Tre sentenze in tema di demansionamento : Trib.
Treviso 13.10.2000, Cass. n. 14443/2000, Cass. n. 9228/2001
I
Tribunale di Treviso, sez. lav.,
13 ottobre 2000, (ud. 4 ottobre 2000) - Giudice Ferretti - Cendron (Avv. Miazzi) c. Comune di Ponzano Veneto
(Avv. Brunello)
Rapporto di lavoro - Revoca di incarico direttivo -
Illegittimità - Aggiramento, tramite soluzione non equivalente, dell'ordine
giudiziale di riassegnazione allo stesso
incarico o a funzione equivalente, ex articolo 2103 c.c. - Illegittimità - Conseguente diritto al risarcimento del
danno alla personalità morale e alla
professionalità, entrambi sussistenti in re ipsa - Spettanza, anche tramite liquidazione equitativa.
La revoca dall'incarico dirigenziale con assegnazione,
nonostante
l'ordine giudiziale, a mansioni di posizione professionale non
equivalente, occasiona per il lavoratore rimosso
sia il diritto al risarcimento del danno - per violazione degli articoli 2 e 41
Costituzione e 2087 c.c. - alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro, la cui lesione si verifica per
il riflesso che la dequalificazione professionale ha, sia nell'ambiente di
lavoro sia all'esterno, sulla dignità
dell'uomo e del lavoratore, sulla aspettativa di carriera, sull'immagine e sulla vita di relazione con riferimento anche
allo status sociale (cosiddetto danno
alla personalità morale), sia il diritto al risarcimento del danno alla
professionalità (tutelata dall'articolo 2103 c.c.) che consiste nel mancato incremento delle conoscenze professionali e
nel mancato utilizzo delle conoscenze
e capacità acquisite, nonché - quando sussistente
- del danno biologico (per lesione anatomo-funzionale del soggetto cioè a dire
dell'integrità dello stato di salute) e del danno morale (ove la condotta lesiva costituisca anche reato).
Entrambe le prime due voci di danno (alla personalità morale
e alla professionalità) sono intrinseche e conseguenziali al demansionamento
secondo "l'id quod plerumque accidit" ed hanno una dimensione
patrimoniale che le rende suscettibili di
risarcimento e di valutazione anche equitativa (cfr Cass. n. 11727/1999).
Svolgimento del
processo - Il geometra Cendron, dipendente del Comune di Ponzano Veneto
come responsabile del settore urbanistico inquadrato nel 7' livello e con
incarico dirigenziale attribuitogli nel luglio dei 1998 ai sensi dell'articolo
51 comma 3 della legge n. 142/1990 e successive modifiche, lamentava che in
data 12 gennaio 1999 il Sindaco di quel comune gli aveva revocato l'incarico
dirigenziale di responsabile del settore urbanistica per due assorte
inadempienze: il deducente era accusato di aver chiesto un parere legale sul
piano regolatore non necessario e di non avere redatto il programma esecutivo
dì intervento adducendo che lo stesso doveva essere redatto da un
progettista. A seguito della revoca
dell'incarico il ricorrente veniva destinato al settore tributi con mansioni
esecutive comportanti un palese declassamento mentre veniva nominato un nuovo
responsabile dell'urbanistica nella persona di altro dipendente comunale di 6°
livello.
L’esponente
chiedeva in via di urgenza al Pretore del lavoro di essere reintegrato nelle
mansioni precedenti allegando la illegittimità del provvedimento di revoca
dell'incarico adottato in assenza dei requisiti previsti dall'articolo 51,
comma 6, della legge n. 142/1990 e comunque per motivi pretestuoso. In esito alla sommaria istruttoria
cautelare, il Pretore di Treviso accertava la illegittimità della revoca
dell'incarico e ordinava al Comune di Ponzano di reintegrare il ricorrente
nelle mansioni precedentemente svolte o in altre equivalenti.
Con l'odierno
ricorso di merito, il geom. Cendron
lamentava anche che il Comune non aveva ottemperato all'ordine del giudice in
quanto lo aveva assegnato quale istruttore direttivo di 7° qualifica funzionale
all'Ufficio ICI dell'area Tributi dopo aver disposto una variazione della
dotazione organica di quel settore: allegava che anche quest'ultimo spostamento
era pretestuoso e adottato al solo fine di trovargli una qualche collocazione
oltre che illegittimo perché tradottosi in un declassamento.
