Vicende private e incidenza sul rapporto “fiduciario” di lavoro

Sommario:
1.      Nozione assorbente di subordinazione
2.      I riprovevoli comportamenti datoriali
3.      Corretto valore da conferire alla vicende private del prestatore
4.      Conferme dall’orientamento giurisprudenziale
5.      Conclusioni
 
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1.     Nozione assorbente di subordinazione
Una non condivisibile concezione totalizzante (o assorbente) della nozione di “subordinazione” – cui  si sono sempre ispirate le aziende nel giudicare i comportamenti del prestatore di lavoro – ha portato spesso a far acquisire rilevanza non solo agli atti o fatti commessi dal prestatore di lavoro nell’esercizio delle proprie mansioni e sul luogo di lavoro ma anche a comportamenti tenuti nel privato e talora irrilevanti ai fini del futuro, corretto, adempimento della prestazione.
Questa diffusa (quanto errata) visione secondo la quale l’intera personalità del lavoratore subordinato – sia nelle manifestazioni lavorative che extra lavorative – sarebbe implicata nel giudizio di conformità al “carattere fiduciario” (da cui è connotato il rapporto di lavoro), ha pertanto occasionato, sia in passato che ai tempi nostri, dure stigmatizzazioni, in veste di sanzioni disciplinari espulsive, nei confronti di  comportamenti extralavorativi (o eventi estranei al rapporto di lavoro) attinenti all’ambito dei rapporti patrimoniali con i terzi (rilevanti o meno sotto il profilo dell’illecito o del reato) ovvero afferenti alla di lui sfera morale.
Ciò in ragione del loro intrinseco carattere riprovevole, quando invece i comportamenti in questione andavano valutati – ai fini della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento – se ed in quanto venivano in rilevanza diretta con  (o avevano effetti di riverbero causalmente inscindibile su) le obbligazioni di lavoro e gli specifici adempimenti contrattuali o erano idonei ad inficiarne o pregiudicarne la futura esecuzione.
Così appellandosi le imprese talora alla necessità di salvaguardare il decoro, la reputazione o il prestigio aziendale, talaltra al dovere di tutelare, ex art. 2087 c.c., la personalità morale (spesso, invece, solo un perbenismo di facciata) dei colleghi o colleghe nei cui confronti il lavoratore di dubbia moralità – persistendo il rapporto – continuerebbe a dispiegare influenze “contagiose” e comunque invocando una lesione irreparabile del rapporto di fiducia, è stata dalla giurisprudenza porta in emersione l’irrogazione di drastiche sanzioni disciplinari a carico dei lavoratori.
In tempi sufficientemente remoti – ma anche ai nostri giorni – si è licenziato in tronco, per causa tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.), il lavoratore sposato che intratteneva relazioni amorose extralavorative con collega nubile (1), il convivente more uxorio (2), l’insegnante di un istituto confessionale sposatosi con il solo rito civile (3), il lavoratore i cui familiari avevano tenuto atteggiamenti irriguardosi o proferito ingiurie nei confronti del di lui datore di lavoro (4), il prestatore indebitatosi, a seguito di operazioni speculative in borsa, oltre il proprio livello reddituale (6), quello incappato in reati patrimoniali a carico di terzi e senza alcun coinvolgimento dell’azienda (6), quello reo di aver omesso, per eccessivo rispetto del principio di gerarchia, di riferire delatoriamente all’imprenditore fatti illeciti commessi dal superiore diretto (7), i lavoratori colpevoli di aver intentato e vinto una causa, per la qualificazione “subordinata” del rapporto di lavoro, contro il recalcitrante datore di lavoro (8), il tecnico Rai detentore, al di fuori dell’ambiente e dell’orario di lavoro, di sostanze stupefacenti (9).
