Risarcimento danni da demansionamento
TRIBUNALE DI GENOVA,
sez. lav. 1° grado, 27 settembre 2004 – Giud. Scotto - N. M. c. I. S.p.A.
Demansionamento – Risarcimento danni - Danno biologico – Indennizzabilità
Inail – Danno differenziale – Ammissibilità - Danno Professionale – Prova
mediante presunzioni semplici – Criteri di calcolo.
Dall'art. 2103 c.c. -
norma che sancisce il diritto (contrattuale) del lavoratore all'effettivo
svolgimento della propria prestazione professionale, con mansioni inerenti alla
qualifica attribuita con l'assunzione o successivamente acquisita, e comunque,
in ogni caso, equivalenti alle ultime che abbia effettivamente svolte - discende
che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro costituisce
inadempimento contrattuale e determina, oltre all'obbligo di corrispondere le
retribuzioni dovute e di adempimento in forma specifica, anche l'obbligo del
risarcimento del danno da dequalificazione professionale. Tale danno (detto
anche danno professionale) può assumere aspetti diversi, potendo consistere sia
nel danno patrimoniale derivante dall'impoverimento della capacità
professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisitone di una
maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia
di ulteriori possibilità di guadagno; sia in una lesione del diritto del
lavoratore all'integrità fisica o, più in generale, alla salute, ovvero
all'immagine o alla vita di relazione. Sotto l'ultimo degli aspetti considerati,
in particolare, viene in considerazione una specie particolare di danno
esistenziale, derivante dalla lesione del diritto fondamentale del lavoratore
alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato
dagli artt. 1 e 2 della Costituzione (cfr., tra le numerose decisioni Cass.
14199/2001; 15868/2002). Proprio la molteplicità dei pregiudizi che possono
derivare dalla violazione dell'art. 2103 c.c. ad opera del datore di lavoro,
rende indispensabile che il lavoratore specifichi quali di essi ritenga in
concreto di aver subito in concreto e fornisca, sia pure a livello di semplici
indizi (indizi che possono trarsi anche semplicemente dal complesso delle
circostanze del caso concreto, quali la natura, l'entità e la durata del
demansionamento: cfr. Cass. 14443/2000; 13580/2001;10/2002; 15868/2002, cit.),
la prova dei danni subiti. Ed infatti, con orientamento assolutamente
prevalente, la Corte afferma che il prestatore di lavoro che chieda la condanna
del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale
componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico)
subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione
lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a
determinare una dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova
dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento,
prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una
valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza
automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella sopraindicata
categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva
della condotta datoriale, facendo carico al lavoratore che denunzi il danno
subito di fornirne la prova in base alla regola generale dell'art. 2697 c.c.
(Cass. 3686/1996; 1026/1997; 7905/1998; 6992/2002). L'onere del lavoratore di
fornire la prova del danno subito a cagione della dequalificazione professionale
è sicuramente indiscutibile ove domandi la riparazione di pregiudizi di natura
patrimoniale (danno professionale in senso stretto); ma sussiste anche qualora
il pregiudizio sia di natura non patrimoniale, allorché si deduca la lesione
del diritto alla salute (c.d. danno biologico), ovvero del diritto fondamentale
all'identità professionale sul luogo di lavoro (ed. danno esistenziale).
Invero, il principio secondo il quale il rimedio del risarcimento del danno deve
essere concesso anche a tutela dei diritti non patrimoniali si è consolidato a
seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 1984, recante
l'interpretazione in senso costituzionalmente orientato dell'art. 2043 c.c.,
norma che tutela anche e soprattutto i diritti fondamentali della persona, quale
il diritto alla salute, ed impone di risarcire il danno per il fatto stesso
della lesione, indipendentemente dal verificarsi anche di pregiudizi di ordine
patrimoniale, in termini di danno emergente o di lucro cessante. E tuttavia, la
stessa Corte costituzionale ha successivamente chiarito (sentenza n. 372 del
1994) che il danno biologico non è presunto, siccome identificabile col fatto
illecito lesivo della salute, giacché, se è indiscutibile che la prova della
lesione è, in re ipsa, anche prova dell'esistenza del danno, è pur sempre
necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che
la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quella indicata dall'art.
1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non
patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere commisurato” (Cass. 4 giugno 2003 n. 8904; Cass., 28 maggio 2004, n. 1031;
Cass., 8 novembre 2003, n. 16792; Cass., 14 maggio 2002, n. 6992; Cass., 11
agosto 1998, n. 7905; Cass. 4 febbraio 1997, n. 1026; Cass., 18 aprile 1996, n.
3686).
E’ peraltro pacifico
in giurisprudenza che la prova del danno può essere raggiunta anche sulla base
di semplici presunzioni.
Nella specie ritiene
il Giudicante che l'ampiezza del periodo per il quale è durata la
dequalificazione professionale, la gravità di tale dequalificazione alla luce
della delicatezza dei compiti in precedenza rientranti nelle mansioni del
ricorrente e poi sottrattigli, nonché da ultimo la reiterazione del
demansionamento in segno di evidente dispregio della professionalità del
ricorrente consentano di presumere non soltanto una potenzialità di danno, ma
l’effettività del danno stesso.
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
Con ricorso ex art.
700 c.p.c. depositato in data 25 febbraio 2002 il sig. N. M., premesso di essere
dipendente di I. S.p.A. e di essere stato assegnato a mansioni dequalificanti
con comunicazione del 7 gennaio 2002, chiedeva di essere reintegrato nella
mansioni svolte in precedenza all’asserito demansionamento o in mansioni
equivalenti, chiedendo altresì di essere autorizzato, in mancanza di tale
adempimento da parte della società convenuta, a rifiutare la prestazione
lavorativa.
Con ordinanza in data
31 maggio 2002 il Tribunale di Genova, in accoglimento del ricorso, ordinava a
I. S.p.A. di reintegrare il ricorrente nella mansioni svolte precedentemente al
7 gennaio 2002 ovvero in mansioni ad esse equalivalenti.
Con ricorso ex art.
414 c.p.c.depositato in data 4 luglio 2004 l’ing. M. esponeva quindi:
• di essere dipendente di I.S.p.A. dal giugno
1986;
• di essere stato inquadrato a far data dal
1990 come quadro;
• di aver svolto prima della privatizzazione di
I. S.pA. le mansioni dettagliatamente descritte in ricorso;
• di aver svolto, a
seguito della ristrutturazione organizzativa seguente alla citata
privatizzazione, funzioni di responsabile dell’ente Garanzia Qualità Acquisti
(GQA), sotto la supervisione dell’ing. C. R., con autonoma responsabilità di
valutazione e qualifica dei fornitori di prodotti strategici per tutti gli
stabilimenti e società del G. I. L. P. e con compiti di gestione della
emissione e distribuzione dei documenti del Sistema qualità per la funzione
Acquisti;
• di essere divenuto dall’aprile 1997
l’unico responsabile dell’ente Garanzia Qualità Acquisti;
• di essere stato incaricato verso la fine del
1997 di elaborare e strutturare il sistema di garanzia della qualità aziendale;
• di essere stato
nominato nella primavera del 1998 responsabile degli enti Garanzia Qualità
Aziendale e garanzia Qualità Acquisti del G. R., riorganizzati nell’ambito
dell’unica funzione Qualità, alle dirette dipendenze del dirigente, ing. B.;
• di aver svolto le mansioni meglio descritte
nella procedura PSQA 12 del 30 giugno 1997 (doc. 4);
• di essere stato nominato a partire dal 1999
Responsabile degli enti garanzia della Qualità centrale e
garanzia Qualità
Acquisti anche del G. R. A., sempre alle dirette dipendenze dell’ing. B.;
• di essere stato del tutto inopinatamente
trasferito, a far data dal 22 ottobre 1999, all’Ufficio Acquisti;
• di essere stato da
allora assegnato alla redazione della richiesta di fornitura e alla successiva
formalizzazione dei documenti di acquisto per utensileria a catalogo e
ferramenta, lavoro da eseguirsi a terminale;
• di aver quindi svolto attività meramente
esecutiva e d’ordine, consistente nell’inserire dati preesistenti in
documenti predisposti, senza alcun tipo di apporto personale;
• di essere stato per giunta incaricato di
svolgere una mole di lavoro notevolmente superiore a quella assegnata ai
colleghi;
• di essere stato escluso a natale 2000 dalla
assegnazione del premio annuale ad personam, unico tra gli addetti all’ufficio
acquisti;
• di essere stato
nuovamente richiamato, a decorrere dal marzo 2001, a svolgere le mansioni
precedentemente svolte presso l’ente Garanzia della Qualità centrale,
funzione sostanzialmente nel frattempo abbandonata dalla società per
disinteresse;
• di essersi dedicato con impegno al compito di
ricostituire l’ente garanzia Qualità Centrale, riprendendo le attività
sospese e rivedendo i documento del Sistema Qualità;
• di essere stato nuovamente trasferito presso
l’Ufficio Acquisti a decorrere dal 7 gennaio 2002;
• di essere stato quindi da allora nuovamente
assegnato alla elaborazione a terminale ed alla stampa dei documenti di acquisto
di utensileria a catalogo e ferramenta.
