Dequalificazione professionale, visite fiscali insistite, licenziamento vessatorio per supposta assenza ingiustificata e obblighi datoriali di risarcimento danno

 

Trib. Pisa, sezione lavoro (1° grado) – 13 marzo 2001 – Giud. Nisticò – AG (avv. Bellesi) c. M****SpA (avv. Del Punta, Marra)

 

Dequalificazione professionale, visite fiscali insistite e licenziamento per supposta assenza ingiustificata – Vessatorietà del comportamento aziendale, responsabilità per danno biologico –  Illegittimità del licenziamento – Obbligo di reintegrazione  e risarcimento per il recesso ingiustificato – Ulteriore responsabilità risarcitoria datoriale per il  danno, in re ipsa, alla professionalità e all’immagine conseguente a dequalificazione e per il  danno biologico da pregiudizio allo stato di salute.

 

Secondo le dichiarate intenzioni del capo del Personale della Società M****rassegnate alle RSA, per cui “le verifiche fiscali a fronte di certificati medici sarebbero state inviate a tappeto”, le visite fiscali rispondevano  non già all’esigenza di riscontro di veridicità della malattia ma ad una chiara volontà di “stare con il fiato sul collo al lavoratore assente per malattia”.

Va tuttavia pienamente condiviso l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui:“E’ risarcibile il danno derivato al dipendente da un comportamento illegittimo e persecutorio del datore di lavoro, consistito nella richiesta, a più riprese, all’Inps dell’effettuazione di visite mediche domiciliari di controllo dello stato di malattia del lavoratore, attestato dal certificato del medico curante, nonostante l’effettività della patologia fosse stata già accertata da controlli precedenti (Cass. n. 475/1999).” Situazione, in effetti riscontrabile nella fattispecie sottoposta all’esame di questo giudice, in cui il datore di lavoro appare incredulo sulla psicopatologia del ricorrente (affetto da sindrome depressivo ansiosa con somatizzazioni grastrointestinali). Invero non è semplice stabilire quale sia il confine fra il disagio dell’umore e la malattia psichiatrica e quando tale malattia comporti una assoluta incapacità a svolgere l’attività lavorativa. Tuttavia occorre sgombrare il campo dal pregiudizio ricorrente che confina l’affezione psichica alla mera dimensione caratteriale, poiché spesso questo tipo di sofferenza, ancorché non gravissima, rileva sul piano funzionale (e quindi della capacità anche lavorativa) più di quanto spesso non rilevi una patologia di tipo squisitamente fisico.

Circa la richiesta di risarcimento del danno "biologico"ed alla dignità ed immagine professionale derivante: a) dal licenziamento; b) delle numerose visite fiscali; c) dal demansionamento, va detto che:

a) l’avvenuto accertamento dello svolgimento di mansioni inferiori impone di ritenere accertata la dequalificazione. Lo svolgimento di attività dequalificate comporta, a parere di questo giudice, un autonomo danno alla professionalità, ontologicamente distinto da ogni diversa conseguenza sul piano del pregiudizio alla vita di relazione. Il datore di lavoro, infatti, ha l’obbligo di adibire il lavoratore a mansioni proprie del livello di appartenenza od a quelle del livello acquisito: l’inosservanza di tale obbligo rileva ex se sul piano risarcitorio, come lesione diretta allo sviluppo professionale del dipendente. Si tratta, dunque, di un danno avente contenuto patrimoniale nel momento in cui al dipendente dequalificato viene precluso il corretto sviluppo di carriera all’interno od eventualmente all’esterno dell’azienda. Una volta dequalificato, infatti, egli non potrà più spendere la sua professionalità maturata sia presso lo stesso datore di lavoro che presso datori di lavoro diversi: questo, dunque, determina un danno potenzialmente patrimoniale, la cui quantificazione è affidata alla valutazione del caso concreto;

b) in ordine al danno c.d. biologico (cioè alla vita di relazione), il fondamento della responsabilità datoriale è affidato dall’ordinamento alla regola di cui all’art. 2087 c.c. che impone, fra l’altro, la tutela della personalità morale del lavoratore. Trattandosi, dunque, di responsabilità contrattuale valgono, in tema di onere della prova, le regole di cui all’art. 1218 c.c.

Nel caso di specie non vi sono dubbi sulla sussistenza della malattia, ampiamente dimostrata sulla base degli argomenti fin qui svolti. Ma non vi sono dubbi neppure sulla sussistenza del nesso di causa fra l’insorgere della malattia ed il comportamento, in alcuni casi, vessatorio, del datore di lavoro.