Sebbene diverse di queste fattispecie abbiano trovato in magistratura corretta soluzione (nel senso che è stata disattesa la pretesa ricorrenza della giusta causa, per estraneità al rapporto delle vicende assunte come  vulneratrici della “fiducia” datoriale,  specie nel caso di addebiti afferenti alla vita sentimentale, in ragione senz’altro di una liberalizzazione dei costumi (senza che per questo i comportamenti e le tresche amorose perdessero di per sé il loro carattere disdicevole), altre ipotesi non sono state – invece – decise con analoga modernità ed assenza di pregiudizi e sono state sacrificate alla concezione distortamente “fiduciaria”. Più che pregiudizi, possono aver talvolta giocato a sfavore dei lavoratori subordinati reali e comprensibili preoccupazioni, quali il timore  che posizioni libertarie ed aperturiste finissero per incentivare – per impunità – il novero dei comportamenti non conformi all’ordinamento.
 
2.     I riprovevoli comportamenti datoriali
Per inciso c’è poi da osservare che mentre i fatti privati del lavoratore vengono fatti risaltare come lesivi (e, con varietà di aggettivazioni, come scuotenti, minanti, incrinanti, vulnerativi) della fiducia datoriale per riverbero indiretto o trasversale sul “buon  nome” dell’azienda che lo ha in organico, nessun diritto di reciprocità – salvo rare eccezioni – viene accordato fattualmente alla reputazione del prestatore che, nella stessa logica, non può che essere egualmente lesa dall’appartenenza ad azienda i cui amministratori siano venuti alla ribalta per imputazioni e condanne penali o amministrative, non tanto per fatti privati quanto addirittura  in relazione specifica con l’esercizio delle loro funzioni gestionali (che il caso non sia di scuola ne sono testimoni le cronache giornalistiche).
Forese che il fatto di prestare attività in una società – eminentemente con funzioni direttive – dei cui amministratori venga successivamente acclarata la rilevante scorrettezza gestionale o la distrazione di fondi (statali) con specifica destinazione (ad esempio per l’innovazione tecnologica, la formazione, la ristrutturazione aziendale, e simili) non si rifrange sulla “reputazione” o sul “prestigio professionale” del dirigente o del funzionario direttivo?
Al verificarsi dell’evento, il meno che questi può subire sono le scontate ironie degli amici e dei colleghi che – più fortunatamente – operano in aziende meglio gestite, mentre più incisivi e più tangibili sono i pregiudizi nel momento in cui matura  la decisione di reperire un’altra occupazione. Nel caso specifico, infatti, si troverà, in via pregiudiziale, impegnato a dissipare dubbi e legittimi sospetti del nuovo datore di lavoro e del management della nuova azienda e non sempre avrà la fortuna di dimostrare convincentemente la propria assoluta estraneità alle vicende dei precedenti, incauti, gestori aziendali (specie se  svolgente mansioni di responsabile amministrativo o finanziario, di  redazione bilanci e simili). Sostenitori ad oltranza della concezione fiduciaria hanno avuto la temerarietà di  affermare che  sussisterebbe bilateralità di rimedi, perché di fronte al licenziamento del lavoratore per “vulnerazione fiduciaria” datoriale esistono le dimissioni “ per giusta causa ( o in tronco)” del lavoratore nei confronti di un’azienda che abbia leso la sua reputazione. Concludendo che “in definitiva, i pochi casi nei quali il venir meno della fiducia nel datore di lavoro è stato considerato giusta causa di dmissioni in tronco, bastano a salvare il principio” della bilateralità (e quindi del supposto equilibrio) della concezione “fiduciaria” (10).
A nostro avviso è, invece, vero l’opposto: cioè a dire, nel diritto del lavoro – che è diritto sostanziale – i principi non sono esatti per essere connotati da astratta razionalità ma la loro rispondenza al giusto discende dall’equità dei risultati che si accompagna alla loro applicazione concreta.  Poiché la lesione della “suscettibilità” del datore di lavoro a fronte di comportamenti extra lavorativi sgraditi o riprovevoli del prestatore di lavoro viene gratificata con lo strumento dell’espulsione dello stesso dall’azienda e la privazione dei mezzi di sostentamento connessi al bene dell’occupazione, mentre l’ordinamento appronta per la corrispondente lesione “fiduciaria” subita dal prestatore di lavoro l’irridente rimedio del “rendersi disoccupato per libera scelta” attraverso la ricusazione dell’azienda con le dimissioni per giusta causa, le palesi iniquità discendenti dalla concezione “fiduciaria” esasperatamente intesa (tale è quando si dispiega su  comportamenti estranei alle obbligazioni di lavoro, quantunque indiscutibilmente censurabili sotto il profilo etico e legale), minano seriamente la credibilità e l’utilizzo della concezione in parola.
