu irremovibile e tanto disse e tanto fece che riuscì a fissare la data
delle nozze.
Mastellina rimase molto male quando seppe che i suoi padroni non l’accettavano
volentieri come nuora in casa loro. Essa piangeva giorno e notte, e pregò il suo
fidanzato di sposare una donna che potesse portargli una ricca dote. Ma una
notte essa vide in sogno sua madre, la quale le disse: “Non temere, figlia mia.
Sposa pure il figlio del tuo padrone.”
La ragazza ne fu felice, si alzò tutta allegra e cominciò a prepararsi per le
nozze.
Prima della cerimonia nuziale, tutti volevano togliere dal capo della sposa
quello strano casco, ma nessuno ci riuscì.
Lo sposo però
disse: “Io le voglio tanto bene, e la sposerò così com’è!”
Le nozze furono celebrate. Dopo la cerimonia ci fu uno splendido banchetto:
tutti erano intorno alla sposa a brindare alla sua salute, quando,
all’improvviso, il mastelletto si spaccò in due cadendo per terra a pezzi con
gran fracasso. Oh, meraviglia! I pezzi erano tutti d’oro, d’argento e di pietre
preziose. Così la povera ragazza poté vantare una dote più bella e più ricca di
quella di una principessa. Ma quel che più stupì gli invitati fu la
straordinaria bellezza della sposa.
I brindisi in onore della coppia felice non si contarono più; grida, canti e
risate andarono avanti fino al mattino. BRUNO FERRERO
11
LA STRADA VERSO DIO
Molti eremiti abitavano nei dintorni della sorgente. Ognuno di loro si era costruito la propria capanna e passava le giornate in profondo silenzio, meditando e pregando. Ognuno, raccolto in sé stesso, invocava la presenza di Dio. Dio avrebbe voluto andare a trovarli, ma non riusciva a trovare la strada. Tutto quello che vedeva erano puntini lontani tra loro nella vastità del deserto. Poi, un giorno, per una improvvisa necessità, uno degli eremiti si recò da un altro.
Sul terreno
rimase una piccola traccia di quel cammino. Poco tempo dopo, l’altro eremita
ricambiò la visita e quella traccia si fece più profonda. Anche gli altri
eremiti incominciarono a scambiarsi visite. La cosa accadde sempre più
frequentemente.
Finché, un giorno, Dio, sempre invocato dai buoni eremiti, si affacciò dall’alto
e vide che vi era una ragnatela di sentieri che univano tra di loro le capanne
degli eremiti.
Tutto felice, Dio disse: “Adesso sì! Adesso ho la strada per andarli a trovare.” BRUNO FERRERO
12
LA VISITA ALLA MAMMA
Quando mia nonna andava a far visita a sua madre, aveva bisogno di tre giorni: un giorno per viaggiare sul calesse trainato dal cavallo; un giorno per raccontare e apprendere le ultime notizie, un po’ in cucina e un po’ in giardino; il terzo giorno per il viaggio di ritorno.
Quando mia
madre andava a far visita a sua madre, aveva bisogno di due giorni.
Viaggiava in treno e, se fosse stata fortunata con le coincidenze, si sarebbe
fermato la sera del primo giorno, raccontava le ultime novità e il giorno dopo
ripartiva.
Quando io
faccio visita a mia madre, impiego mezz’ora. Vado in auto e mi fermo giusto una
decina di minuti perché i bambini si annoiano e sono sempre in ritardo con le
spese al supermercato.
Se un giorno mia figlia mi verrà a far visita, di quanto tempo avrà bisogno?
BRUNO FERRERO
13
LE LENTI A CONTATTO
In una bella e
calda giornata di fine primavera, un serpente incontrò nella foresta la sua
vecchia amica moffetta.
“Cosa fai di bello?” gli chiese la moffetta, “È tanto tempo che non ti vedo!”
“Direi che me la passo bene!” rispose il serpente, “Solo che non ci vedo quasi
più.
Mi metterò le
lenti a contatto il più presto possibile!”
Il serpente, si procurò infatti quelle lenti e pochi giorni dopo incontrò di
nuovo la moffetta.
“Adesso, non solo ci vedo alla perfezione!” disse alla sua amica, “Perfino la
mia vita familiare è migliorata!”
“Come possono
le lenti a contatto migliorare la vita familiare?” domandò la moffetta.
“Semplice!” rispose il serpente, “Ho scoperto che vivevo con un tubo per
innaffiare il giardino!”
BRUNO FERRERO
14
LO SPECCHIO NEL BAZAR
In un
pittoresco, stravagante, chiassoso “bazar” di una città orientale, una ricca
turista americana scovò una strana specchiera, incastonata in una preziosa
cornice d’argento.
Il prezzo di vendita richiesto era però troppo alto, esageratamente alto.