Il ricorrente
conveniva pertanto in giudizio I. S.p.A. chiedendo:
• la conferma
dell’ordinanza cautelare del 31 maggio 2002 e dunque la condanna della
convenuta alla reintegra nella mansioni svolte precedentemente al 7 gennaio 2002
ovvero in mansioni equivalenti, con autorizzazione al ricorrente, in mancanza di
tale adempimento, a rifiutare la propria prestazione lavorativa;
• la condanna di I. S.p.A. al risarcimento del
danno alla professionalità subito nel periodo dal 22 ottobre 1999 al 1 marzo
2001 e poi dal 7 gennaio 2002 (danno da quantificarsi in via equitativa, ma
comunque in misura non inferiore alle differenze retributive tra il livello
professionale rivestito e il livello di illegittima assegnazione), oltre al
risarcimento del danno alla immagine e alla dignità professionale, del danno
alla salute (con inclusione del pregiudizio da invalidità temporanea totale e
parziale e da invalidità permanente), del danno alla vita di relazione, del
danno esistenziale, del danno alla personalità morale, del danno al diritto
alla serenità sul luogo di lavoro, nonché infine del danno morale.
I. S.p.A. si
costituiva ritualmente in giudizio e, eccepita preliminarmente l’improcedibilità
delle domande attrici, contestava comunque nel merito la fondatezza delle
stesse, chiedendone la reiezione.
In subordine chiedeva
la riduzione dell’eventuale obbligo di risarcimento in capo alla convenuta
escludendo l’obbligo risarcitorio con riferimento al periodo successivo al
gennaio 2002 (inizio della malattia del ricorrente), oppure, al maggio 2002
(data di assegnazione a nuove mansioni).
Sentiti liberamente il
ricorrente ed il procuratore speciale della convenuta, istruita la causa con
l’espletamento di CTU medico legale e di CTU contabile, autorizzato il
deposito di note scritte, all’udienza del 27 settembre 2004 veniva pronunziata
sentenza, dandosi lettura in aula del dispositivo.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
Le domande, nei limiti
di cui in prosieguo di motivazione, sono fondate e devono pertanto essere
accolte.
Deve peraltro essere
esaminata in primo luogo l’eccezione di improcedibilità delle domande.
Sostiene la convenuta
che la richiesta di convocazione della commissione ex art. 410 c.p.c. presentata
dal ricorrente non sarebbe sufficiente a soddisfare la condizione di
procedibilità delle domanda, avendo il ricorrente omesso di indicare
analiticamente tutte le domande e le pretese (comprensive di causa petendi e
petitum diretto ed indiretto)
L’eccezione è
infondata.
Nella richiesta di
convocazione della commissione di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c. il
ricorrente, premesso di essere dipendente di I. S.p.A., inquadrato come quadro
C.C.N.L. metalmeccanici industria privata, ha così testualmente identificato
l’oggetto della controversia:
• “accertamento violazione art.
2103 c.c. attuata tramite assegnazione a mansioni di livello inferiore (5°) a
quello contrattuale (quadro) 22 ottobre 1999 ad oggi, e richiesta del
conseguente risarcimento del danno causato al patrimonio professionale e
all’immagine del lavoratore;
• accertamento violazione art. 2087
c.c. e/o 2043 c.c., con attuazione di condotte persecutorie (cd mobbing), e
richiesta del conseguente risarcimento dei danni patrimoniali e non
patrimoniali, con inclusione del pregiudizio alla salute per invalidità
temporanea e permanente e per lesioni alla vita di relazione”.
La richiesta di
convocazione della commissione ex art. 410 c.p.c. contiene dunque
l’indicazione completa, sia pur sintetica, sia della causa pretendi (demansionamento
dal 22 ottobre 1999 e mobbing), sia del petitum del successivo giudizio (danni
patrimoniali e non patrimoniali, con inclusione del danno alla salute, del danno
al patrimonio professionale e all’immagine).
Nessuna disposizione
di legge prescrive una maggior analiticità della richiesta, essendo
sufficiente, ai fini della rituale richiesta di espletamento del tentativo
obbligatorio di conciliazione, che il richiedente individui i singoli titoli per
i quali intende agire in giudizio.
Venendo quindi al
merito delle domande, ritiene il Giudicante che, attesa l’ampia istruttoria
espletata nel procedimento cautelare che ha preceduto l’attuale giudizio d
merito, la causa non meriti di ulteriore istruzione testimoniale.
Deve essere in
proposito qui riconfermato quanto già argomentato nell’ordinanza pronunciata
in data 31 maggio 2002.
Più precisamente:
• dal 1990 l’ing. M. è inquadrato come
quadro (circostanza pacifica);
• a decorrere
dall’aprile 1997 il ricorrente, che già da qualche anno si occupava di
garanzia qualità, è diventato responsabile dell’ente Garanzia qualità della
funzione Acquisti (GQA) (pag. 21 verbale, dott. C., informatore a conoscenza
diretta dei fatti, ormai estraneo all’azienda, della cui attendibilità non vi
è motivo di dubitare);
• in precedenza responsabile di tale funzione
era lo stesso dott. C., dirigente (circostanza pacifica); il doc. 2 di parte
ricorrente documenta il passaggio di consegne da C. a M. avvenuto nell’aprile
1997;
• la garanzia di qualità si occupa di redigere
procedure su come i vari enti analizzati dovrebbero lavorare per assicurare al
cliente la consegna di un prodotto con qualità standard e garantite (memoria I.,
confermata in fatto dal procuratore speciale della società);
• il lavoro di
elaborazione delle procedure è lungo e delicato: “si tratta di capire cosa
vuole esattamente la direzione, di coordinarlo con gli stabilimenti e le altre
funzioni: gli organismi sono tanti, le persone migliaia. A volte la redazione di
una procedura, specie se coinvolgeva il vertice, richiedeva mesi” (dott. C.,
pag. 24);
• “la redazione delle procedure in teoria è
un lavoro non lungo per uno che conosce il mestiere e conosce le norme, quando
però gli uffici sono articolati, come ad es. gli uffici acquisti e commerciale,
che sono complessi e articolati, ogni articolazione ha delle prassi che sono
diverse da ufficio a ufficio e diventa perciò complesso articolare una
mediazione” (ing. R., addotto da parte convenuta, pag. 40 verbale);
• “lo specialista della qualità deve
elaborare procedure che rispettino la normativa ISO 9000 e al tempo stesso che
rispecchino le decisioni della direzione aziendale. Lo specialista della qualità
deve evidenziare alla direzione i casi in cui le decisioni aziendali sarebbero
in contrasto con la normativa ISO 9000 e cercare di trovare una soluzione di
compromesso” (dott. C.
p. 27 verbale);
• successivamente l’ing. M. è
diventato responsabile anche della Garanzia qualità centrale (GdQ I.),
mantenendo peraltro anche la responsabilità della Garanzia qualità della
funzione acquisti (dott. C.,
pag. 23 verbale);
• in precedenza di tale funzione di occupavano
gli ing. O. e R. (dott. C., pag. 24 verbale; ing. R., pag. 32 verbale);
• gli ing. O. e R. erano quadri (ing. R.
pag. 38 verbale);
• in tale periodo
l’ing. M. era altresì responsabile della garanzia Q. R. A. (come risulta
dalle comunicazioni interne inviate dalla G. Q. R. A., a firma M., di cui ai
doc. 7 e 8, nonché ai documenti prodotti all’udienza del 15 aprile 2002 ed in
particolare dal piano della qualità in data 12 aprile 1000 emesso dall’ing.
M. per la G. Q. R. A. ed approvato dall’ing. B., quale rappresentante della
Direzione per la Qualità del Gruppo: doc. 9);
• l’ente garanzia qualità di azienda o
gruppo (ente centrale) si occupa della normativa delle funzioni centrali, ossia
delle funzioni che vengono svolte centralmente per tutti gli stabilimenti/società,
ovvero acquisti, commerciale, programmazione, personale, logistica (memoria I.);
• i contenuti e le responsabilità della
Garanzia qualità aziendale (GdQ I.) risultano dettagliatamente descritti dalla
procedura emessa in data 18 maggio 1998 dallo stesso ing. M., quale responsabile
appunto della Garanzia di Qualità aziendale (GdQ I.), procedura peraltro
approvata dai suoi superiori ed in particolare del dott. B., dirigente del G.