E’ altrettanto pacifico che il ricorrente sia stato destinatario di una serie di "visite fiscali", in alcuni casi connotate addirittura da illegittimità (come nel caso della visita svolta il giorno successivo al primo accertamento confermativo). E’, infine, pacifico che, sussistendo la malattia - secondo i medici Inps - fino al 27 giugno, il datore di lavoro abbia utilizzato il pretesto della errata compilazione del certificato per ottenere un ulteriore motivo di licenziamento.

Non vi sono, allora, dubbi, stante la coincidenza temporale, che la malattia psichica del ricorrente sia stata determinata dal comportamento scorretto del suo datore di lavoro, posto che, come risulta dalla certificazione e dalla CTU, non vi è traccia di disagio psichico in epoca antecedente all’insorgere della vicenda lavorativa esaminata.

Conseguentemente, stante il licenziamento illegittimo per insussistente malattia ingiustificata, il datore di lavoro va condannato a reintegrare immediatamente il lavoratore ed a risarcirgli un danno per l’ingiustificato recesso calcolato in L. 60.403.871 oltre interessi e rivalutazione,  così come va condannato al pagamento di L. 10 milioni per danno alla professionalità e all’immagine e di aggiuntive L. 10 milioni per danno biologico da pregiudizio  allo stato di salute (da presumersi nel frattempo regredito in ragione di una ripresa lavorativa del ricorrente).

 

TRIBUNALE DI PISA

SENTENZA 13 MARZO 2001

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice addetto alle cause di lavoro del Tribunale di Pisa in composizione monocratica, dr. Fausto Nisticò, ha emesso la seguente

SENTENZA

nelle cause di lavoro iscritte ai nn. 505/99 e 615/98 riunite e decise all’udienza del 13.3.2001, promosse

DA

AG, elettivamente domiciliato in Livorno presso lo studio dell’avv. Bellesi che lo rappresenta e difende per procura nel ricorso introduttivo.

CONTRO

M**** s.p.a., in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in Pisa presso lo studio degli avv.ti Del Punta e Marra che la rappresentano e difendono per procura nel ricorso notificato.

 

Oggetto: impugnativa licenziamento.

 

Il procuratore di parte opponente ha così concluso:"Dichiarare il licenziamento , così come intimato, illegittimo, inefficace e, comunque, ingiustificato, ai sensi dell’art. 13 s.l. e dell’art. 18 CCNL Addetti Industria Metalmeccanica Privata e Installazione Impianti  (Confindustria), con ogni conseguenza di legge; per l’effetto, ordinare alla M*** s.p.a., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, corrente in Pisa Loc. Mortellini, via Aurelia Sud, di reintegrare il sig. AG nel posto di lavoro precedente occupato, condannando la società convenuta al pagamento di una indennità, a titolo di risarcimento danni, commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione, in ogni caso non inferiore alle cinque mensilità di fatto; accertare e dichiarare il diritto del ricorrente all’inquadramento nella V categoria del CCNL in atti (o a quella che sarà determinata dal giudicante in corso di causa) con ogni conseguente provvedimento di condanna in ordine agli effetti economici, previdenziali ed assicurativi nascenti, con interessi e rivalutazione, dal maturarsi del credito sino al saldo con decorrenza 1.3.1996; condannare la M*** s.p.a. a risarcire al ricorrente i danni tutti (biologico, alla dignità ed immagine professionale, come meglio in narrativa evidenziati) sofferti a causa del licenziamento, delle numerose visite fiscali effettuate dietro insistenti richieste dell’Azienda, nonché al demansionamento che si indicano nella complessiva somma di L. 100.000.000, ovvero nella misura maggiore o minore che risulterà di giustizia - previa CTU medico legale, gravata di interessi e rivalutazione monetaria; in via subordinata, dichiarare nulla e priva di effetto la sanzione disciplinare irrogata con lettera del 28.1.1998 con ogni conseguenziale statuizione economica; condannare la medesima convenuta al pagamento delle spese, diritti ed onorari di causa, oltre Iva e Ca, munendo la sentenza di clausola di provvisoria esecuzione come per legge".

Il procuratore della Convenuta ha così concluso:"Per il rigetto delle domande tutte in quanto infondate nel merito. Con vittoria di spese, diritti ed onorari di giudizio".

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso 27 settembre 1999 AG esponeva di essere stato assunto dalla M*** s.p.a. nel febbraio del 1995 come operaio II liv. CCNL Confindustria. Dal marzo 1996 egli veniva destinato, come liv. III al Reparto Manutenzione, in realtà con mansioni di elettricista e di addetto alle macchine a controllo numerico, quale programmatore sul software dei macchinari ed in tale veste aveva partecipato a più di un corso di apprendimento e perfezionamento professionale. Nel settembre 1997 si verificava un inconveniente nel funzionamento di alcuni robots, appurandosi una manomissione nel connettore interno ed in conseguenza di questo episodio il datore di lavoro, evidentemente attribuendolo al ricorrente, lo spostava dalla manutenzione alla catena di montaggio (dall’1.10.1997). Dopo un periodo di cassa integrazione AG veniva colpito da una serie di provvedimenti disciplinari: un primo provvedimento riguardava il collaudo di un numero di pezzi inferiori rispetto al previsto (166 invece di 315) ed un secondo si fondava sulla contestata scarsa produzione.