Ma nel corso della lunghissima trattativa, lo scaltro padrone del “bazar”, con
fare segreto e misterioso, confidò alla cliente che quello specchio possedeva un
potere magico, che produceva un incantesimo unico al mondo. Bastava specchiarsi,
e sfiorare leggermente con l’indice della mano destra la superficie del vetro.
Immediatamente, insieme con la persona riflessa, sullo specchio appariva una
scritta, comprensibile in ogni lingua, che rivelava la verità più profonda della
persona rispecchiata. Era un’occasione unica e stupefacente di successo! Da non
perdere assolutamente!
Possedere uno
specchio “Che dice la verità su tutto e su tutti” era un affarone eccezionale!
L’americana non resistette alla tentazione e fece subito una prova: si vide
riflessa alla perfezione nello specchio e, sfiorandolo con l’indice, vide
apparire a piè di specchio, in un ottimo inglese americano, la scritta luminosa:
“Ricca signora texana carica di soldi!”
Saldò immediatamente il conto senza discutere e si affrettò a ritirare lo
specchio che, adeguatamente avvolto, protetto, imballato ed assicurato, venne
spedito in Texas per via aerea.
Naturalmente, mediante quell’acquisto magico, la ricca ereditiera era certa di
riuscire a conquistare il centro dell’attenzione della gente che conta nella sua
città.
Quello specchio diventò invece, per lei, fonte inesauribile di guai. Lo fece
sperimentare ad alcune delle sue migliori amiche. Sulle prime lo presero come un
gioco divertente.
Si
specchiarono, in mezzo a risatine “fatue” e poco convinte, ma le parole dello
specchio arrivarono inesorabili: “Ha rubato al supermercato la biancheria che
indossa!” sentenziò alla prima,
“Ha undici anni in più di quello che dichiara!” alla seconda, “È piena d’invidia
e diffonde calunnie su voi tutte!” alla terza.
Le amiche, imbarazzate, si accomiatarono in fretta. Più tardi si specchiò, quasi
distrattamente, anche il marito della miliardaria, ed il verdetto fu: “Tradisce
la moglie!” Volarono parole terribili e furono convocati gli avvocati.
Naturalmente, la cosa si riseppe in tutta la città. In breve tempo più nessuno
frequentò la ricca casa della miliardaria.
Quel “souvenir”
portentoso le fece il vuoto intorno. Delusa e pentita, l’ingenua e ricca texana
un giorno, infuriata, spaccò lo specchio magico a martellate.
E mentre lo specchio andava in frantumi, apparve a grandi lettere, quasi come un
“sacrosanto” testamento, la sua ultima scritta: “Anche tu, sciocca texana, anche
tu… hai paura della verità?”
La verità ci farà liberi! Ma si paga a caro prezzo. BRUNO FERRERO
15
L’ANNUNCIO DEL PASSERO
La notte in
cui Dio inviò l’Arcangelo Gabriele a Maria, un passero si trovava per caso lì,
sul davanzale di una finestra. Impaurito dall’apparizione, stava per fuggire. Ma
non appena udì l’arcangelo annunciare a Maria che essa avrebbe dato presto alla
luce il figlio di Dio, il suo piccolo cuore cominciò a battere forte per
l’emozione. E rimase fermo come un sasso fin quando l’arcangelo non fu volato
via.
“Ho davvero capito bene? Da Maria nascerà proprio il figlio di Dio?” si chiese
l’uccellino.
Provava una grande felicità.
“Sono stato fortunato a sentire tutto.” pensò, “Devo andare subito a riferire il
meraviglioso annuncio agli uomini affinché si preparino ad accogliere e a
festeggiare il Bambino.
Così partì in volo sul villaggio di Nazaret e si diresse al mercato. Lì vi erano
donne che vendevano grano, farina e pane.
“Ho un segreto, uno straordinario segreto da rivelarvi!” cinguettò il passero
saltellando sulle zampette, impaziente di raccontare.
Ma una di loro
gli gridò arrabbiata: “Voi passeri fate sempre i furbi per rubarmi il grano!
Vattene via di qui, impertinente!”
E lo minacciò con una scopa, senza ascoltare ciò che le voleva dire. Il passero
volò allora fino alla piazza. Riuniti sotto un albero, i saggi del villaggio
stavano discutendo animatamente.
“Loro sì, mi ascolteranno di certo!” pensò, per farsi coraggio.
“Si sta preparando qualcosa di grandioso per le creature della terra!”
cinguettò, posandosi su un ramo proprio sopra di loro.
I saggi alzarono per un attimo lo sguardo verso di lui, poi ripresero i loro
discorsi.
Neanche si accorsero che l’uccellino, per nulla intimorito da un gatto,
continuava a saltare di ramo in ramo tentando disperatamente di attirare la loro
attenzione.
Scuotendo la testolina per la delusione, il passero proseguì fino alla capitale
e puntò diritto verso il palazzo del Re.
“Come osi oltrepassare le mura della reggia?” gridò una guardia.
“Vengo per darvi una notizia importante!” cinguettò il passero, “Sta per nascere
il figlio di Dio, il signore dei cieli e della terra!”