 
3.      Corretto valore da conferire alle vicende private del prestatore
Pertanto, particolarmente:
a)            - dopo la legge sulla giusta causa del 1966 che – introducendo il giustificato motivo di licenziamento, identificato normativamente nel “notevole inadempimento agli obblighi contrattuali” – ha, a nostro parere (recentissimamente condiviso dalla Cassazione (11) orientato, identificato e circoscritto la nozione di “giusta causa” all’inadempimento contrattuale di più incisiva gravità, bandendo  dal suo ambito concettuale qualsiasi altro fatto o evento (indipendente dal gravissimo inadempimento contrattuale) accolto in precedenza da una superata concezione estensiva della nozione di “giusta causa”;
b)      - dopo l’entrata in vigore dello  Statuto dei lavoratori che inibendo all’art. 8 l’appropriazione occulta di fatti “irrilevanti ai fini dell’attitudine professionale del lavoratore”, ha fornito una chiave di lettura, in termini esclusivamente tecnico-professionali, del comportamento del prestatore di lavoro;
c)            - considerato poi che il rapporto di  lavoro non è necessariamente caratterizzato dalla costituzione “intuitu personae” ma in ragione eminentemente delle qualità professionali;
d)            - che le dimensioni e l’organizzazione delle attuali imprese sono andate nella direzione della “spersonalizzazione” dell’apporto collaborativo, con accentuazione e prevalenza della validità tecnico-professionale del risultato della prestazione;
        l’approccio alla questione – culturalmente più corretto e rispondente alla moderna realtà giuridica e sociale – è quello di non conferire, come regola generale, alcuna  (o la minima) rilevanza  agli eventi ed alle vicende extralavorative del prestatore d’opera.
Quando tali comportamenti siano, invece, di rilevante gravità, potranno incidere sull’idoneità ad adempiere correttamente alle obbligazioni contrattuali, ma per raggiungere un tale convincimento la loro valutazione dovrà essere tanto prudente quanto equilibrata  e massimamente oggettiva (e non emotiva), così come indica l’orientamento – pur sempre perfettibile – della Suprema Corte che si esprime nel senso che la rilevanza disciplinare dei comportamenti privati prescinde dagli stessi astrattamente considerati idonei a vulnerare la fiducia per la loro intrinseca riprovazione sociale, “dovendo essere invece valutati in concreto, in relazione alla natura ed alla qualità del singolo rapporto intercorrente tra le parti, alla posizione  che in esso abbia il prestatore di lavoro e quindi alla qualità ed al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comporta; dovendosi altresì considerare se lo specifico comportamento, valutato non soltanto nel suo contenuto obiettivo ma anche per la sua portata soggettiva, specie in relazione alle circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai suoi motivi ed ai suoi effetti nonché all’intensità dell’elemento intenzionale o colposo, risulti tale da ledere gravemente, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nel proprio dipendente in quel particolare rapporto” (12). Imprescindibile poi, per la Cassazione stessa, un’attenta considerazione di tutte le circostanze del comportamento  in concreto “poiché il licenziamento per giusta causa, stante l’impossibilità di prescindere da un equo criterio di proporzione tra la mancanza addebitata e la sanzione inflitta, appare legittimo quando risulti l’insufficienza di qualsiasi altra sanzione a tutelare l’interesse dell’azienda”(13), in ragione della giusta considerazione del  provvedimento di licenziamento quale “extrema ratio”.