R., rappresentante della proprietà nel gruppo R. (doc. 5 parte ricorrente);
“L’ente Garanzia
Qualità Aziendale nei rapporti con gli enti di Garanzia della Qualità delle
Unità Produttive, Funzioni, Società del Gruppo, ha la responsabilità di:
- coordinare
l’emissione e l’aggiornamento delle Procedure (PSQA) e del Manuale del
Sistema Qualità Aziendale (MSQA);
- collaborare
all’attuazione ed implementazione del Sistema Qualità;
- elaborare le
procedure della Funzione Qualità (PAQ Q) in relazione al servizio fornito;
- supportare con
adeguata documentazione gli enti Garanzia Qualità delle unità Produttive nelle
- effettuare, su
incarico del Rappresentante della Direzione perla Qualità, verifiche ispettive
al Sistema
- pianificare e
coordinare Verifiche periodiche per il mantenimento della qualificazione delle
Funzioni di Gruppo;
- collaborare e
realizzare – per quanto di competenza – la formazione in materia di Garanzia
della Qualità ed in particolare la formazione e aggiornamento degli auditor”
(punto 3.1 doc. 5 parte ricorrente).
• lo stesso documento così descrive le
responsabilità dell’ente Garanzia Qualità Acquisti (GQA I.) (di cui era pure
responsabile il ricorrente):
- “promuovere lo
sviluppo del Sistema Qualità nella Funzione Acquisti;
- aggiornare ed
emettere le Procedure ed i documenti di registrazione del Sistema Qualità
Acquisti;
- coordinare ed
effettuare l’attività di qualificazione e valutazione dei fornitori di
prodotti strategici;
- pianificare e
coordinare l’esecuzione di Verifiche periodiche per il mantenimento della
Qualificazione
- supportare la
Funzione Acquisti nelle Verifiche Interne per il mantenimento della
Qualificazione e
• “alcune delle attività
indicate nelle procedure del maggio ’98 (doc. 5) sono state poi effettivamente
espletate, ad es. le verifiche ispettive; alcune sono affermazioni di sviluppo,
o meglio obiettivi da perseguire. …ciò è tipico della materia delle qualità,
dove tutto viene fotografato e ci si pongono degli obiettivi per migliorare”
(C.: pag. 23 verbale);
• “fra i compiti della garanzia di qualità
centrale c’era quello di supportare gli stabilimento del gruppo qualora
fossero ispezionati da clienti o da organismi di certificazione. Ogni
stabilimento del gruppo è stato sottoposto a queste ispezioni degli organismi
di certificazione. L’ing. M., se richiesto, partecipava alle ispezioni per
documentare e spiegare le procedure” (C.: p. 25 verbale);
• l’ing. M. non ha invece mai partecipato ai
corsi di formazione dei c.d. “auditor”, che sono stati invece tenuti da
docenti tecnici (come ammesso dallo stesso ricorrente in sede di libero
interrogatorio);
• non è stato neppure realizzato
l’aggiornamento del manuale di sistema di qualità aziendale, pur previsto tra
i compiti dell’ente Garanzia Qualità centrale dal doc. 5 già citato (come
ammesso dallo stesso ricorrente in sede di libero interrogatorio);
• è pacifico tra le parti - emergendo dai
rispettivi atti - che nell’ottobre del 1999 l’ing. M. è stato trasferito
all’ufficio acquisti;
• i compiti espletati dal ricorrente fino a
tale data sono passati al dott. C. (C., pag. 30 verbale);
• è poi pacifico tra le parti che l’ing. M.
dall’ottobre 1999 al febbraio 2001 è stato assegnato a svolgere attività di
approvvigionatore presso l’ufficio acquisti;
• è pure pacifico tra le parti che il
ricorrente è stato richiamato ad occuparsi di garanzia qualità nel periodo dal
febbraio 2001 al 7 gennaio 2002;
• è infine pacifico tra le parti che l’ing.
M. è stato nuovamente assegnato a svolgere attività di
Quanto ai contenuti ed
alle responsabilità inerenti alle mansioni affidate all’ing. M. dall’aprile
1997 all’ottobre 1999 (come sopra descritte), deve rilevarsi che I., nella
memoria di costituzione, afferma che nella realtà il peso che ha in
un’azienda la garanzia di qualità dipendente dalla sensibilità al problema
che ha il singolo responsabile della funzione e tale sensibilità deriva dalla
richiesta del cliente.
Se, “come nel caso
di I., il cliente non richiede quasi mai che il fornitore sia certificato in
garanzia qualità, l’azienda potrà pure redigere roboanti procedure generali
ma nella pratica la garanzia qualità sarà senza alcun peso. E questa è la
situazione di I. sia pubblica che privata” (memoria pag. 5).
Le asserzioni di I.
risultano smentite dalle dichiarazioni del dott. C. che ha affermato che “i
clienti che chiedevano all’I. la garanzia di qualità erano pochi, ma
importanti; ad es. ricordo che nel ’95 ci fu un’ispezione nello stabilimento
di N. L. da parte di produttori di case automobilistiche francesi. L’ispezione
durò una settimana e io e l’ing. M. andammo a N. L. per evidenziare le
procedure che garantivano la qualità dei nostri fornitori. … Nel ’97,
quando io ero già a C., venne un’altra ispezione di un grosso cliente per il
prodotto banda stagnata (necessario per le lattine); si trattava del cliente C.
M.. In qual caso io avevo partecipato all’ispezione come responsabile della
garanzia e qualità dello stabilimento… l’ing. M. aveva partecipato a sua
volta per certificare la garanzia dei fornitori e le procedure in essere
relative all’approvvigionamento” (pag 20-22 verbale).
Ulteriore conferma
della rilevanza ai fini aziendali della garanzia qualità è data dalla
circostanza - pacifica tra le parti - che a fine 2000 / inizio del 2001 la Me.
ha formulato dei rilievi sul sistema di qualità aziendale, riservandosi di
effettuare successive verifiche e che per tale motivo I. si è determinata a
dare nuovo impulso alla funzione di certificazione di qualità, richiamando tra
l’altro ad occuparsi di tale funzione l’ing. M. (v. dichiarazioni del
procuratore speciale di I. in sede di libero interrogatorio).
Può dunque
concludersi che le mansioni espletate dall’ing. M. fino al novembre 1999
richiedevano una significativa professionalità (postulando la conoscenza della
normativa in materia) e rivestivano una specifica rilevanza per l’azienda.
Tali mansioni erano
state in precedenza espletate in parte dal dott. C. (dirigente) ed in parte
dagli ing. O. e R. (quadri).
Nessuna rilevanza in
ordine al pregio professionale dell’incarico affidato al ricorrente può
assumere il rilievo che tale incarico sia stato di fatto portato a termine
soltanto in parte dal ricorrente, posto che - per principio generale - la
valutazione delle mansioni deve essere fatta in relazione ai compiti ed alle
responsabilità affidate e non certo in relazione alla maggiore o minore velocità
e/o efficienza del dipendente nel potare a termine l’incarico.
Tanto premesso circa
le mansioni espletate dal ricorrente fino all’ottobre 1999, nonché per il
periodo dal febbraio al dicembre 2001, si deve quindi passare ad esaminare le
mansioni assegnate al ricorrente nel periodo dall’ottobre 1999 al febbraio
2001 e poi nuovamente a decorrere dal 7 gennaio 2002.
In tali periodi il
lavoro assegnato al ricorrente consisteva nella redazione della richiesta di
fornitura e nella successiva formalizzazione dei documenti d’acquisto per
utensileria (circostanza pacifica).
Dalle dichiarazioni
dei sommari informatori Be. e soprattutto S. (informatore indicato da entrambe
le parti) è in particolare emerso che:
• il sig. M. si
occupava dell’acquisto di utensileria, ovvero martelli, cacciavite, trapani,
tasselli, “più in generale tutto quello che può essere il ventaglio di
vendita di un ferramenta, escluso il materiale elettrico” (S.);
• “è il sistema informatico, che è stato
impostato in modo da sapere il livello ottimale delle scorte, che ... indica la
quantità dei prodotti da acquistare” (Be.);
• l’approvvigionatore di solito
raggruppa i prodotti più o meno omogenei per caratteristiche commerciali e per
possibile fornitore ed elabora poi una richiesta di acquisto (S.);
• “la lista dei fornitori è
computerizzata” (S.);
• “per ogni tipo di prodotto il sistema
informativo stampa una storia degli acquisti precedenti di quel prodotto con i
prezzi e le quantità sia attuali che precedenti (S.);
• “la richiesta di acquisto è inviata
solitamente agli stessi fornitori che hanno precedentemente fornito i
prodotti” (S.);
• se un approvvigionatore ritiene opportuno
inserire un nuovo fornitore, deve chiedere l’autorizzazione al responsabile
(S.);
• nel 90% dei casi l’ordine viene fatto al
fornitore che offre il prezzo più basso (S.);
• “per alcuni
prodotti il sistema ha già stabilito che un fornitore è quello che offre i
prezzi più vantaggiosi per cui l’approvvigionatore non deve fare alcun
confronto perché l’ordine viene assegnato in automatico a un fornitore”
(S.);
• “nella lista dei fabbisogni a volte è
indicata la marca, a volte no: se è indicata la marca e il listino del
fornitore è già caricato nel computer, trattandosi di fornitore vantaggioso,
l’ordine viene fatto a quel fornitore” (S.);
• “può capitare che l’approvvigionatore
faccia una trattativa con il fornitore per ottenere degli sconti
• “l’approvvigionatore,
terminato il suo lavoro, stampa un ordine che sottopone poi alla firma del
In sintesi risulta che
l’approvvigionatore nella maggior parte dei casi è del tutto vincolato nella
scelta del fornitore cui affidare l’ordine e, anche quando ha un limitato
spazio di trattativa, non ha comunque alcun potere di decisione, essendo
comunque rimessa al responsabile la decisione ultima in ordine al fornitore da
scegliere.