“Se non taci immediatamente, ti faccio rinchiudere in una gabbia!” tuonò il
capitano, “È il nostro Re il signore di tutto e di tutti!”
Ma il passero riuscì a sfuggire alle guardie.
Entrò per una
finestra nel palazzo, e si diresse verso la sala del trono.
“Cacciate via quell’uccello maleducato!” urlò il Re furente, senza ascoltare un
bel niente di quanto il passero cercava di dirgli. Guardie e servitori
inseguirono il passero per catturarlo.
Questo, impaurito, tentò di uscire dal palazzo, ma nel frattempo la finestra era
stata chiusa!
“Prendetelo! Afferratelo!” gridavano le guardie e i servitori, correndo
attraverso le stanze dove l’uccellino cercava invano di nascondersi.
Per fortuna, proprio nell’ultima stanza, il passero trovò una feritoia aperta, e
in un baleno riguadagnò la libertà.
“Salvo! Finalmente sono salvo!” esclamò l’uccellino librandosi alto nel cielo.
Da lassù scorse, vicino a un villaggio, dei bambini che giocavano allegri in
mezzo alla neve.
“I bambini sì, loro mi daranno retta!” pensò, avvicinandosi velocemente.
Infatti, si era appena posato sulla neve, che tutti i bambini si erano già
raccolti in cerchio attorno a lui.
“Com’è carino questo passerotto!” dissero, “Che cosa sarà venuto a fare? Forse
vuole giocare con noi…”
“Oh no! Sono
qui per svelarvi un bellissimo segreto!” cinguettò l’uccellino, piegando un po’
dilato la testolina, “Nascerà tra poco sulla terra, proprio qui tra noi, un
altro bambino, il figlio di Dio!”
“Ascoltate quanti cip cip… cip cip…” notò un bambino, “Sembra proprio che voglia
dirci qualcosa…”
“Io dico che ha fame!” esclamò una bambina, e gli diede delle briciole di torta.
Ma il passero non pensava davvero al cibo. Era lì per qualcosa di ben più
importante.
Per richiamare meglio la loro attenzione, batté eccitato le ali e ripeté da capo
tutto, cinguettando nel modo più chiaro possibile.
“Come vorremmo capirti!” disse un bambino all’uccellino, accarezzandolo.
Il passero fu certo che i bambini, purtroppo, non potevano comprenderlo.
Al passero dispiaceva molto di non poter comunicare a nessuno il grande segreto.
“Quale sfortuna che gli uomini non sappiano ciò che sta per accadere!” pensava,
“Gli adulti fanno i sordi e mi cacciano via, e i bambini, tanto gentili, non
riescono a capirmi…”
“Se non posso raccontare nulla agli uomini, non vi sarà nessuno ad accogliere
Giuseppe e Maria al loro arrivo a Betlemme.” si preoccupava l’uccellino, “E
nessuno, proprio nessuno sarà davanti alla stalla nella notte santa per far
compagnia al figlio di Dio!
Debbo fare a
ogni costo qualcosa!” decise. Allora chiamò gli altri passeri e raccontò loro
ciò che aveva udito nella casetta di Maria. I passeri si rallegrarono subito
quanto lui.
“Se gli uomini non vogliono capire quale Bambino sta per nascere, noi lo faremo
sapere almeno agli altri uccelli!” decisero.
In men che non si dica, volarono in ogni direzione e diffusero ovunque la
notizia.
Allodole e fringuelli, cinciallegre e pettirossi, usignoli e merli, proprio
tutti seppero del grande evento. Nel mondo degli uccelli cominciò a regnare
l’impazienza. Ovunque fervevano preparativi. Tutti provavano i loro più bei
canti attendendo la nascita del figlio di Dio.
Quando Gesù nacque e fu deposto nella greppia, i primi a vederlo furono
l’asinello che aveva portato Giuseppe e Maria a Betlemme, il bue che abitava
nella stalla, e stormi di allodole, fringuelli, cinciallegre, pettirossi,
usignoli e merli venuti da ogni parte.
Dal tetto della stalla i passeri vegliavano su Gesù bambino, mentre gli altri
uccelli cantavano gioiosamente tutt’attorno.
Poi arrivarono i primi pastori, che avevano finalmente udito l’annuncio dagli
angeli discesi dal cielo. Davanti a Gesù, si meravigliarono di trovare tutti
quegli uccelli in festa. Si guardarono l’un l’altro.
“Cantiamo anche
noi!” dissero, e fecero un coro solo con allodole e fringuelli, cinciallegre e
pettirossi, usignoli e merli, suonando pure dolcemente i loro flauti e le
zampogne.
Quando gli altri uomini li udirono di lontano e capirono che era nato il figlio
di Dio, pure loro si rallegrarono e cominciarono a cantare. Così in ogni luogo
della terra fu festa per il sacro evento. Potete immaginare la felicità del
nostro passero! Per merito suo, Gesù, nascendo, aveva trovato tante e tante
creature e tanti canti di felicità attorno a sé.