Il Comune, nelle
more della causa di merito, deliberava di spostare nuovamente il ricorrente al
settore urbanistica - fingendo di adeguarsi all'ordine del giudice - ma
contemporaneamente lo esautorava da ogni responsabilità nel settore
dell'edilizia privata, e gli assegnava la responsabilità del settore (creato
con delibera 18 maggio 1999) Urbanistica - Ecologia - Ambiente. Anche tale assegnazione veniva contestata
dall'esponente che chiedeva nuovamente al Giudice in via di urgenza di essere
reintegrato nelle proprie mansioni. Con provvedimento del 16 marzo 2000 veniva
reiterato l'ordine al Comune convenuto di reintegrare il Cendron nelle mansioni
che svolgeva ante 21 gennaio 1999 o in altre equivalenti comportanti incarico
dirigenziale. Il Comune non ottemperava
neppure a tale ordine.
Nel giudizio di
merito il ricorrente chiedeva l'accertamento della illegittimità del
provvedimento di revoca di incarico del 21 gennaio 1999, la conferma dei due
provvedimenti cautelari di reintegra del 26 marzo 1999 e del 16 marzo 2000 ed
inoltre la condanna del Comune convenuto al risarcimento del danno alla dignità
e professionalità del ricorrente da valutarsi in via equitativa in lire
30.000.000. Con le note conclusive autorizzate il ricorrente chiedeva che il
danno subito fosse liquidato nella misura di lire 98.075.682, previa
autorizzazione alla integrazione delle conclusioni.
Si costituiva il
Comune convenuto allegando la caducazione del provvedimento cautelare del 26
marzo 1999 perché il giudizio di merito venne proposto con atto depositato
oltre i termini perentori disposti dal giudice ed eccependo la improcedibilità
della domanda per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di
conciliazione.
Nel merito
sosteneva che il ricorrente non è né è mai stato un dirigente ma solo
incaricato dal Sindaco di svolgere funzioni dirigenziali. Tale differenza comporta che la revoca delle
funzioni è atto discrezionale del Sindaco e non è disciplinata dall'articolo 51
della legge n. 142/1990 sia perché il comma 6 dei citato articolo si riferisce
esclusivamente alla attività dei dirigenti sia perché il conferimento della
funzione dirigenziale a chi non è dirigente è connesso a un concetto di
precarietà e temporaneità dell'incarico sia ancora perché con la modifica
introdotta dal comma 3-bis della
legge n. 191/1998 è stata sottolineata l'ampia libertà di scelta concessa agli
Amministratori nel conferimento delle funzioni paradirigenziali per loro natura
squisitamente fiduciarie. Confermava
che la revoca dell'incarico venne decisa in seguito alla valutazione del
Sindaco in ordine alla mancanza in capo al Cendron delle caratteristiche
necessarie a rivestire incarichi di responsabilità di uffici e precisava che
tale valutazione negativa si basava sulle difficoltà palesate dal Cendron in
relazione al piano di recupero urbano in occasione del quale il ricorrente
aveva mostrato di non sapersi muovere con il necessario spirito di iniziativa e
con la duttilità necessaria.
Chiedeva il
rigetto della domanda osservando, in ordine alla domanda risarcitoria, che il
danno non può essere liquidato in via di equità ma deve essere accertato in
base alle prove fornite dal richiedente.
Escussi i testi
introdotti dalle parti, la causa veniva discussa e decisa come da dispositivo
letto alle parti alla udienza del 4 ottobre 2000.
Motivi della
decisione - Vanno respinte le eccezioni preliminari di parte convenuta in ordine
alla intervenuta caducazione del provvedimento cautelare del 26 marzo 1999 ed
alla improcedibilità della domanda per mancato esperimento del tentativo di
conciliazione. In ordine alla prima
eccezione si rileva che il provvedimento cautelare in oggetto assegnava al
ricorrente termine per l'inizio della causa di merito di trenta giorni
decorrenti dalla comunicazione del provvedimento medesimo avvenuta in data 23
aprile 1999; la presentazione del ricorso ordinario in data 18 maggio 1999 è
dunque perfettamente tempestiva.