Con la conseguenza che, in materia,  la posizione della giurisprudenza di legittimità è riassumibile nella seguente massima: “i fatti ed i comportamenti del lavoratore estranei all’ambito contrattuale, non verificatisi nel corso e nel luogo dell’attività lavorativa, sono, in linea generale, irrilevanti ai fini della valutazione degli addebiti quando non abbiano alcuna incidenza sulla sfera contrattuale .Quando, invece, tali comportamenti siano collegati, sia pure indirettamente, con l’esecuzione della prestazione lavorativa, oppure assumano un rilievo talmente grave da far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto di lavoro, non v’è dubbio che essi valgono a determinare un’irreparabile compromissione dell’elemento fiduciario, che costituisce la base del rapporto di lavoro subordinato, specialmente quando tale rapporto, per le sue caratteristiche e peculiarità, richiede una collaborazione qualitativamente elevata e una fiducia correlativamente molto lata, che può estendersi anche alla serietà dei comportamenti privati del lavoratore” (14).
Per la verità non va sottaciuto come l’iniziale massima sembri essere stata, di recente, oggetto di una riaffermazione in senso restrittivo e meno garantista per i lavoratori, asserendosi – ad esempio da Cass. 11430 del 30 agosto 2000 (che ha legittimato il licenziamento di un addetto del Poligrafico dello Stato, svolgente opera di collettore, non si capisce se all’esterno o all’interno, delle giocate del lotto clandestino effettuate in azienda (15) -  al fine di legittimare la sanzione espulsiva  che: “Se il comportamento extralavorativo del dipendente è di regola irrilevante ai fini della lesione del vincolo fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro, può acquisire rilievo al richiamato effetto qualora presenti una particolare gravità oppure esiga, in ragione di peculiari caratteristiche della prestazione, un più ampio margine di fiducia, esteso alla serietà della condotta privata, il cui venir meno menoma l’idoneità professionale, cui si riferisce l’articolo 8 Stat. lav….Ai fini della valutazione di congruità della giusta causa di licenziamento vanno tenuti presenti oltre agli inadempimenti derivanti dal contratto di lavoro, anche situazioni estranee ad esso, attinenti alla vita privata ed esterna del lavoratore, concretanti violazioni di valori di  particolare valore giuridico e/o sociale, tali da far ritenere, in relazione alla natura del rapporto, al tipo di mansioni, al grado di affidamento da esse richiesto, il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto, cioè all’esatto adempimento delle future prestazioni”.
Alla stregua di tale principio (sia nella forma estensiva che più restrittiva), in epoca non lontana, è stato ritenuto (da Cass. n. 2683/1990) giustificato il licenziamento per giusta causa, nei confronti di un lavoratore del settore bancario, con mansioni delicate di custodia e trasporto valori, resosi responsabile di rapina a mano armata nei confronti di una prostituta, mentre da Cass n. 2981/1983 è stato ritenuto giustificato il licenziamento di un dipendente di una Cassa di risparmio a fronte del privato comportamento di emissione reiterata di assegni a vuoto, prevista nel ccnl tra le ipotesi convenzionali di risoluzione del rapporto.
In altra sentenza del 1985 (16), il principio sopra riferito in forma estensiva ha portato, invece, ad escludere che un lavoratore – responsabile del reato di atti osceni e di libidine violenta – potesse essere licenziato per giusta causa, atteso che l’azione indegna era stata commessa “non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro e, considerate le mansioni del dipendente (addetto alla movimentazione manuale delle merci negli scali aeroportuali), detta azione non poteva che considerarsi – anche in relazione all’art. 8 L. n. 300/’70 – irrilevante  ai fini dell’attitudine professionale del lavoratore”.
Ancora in una sentenza del 1985 (17) si è asserito che: “in conseguenza dell’evoluzione dei costumi, è da ritenersi  che i comportamenti sessuali fuori azienda non abbiano alcuna rilevanza  sul rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. Ne consegue l’illegittimità del licenziamento intimato  ad una lavoratrice che intrattiene una relazione adulterina con un compagno di lavoro, estrinsecatasi in congressi carnali posti in essere negli intervalli di lavoro e in spazi extra aziendali”. Notandosi, da parte nostra, che se si è accorti nello scegliere il Dirigente di livello – in luogo dell’anonimo, quantunque aitante, compagno d lavoro (verso il quale si può anche scusare la sbandata giovanile) – se ne possono trarre indubbi vantaggi ai fini degli incentivi economici e della progressione d carriera, in barba alla legge  n. 125/1991 sulle pari opportunità uomo-donna, notoriamente invocata (quando fa comodo a fini antidiscriminatori)  da queste “mantidi (poco) religiose”!