E ancor oggi, nella notte santa, davanti al Presepio o all’albero di Natale,
bambini e grandi riempiono di canti le loro case. BRUNO FERRERO
16
VIAGGIO DA TARTARUGA
Una tartaruga
passava in campagna la sua vita tranquilla.
Un giorno le arrivò l’invito di una sua cugina, che abitava in città, perché
andasse a trovarla.
Spinta dal desiderio di vedere un po’ di mondo, la tartaruga campagnola accettò
l’invito.
La distanza non era molta, non più di un chilometro, ma per la tartaruga era già
un bel viaggio.
Si illuse tuttavia di compierlo in breve tempo e solo il mattino dopo si mise in
cammino.
“Con il mio passo sicuro e costante,” pensò, “prima di mezzogiorno sarò
certamente arrivata.
Giusto in tempo per sedermi a tavola!”
Partì cantarellando. Cammina, cammina, cammina… A mezzogiorno la tartaruga
aveva percorso appena qualche centinaio di metri.
Quando sentì battere dodici rintocchi ad un campanile, sbottò: “Che stupido
campanile!
Non sarà neppure un’ora che mi sono mossa da casa, e già suona mezzogiorno.
Sono tutti sgangherati questi orologi e i campanari sono ubriaconi!”
Cammina,
cammina… Il sole tramontò e le stelle spuntarono tremolanti, ma la tartaruga non
era neanche a metà strada. Più arrabbiata che mai, si mise ad inveire: “Il mondo
non è più quello di una volta! Il sole tramonta più presto, le stelle si
affacciano fuori orario e le giornate non sono più di ventiquattr’ore!”
E, borbottando, riprese il suo cammino, maledicendo la strada, troppo sassosa e
storta.
C’è sempre una buona ragione per pensare male del prossimo…
17
“L’OMBRELLO DIMENTICATO”
“Per caso ho
lasciato l’ombrello da lei?” mi domandò una signora che abita nella mia zona e
che era venuta a trovarmi poco tempo prima.
“Sì.” risposi.
Mi ringraziò molto, poi aggiunse: “Lei sì che è onesto!
Ho domandato a un sacco di gente se avessi lasciato il mio ombrello a casa loro,
e mi hanno tutti risposto di no!” BRUNO FERRERO
18
L’UOMO D’AFFARI ED IL TAXI
Un uomo
d’affari sempre molto indaffarato chiamò a gran voce un taxi e vi salì sopra con
gran furia dicendo: “Presto vada a tutta velocità!”
Il taxi partì con un grande stridio di gomme e imboccò il corso a tutta birra.
Dopo un po’ al passeggero venne un dubbio. Si sporse verso il tassista e chiese:
“Le ho detto dove deve andare?”
L’autista rispose tranquillo: “No, ma ci sto andando più in fretta che posso!”
Si può anche vivere a “casaccio.” BRUNO FERRERO
19
“La sfida tra fratelli”
Giovanni Maria
Vianney ancora fanciullo, aveva un fratello maggiore di lui, di nome Francesco,
che lo prendeva sempre in giro per le sue incapacità e per la sua religiosità.
Come fare per avere una giusta rivincita?
Si propose un modello e questo lo trovò in una piccola statuina della Madonna,
che una religiosa gli aveva regalato. Sentite come ebbe la prima vittoria sul
fratello.
Mandati tutti e due a zappare nel campo, Francesco, essendo più grande, lo
anticipava e lo precedeva nel lavoro. Come raggiungerlo?
Giovanni Maria
pose alcuni passi davanti a sé la statuina: guardandola, si rincuorava nel
lavoro, si sforzava di più e raggiungeva il fratello. Ma il fratello partiva per
la rivincita.
Ecco allora che il piccolo riprendeva l’immagine, la collocava di nuovo davanti
a sé, si entusiasmava nel lavoro e progrediva.
Così facendo, tenne testa fino a sera al fratello, che a casa dovette, non senza
dispetto, confessare alla madre, che Giovanni Maria aveva fatto tanto lavoro
come lui.
Ma aggiungeva: “La sfida non è stata giusta! Io ero solo, ma lui no, aveva ad
aiutarlo la Vergine Maria!” BRUNO FERRERO
20
“L’ULTIMO DELLA CLASSE”
Quando era
seminarista, Giovanni Maria Vianney, il futuro santo Curato d’Ars, aveva enormi
difficoltà con la scuola. Non riusciva a capire neppure le nozioni più semplici.
I superiori del seminario lo avevano rimandato a casa più volte. Ma lui
caparbiamente insisteva.
Aveva ormai 21 anni e sedeva in aula con ragazzi che avevano dieci anni meno di
lui.
Uno di questi, undicenne, cominciò ad aiutarlo nello studio.