Le mansioni da ultimo
affidate al ricorrente possono dunque qualificarsi come mansioni impiegatizie
meramente d’ordine, certamente dequalificanti sia rispetto ai compiti in
precedenza espletati (come sopra descritti), sia - e comunque - rispetto alla
qualifica di quadro rivestita dal ricorrente.
Nel presente giudizio
di merito I. ha offerto prova di alcune circostanze marginali che non alterano
le risultanze dell’istruttoria effettuata nel procedimento cautelare e sopra
sintetizzata.
Del resto, a ben
guardare, essendo pacifico tra le parti che il ricorrente era inquadrato come
quadro, l’istruttoria ben poteva limitarsi all’esame della congruità o meno
delle mansioni affidate al ricorrente nel periodo dall’ottobre 1999 al
febbraio 2001 e poi nuovamente a decorrere dal 7 gennaio 2002 con tale
inquadramento.
Sul punto, come si è
evidenziato le dichiarazioni degli informatori (ivi compreso il sig. S.,
indicato da entrambe le parti) sono univoche e concordanti nella descrizione
delle mansioni dell’ing. M. come mera attività d’ordine.
Nessun rilievo avrebbe
la circostanza, anche ove dimostrata, per cui la qualifica di quadro sarebbe
stata riconosciuta al ricorrente in via convenzionale, come trattamento
economico di miglior favore.
Nessun rilievo ha
infatti ai fini dell’applicabilità dell’art. 2103 c.c. il motivo,
l’accordo o la prassi in base al quale il datore di lavoro abbia deciso di
riconoscere ad un lavoratore un determinato inquadramento.
Dispone chiaramente
l’art. 2103 c.c. che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle
mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria
superiore che abbia successivamente acquisito…”.
Ove il datore di
lavoro intenda riconoscere al lavoratore un trattamento economico di miglior
favore rispetto alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva per
le mansioni concretamente svolte può riconoscere al lavoratore un superminimo,
ma ove invece decida di attribuire una qualifica superiore, non potrà che
assegnare al dipendente mansioni corrispondenti alla qualifica.
Ritiene pertanto il
Giudicante che nella specie risulti dunque dimostrata la violazione del divieto
di adibire il lavoratore a mansioni dequalificanti per l’intero periodo dal 22
ottobre 1999 al 1 marzo 2001 e dal 7 gennaio 2002 al 31 maggio 2002..
In tale data è stata
infatti emessa l’ordinanza ex art. 700 c.p.c. che ha ordinato la reintegra del
ricorrente nelle mansioni svolte precedentemente al 7 gennaio 2002 ovvero in
mansioni equivalenti.
Nulla il ricorrente ha
dedotto in ordine agli sviluppi della vicenda successivi a tale ordinanza.
Così delimitato in
fatto il periodo di demansionamento, deve poi rilevarsi, in diritto, che si
verte in un'ipotesi di inadempimento contrattuale (in quanto tale disciplinato
dall'art. 1218 c.c.), derivante dalla violazione dell'art. 2103 c.c., che vieta
l'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle da ultimo svolte, e
dell'art. 2087 c.c., che impone all'imprenditore di tutelare, nell'esercizio
dell'impresa, non soltanto l'integrità fisica, ma anche la personalità morale
del dipendente.
Ne consegue il diritto
del ricorrente al risarcimento del danno, comprensivo del danno morale, stante
la violazione dell’art. 2087 c.c.
Venendo quindi
all’esame dei vari capi delle domande del ricorrente, deve in primo luogo
essere dichiarata la cessazione tra le parti della materia del contendere ordine
alla richiesta di reintegra del ricorrente nelle mansioni svolte precedentemente
al 7 gennaio 2002.
E’ infatti pacifico
tra le parti che il ricorrente è stato successivamente licenziato da I. per
superamento del periodo di comporto.
Affermata la
violazione del divieto di adibire il lavoratore a mansioni dequalificanti e
passando quindi alle numerose domande risarcitorie proposte dall’ing. M., il
ricorrente ha chiesto innanzitutto il risarcimento del danno alla salute, con
inclusione del pregiudizio da invalidità temporanea totale e parziale e da
invalidità permanente, e alla vita di relazione.
Espletata C.T.U.
medico legale, il C.T.U. ha concluso affermando che il ricorrente in conseguenza
del patito demansionamento ha riportato:
• una inabilità temporanea parziale al 50%
della durata di giorni 30 a decorrere dal 21 gennaio 2002;
• una inabilità temporanea parziale al 25%
della durata di giorni 30;
• postumi permanenti
che configurano una invalidità biologica nella misura del 12% con decorrenza
dal 22 marzo 2002 (decorrenza precisata nei successivi chiarimenti depositati in
data 20 marzo 2004).
Tali conclusioni
meritano di essere condivise, in quanto fondate su accurati esami clinici e
sorrette da corretta ed esauriente motivazione, che – come integrata anche dai
chiarimenti resi all’udienza del 29 aprile 2004 - deve intendersi qui
integralmente trascritta.
All’udienza del 29
aprile 2004 il CTU ha altresì precisato che i postumi sono valutabili nella
misura del 12% anche sulla base delle tabelle INAIL.
Ha eccepito a questo
punto la difesa della convenuta che il danno biologico in capo al ricorrente ove
esistente (e la convenuta ne contesta comunque l’esistenza), darebbe luogo ad
una malattia professionale, che non risulta essere stata denunciata all’INAIL.
Secondo la convenuta,
pertanto, alla luce del mutato assetto normativo introdotto dall’art. 13 d.
lgs. n. 38/2000 il danno biologico lamentato dal ricorrente dovrebbe essere
indennizzato dall’INAIL, con conseguente esenzione dalla responsabilità
civile del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 10 D.P.R. n. 1124/65 e con
altrettanto conseguente difetto di legittimazione passiva della convenuta.
Ha eccepito in
proposito il ricorrente che il nuovo sistema assicurativo introdotto dall’art.
13 d.lgs. n. 38/2000 trova applicazione, ai sensi del medesimo art. 13, come
modificato dall’art. 1 d. lgs. 19 aprile 2001, n. 202, ai soli danni
conseguenti ad infortuni sul lavoro verificatisi, nonché a malattie
professionali denunciate a decorrere dal 25 luglio 2000.
Conclude dunque il
ricorrente che in caso di mancata denuncia, anche per malattie manifestatesi
dopo tale data, il datore di lavoro continua a rispondere ai sensi dell’art.
2087 c.c.
Ritiene il Giudicante
che, ai fini del riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro e
della identificazione dei limiti della stessa, sia del tutto irrilevante la
circostanza che il lavoratore abbia o meno presentato all’INAIL denuncia di
malattia professionale.
Ai sensi dell’art.
10 co. 7° D.P.R. n. 1124/65, "quando si faccia luogo a risarcimento,
questo è dovuto solo per la parte che eccede le indennità liquidate".
L’esonero da
responsabilità riconosciuto comunque al datore di lavoro fino all’ammontare
del danno indennizzato (o indennizzabile) dall’INAIL opera ex lege e non può
evidentemente essere condizionato ad una scelta discrezionale del lavoratore.
Si tratta dunque di
stabilire se il lavoratore, vittima di un infortunio su lavoro o di una malattia
professionale, abbia ancora diritto di chiedere al datore di lavoro - civilmente
e penalmente responsabile del fatto – il risarcimento del danno biologico
ulteriore (o differenziale) rispetto a quello indennizzato dall’INAIL a
seguito dell’entrata in vigore del d. lgs. 38/00.
Ritiene il Giudicante
che la complessa e discussa questione richieda alcune premesse si carattere
storico e sistematico.