In seguito a tali vicende AG si ammalava di depressione ansiosa.

Con ricorso notificato il 31.3.1998 AG chiedeva al Pretore di Pisa il riconoscimento della qualifica superiore di "addetto alle macchine a controllo numerico", nonché i danni alla professionalità derivante dal demansionamento ed impugnava la sanzione disciplinare comminata il 28.1.1998.

Seguiva, nelle more del giudizio, una nuova sanzione disciplinare (giorni tre di sospensione) per assenza ingiustificata, ancorché si fosse trattato di un giorno di assenza in ordine al quale era stata chiesta preventivamente l’autorizzazione. La nuova sanzione disciplinare aggravava le condizioni di salute di AG che rimaneva assente dal lavoro dal 15.6.98 al 20.6.98. Il 20.6.98, in conseguenza di una forte odontalgia, il ricorrente doveva ricorrere alle cure del Presidio Ospedaliero di Livorno e risultava assente durante le c.d. fasce orarie. Convocato a visita per il 22.6.98 in tale sede i sanitari dell’Inps lo giudicavano idoneo a riprendere il lavoro, ma il ricorrente si muniva di una ulteriore certificazione che giustificava la malattia dal 22.6. al 27.6.98. In seguito ad una nuova visita fiscale AG veniva ritenuto idoneo a riprendere il lavoro dal 21.6.1998. AG rimaneva ancora assente per malattia dal 28.6.98 al 4.7.98 e rientrava il 6.7.98. Con nota 13 luglio 1998 AG veniva licenziato sulla base delle contestazioni contenute nelle note del 30.6.1998 e del 2.7.1998.

Ciò premesso e sul presupposto che l’assenza dal lavoro fosse giustificata AG Giannelli impugnava il licenziamento reclamando la tutela ex art. 18 s.l., chiedendo, altresì, la condanna all’inquadramento al V livello con le differenze retributive ed il danno alla professionalità e biologico in L. 100.000.000; subordinatamente chiedeva dichiararsi la illegittimità della sanzione disciplinare comminata il 28.1.1998.

Resisteva in giudizio il datore di lavoro contestando che AG Giannelli avesse mai svolto incarichi diversi di quelli di un manutentore elettricista e soprattutto che avesse svolto compiti di programmatore e spiegando che l’episodio dei malfunzionamento dei robots era certamente attribuibile al ricorrente, poiché la manomissione dei collegamenti risultava coeva ad una operazione sicuramente effettuata dallo stesso. Quanto alle mansioni diverse dalla manutenzione spiegava trattarsi di funzioni analoghe per contenuto professionale.

Dato conto delle regioni che avevano comportato l’esercizio del potere disciplinare, la M*** spiegava le ragioni del licenziamento sulla base della duplice contestazioni di assenza ingiustificata ed assenza durante una c.d. visita fiscale e concludeva per il rigetto di tutte le domande.

Fallito il tentativo di conciliazione, dato ingresso alla prova orale e disposta una CTU medico legale, il giudice autorizzava note scritte, dopo di che, all’udienza del 13.3.2001 - previa riunione del procedimento n. 615/98 vertente fra le stesse parti in ordine al quale il ricorrente rinunciava agli atti - decideva la causa dando pubblica lettura del dispositivo.

 

Motivi della decisione

 

Il licenziamento comminato dal datore di lavoro il 13 luglio 1998 si fonda su due distinte contestazioni disciplinari portate nelle note 30 giugno e 2 luglio 1998 in atti.

Nella prima si contesta ad AG di essere rimasto assente dal lavoro senza giustificazione dal 22 al 26 giugno 1998 e di non essere stato trovato al domicilio alle h. 17,40 del 20.6.1998 in occasione di una "visita fiscale" relativa ad un primo periodo di malattia (dal 15 al 20 giugno). Nella seconda si contesta l’assenza non giustificata dallo stato di malattia per il periodo successivo , dal 28 giugno al 4 luglio, sul presupposto che non potesse ritenersi la "continuazione" di una malattia già negata dai medici pubblici per un periodo precedente.

In sostanza il datore di lavoro ritiene che AG Giannelli non sia stato ammalato dal 22 giugno al 4 luglio e lo fa sulla base degli esiti delle c.d. visite fiscali.