 
4.     Conferme dall’orientamento giurisprudenziale
In più recenti e meno datate sentenze – occasionate da reati  di detenzione e/o spaccio di stupefacenti, purtroppo sempre più ricorrenti nei tempi attuali – si è giunti da affermare che: “i comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata ed estranei all’esecuzione della prestazione lavorativa possono incidere radicalmente sul vincolo fiduciario per la loro gravità  e risonanza nonché in considerazione delle mansioni espletate dal dipendente e della particolare natura dell’azienda datrice di lavoro, ma non possono rilevare ai fini della dedotta giusta causa di licenziamento, allorché non abbiano prodotto effetti riflessi nell’ambiente di lavoro e tanto meno nociuto al prestigio dell’Ente datore di lavoro” (18). Aggiungendosi che: “ha diritto ad essere reintegrato nel suo posto di lavoro ed a far parte della comunità sociale e professionale del lavoro, il dipendente che sia stato licenziato per spaccio di droghe leggere, sia perché il consumo di tali sostanze è sentito dalla coscienza sociale – quando non è tollerato – come un disvalore di grado assai inferiore rispetto alle c.d. droghe pesanti, sia perché nel fatto commesso non è ravvisabile alcun nesso, né funzionale né occasionale, con l’attività lavorativa prestata in qualità di manovratore ferroviario”(19). Ancora recentemente, nel caso di un primario di un istituto ospedaliero condannato per il furto di una tela da una chiesa e, quindi, licenziato, il magistrato ha asserito che: “il comportamento penalmente rilevante del lavoratore (che deve essere valutato considerando la personalità dello stesso e  la sua condotta complessiva nello svolgimento della prestazione lavorativa) non è idoneo a ledere l’elemento fiduciario e, quindi,  non può costituire giustificato motivo di licenziamento, allorché, oltre ad esaurirsi in un singolo episodio, sia del tutto estraneo all’esecuzione della prestazione lavorativa e non incida in alcun modo sull’aspetto tecnico della professionalità del dipendente, riguardando invece l’aspetto etico comportamentale” (20).
Anche in caso di condanne penali per “tentata estorsione” (a danno di terzi da parte di dipendente delle FF.SS.) e di “tentato furto con danni ad un supermercato” (da parte di macchinista dell’Ente Ferrovie) si è asserita l’illegittimità del licenziamento per presunta vulnerazione del vincolo fiduciario, in quanto detta compromissione deve essere intesa non già in senso generico ma nel senso specifico di una ragionevole probabilità di pregiudizio del corretto adempimento delle mansioni contrattuali (21).
Secondo il consolidato – e già riferito – orientamento (22) della Cassazione (quantunque soggetto alle evidenziate tentazioni restrittive), la valutazione dell’elemento fiduciario va, infatti, operata con riferimento non al fatto astrattamente considerato bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente nonché alla portata soggettiva del fatto stesso. L’oggetto del vincolo fiduciario è, quindi, rappresentato dalla fiducia nell’esattezza dei successivi adempimenti da parte del lavoratore e non dalla fiducia sulla rettitudine e probità del lavoratore medesimo  (quantunque pur sempre auspicabile e apprezzabile come un quid pluris, non necessariamente postulato).