Secondo l’originario
impianto del D.P.R. n. 1124/65 la costituzione della rendita INAIL presupponeva
una menomazione comportante una riduzione della “attitudine al lavoro”.
Ai sensi dell’art.
74 D.P.R. n. 1124/65, infatti, “agli effetti del presente titolo deve
ritenersi inabilità permanente assoluta la conseguenza di un infortunio o di
una malattia professionale la quale tolga completamente e per tutta la vita la
attitudine al lavoro”.
Tale nozione, secondo
la giurisprudenza della Corte di Cassazione, coincideva sostanzialmente con la
“capacità lavorativa generica”.
La Corte costituzionale, con sentenza 21 novembre 1997
n. 350, ha confermato tale interpretazione, assunta in termini di diritto
vivente.
L’INAIL risarciva
quindi un danno di natura patrimoniale.
L’indennizzo INAIL
prescindeva – e tuttora prescinde – dall’accertamento di una reale perdita
di guadagno dovuta all’impossibilità di svolgere attività lavorative
specifiche, tant’è che si fa luogo a risarcimento anche laddove il
lavoratore, a seguito del danno, continui a svolgere le stesse identiche
mansioni, senza alcuna riduzione retributiva.
Non occorreva - e
tuttora non occorre - l’esistenza di una effettiva perdita o riduzione dei
guadagni, ossia un danno patrimoniale concreto, perché l’assicurazione
obbligatoria INAIL non assolve ad una funzione propriamente risarcitoria (da
ultimo, Cass. n. 1640 del 16/2/2000).
Al momento della
emanazione del T.U. n. 1124/1965 vi era una sostanziale, ancorché non perfetta,
sovrapposizione tra il danno indennizzato dall’INAIL ed il danno
quantificabile secondo criteri civilistici.
All’epoca, infatti,
e fino a quando la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 184/1986, ha
definitivamente introdotto la nozione di “danno biologico”, il danno
risarcibile a seguito della lesione del “bene salute” era essenzialmente
patrimoniale (nelle due componenti dell’ “danno emergente” e del “lucro
cessante”) e spesso anche in campo civile si faceva riferimento al concetto di
perdita della capacità lavorativa generica in luogo del danno emergente e del
lucro cessante.
In tale contesto si
inseriva armonicamente l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità
civile previsto dall’art. 10 del D.P.R. n. 1124 /1965.
Il lavoratore veniva
indennizzato dall’INAIL indipendentemente dall’esistenza di una colpa in
capo al responsabile civile (ovvero al datore di lavoro) e riceveva normalmente
un indennizzo non minore del risarcimento che avrebbe ottenuto ove avesse agito
civilmente contro il datore di lavoro in colpa, posto che all’epoca in sede
civile il danno risarcibile non poteva che avere natura patrimoniale e doveva
essere puntualmente provato dal danneggiato.
Nel caso in cui il
danno avesse superato l’indennizzo corrisposto dall’INAIL il lavoratore era
comunque legittimato a chiedere il danno differenziale, ma soltanto ove la
condotta del datore di lavoro fosse stata penalmente rilevante, ovvero in
presenza di una colpa del datore di lavoro, non puramente generica.
Ovviamente anche il
danno differenziale non poteva che avere natura patrimoniale e doveva essere
puntualmente provato dal danneggiato.
Tale sistema garantiva
al lavoratore che avesse subito un infortunio sul lavoro un risarcimento
sostanzialmente non inferiore a quello a lui spettante ove l’infortunio non
fosse avvenuto in occasione di lavoro ed anzi, nei casi in l’indennizzo
dell’INAIL risultava più alto del risarcimento dovuto in virtù degli
ordinari principi civilistici, il lavoratore godeva di una maggior tutela,
maggior tutela peraltro giustificata dalla particolare protezione,
costituzionalmente garantita, ai diritti dei lavoratori (desumibile dagli artt.
1, 4, 35 Cost.).
Gli equilibri di tale
sistema sono stati posti in crisi negli anni ’80 dalla comparsa del danno
biologico.
Tale figura di danno
nasce in campo prettamente civilistico quale danno relativo alla lesione del
bene salute in sé considerato senza alcuna connotazione patrimoniale.
In tal modo il
risarcimento del danno civile da lesione non viene più a coincidere con
l’indennizzo previdenziale, che risulta nettamente inferiore al danno
risarcibile secondo criteri civilistici.
Il sistema normativo
sin qui descritto viene quindi profondamente modificato o meglio stravolto da
una serie di pronunce della Corte Costituzionale.
Le prime sentenze
della Corte incidono sulla necessità dell’accertamento preliminare e
pregiudiziale della responsabilità penale del datore di lavoro al fine della
successiva azione volta al risarcimento del danno differenziale.
All’esito di tre
significative pronunce della Corte Costituzionale (sentenze n. 22/1967; n.
102/1981; n. 118/1986) l’accertamento della responsabilità del datore di
lavoro nei confronti del lavoratore che chieda il risarcimento del danno
differenziale (così come sia nei confronti dell’INAIL che agisca in regresso)
è oggi svincolato dagli esiti del procedimento penale, salvo che la parte
offesa o l’Istituto non abbiano scelto di partecipare al processo penale.
Con tre sentenze
intervenute nell'arco dello stesso anno (n. 87/1991, n. 356/1991 e n. 485/1991)
la Corte Costituzionale interviene poi sui limiti relativi all’entità del
risarcimento che l’infortunato può chiedere al datore di lavoro con
l’azione.
Con la sentenza n.
87/1991 la Corte, dichiarando inammissibile la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 2, 3 e 74 del D.P.R. n. 1124/65, afferma
espressamente che il danno biologico non rientra nella copertura INAIL.
Con la seconda
pronuncia (sentenza 18 luglio 1991 n. 356) la Corte dichiara costituzionalmente
illegittimo, per violazione dell'art. 38 Cost., l'art. 1916 c.c., nella parte in
cui consente all'assicurazione sociale di avvalersi, nell'esercizio del diritto
di surrogazione nei confronti del terzo responsabile, anche delle somme da
questi dovute all'assicurato a titolo di risarcimento del danno biologico.
La Corte afferma in
particolare che "le indennità previste dal D.P.R. n. 1124/65 sono
collegate e commisurate esclusivamente ai riflessi che la menomazione
psicofisica ha sull'attitudine al lavoro dell'assicurato, mentre nessun rilievo
assumono gli svantaggi, le privazioni e gli ostacoli che la menomazione comporta
con riferimento agli altri ambiti e agli altri modi in cui il soggetto svolge la
sua personalità nella propria vita".
Infine con la sentenza
27 dicembre 1991 n. 485 la Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità
costituzionale dell'art. 10 del D.P.R. del 1965 nella parte in cui prevede che
il lavoratore infortunato o i suoi aventi causa hanno diritto al risarcimento
del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità
lavorativa generica solo se e solo nella misura in cui il danno risarcibile,
complessivamente considerato, superi l'ammontare dell'indennità corrisposta
dall'INAIL e coerentemente ha ritenuto l'illegittimità dell'art. 11 del
medesimo decreto nella parte in cui consente all'INAIL l'esercizio del regresso
anche per le somme dovute al lavoratore a solo titolo di danno biologico.
In precedenza,
infatti, la giurisprudenza, per verificare la sussistenza del "danno
differenziale" (ai sensi dell'art. 10 del D.P.R. del 1965) procedeva ad una
mera operazione di sottrazione di grandezze tra loro solo aritmeticamente
omogenee e cioè sottraeva il valore capitale della rendita erogata dall'INAIL
all'assicurato dall'importo complessivo del risarcimento, includendo in
quest'ultimo anche voci di danno (come il danno biologico ed il danno morale)
escluse dalla copertura assicurativa.
Per effetto di questo
meccanismo di calcolo, quando l'ammontare delle prestazioni globalmente erogate
dall'INAIL era - come spesso avveniva - superiore alla somma complessivamente
liquidabile al lavoratore a titolo di risarcimento del danno alla persona
secondo le ordinarie regole civilistiche, nulla risultava dovuto per
risarcimento del danno alla salute in sé considerato.
A seguito di queste
pronunce la regola dell'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità
civile per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali di cui all'art.
10 D.P.R. n. 1124/65 diviene realmente residuale.
Il datore di lavoro è
tenuto a risarcire il danno biologico subito dal lavoratore anche nel caso in
cui ricorrano gli estremi dell'esonero (per il danno eccedente le prestazioni
INAIL).