La questione è "ingarbugliata" ma non complicata e la confusione è ingenerata dal susseguirsi frenetico di accertamenti pubblici sullo stato di malattia che caratterizzano la vicenda all’esame di questo giudice, in linea con la confessata politica aziendale di inasprire i controlli per malattia (v. memoria di costituzione della M*** dove si dice - punto 33 - che "nel marzo ’98, da poco nominato responsabile del personale, il dott. S., nel primo incontro avuto con la RSA, aveva preavvisato che le verifiche fiscali a fronte di certificati di malattia sarebbero state inviate a tappeto. Le RSA manifestarono la loro più completa accettazione").

Dunque è un dato pacifico che il datore di lavoro si fosse determinato a porsi con severità (e dunque con pregiudizio) di fronte al fenomeno della malattia certificata, al punto che, come è risultato anche dall’istruttoria (ud. 23.2.2000, dichiarazioni del legale rappresentante della convenuta) nel primo periodo di malattia ad una visita fiscale ( 19.6.98, che accertava la sussistenza della malattia) se ne è fatta seguire una seconda il giorno dopo ("per avere una conferma", come dice il dr. S., incaricato di rappresentare il datore di lavoro in questo giudizio). Ma se quello che conta è l’opinione del medico pubblico (è questa la tesi che il datore di lavoro sostiene in questo giudizio per giustificare il licenziamento) che motivo c’è di averne una conferma , posto che il medico pubblico, in quella occasione, aveva confermato la diagnosi e la prognosi del medico privato?

E’ evidente che non di conferma si sia trattato ma, secondo le dichiarate premesse, di una chiara volontà di stare con il fiato sul collo al lavoratore assente per malattia.

E’ noto a tutti, infatti, che lo scopo della c.d. visita fiscale sia quello di consentire al datore di lavoro - tramite un organo pubblico - di accertare lo stato di malattia: e dunque, quando questo è accertato (come nel caso di specie per il primo periodo dalla visita fiscale del 19 giugno) non si vede il motivo per procedere ad un nuovo accertamento. L’obbligo di rimanere in casa durante le c.d. fasce orarie, infatti, non ha, contrariamente a quanto sembri al nostro datore di lavoro, lo scopo di rendere la vita difficile al lavoratore assente od addirittura punire la sua assenza, bensì quello limitato di porsi a disposizione dell’accertatore durante un periodo ben determinato della giornata; e qui AG aveva pacificamente consentito al suo datore di lavoro di accertare ( e confermare) lo stato di malattia. Ne consegue la assoluta irrilevanza dell’assenza di AG Giannelli il 20.6.1998 alle ore 17,40, fosse tale assenza anche del tutto priva di motivazione.

Vero è, infatti, che il lavoratore ammalato non ha più l’obbligo di starsene chiuso in casa una volta che abbia consentito al suo datore di lavoro di accertare la malattia ed in tale contesto è nel vero la S.C. Corte ( n. 475/1999) quando afferma che "è risarcibile il danno derivato al dipendente da un comportamento illegittimo e persecutorio del datore di lavoro, consistito nella richiesta, a più riprese, all’Inps dell’effettuazione di visite mediche domiciliari di controllo dello stato di malattia del lavoratore, attestato dal certificato del medico curante, nonostante l’effettività della patologia fosse stata già accertata da controlli precedenti" .

Né, ovviamente, l’assenza, pure ingiustificata, durante la visita di controllo è ragione di licenziamento qualora il fatto in sé non sia idoneo a smentire la sussistenza della malattia, qui la legge, come è noto, prevedendo solo conseguenze patrimoniali in ordine alla relativa indennità sostitutiva della retribuzione.

Dopo di che occorrerà solo accertare se Giannelli è stato malato dal 22.6.1998 al 4.7.1998 e per farlo, naturalmente, non basterà, come propone il datore di lavoro, "pesare" l’opinione del medico pubblico e quella del medico privato, bensì occorrerà operare una valutazione di tipo medico legale, qui concretamente risultante dallo svolgimento di una relazione di consulenza (dr. F.).

Ove, comunque, bastasse (come sostiene il datore di lavoro) l’opinione espressa dal medico pubblico, si dovrebbe prendere subito atto del fatto che quest’ultimo ha anche riconosciuto la sussistenza della malattia dal 21 al 27 giugno del 1998. Ma ovviamente questo giudice non può, come qui ha fatto il datore di lavoro, una volta prendere per buona l’opinione dell’accertatore ed una volta no: come si è accennato in premessa , poiché il datore di lavoro sostiene che l’assenza non era dovuta a malattia ed il lavoratore sostiene il contrario (e da questo ne è derivato il licenziamento), occorrerà accertare con criteri di terzietà ( e quindi sulla base dell’opinione espressa dal CTU) se AG sia stato veramente malato.