Giovanni
Battista Vianney era molto grato al suo piccolo maestro, ma le difficoltà
persistevano:
non capiva, non ricordava, si smarriva, balbettava.
Il ragazzino si lamentò di questo con i compagni di scuola. Giovanni Maria
Vianney lo sentì.
Si alzò dal suo banco, si inginocchiò davanti al ragazzino e gli disse:
“Perdonami perché sono così
stupido.” BRUNO FERRERO.
21
“EGLI GUARDA ME ED IO GUARDO LUI”
Il Santo Curato d’Ars (Giovanni Maria Vianney) incontrava spesso, in Chiesa, un semplice contadino della sua Parrocchia. Inginocchiato davanti al Tabernacolo, il brav’uomo rimaneva per ore immobile, senza muovere le labbra.
Un giorno, il
Parroco gli chiese: “Cosa fai qui così a lungo?”
“Semplicissimo. Egli guarda me ed io guardo Lui!” BRUNO
FERRERO
22
QUANTO PIÙ IL CARRETTO È VUOTO, TANTO PIÙ FA RUMORE!
Camminavo con mio padre, quando all’improvviso si arrestò ad una curva e dopo un breve silenzio mi domandò: “Oltre al canto dei passeri, senti qualcos’altro?”
Aguzzai le
orecchie e dopo alcuni secondi gli risposi: “Il rumore di un carretto.”
“Giusto!” mi disse, “È un carretto vuoto.”
Io gli domandai: “Come fai a sapere che si tratta di un carretto vuoto se non lo
hai ancora visto?”.
Mi rispose: “È facile capire quando un carretto è vuoto, dal momento che quanto più è vuoto, tanto più fa rumore.”
Divenni adulto e anche oggi quando vedo una persona che parla troppo, interrompe la conversazione degli altri, è invadente, si vanta delle doti che pensa di avere, è prepotente e pensa di poter fare a meno degli altri, ho l’impressione di ascoltare la voce di mio padre che dice: “Quanto più il carretto è vuoto, tanto più fa rumore!” BRUNO FERRERO
23
Tre parole
Un giovane e
ambizioso cavaliere era noto per la vita dissoluta e sfrenata.
Un buon frate cercò di farlo riflettere sui rischi che avrebbe corso
presentandosi con l’anima così carica di peccati all’ultimo giudizio del
Signore. “Non ho nessuna paura!” rispose sprezzante il cavaliere, “So che il
Signore è buono e misericordioso. Poco prima di morire pronuncerò tre parole che
mi garantiranno la salvezza eterna. Dirò: “Gesù, pietà, perdonami.”
Il frate scosse la testa ed il cavaliere, ridendo, riprese la sua vita
depravata.
Un giorno, durante un terribile temporale, cavalcava a spron battuto sulle rive
di un fiume gonfio d’acqua. Non voleva mancare ad una festa. Un fulmine spaventò
il cavallo che lo disarcionò e lo fece piombare nella violenta corrente del
fiume.
Le ultime tre parole del cavaliere, prima di morire, furono: “Crepa bestiaccia
infame!”
BRUNO FERRERO
24
TU NON CAPISCI PROPRIO NIENTE
Alla moglie,
qualunque fosse il motivo, ripeteva: “Tu non capisci proprio niente!”
Effettivamente lei non aveva studiato oltre la terza media, non si interessava
di politica, non leggeva giornali, eccetto i bollettini della parrocchia, si
occupava soltanto dei figli, della casa, del bucato, della cucina, e di qualche
ora nell’ufficio del parroco.
Quando si accendeva una discussione in famiglia, il marito, rifiutando per
principio ogni dialogo sereno, intelligente ed educato, con i suoi soliti
pregiudizi, le chiudeva la bocca dicendo:
“Tu non capisci proprio niente!”
Quando la
moglie tentava di coinvolgerlo in qualche problema serio sui risultati
scolastici dei figli o per valutare l’opportunità di una spesa o la scelta del
luogo di villeggiatura o il bilancio familiare… la sua risposta era sempre la
stessa, pronta, secca, senza possibilità di replica:
“Tu non capisci proprio niente!”
Una sera, in casa, mentre la televisione trasmetteva una partita della
Nazionale, venne a mancare improvvisamente la corrente.
Il marito, tutto nervoso e agitato, si avviò a scendere nel buio dello
scantinato per controllare ed eventualmente sostituire la valvola fusibile nel
quadro di distribuzione dell’energia elettrica.
“Accendi una candela!” gli suggerì timidamente la moglie.
Al solito, il
marito, furibondo, le gridò: “Tu non capisci proprio niente, conosco il posto a
memoria!”