Anche in assenza di
illecito penale (ad integrare gli estremi del quale è comunque sufficiente,
secondo la costante giurisprudenza, l'inosservanza, da parte del datore di
lavoro, dell'obbligo di sicurezza che su di lui incombe ex art. 2087 c.c.,
essendo indiscussa la indiretta rilevanza penale, sotto il profilo della colpa,
di tale norma fondamentale) il datore di lavoro è tenuto a risarcire il danno
alla salute patito dal dipendente (sempre che ovviamente ricorrano i consueti
presupposti di imputazione della responsabilità civile, cioè un comportamento
colposo dell'imprenditore o di un qualsiasi suo dipendente).
Del pari - e sempre
limitatamente al danno biologico - la pretesa risarcitoria del lavoratore non
risulta in alcun modo limitata dal sistema del "calcolo differenziale"
di cui all'art. 10 comma 6° e 7° D.P.R. n. 1124/65.
In tal modo la regola
- già residuale - dell'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità
civile per gli infortuni e le malattie professionali risulta ulteriormente
ristretta.
L'accertamento della
sussistenza di un reato rileva quindi ai solo fini del risarcimento del danno
non patrimoniale e morale.
Nel quadro normativo
derivante dai ripetuti interventi della Corte la tutela apprestata
dall’assicurazione sociale si riferisce unicamente alla perdita della c.d.
capacità lavorativa generica, con esclusione delle altre voci di danno, al cui
risarcimento è tenuto il datore di lavoro.
Interviene a questo
punto l’art. 13 d. lgs. 28 febbraio 2000, n. 38, che estende la copertura
assicurativa dell’INAIL non soltanto al danno patrimoniale per la perdita
della capacità lavorativa generica, ma anche all’avvenuta lesione permanente
dell’integrità psicofisica del lavoratore in sé e per sé considerata.
Secondo la nuova
disciplina:
• le menomazioni di grado inferiore al 6% non
danno luogo ad alcuna prestazione;
• il danno biologico temporaneo non è
indennizzato dall’INAIL;
• le menomazioni comprese tra il 6% ed il 15%,
danno luogo ad un indennizzo in somma capitale, rapportata al grado della
menomazione;
• le menomazioni
pari o superiori al 16%, danno luogo ad una rendita ripartita in due quote: la
prima quota è determinata in base al grado della menomazione, cioè al danno
biologico subito dall’infortunato, la seconda tiene conto delle conseguenze di
natura patrimoniale della menomazione, presunte iuris et de iure,.
Recita testualmente
l’art. 13 co. 1° d. lgs. n. 38/2000:
“In attesa della
definizione di carattere generale di danno biologico e dei criteri per la
determinazione del relativo risarcimento, il presente articolo definisce, in via
sperimentale, ai fini della tutela dell'assicurazione obbligatoria conto gli
infortuni sul lavoro e le malattie professionali il danno biologico come la
lesione all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale,
della persona. Le prestazioni per il ristoro del danno biologico sono
determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del
danneggiato”.
Con D.M. 12 luglio
2000 è stata emanata una serie di tabelle che prevedono i gradi percentuali di
invalidità corrispondenti a ciascuna singola menomazione; il valore monetario
del punto di invalidità, in base al quale liquidare il danno biologico in forma
di capitale; il valore monetario delle rendite, in base alle quali liquidare il
danno biologico in forma capitale; i coefficenti in base ai quali moltiplicare
il reddito dell’infortunato, per liquidare il danno da ridotta capacità
lavorativa.
Non ignora il
Giudicante che alcune recenti pronunce di merito hanno ritenuto che la nuova
estensione della garanzia assicurativa dell’INANIL introdotta dal d. lgs. n.
38/2000 escluda la possibilità di configurare un danno biologico
"differenziale" suscettibile di risarcimento da parte del datore di
lavoro (Tribunale di Torino, Sezione Lavoro, 16 giugno 2003 n. 3393; Tribunale
di Vicenza, Sezione Lavoro, 3 giugno 2004 n. 82).
Tale tesi comporta una
inammissibile interpretazione abrogatrice dell’art. 10, comma 6° D.P.R. n.
1124/65 che prevede espressamente– sia come una formulazione letterale che
risente dei quattro decenni ormai trascorsi – la configurabilità e la
risarcibilità (a determinate condizioni) di un danno differenziale
nell’ipotesi in cui le prestazioni erogate dall’INAIL non coprano l’intero
danno risarcibile.
In realtà il danno
differenziale può essere inteso in due accezioni.
In senso qualitativo
costituiscono danno differenziale le tipologie di danno non riconducibili alla
copertura assicurativa obbligatoria, quali ad esempio il danno biologico da
invalidità temporanea, il danno morale, i vari tipi di danno esistenziale
ecc...
Con riferimento a tali
tipi di danni non si dubita che perduri la responsabilità del datore di lavoro
per i danni non coperti dall’assicurazione INAIL.
Prima dell’entrata
in vigore dell’art. 13 d. lgs. n. 38/2000 era indirizzo giurisprudenziale
pacifico quello per cui "in caso di operatività dell'assicurazione
obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, l'esonero del datore di lavoro
dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato e la
limitazione dell'azione risarcitoria di quest'ultimo al cosiddetto danno
differenziale nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di
responsabilità di rilievo penale, a norma dell'art. 10 D.P.R. n. 1124 del 1965
e delle inerenti pronunce della Corte costituzionale, riguarda la sfera
dell'ambito della copertura assicurativa, cioè il danno patrimoniale collegato
alla riduzione della capacità lavorativa generica, e invece - in armonia con i
principi ricavabili dalle sentenze della Corte costituzionale n. 356 e 485 del
1991 e con il conseguente nuovo orientamento della giurisprudenza ordinaria sui
limiti della surroga dell'assicuratore - non riguarda il danno alla salute o
biologico e il danno morale di cui all'art. 2059 cod. civ., entrambi di natura
non patrimoniale, al cui integrale risarcimento il lavoratore ha diritto ove
sussistano i presupposti della relativa responsabilità del datore di lavoro"(Cass.,
16 giugno 2001, n. 8182 ex plurimis).
Il danno differenziale
può essere inteso anche in senso quantitativo, correlato essenzialmente alla
minor quantificazione economica del danno da invalidità permanente operata
dalla tabelle INAIL del 2000 rispetto a quella operata dalle tabelle create ed
applicate, in via equitativa, dalla giurisprudenza in materia di responsabilità
civile (per esempio le c.d. tabelle del Tribunale di Milano utilizzate anche da
questo Tribunale).
Ritiene il Giudicante
che, come del resto sostenuto dalla dottrina prevalente, l’indennizzo del
danno biologico, introdotto dalla nuova normativa, non precluda il diritto del
danneggiato al risarcimento del danno biologico differenziale inteso anche in
questa seconda accezione (ovvero in senso quantitativo).
Diversi sono gli
argomenti che militano a favore di questa soluzione.
In primo luogo, deve
rilevarsi che il D. Lvo 23 febbraio 2000, n. 38 è stato emanato in attuazione
dell’art. 55 lett. a) legge 17 maggio 1999, n. 144, che ha delegato il Governo
ad emanare, entro nove mesi dalla data della sua entrata un vigore, uno o più
decreti legislativi al fine di ridefinire taluni aspetti dell’assetto
normativo in materia INAIL, con previsione in particolare “…nell’oggetto
dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali
e nell’ambito di un sistema di indennizzo e di sostegno sociale, di
un’idonea copertura e valutazione indennitaria del danno biologico, con
conseguente adeguamento della tariffa dei premi”.
L’interpretazione
sostenuta dalla convenuta comporterebbe dunque un evidente eccesso di delega,
posto che la legge delega non prevede alcuna riforma o alcun coinvolgimento
dell’ordinario sistema risarcitorio civilistico, ma soltanto l’estensione
dell’ambito dell’assicurazione INAIL al danno biologico, con
l’introduzione di un idoneo indennizzo (e non risarcimento).
Vi è poi un elemento
testuale dato dal fatto che l'art. 13 che qualifica l'emolumento a carico INAIL
come "indennizzo".
Dal punto di vista
della teoria generale del diritto, il termine indennizzo indica un concetto del
tutto distinto da quello del risarcimento, posto che il risarcimento è
commisurato all'esatta misura del danno, mentre l’indennizzo non copre
necessariamente tutte le voci di danno eventualmente scaturite dall'evento.
Inoltre il
risarcimento presuppone necessariamente la sussistenza di un illecito
(contrattuale od extracontrattuale), mentre le prestazioni assicurative erogate
dall’INAIL sono indipendenti dall’esistenza di un illecito civile e sono
garantite a prescindere dalla colpa dell’autore della condotta dannosa (e
quindi anche in presenza del caso fortuito) e a prescindere anche
dall’esistenza di un responsabile diverso dal danneggiato (essendo
riconosciute anche in ipotesi di danno verificatosi per esclusiva colpa del
danneggiato).
Dunque l’indennizzo
INAIL si distingue dal risarcimento anche per l’assenza del presupposto della
colpa, condizione invece necessaria per la risarcibilità del danno biologico
civile.