E perché non si dubiti di una sorta di ricezione "burocratica" della relazione di consulenza, vale la pena spendere alcune parole sui contenuti della stessa.

Non è in contestazione che la prima diagnosi di tipo psicopatologico che riguardi il Giannelli cada in epoca non sospetta: è agli atti un certificato del 20.11.1997 nel quale il curante del ricorrente consiglia una visita specialistica avendo riscontrato una "sindrome ansiosa con somatizzazioni viscerali di discreta entità". Nel gennaio del 1998 viene confermata tale diagnosi da uno specialista psichiatra ( dr. P.): "fenomenica di tipo ansioso-depressivo". Tali certificazioni non sono state utilizzate da AG per giustificare assenze lavorative.

Che, poi, tale diagnosi corrispondesse al vero si ricava dalla terapia pacificamente seguita, a base di due noti psicofarmaci ("Sereupin " ed "En") e di un coadiuvante sintomatico delle somatizzazioni viscerali ("Levopraid").

Nel giugno del 1998 (e quindi sei mesi dopo) la malattia si ripresenta: AG rimane assente dal lavoro (dal 15 al 20 giugno) con una certificazione sovrapponibile alla precedente e che il datore di lavoro non contesta. A tale certificazione AG ne ha fatto seguire un’altra (dal 22 al 27 giugno) con la medesima diagnosi aggravata da una odontalgia (e che vi sia stato un episodio di odontalgia risulta inequivocabilmente dal certificato del dr. A.B., doc. n. 25 di parte ricorrente). Che le condizioni di sofferenza psichiatrica permanessero risulta inequivocabilmente dalla certificazione in data 24 giugno 1998 del dr. P. - specialista psichiatra - e della terapia prescritta, esattamente identica a quella effettuata sei mesi prima.

Non vi sono, dunque, dubbi sulla sussistenza della malattia in questo periodo.

Il datore di lavoro, infine, dubita dell’ultimo periodo (dal 28 giugno al 4 luglio) sul presupposto che non potesse continuare una malattia inesistente e sul pretesto ( perché di un vero e proprio pretesto si tratta) della omessa indicazione del nome del lavoratore nel certificato del medico curante (v. nota di contestazione 2 luglio 1998).

Questa seconda contestazione la dice lunga - se ancora ce ne fosse bisogno - sulla pretestuosità del rilievo, poiché come si ricava dalla lettura completa del certificato del medico curante era certissimo che la certificazione si riferisse a AG (come si legge nella "parte riservata al lavoratore"). Qui l’intento addirittura cavilloso del datore di lavoro è di tutta evidenza ed è in linea con l’atteggiamento di irrazionale diffidenza nei confronti del disagio psichico del suo dipendente.

Che, poi, sia del tutto verosimile che lo stato di malattia anche per quest’ultimo periodo sia riferibile alla malattia pregressa è nella stessa natura della patologia di cui AG era affetto: se è vero - come è stato ampiamente dimostrato - che fino al 27 giugno sussistessero le condizioni per la assoluta inabilità al lavoro, tenuto conto della natura della patologica, della durata della terapia e dei tempi di guarigione, non vi possono essere subbi sul fatto che sia del tutto verosimile che la psicopatologia di cui AG era affetto avesse avuto una durata - quantomeno nella fase di acuzie - di venti giorni, trattandosi, come tutti sanno, di affezioni psichiche assai subdole e di lenta regressione.

D’altro canto- rispetto alla certificazione medica presentata da AG - non vi è in atti alcun elemento di segno contrario, tantomeno derivante da accertamenti eseguiti da organi pubblici e sussiste , al contrario, certificazione medica redatta in epoca successiva.

In tale contesto, dunque, nessuno dubiterebbe dello stato di malattia per tutto il periodo di assenza, se non chi voglia ignorare con disinvoltura la gravità sul piano funzionale delle affezioni di tipo psichico o chi, nel preannunciato programma di bonifica contro gli assenteisti (v. dichiarazione di intenti del capo del personale di cui si è gi detto) abbia mostrato di dubitare tout court della sussistenza di certe malattie.

Per completezza si darà conto, infine, dei non pochi rilievi che il datore di lavoro ha operato nei confronti della CTU medico legale, sostanzialmente ritenendo che il sanitario incaricato si sia limitato ad una mera ricognizione burocratica della certificazione e non abbia approfondito l’incidenza sul piano funzionale del disagio avvertito da AG.