Ma quella sera, evidentemente, qualcosa non funzionò a dovere; perché il
pover’uomo scivolò su un gradino, sbattè la testa in modo tremendo e, dopo aver
lanciato un urlo disumano, rimase a terra tramortito, sanguinante e con rotture
varie. Il caso era molto grave, ma i medici dell’ospedale, dopo giorni e giorni
nell’Intensiv Station e con cure forti e adeguate, riuscirono a salvare la vita
al poveretto. Quando l’infortunato si risvegliò dopo quattro giorni di coma,
vide la moglie accanto al letto, dolcemente china su di lui, trepidante, con gli
occhi pieni di lacrime e piena di amore. La povera donna non l’aveva abbandonato
un solo istante: giorno e notte, sempre vicina a lui, con mille attenzioni e con
infinite preghiere. Dopo due settimane dall’uscita dal coma, quando finalmente
l’uomo poté cominciare a mormorare le prime parole, mentre due grosse lacrime
gli brillavano negli occhi, con fatica disse: “Sono proprio un animale. Non
avrei mai creduto che tu mi volessi tanto bene!”
E lei, col sorriso di sempre, amabile, dolce e con gli occhi umidi e luminosi,
gli bisbigliò sottovoce: “Tu non capisci proprio niente!” BRUNO FERRERO
25
L’ASTA DI FERRO
C’era una
volta, nel deposito di un vecchio magazzino, un’asta di ferro abbandonata in un
angolino insieme ad altri pezzi di scarto, in balia del freddo e soprattutto
dell’umidità.
Il ferro, abbandonato lì da tanti anni, si sentiva sempre più arrugginito ed
inutile.
Spesso ricordava i grandi sogni che lo avevano accompagnato durante la sua
giovinezza:
diventare parte di una costruzione importante, o un’opera d’arte famosa di
qualche bravo artista, o… Ma niente di tutto questo.
L’asta di ferro
ricordava con grande tristezza anche il giorno in cui fu buttata via perché
considerata uno scarto. Ormai era avvolta da uno strato di ruggine che la
scoraggiava e le spegneva ogni barlume di speranza.
Un giorno, però, passò da quelle parti un abile fabbro a cui serviva un’asta di
ferro proprio di quella misura. Dopo averla prelevata la portò subito alla sua
bottega. All’asta di ferro non sembrava vero tutto questo. Il fabbro la osservò
attentamente e le disse che le avrebbe dato una forma, ma che ciò sarebbe
costato fatica e sacrificio. Sicché subito il fabbro cominciò a lavorarci su,
infilandola prima nel fuoco ardente, poi dandole molti colpi di martello, in
seguito immergendola nell’acqua e così via di nuovo, fino a quando, dopo tanto
lavoro, il fabbro disse: “Ecco, ora hai una forma.”
L’asta di ferro era diventata un elegante passamano. Da quel giorno divenne utile a tanta gente; molti si appoggiarono a quel passamano per salire e scendere le scale.
ANGELO VALENTE
26
L’IMPORTANZA DEL PANE
C’era una volta
un piccolo paesino che si chiamava “Casa” perché tutti gli abitanti erano
cordiali, rispettosi, accoglienti e molto familiari con chiunque passasse da
quelle parti.
Sicché, chiunque giungeva in quel paesino poteva realmente dire: “Mi sento a
casa!”
A “Casa” vi era
un fornaio che possedeva l’unico forno della zona e che perciò forniva il pane a
tutti gli abitanti del paese e dei dintorni. Quel pane era uno dei segreti
dell’accoglienza dei cittadini di “Casa.” Infatti, era il pane più delizioso e
più buono che si potesse ma assaggiare; tanto soffice da essere facilmente
condivisibile con tutti.
Era consuetudine per i cittadini, infatti, quella di spezzare un pezzo di pane
con le persone estranee che passavano di là, come segno di condivisione e
familiarità. Anche la gente era diventata come quel pane: soffice, morbida e
sempre disposta a spezzarsi per gli altri.
Un giorno, però, il fornaio si ammalò e non poté più impastare e distribuire
quel pane delizioso.
In seguito,
anche la gente di “Casa” iniziò ad ammalarsi. Infatti, essendo il pane
l’alimento principale di Casa e non potendone mangiare, molti si indebolirono.
Anche la gente che passava dal paesino, non trovando più nessuno che
condividesse il proprio pane, restava delusa perché non si sentiva più come a
casa propria.
Era verso sera quando un giovane, molto affezionato al fornaio, decise di
andarlo a trovare e di raccontargli tutto ciò che stava accadendo. Dopo averlo
ascoltato, il fornaio di “Casa” gli disse:
“Voi avete la farina, avete l’acqua, il lievito, il sale, avete il forno… avete
tutto il necessario per fare il pane!”
Poi aggiunse:
“Il segreto di un buon pane è metterci tanta buona volontà e tanto amore!”
Così il giovane andò via con quelle parole nella testa e con la speranza nel
cuore.
Il mattino seguente, allo spuntare di un limpido sole, la gente di “Casa” si
svegliò con uno squisito profumo di pane caldo. Tutti, usciti dalle proprie
case, si riversarono nel forno per vedere che cosa stesse accadendo e lì
trovarono quel giovane che riferì le parole dell’anziano fornaio. Da quel giorno
a “Casa” non mancò mai più il pane perché tutti gli abitanti impararono a farlo
con amore e tanta buona volontà, facendo dei turni nel forno del paese.