 
5.     Conclusioni
Ciò che riportiamo  asetticamente potrebbe,  ad una disattenta o superficiale lettura – specie da parte dei c.d. perbenisti – essere scambiato quasi per un incentivo alla “deresponsabilizzazione” ed al “lassismo comportamentale”, intento del tutto estraneo alla nostra operazione documentale e dal cui sospetto si può e ci si deve liberare quando si focalizzi l’attenzione su due fondamentali considerazioni:
a)            le vicende extralavorative riprovevoli – sanzionate zelantemente con l’espulsione dall’azienda – deludono molto spesso “solo” aspettative non giuridicamente protette ed urtano “solo” umanamente comprensibili suscettibilità. Non si può, obiettivamente, per la tutela di un supposto “decoro” o “prestigio” o “reputazione” aziendale, legittimare – per fatti estranei alla prestazione dedotta in contratto, quantunque moralmente disdicevoli ed indegni ma non idonei a riverberarsi sull’aspettativa di corretto adempimento delle specifiche mansioni – lo spiegamento della massima sanzione privativa dell’occupazione, considerato che il “licenziamento”, come insegna la giurisprudenza della  Cassazione, è misura da azionare, nel rapporto di lavoro, solo quando altre misure di natura conservativa e non traumatiche, si rivelino certamente idonee a stigmatizzare ed a scoraggiare la reiterazione del comportamento disdicevole;
b)            l’addizionare alla sanzione penale statuale (es. la detenzione, e simili) la massima pena privata costituita dalla privazione o perdita del posto di lavoro ( e quindi della fonte insieme di mantenimento proprio, della propria famiglia oltre che di riconoscimento sociale), per ragioni del tutto indipendenti da inadempimenti o ragionevoli ed obiettive inaffidabilità contrattuali, contraddice la funzione rieducativa e sociale attribuita dal nostro ordinamento costituzionale (art. 27, comma 3, Cost.) all’intervento punitivo dello Stato, rischiando anzi di essere la perdita del posto di lavoro, indotta dalla commissione del reato, causa od occasione di nuovi comportamenti criminosi, anziché di “normalizzazione, rieducazione e reinserimento sociale”.
Resta, naturalmente, del tutto impregiudicata la possibilità che le parti, a livello contrattuale, facciano assumere rilevanza disciplinare a determinati comportamenti tenuti dal lavoratore nella sua vita privata ed estranei all’esecuzione della prestazione. Si tratta di eccessive ma non per questo illegittime limitazioni alla sfera delle autonomie e delle libertà personali (è il caso del divieto contrattuale per il lavoratore bancario di giocare in borsa, che – per quanto opportuno – era stato giudicato, in epoca fascista, disciplinarmente sanzionabile già nel 1929, in assenza di un divieto contrattuale, sulla base di una tecnica argomentativa di “processo alle intenzioni” sostanziantesi nella considerazione per cui “il fatto di darsi al gioco di borsa senza avere per giunta i mezzi per fronteggiare le perdite, costituisce per il cassiere di banca una mancanza così grave da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto d’impiego, perché distrugge in pieno quella fiducia che è il presupposto logico e fondamentale del rapporto stesso e fa nascere il ragionevolissimo timore che il giocatore imprudente, assillato dall’ansia di allontanare da sé l’avvilente minaccia dell’esecuzione, possa mettere da un momento all’altro le mani nella pingue cassa a sua piena disposizione” (così Trib. Milano 9 giugno 1929, cit.).
Giustappunto la  successivamente introdotta previsione contrattuale limitativa, evidenzia che l’inibizione di quel comportamento non è necessariamente immanente al prestatore di lavoro in conseguenza diretta del suo status di subordinazione nello specifico settore del credito, ma addizionalmente conseguente ad una pattuizione volta a salvaguardare esigenze di aziende alle quali – si dice consuetudinariamente – il cittadino/utente richiede maggiore affidabilità, per effetto della gestione delle proprie risorse finanziarie e dei propri patrimoni,  senza tuttavia indulgere per questa strada al ridicolo o, peggio, venire inconsapevolmente incontro ai non trasparenti interessi corporativi di chi vorrebbe, in una visione grettamente consumistica ed accumulativa, legittimare od accreditare una casta di imprese con maggior “decoro”, “prestigio” o “utilità sociale” di altre (quando invece la loro funzione è già viziata dall’intrinseco  e prevalente supporto alla rendita da capitale e le degenerazioni dai compiti istituzionali  occasionano  e sconfinano nell’infimo reato usurario).

Mario Meucci

(pubblicato, senza gli attuali aggiornamenti, in Lavoro e giurisprudenza, Ipsoa ed., n 11/1996, p. 885; aggiornato, in Lav. prev. Oggi n. 7/2001, p. 859)
 
NOTE
 
(1)   App. Messina 24 maggio 1962, in Or. giur. lav. 1963, 341.