L’assicurazione
obbligatoria INAIL prevede cioè la corresponsione di un minimum sociale
garantito anche nelle ipotesi in cui non sia ravvisabile colpa di terzi: il
rischio dell’infortunio dovuto a caso fortuito o a colpa dello stesso
lavoratore si sposta così sulla collettività.
Da ultimo deve
rilevarsi che per postumi inferiori al 5% (e dunque non indennizzati
dall’INAIL) nessuno dubita della possibilità del lavoratore danneggiato di
agire nei confronti del datore di lavoro per ottenere il risarcimento pieno del
danno, certamente quantificato secondo gli usuali criteri civilistici.
Del tutto
irragionevole ed ingiustificato sarebbe allora riconoscere la piena risarcibilità
dei danni di minore entità ed invece la risarcibilità soltanto parziale
(ovvero nei limiti dell’indennizzo INAIL) per i danni alla salute di maggior
incidenza.
Più
in generale, ove si ritenesse che la disciplina legislativa del 2000 abbia
inteso vincolare il
Si deve infatti
ritenere che, come affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 87 del
1991,
Dunque se
differenziazioni di tutela possono farsi in relazione al fatto che la
menomazione dell’integrità fisica si sia verificata a causa o in occasione
dello svolgimento di attività lavorativa, tali differenziazioni possono essere
soltanto in melius.
Deve pertanto
concludersi che, come sostenuto in dottrina, l’INAIL non indennizza
integralmente il danno biologico. Per la parte non indennizzata, può ritenersi
che non vi sia prestazione previdenziale: "se non si fa luogo a prestazione
previdenziale, non vi è assicurazione: mancando l’assicurazione cade
l’esonero".
Il lavoratore è
allora legittimato a richiedere quanto non indennizzato dall’INAIL
direttamente al datore di lavoro civilmente responsabile.
La ritenuta differenza
ontologica tra il risarcimento del danno e l’indennizzo INAIL (anche se
relativo al medesimo danno) comporta che non necessariamente debba esservi
omogeneità dei parametri valutativi dell’una e dell’altra categoria: sicché
non vi è ragione per cui il Giudice della responsabilità civile non possa
continuare ad applicare i consueti criteri equitativi di liquidazione del danno
anche in presenza di una fattispecie dannosa comportante l’erogazione di
prestazioni da parte dell’INAIL.
Si aggiunga che, anche
dal punto di vista testuale, l’art. 13 d. lgs. n. 38/2000 introduce una
definizione di danno biologico:
1) “in via
sperimentale”;
2) “in attesa della
definizione di carattere generale di danno biologico e dei criteri per la
determinazione del relativo risarcimento”;
3) “ai fini della
tutela dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni su lavoro”.
Ciò significa che
tale definizione non può essere estesa ad altri campi del diritto e in
particolare a quello civile, per il quale si resta in attesa di una definizione
di carattere generale che fissi i criteri per la determinazione del
risarcimento.
Si aggiunga che, a
distanza di un anno, il legislatore ha introdotto, con l’art. 5 della legge n.
57/2001, una ulteriore - e diversa - disciplina settoriale del danno biologico,
destinata questa volta a valere nell’ambito della responsabilità civile da
circolazione stradale e della connessa assicurazione obbligatoria.
Un danno biologico
pari all’8% patito da un soggetto di anni 50 viene indennizzato dall’INAIL
con un importo capitale di £ 10.920.000, pari a € 5.693,71.
Lo stesso danno
sarebbe stato risarcito in base alle tabelle della L. 57/01 in € 8.742,59,
oltre all’inabilità temporanea.
Dunque, un lavoratore
vittima incolpevole di un incidente stradale “in itinere” dovrebbe
accontentarsi del risarcimento previsto dal d. lgs. n. 38/00, non potendo
ottenere l’integrale indennizzo del proprio danno alla salute nei confronti
dell’assicurazione del responsabile.
Ove poi non si tratti
né di infortunio sul lavoro né di sinistro automobilistico, per il medesimo
danno verrebbe riconosciuto un risarcimento più elevato in base
all’applicazione delle tabelle medico-legali e risarcitorie in uso al
Tribunale.
In realtà l'art. 5, 4°
co. legge n. 57/01, in materia di responsabilità civile da circolazione
stradale, al di là della quantificazione standard - uguale per tutti - del
danno biologico, prevede espressamente la possibilità di ottenere
giudizialmente un “risarcimento ulteriore” sotto il profilo della
personalizzazione e individualizzazione del danno.
La mancata previsione
di tale possibilità nell'art. 13 d. lgs. n. 38/00 trova giustificazione e
razionale inquadramento sistematico nella perdurante possibilità di richiedere
direttamente al datore di lavoro, responsabile civilmente, il risarcimento del
danno differenziale.
Deve dunque
concludersi che il lavoratore è tuttora legittimato a richiedere direttamente
al datore di lavoro civilmente responsabile il risarcimento del danno non
indennizzato dall’INAIL (ovvero del c.d. danno differenziale).
Per il calcolo di tale
danno è stata effettuata CTU contabile, che – con le precisazioni che seguono
- deve intendersi qui integralmente trascritta, in quanto effettuata sulla base
di criteri corretti e condivisibili e non contestata nella sua esattezza
matematica e contabile.
Il calcolo del danno
biologico risarcibile può dunque essere fatto secondo i parametri che seguono,
tenendo conto del fatto che il ricorrente, nato l’8 luglio 1956, al momento
del consolidarsi dei postumi permanenti (22 marzo 2002) aveva 45 anni.
Danno biologico totale
€ 7.333,34 così calcolato:
• danno biologico
per inabilità permanente: € 17.675,44 (come calcolato dal CTU sulla base
delle tabelle del danno biologico del Tribunale di Milano 2003), detratto
indennizzo INAIL € 11.155,47 = € 6.519,97;
• 30 giorni di ITP al 50% (€ 36,15 per ogni
giorno di inabilità assoluta, criterio desunto dall’art. 5 co. 2° lett. b)
legge 5 marzo 2001 n. 57) = € 542,25;
• 30 giorni di ITP al 25% = € 271,12
Danno morale totale
€ 6.705,18, così calcolato:
• danno morale da permanente (da
1/4 a 1/2 del danno biologico): 17.675,44 : 3 = €. 5.891,81;
• danno morale da temporanea €.
813,37.
Venendo quindi alla
richiesta di risarcimento del danno alla professionalità, deve rilevarsi che
“dall'art. 2103 c.c. - norma che sancisce il diritto (contrattuale) del
lavoratore all'effettivo svolgimento della propria prestazione professionale,
con mansioni inerenti alla qualifica attribuita con l'assunzione o
successivamente acquisita, e comunque, in ogni caso, equivalenti alle ultime che
abbia effettivamente svolte - discende che la lesione di tale diritto da parte
del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre
all'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute e di adempimento in forma
specifica, anche l'obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione
professionale. Tale danno (detto anche danno professionale) può assumere
aspetti diversi, potendo consistere sia nel danno patrimoniale derivante
dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e
dalla mancata acquisitone di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio
subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno; sia
in una lesione del diritto del lavoratore all'integrità fisica o, più in
generale, alla salute, ovvero all'immagine o alla vita di relazione. Sotto
l'ultimo degli aspetti considerati, in particolare, viene in considerazione una
specie particolare di danno esistenziale, derivante dalla lesione del diritto
fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel
luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione (cfr., tra le
numerose decisioni Cass. 14199/2001; 15868/2002). Proprio la molteplicità dei
pregiudizi che possono derivare dalla violazione dell'art. 2103 c.c. ad opera
del datore di lavoro, rende indispensabile che il lavoratore specifichi quali di
essi ritenga in concreto di aver subito in concreto e fornisca, sia pure a
livello di semplici indizi (indizi che possono trarsi anche semplicemente dal
complesso delle circostanze del caso concreto, quali la natura, l'entità e la
durata del demansionamento: cfr. Cass. 14443/2000; 13580/2001;10/2002;
15868/2002, cit.), la prova dei danni subiti. Ed infatti, con orientamento
assolutamente prevalente, la Corte afferma che il prestatore di lavoro che
chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella
sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno
biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la
prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione
idonea a determinare una dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la
prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con
l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere
ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale
conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella
sopraindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera
potenzialità lesiva della condotta datoriale, facendo carico al lavoratore che
denunzi il danno subito di fornirne la prova in base alla regola generale
dell'art. 2697 c.c. (Cass. 3686/1996; 1026/1997; 7905/1998; 6992/2002). L'onere
del lavoratore di fornire la prova del danno subito a cagione della
dequalificazione professionale è sicuramente indiscutibile ove domandi la
riparazione di pregiudizi di natura patrimoniale (danno professionale in senso
stretto); ma sussiste anche qualora il pregiudizio sia di natura non
patrimoniale, allorché si deduca la lesione del diritto alla salute (c.d. danno
biologico), ovvero del diritto fondamentale all'identità professionale sul
luogo di lavoro (ed. danno esistenziale). Invero, il principio secondo il quale
il rimedio del risarcimento del danno deve essere concesso anche a tutela dei
diritti non patrimoniali si è consolidato a seguito della sentenza della Corte
costituzionale n. 186 del 1984, recante l'interpretazione in senso
costituzionalmente orientato dell'art. 2043 c.c., norma che tutela anche e
soprattutto i diritti fondamentali della persona, quale il diritto alla salute,
ed impone di risarcire il danno per il fatto stesso della lesione,
indipendentemente dal verificarsi anche di pregiudizi di ordine patrimoniale, in
termini di danno emergente o di lucro cessante. E tuttavia, la stessa Corte
costituzionale ha successivamente chiarito (sentenza n. 372 del 1994) che il
danno biologico non è presunto, siccome identificabile col fatto illecito
lesivo della salute, giacché, se è indiscutibile che la prova della lesione è,
in re ipsa, anche prova dell'esistenza del danno, è pur sempre necessaria la
prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha
prodotto una perdita di tipo analogo a quella indicata dall'art. 1223 c.c.,
costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non
patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere commisurato” (Cass.