Come una volta, da quel giorno, chiunque passò da “Casa” si sentì in famiglia
perché incontrò sempre qualcuno pronto a condividere del buon pane con lui.
ANGELO VALENTE
27
UNA PENNA DISOBBEDIENTE
C’era una volta un grande e bravissimo poeta che nessuno conosceva perché nessuno aveva mai letto le sue poesie. Il poeta, fin da piccolo, si era affezionato ad una sola ed unica penna e non ne aveva mai utilizzate altre. Questa penna, però, si era sempre rifiutata di scrivere per paura di finire il suo inchiostro: perciò nessuno conosceva le bellissime poesie del poeta.
Un giorno il
poeta si recò presso una biblioteca e portò con sé anche la sua penna.
Fu lì che la penna conobbe tante altre penne come lei e vide che tutte
scrivevano, senza farsi troppi problemi. C’era lì anche una penna appoggiata su
una scrivania che sembrava molto anziana, perché aveva quasi terminato tutto il
suo inchiostro.
Dopo averle rivolto il saluto, la penna del poeta le parlò delle sue resistenze
a scrivere.
Ma l’anziana
penna, che aveva scritto tanto, le disse: “Guarda intorno quanti libri. Tanta
gente può venire qui a leggere ed imparare cose nuove proprio perché delle penne
come noi sono state utili ai loro padroni. Non serve a nulla e a nessuno tenere
per sé ciò che loro ci dicono.
Noi abbiamo il grande compito di manifestare agli altri il loro pensiero, le
loro idee, cioè di scrivere ciò che di più profondo c’è in loro utilizzando ciò
che di più profondo c’è in noi, cioè l’inchiostro. Questo ci rende utili e fa
crescere la gente.”
La penna del poeta ringraziò di cuore l’anziana penna e da quel giorno iniziò a scrivere tutte le poesie che il poeta recitava. Il poeta fu apprezzato e conosciuto da molti perché da quel giorno tanta gente poté leggere le sue splendide poesie. ANGELO VALENTE
28
QUELLO CHE CI FA VOLARE
Parecchi anni
fa, un uomo vendeva palloncini per le strade di New York. Quando gli affari
erano un po’ fiacchi, faceva volare in aria un palloncino. Mentre volteggiava in
aria, si radunava una nuova folla di acquirenti e le vendite riprendevano per
qualche minuto.
Alternava i colori, sciogliendone prima uno bianco, poi uno rosso e uno giallo.
Dopo un po’ un ragazzino afroamericano gli dette uno strattone alla manica della giacca,
guardò negli occhi e gli fece una domanda acuta: “Signore, se lasciasse andare un palloncino nero, salirebbe in alto?”
Il venditore di palloncini guardò il ragazzo e con saggezza e comprensione gli disse: “Figliolo, è quello che è dentro i palloncini che li fa salire verso il cielo. ZIG ZIGLAR
29
IL SIGNORE DEI CUORI
Sopra la
montagna più alta del mondo un vecchio ed instancabile uomo continuava il suo
incessante lavoro in solitudine. Quella montagna non era raggiungibile né
visibile agli uomini, ma un giorno di primavera una donna scalò la sua cima
trovandosi occhi negli occhi con l’intramontabile Signore dei Cuori. La donna
fece in silenzio gli ultimi passi, e nel vedere quel vecchio solo sulla cima
della montagna che aveva scalato con grande dolore, prese a piangere per la
commozione, tanto che il vecchio sentendola singhiozzare si voltò.
La donna nel suo volto non vi colse sorpresa, ma sollievo come se l’aspettasse
da tanto tempo, ma neanche lei fu sorpresa quando riconobbe in quell’uomo suo
padre.
“Sei giunta finalmente, è tanto che ti sento parlare, piangere e cantare,
attendevo la tua venuta così come si può attendere il sorgere del sole.” disse
lui.
“Padre cosa ci fai su questo monte tutto solo, ti prego lascia che possa fare qualcosa per te, vieni dammi la mano scendiamo in terra, non ti posso lasciare qui.” rispose la figlia.
“Figlia mia, il
mio compito è essenziale affinché la vita abbia continuità.
Vedi questa montagna di dura roccia, essa è l’umanità ed io sono il Signore dei
Cuori.” rispose lui.
“Padre che significa?” chiese la figlia.
“Avvicinati e te lo dimostrerò!” esclamò il padre.
La donna fece alcuni passi e raggiunse il vecchio uomo, al suo fianco c’era uno
scrigno tutto d’oro intarsiato da una miriade di pietre preziose, che l’uomo
prese con molta cura porgendoglielo: “Padre grazie, ma cos’è?” chiese nuovamente
la figlia.
“Aprilo!” esclamò il padre.