Non è semplice stabilire quale sia il confine fra il disagio dell’umore e la malattia psichiatrica e quando tale malattia comporti una assoluta incapacità a svolgere l’attività lavorativa. Tuttavia occorre sgombrare il campo dal pregiudizio ricorrente che confina l’affezione psichica alla mera dimensione caratteriale, poiché spesso questo tipo di sofferenza, ancorché non gravissima, rileva sul piano funzionale ( e quindi della capacità anche lavorativa) più di quanto spesso non rilevi una patologia di tipo squisitamente fisico: qui in concreto, come si ricava dalla certificazione anche specialistica, AG era sicuramente affetto ( già da prima che fosse costretto ad assentarsi dal lavoro) da una affezione psichica che aveva provocato anche fenomeni di somatizzazione rilevanti (perdita di peso, ecc.) e che aveva comportato la necessità di eseguire un protocollo terapeutico che, come è noto, è quello classico delle sindromi depressive. Questo basta per ritenere senza dubbio che si sia trattato di una patologia comportante la assoluta incapacità lavorativa nel periodo considerato.

Il licenziamento comminato ad AG è dunque privo di giusta causa e di giustificato motivo. Le conseguenze sono quello dell’art. 18 s.l., trattandosi di rapporto pacificamente assistito da stabilità reale. Va, pertanto, ordinata la reintegra nel posto di lavoro, salvo specificare (v. infra) in quale livello contrattuale.

Consegue anche, ai sensi del 4° comma dell’art. 18, cit. la condanna del datore di lavoro al "risarcimento del danno" mediante una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento alla effettiva reintegra ed al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per il medesimo periodo.

Sul punto parte convenuta svolge alcuni argomenti fondati su Cass. 6042/2000 secondo cui, a parte le cinque mensilità minime, il danno non coincide automaticamente con le retribuzioni omesse, dovendo trovare applicazione anche il disposto dell’art. 1288 c.c., secondo cui il debitore non è tenuto al risarcimento del danno nel caso in cui fornisca la prova che l’inadempimento consegue ad impossibilità della prestazione a lui non imputabile; e sostiene che , a tutto voler concedere, la determinazione per il recesso è stata ingenerata dall’errore valutativo dell’accertatore pubblico.

Questo giudice non condivide simile ricostruzione, in primo luogo perché l’opinione dell’accertatore pubblico non vincola, ovviamente, il datore di lavoro; ed in secundis perché, se anche così fosse, nel caso concreto l’accertatore pubblico ha riconosciuto la sussistenza della malattia fino al 27.6.1998 e non ha reso alcun parere per quanto concerne il successivo periodo fino al 4.7.1998. Dunque, seppure avesse rilievo la tesi della convenuta, in punto di fatto questo licenziamento è stato determinato da una autonoma opinione del datore di lavoro (come si è visto, infatti, la malattia è pienamente condivisa dall’Inps dal 15 giugno al 27 giugno, mentre non vi è alcun accertamento "fiscale" per il periodo successivo).

Il danno, dunque, corrisponde alle mensilità omesse medio tempore, detratto il c.d. aliunde perceptum. Sul punto l’ammontare del percepito in conseguenza di diversi periodi lavorati è ammesso dallo stesso ricorrente: non trattandosi di eccezione in senso stretto (Cass. 3345/2000), dall’ammontare complessivo delle retribuzioni andrà detratta la somma indicata dallo stesso AG e non contestata dalla convenuta (salvo quantificarla infra, una volta stabilito l’esatto inquadramento del ricorrente, oggetto di autonoma domanda in questo giudizio). Per quanto concerne, poi, il c.d. aliunde percipiendum, non vi sono dubbi che l’onere di provarne l’ammontare gravi sul datore di lavoro, che qui non ha indicato l’ammontare della indennità di disoccupazione non ancora richiesta dal ricorrente. In assenza di allegazione e/o prova, questo giudice non ne può tener conto.

La seconda domanda svolta da AG ha ad oggetto il diritto all’inquadramento nella V° categoria del CCNL con decorrenza 1.3.1996; al proposito il ricorrente sostiene di essere stato assegnato nel marzo del 1996 al Reparto manutenzione inquadrato in III° categoria, ma di aver effettuato mansioni di elettricista ed addetto alle macchina a controllo numerico , quale "programmatore" sul software dei macchinari. Il datore di lavoro nega la circostanza. In sostanza - e sul punto le parti concordano - si tratta di accertare se (ed eventualmente da quando) AG avesse svolto attività definibile di "programmazione".

Tutti essendo profani , è sufficientemente chiaro che il discrimine fra attività di programmazione informatica ed esercizio di attività di gestione avanzata dei programmi risiede nella capacità di "incidere" sul programma mediante il ricorso al linguaggio informatico, perché solo il linguaggio informatico consente di operare sulla struttura del software.