4 giugno 2003 n. 8904; Cass., 28 maggio 2004, n. 1031; Cass., 8 novembre 2003,
n. 16792; Cass., 14 maggio 2002, n. 6992; Cass., 11 agosto 1998, n. 7905; Cass.
4 febbraio 1997, n. 1026; Cass., 18 aprile 1996, n. 3686).
E’ peraltro pacifico
in giurisprudenza che la prova del danno può essere raggiunta anche sulla base
di semplici presunzioni.
Nella specie ritiene
il Giudicante che l'ampiezza del periodo per il quale è durata la
dequalificazione professionale, la gravità di tale dequalificazione alla luce
della delicatezza dei compiti in precedenza rientranti nelle mansioni del
ricorrente e poi sottrattigli, nonché da ultimo la reiterazione del
demansionamento in segno di evidente dispregio della professionalità del
ricorrente consentano di presumere non soltanto una potenzialità di danno, ma
l’effettività del danno stesso.
Ritiene il Giudicante
che per la quantificazione di tutte le diverse voci di danno fatte valere dal
ricorrente (oltre al danno biologico e morale già oggetto della quantificazione
di cui sopra) possa farsi utilmente riferimento alla retribuzione percepita dal
ricorrente.
In mancanza di altri
parametri suggeriti dalle parti, la retribuzione costituisce infatti un indice
attendibile di misurazione sia del valore del valore economico sia
dell’apprezzamento sociale della professionalità del ricorrente.
Ritiene il Giudicante
che nella specie l’entità complessiva del danno alla professionalità subito
nel periodo dal 22 ottobre 1999 al 1 marzo 2001 e poi dal 7 gennaio 2002 al 31
maggio 2002, del danno alla immagine e alla dignità professionale, del danno
esistenziale possa essere quantificato in via equitativa in misura pari ad un
terzo della retribuzione.
Non può invece
assumersi come parametro il criterio suggerito dal ricorrente delle differenze
retributive tra il livello professionale rivestito e il livello di illegittima
assegnazione.
Del tutto priva di
fondamento giuridico e fattuale è infatti la tesi per cui l’assegnazione di
mansioni dequalificanti comporterebbe un danno minore della totale privazione di
mansioni (non si vede infatti come si possa pensare che ad esempio un dirigente
che sia adibito in ipotesi a mansioni di segreteria, a compiti di fattorinaggio
e, in casi estremi, ad attività di pulizia possa ritenersi avere subito un
danno minore di un dirigente lasciato semplicemente inattivo, ma per ciò stesso
con la possibilità di dedicarsi nelle ore lavorative, ove ritenuto, alla
lettura, all’approfondimento e all’aggiornamento).
Per la quantificazione
del danno, da effettuarsi necessariamente ai sensi dell'art. 1226 c.c., per il
periodo da ottobre 1999 a marzo 2000 deve farsi riferimento alla retribuzione
mensile di £. 5.063.057, pari a €. 2.614,85, come da busta comunicazione I.
del 3 agosto 1999, prodotta dal ricorrente in allegato ai conteggi depositati in
data 2 aprile 2004 (tale importo corrisponde esattamente alla retribuzione
mensile di £. 3.033.400, indicata nel conteggio I., + 1.644.532 per superminimo
+ 385.125 per scatti di anzianità).
Del tutto
ingiustificatamente, infatti, nei conteggi redatti dall’I. non si tiene conto
del superminimo e degli scatti di anzianità, entrambe voci che risultano
indicative del pregio professionale riconosciuto dall’azienda alle mansioni
svolte dal ricorrente prima del demansionamento.
Da aprile 2000 a
dicembre 2001 la retribuzione globale mensile passa a £. 5.120.087, pari a €
2.644,30, come da busta paga del maggio 2000 (ovvero retribuzione mensile £.
3.090.400, di cui al conteggio I. + 1.644.532 per superminimo + 385.125 per
scatti di anzianità).
Da gennaio 2002 la
retribuzione passa a € 2.699,45 come da busta paga del gennaio 2002 (ovvero
€. 1.645,32, come da conteggio I. + € 849,33 per superminimo + € 204,80
per scatti di anzianità).
Dunque, considerando
il periodo di dequalificazione dal 22 ottobre 1999 al 1 marzo 2001 e dal 7
gennaio 2002 al 31 maggio 2002 si avrà:
• dal 22 ottobre 1999 al 31 marzo 2000: 5 mesi
x €. 2.614,85 x 1/3 = €. 4.358,08;
• dal 1 aprile al 1 marzo 2001: 11 mesi x €.
2.644,30 x 1/3 = €. 9.695,76;
• dal 7 gennaio 2002 al 31 maggio 2002: 5 mesi
x €. 2.699,45 x 1/3 = €. 4.499,08;
• totale € 18.552,92.
La società convenuta
deve pertanto essere condannata a corrispondere al ricorrente, a titolo di
risarcimento del danno professionale conseguente al demansionamento subito dal
ricorrente la somma complessiva di euro 18. 552,92.
Tutti gli importi
risarcitori sin qui indicati debbono intendersi liquidati "nell'attualità"
e dunque comprensivi, in via equitativa, di rivalutazione monetaria ed
interessi, già maturati al momento della liquidazione medesima.
Sulle somme così
calcolate spettano inoltre la rivalutazione monetaria e gli interessi legali sul
capitale annualmente rivalutato dalla data della presente pronuncia al saldo
(Corte Cost., 2 novembre 2000, n. 459 e Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2001, n.
38).
Le spese di lite,
liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Quanto infine alla
richiesta di cancellazione delle espressioni asseritamente offensive contenute
nel ricorso, giò rigettata nel procedimento cautelare, deve confermarsi che,
come già in tale sede argomentato, le affermazioni contestate, relative al c.d.
stanzone degli esuberi di Via C., trovano riscontro in quanto accertato dal
Tribunale di Milano con sentenze 3 aprile 2001 (causa B./ I. S.p.A.) e 29 giugno
2001 (causa V. / S. S.p.A.) in atti.
L’istanza deve
dunque essere rigettata.
P.Q.M.
Il Giudice,
definitivamente pronunciando:
• dichiara la cessazione tra le
parti della materia del contendere in ordine alla richiesta di reintegra del
ricorrente nelle mansioni svolte precedentemente al 7 gennaio 2002;
•
dichiara tenuta e pertanto condanna I. S.p.A., in persona del legale
rappresentante pro tempore, a corrispondere al ricorrente a titolo di
risarcimento del danno conseguente alla dequalificazione professionale subita
nel periodo dal 22 ottobre 1999 al 1 marzo 2001 e dal 7 gennaio 2002 al 31
maggio 2002 la somma complessiva di €. 7.333,34 a titolo di danno biologico,
la somma complessiva di €. 6.705,18 a titolo di danno morale, nonché la somma
complessiva di €. 18.552,92 per tutte le ulteriori voci di danno, il tutto
oltre rivalutazione ed interessi sulle somme annualmente rivalutate dalla data
della presente sentenza al saldo;
• condanna altresì
la convenuta a rifondere al ricorrente le spese di lite che, comprensive della
precedente fase cautelare, liquida in complessivi €. 5.000,00 onorari e €.
1.758,28 per diritti, oltre spese generali, IVA e CPA;
• pone definitivamente a carico della convenuta
le spese di CTU.
Genova, 27 settembre
2004
Il Giudice