La donna aprì
lo scrigno e dentro riconobbe il suo cuore di carne. “Padre, ma è il mio cuore?
Perché non era in me, ma nelle tue mani?” domandò stupita la figlia.
Il padre rispose: “Questo è il mistero che non vi è ancora stato svelato, ma per
il quale ora siete maturi. Il vostro cuore di pietra dovrà divenire di carne,
prima che esso vi venga consegnato, e con esso una vita degna d’esser vissuta.
Vedi io non potrò scendere alla vita sino a quanto l’intera montagna che tu hai
scalato, non sarà mutata da dura roccia in un caldi cuori che palpitano d’amore.
Io resterò qui sino a quando tutti i cuori del mondo non vedranno spuntare il
loro fiore.”
CLEONICE PARISI
30
LA FARFALLA SU UNO STELO
Una farfalla volava instancabile tra i fiori, quando d’un tratto un pianto sommesso la fece sobbalzare. “Che fatto insolito, pensò, in un giardino!” e impaurita si spezzò le ali andando a urtare contro un alberello. “Ah, che mai sarà di me adesso! Non volerò più… morirò di tristezza!”
E mentre così
si lamentava, si ricordò del pianto appena udito e chiese al vento:
“Chi piangeva prima di me?”
“Io, stelo nudo senza fiore; una folata di vento mi ha ridotto così. E a che
serve uno stelo senza fiore?” disse. La farfalla si trascinò stancamente fino a
lui: “Non sei il solo a soffrire; con le mie ali spezzate, non volerò mai più
libera nell’aria!”
Lo stelo tacque e sembrò riflettere, ma tanto durava il suo silenzio, che la
farfalla quasi si innervosì.
Alla fine,
parlò: “Insieme, possiamo aiutarci. Posati su di me, così tu porgerai le ali al
vento ed io avrò di nuovo un fiore.” La farfalla si illuminò tutta di un
sorriso.
I passeri accorsero ad aiutarli e unirono per sempre la farfalla al verde stelo.
Da allora ci sono farfalle che volano ed altre che, trasformate in fiori, si
lasciano cullare sugli steli.
DON EZIO DEL FAVERO
31
LA GOCCIA D’ACQUA E LA PIANTICELLA
La nuvola
avanzava lentamente: era piccola, poco più grande di un batuffolo di cotone.
All’interno, due gocce di pioggia stavano litigando furiosamente.
“Ti dico che dovevamo scendere su quel prato!” urlò l’una.
“E così saremmo finite in mezzo al fango!” ribatté l’altra.
“Sua maestà ha paura di sporcarsi? Preferirebbe forse cadere in una boccetta di
profumo?” insistette la prima.
“Sei sciocca e ignorante!” esclamò la seconda.
E rivolgendosi all’altra compagna che se ne stava pacifica e silenziosa ad
osservare il paesaggio chiese: “E tu, cosa ne pensi?”
Costei rispose:
“Credo che ognuna di noi debba seguire le proprie aspirazioni, ricordandoci che
il mondo ha bisogno di noi.”
“Giusto!” intervenne la prima, “Ognuna pensi a sé stessa!” travisando così le
parole della compagna saggia.
La prima a lasciarsi scivolare dalla nuvola fu proprio lei. Vide uno scoglio e
decise di andare a crogiolarsi al sole. Fatto sta che, poco dopo, cominciò a
sudare e all’improvviso scomparve.
Di lei non restò più nulla, neppure il segno sulla roccia.
La seconda,
vedendo l’oceano, pensò: “Qui non mi mancherà la compagnia!” e si lasciò
scivolare. Per qualche tempo passò le sue giornate ridendo, scherzando, ballando
insieme alle compagne. Ma un giorno un’onda l’afferrò con decisione e la mandò a
ruzzolare sulla spiaggia.
La sabbia assorbì la goccia e di lei non restò più nulla, nemmeno un’impronta.
Sulla nuvola, intanto, la goccia rimasta aspettava il momento opportuno per
scendere sulla terra. Aveva deciso: “Mi spingerò più a Nord, il vento freddo mi
trasformerà in un fiocco di neve e contribuirò a far felici i bambini.”
All’improvviso vide, in un campo arso dal sole, una pianticella quasi appassita.
Questo la rattristò e la commosse. E così decise: si lasciò scivolare dalla
nuvoletta e cadde addosso alla piantina.
Costei si ridestò dicendo: “Che fresca carezza! Chi sei?”
“Sono una piccola goccia e sono scesa dal cielo per aiutarti!” rispose.
Poi scomparve nel terreno, fino alle radici. Subito un fremito percorse l’intera
pianticella ed un fiorellino sbocciò, profumando l’aria.
La storia di
ogni persona è allo stesso tempo effimera e importante.
Perciò ci conviene vivere in maniera intensa, al di là del nostro piccolo “io”,
contribuendo ad arricchire la vita degli altri e lasciandoci impreziosire dalle
loro sorprese. DON EZIO DEL
FAVERO