(2)   App. L’aquila 26 giugno 1949, in Riv. giur. abruzz. 1949, 31.
(3)    Cass. 21 novembre 1991, n. 12530, in Giust. civ. 1962, I, 661; Trib. Firenze 28 febbraio 1992, in Foro it. 1992, I, 2247.
(4)   App. Roma 11 dicembre 1964, in Riv. giur. lav. 1965, II, 33.
(5)   Trib. Milano 19 giugno 1929, in Mass. giur. lav. 1929, 419.
(6)   App. Firenze 1 aprile 1964, in Giur. tosc. 1964, 777.
(7)   Trib. Genova 13 ottobre 1959, in Or. giur. lav. 1960, 328.
(8)   Fattispecie evidenziata da Cass. 29 giugno 1981, n. 4241, in Mass. giur. lav. 1982, 67, che ha correttamente stigmatizzato – e conseguentemente invalidato – come “vendetta” l’illegittimo comportamento ritorsivo aziendale.
(9) Pret. Roma 30 giugno 1990, in Dir. prat. lav. 1991, 133.
(10) Così Trioni, Fedeltà, fiducia ed elemento personalistico nel rapporto di lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1972, 1640, cui adde, La fedeltà nel rapporto di lavoro, Milano 1982, 263 e  ss.
(11)   Trattasi di Cass. 3 ottobre 2000, n. 13144 (inedita allo stato) la quale ha affermato in ordine alla nozione di “giusta causa” che : “Un’oramai remota giurisprudenza affermava che, con la generica definizione di giusta causa di licenziamento di cui all’art. 2119 c.c., il legislatore aveva inteso riferirsi a qualunque vicenda (e non solo a comportamenti inadempienti del lavoratore) che non consentisse la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto stesso; successivamente alla entrata in vigore della legislazione limitativa dei licenziamenti,a partire dalla legge 604/66, la giurisprudenza, confortata dalla dottrina dominante, ha ritenuto che il concetto di giusta causa, così genericamente individuato dall’art. 2119 c.c., trovi la sua più precisa definizione nella stessa definizione recata dalla legge n. 604/66 del giustificato motivo soggettivo (“notevole inadempimento agli obblighi contrattuali”)… Cosicché la giusta causa si differenzia dal “giustificato motivo soggettivo” non già dal punto di vista qualitativo, trattandosi in entrambi i casi di comportamenti inadempienti del lavoratore, bensì sotto il profilo quantitativo, nel senso della maggiore gravità dell’inadempimento, tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto”.
(12)   Così il consolidato orientamento di Cassazione, a partire dalla sentenza n. 2689 del 24 giugno 1977.
(13)   Così Cass. 29 aprile 1983, n. 2981 e numerose conformi.
(14)   Cass. 23 luglio 1985, n. 4336, in Riv. it. dir. lav.  1986, II, 609, con nota di Ianniello; Cass. 3 aprile 1990, n. 2683, in Mass. giur. lav. 1990, 446.
(15)   In Lav. prev. Oggi, 2000, 2093.
(16)   Cass. 13 dicembre 1985, n. 6317, in Dir. prat. lav. 1986, 854, con nostro articolo a pag. 811.
(17)   Pret. Torino 28 ottobre 1985, in Giust. civ. 1986, I, 3245. Pret. Roma 30 giugno 1990, in Dir. prat. lav. 1991, 133.
(18)   Pret. Roma 30 giugno 1990, in Dir. prat. lav. 1991, 133.
(19)   Pret. Milano 22 novembre 1991, in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1992, 708; contra, per il caso di spaccio abituale da parte di lavoratore bancario  suppostamente tentabile dalla liquidità maneggiata, Pret. Bari 4 dicembre 1989, in Riv. it. dir. lav. 1990, II, 688.
(20)   Pret. Bergamo 29 luglio 1992, in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1993, 171.
(21)   Pret. Milano 29 novembre 1994, in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1994, 607 e, rispettivamente, Pret. Torino 29 luglio 1993, ibidem 1994, 607.
(22)  Vedi, esemplificativamente, Cass. 27 novembre 1992, n. 12678; Cass. 29 marzo 1991, n. 3395.

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