Ebbene, il datore di lavoro sostiene, e lo afferma per bocca del teste R. (ud. 13.7.2000) che tale attività era iniziata dopo il corso a Milano presso la S***, pur confermando che AG utilizzava - dopo tale data - linguaggio informatico. Il corso in questione ( v. doc. n. 6 di parte ricorrente) si era tenuto dal 21.7.97 al 25.7.97. A tenore, dunque, delle dichiarazioni del teste R. (superiore gerarchico di AG) il ricorrente avrebbe comunque svolto attività di programmazione dall’agosto 1997. Dall’ottobre dello stesso anno, però, AG veniva destinato ad altre mansioni.

Le affermazioni del teste R. sono, tuttavia, smentite dalle stesse dichiarazioni del ricorrente, dalla testimonianza di G. e da documenti.

Risulta, infatti, incontestabilmente ( v. doc. n. 4 di parte ricorrente) che AG aveva partecipato nel mese di luglio del 1995 ad un corso "per la programmazione e manutenzione robot Bosch tipo Scara", ad un altro di contenuto analogo nel giugno del 1995 presso la M*** e Co. S.p.a. ( doc. n. 5) ed, infine, ad un altro corso presso la A*** s.p.a. nel giugno del 1996 per l’apprendimento e la programmazione di avvolgitrici".

Dunque non è affatto vero che il datore di lavoro non fosse interessato ad attività di programmazione - demandata ad AG - prima del luglio del 1997.

A tali dati oggettivi si aggiunge la testimonianza del teste G. (ud. 13.7.2000 e 20.12.2000) che ha lavorato insieme al ricorrente fino al febbraio del 1996 ( e quindi riferisce sul periodo iniziale). Ci dice il teste che AG gli fu presentato come persona esperta di informatica e che da subito ha lavorato in coppia con il ricorrente alla attività di adattamento dei programmi alle reali esigenze lavorative, utilizzando linguaggio informatico ed in sostanza creando dei programmi applicativi.

Ha, infine, aggiunto che sia lui che AG avevano dovuto modificare non solo quote del programma ma a volte intere porzioni.

Non vi è, dunque, dubbio alcuno sul fatto che il ricorrente abbia svolto attività di vero e proprio programmatore, avendo anche partecipato, nell’interesse dell’azienda, a corsi specifici.

Tale attività non appartiene al III livello bensì, come si ricava dalla lettura della declaratoria, al V livello professionale. Consegue la condanna al diverse inquadramento dall’1.6.1996 (decorsi i tre mesi di cui all’art. 13 s.l.) ed al pagamento delle differenze retributive dall’1.3.1996, con la relativa contribuzione assistenziale e previdenziale.

Una terza domanda riguarda il risarcimento del danno "biologico"ed alla dignità ed immagine professionale derivante: a) dal licenziamento; b) delle numerose visite fiscali; c) dal demansionamento.

Per quanto concerne il terzo aspetto, l’avvenuto accertamento dello svolgimento di mansioni appartenenti al V° livello professionale sin dal 1.3.1996 e la pacifica adibizione a mansioni di terzo livello dall’1.10.1997 impone di ritenere accertata la dequalificazione. Lo svolgimento di attività dequalificate comporta, a parere di questo giudice, un autonomo danno alla professionalità, ontologicamente distinto da ogni diversa conseguenza sul piano del pregiudizio alla vita di relazione. Il datore di lavoro, infatti, ha l’obbligo di adibire il lavoratore a mansioni proprie del livello di appartenenza od a quelle del livello acquisito: l’inosservanza di tale obbligo rileva ex se sul piano risarcitorio, come lesione diretta allo sviluppo professionale del dipendente. Si tratta, dunque, di un danno avente contenuto patrimoniale nel momento in cui al dipendente dequalificato viene precluso il corretto sviluppo di carriera all’interno od eventualmente all’esterno dell’azienda. Una volta dequalificato, infatti, egli non potrà più spendere la sua professionalità maturata sia presso lo stesso datore di lavoro che presso datori di lavoro diversi: questo, dunque, determina un danno potenzialmente patrimoniale, la cui quantificazione è affidata alla valutazione del caso concreto.

Tenuto, allora, conto che l’avvenuto riconoscimento della superiore qualifica con il pagamento delle differenze retributive dall.1.3.1996 ristora in parte tale pregiudizio e tenuto conto della sensibile intensità della dequalificazione ( da programmatore ad addetto alla linea di montaggio), tale danno può essere quantificato nella somma complessiva attuale di L. 10.000.000.

Per quanto concerne, invece, il danno c.d. biologico - e dunque alla vita di relazione - il ricorrente muove dal presupposto di aver contratto una malattia psichica in conseguenza delle subite vessazioni da parte del suo datore di lavoro consistite nella stessa dequalificazione, nell’abuso degli accertamenti fiscali, e nelle stesse modalità del licenziamento.

Il fondamento della responsabilità datoriale in ordine al danno c.d. biologico (cioè alla vita di relazione) è affidato dall’ordinamento alla regola di cui all’art. 2087 c.c. che impone, fra l’altro, la tutela della personalità morale del lavoratore. Trattandosi, dunque, di responsabilità contrattuale valgono, in tema di onere della prova, le regole di cui all’art. 1218 c.c.

Nel caso di specie non vi sono dubbi sulla sussistenza della malattia, ampiamente dimostrata sulla base degli argomenti fin qui svolti. Ma non vi sono dubbi neppure sulla sussistenza del nesso di causa fra l’insorgere della malattia ed il comportamento, in alcuni casi, vessatorio, del datore di lavoro. Intanto, come si è visto, è pacifico che vi sia stata una profonda dequalificazione dovuta, come è risultato dall’istruttoria, alla imputazione della manomissione dei robots: qui il datore di lavoro, correttamente, avrebbe dovuto semmai contestare sul piano disciplinare il fatto e, se accertata la responsabilità, comminare la sanzione, e non dequalificare il lavoratore (cosa che è stata fatta, evidentemente, nella mancanza di elementi certi di responsabilità attribuibile al comportamento di AG).

E’ altrettanto pacifico che il Giannelli sia stato destinatario di una serie di "visite fiscali", in alcuni casi connotate addirittura da illegittimità (come nel caso della visita svolta il giorno successivo al primo accertamento confermativo).

E’, infine, pacifico che, sussistendo la malattia - secondo i medici Inps - fino al 27 giugno, il datore di lavoro abbia utilizzato il pretesto della errata compilazione del certificato per ottenere un ulteriore motivo di licenziamento.

Non vi sono, allora, dubbi, stante la coincidenza temporale, che la malattia psichica del Giannelli sia stata determinata dal comportamento scorretto del suo datore di lavoro, posto che, come risulta dalla certificazione e dalla CTU, non vi è traccia di disagio psichico in epoca antecedente all’insorgere della vicenda lavorativa esaminata.

Tenuto conto della durata della malattia (oggi da presumersi regredita, posto che dopo il licenziamento il Giannelli ha anche ripreso a lavorare) e della sua entità, il danno alla vita di relazione conseguente alla patologia accertata può essere determinato nella ulteriore somma di L. 10.000.000.

Quanto, infine, alla contestazione disciplinare il ricorrente lamenta che l’azienda l’abbia revocata per il mancato rispetto del termine di cinque giorni e l’abbia poi rinnovata senza una nuova contestazione. Il rilievo è infondato, poiché il fatto contestato è sempre quello originario ed in ordine a questo il lavoratore ha avuto la possibilità di svolgere le sue difese, sicché sarebbe stata del tutto ultronea una nuova contestazione. Nella sostanza, dunque, appaiono rispettati i contenuti ed i tempo della procedura disciplinare.

Il danno subito dal lavoratore per l’ingiustificato licenziamento medio tempore è, dunque, pari alle retribuzioni omesse sulla base della paga di V° livello, detratto quanto lo stesso AG ammette di aver percepito da diversi datori di lavoro. Il suo ammontare deriva da conteggi che il datore di lavoro non ha contestato ed è, allora, pari a L. 60.403.871 (dal totale esposto dal ricorrente è stato detratto quanto calcolato a titolo di TFR, posto che il rapporto non si è interrotto).

Tutte le somme , ad accezione di quelle risarcitorie per danno biologico e danno alla professionalità, andranno corrisposte con gli interessi sulla rivalutazione (art. 429 c.p.c. , Corte Cost. n. 495/2000)

Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

Il giudice:

dichiara che il licenziamento intimato ad AG non è assistito né da giusta causa né da giustificato motivo e per l’effetto condanna parte convenuta a reintegrarlo immediatamente nel posto di lavoro in mansioni di V° livello CCNL, nonché a corrispondere ,a titolo di risarcimento del danno per l’ingiustificato recesso, la somma di L.60.403.871 oltre interessi e rivalutazione ed a corrispondere la contribuzione previdenziale omessa;

dichiara che AG ha diritto ad essere inquadrato al V° livello CCNL dall’1.6.1996 e condanna la convenuta a detto inquadramento ed a corrispondere le differenze di retribuzione con gli interessi sulle somme rivalutate;

condanna parte convenuta al risarcimento del danno alla professionalità e del danno alla vita di relazione complessivamente liquidato in L. 20.000.000;

rigetta la domanda di annullamento della sanzione disciplinare;

condanna parte convenuta al pagamento delle spese di lite che liquida nella somma complessiva di L. 11 684.800, di cui L. 5.106.000 per diritti, L. 5.370.000 per onorari, L. 161.2000 per spese imponibili e L.1.047.600 per spese generali, oltre Iva e Cap.

Dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva.

Pisa li 13.3.2001

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