Quanto al mancato
esperimento del tentativo di conciliazione il giudicante ritiene che tale
obbligo non sussista nell'ipotesi di giudizio di merito instaurato dopo l'accoglimento
del ricorso cautelare in quanto in tal caso il ricorrente ha l'obbligo di
proporre il ricorso ordinario in un termine - che è perentorio per legge -
molto più breve del termine necessario per l'esperimento della procedura di
conciliazione (nella quale si prevede un'attesa fino a 60 giorni).
Passando al
merito delle questioni qui controverse si deve richiamare, in ordine ai limiti
della revoca degli incarichi dirigenziali attribuiti dal Sindaco ai sensi
dell'articolo 51, comma 3-bis, della
legge n. 142/1990 e successive modifiche
“ai responsabili degli uffici e dei servizi, indipendentemente dalla
loro qualifica funzionale”, quanto già esposto nel provvedimento cautelare.
La revoca
dell'incarico può avvenire esclusivamente per una delle ipotesi previste dal
comma 6 del citato articolo 51 (inosservanza di direttive del sindaco, mancato
raggiungimento degli obiettivi assegnati ai dirigenti, responsabilità grave e
reiterata, altri casi disciplinati dall'articolo 20 decreto legislativo n.
29/1993). Né pare fondata la tesi del
Comune convenuto secondo cui la disciplina dei motivi di revocabilità degli
incarichi dirigenziali di cui al comma 6 sarebbe applicabile solo al personale
con qualifica di dirigente e non anche al responsabile di ufficio incaricato di
funzioni dirigenziali. Per una tale
interpretazione, infatti, non si rinvengono argomenti né letterali né
logico-sistematici dato che il comma 6 dell'articolo 51 fa riferimento
genericamente agli "incarichi dirigenziali" e non alla qualifica del dipendente
che li ha ricevuti. La circostanza il
comma 3-bis dell'articolo 51
(affidamento di incarico dirigenziale a funzionario del comune) sia stato
introdotto successivamente alla stesura del comma 6 (revoca degli incarichi)
non fornisce un elemento interpretativo nel senso voluto dal convenuto in
quanto la modifica va ad integrarsi e deve coordinarsi con le disposizioni
preesistenti non toccate dalla modifica.
Né si condivide la tesi del Comune di Ponzano secondo cui l'attribuzione
di funzioni dirigenziali a personale privo della relativa qualifica evocherebbe
un concetto di precarietà e temporaneità cui si ricollega la più ampia
discrezionalità di revoca. P-
senz'altro vero che l'attribuzione di incarico dirigenziale è temporanea (sia
per il dirigente che per il funzionario cui sia attribuito l'incarico
dirigenziale) perché lo dispone lo stesso comma 6 del citato articolo 51 mentre
non è vero anche che tale incarico sia precario nel senso di revocabile con la
più ampia discrezionalità perché non vi è alcuna traccia legislativa in tal
senso ma, al contrario, la legge - nel disciplinare le ipotesi di revoca
anticipata - mostra di perseguire l'obiettivo esattamente antitetico.
Si tratta a
questo punto di stabilire se la revoca dell'incarico dirigenziale conferito al
geom. Cendron (di responsabile del
settore Urbanistica) sia avvenuta per uno dei motivi consentiti. Il Comune di Ponzano ha sostenuto di avere
deciso la suddetta revoca per due inadempienze/imputazioni addebitate al
ricorrente: l'aver indotto il Comune a richiedere un parere legale non
necessario e il rifiuto del Cendron di redigere il PEI La istruttoria svolta
nella procedura ordinaria nulla ha aggiunto o modificato rispetto agli elementi
raccolti nella fase cautelare sì che - anche sotto questo aspetto - si devono
riportare le valutazioni già operate nel provvedimento cautelare del 26 marzo
1999 in ordine alla assoluta infondatezza del primo addebito e alla
inconsistenza del secondo: secondo il convenuto il Cendron avrebbe rifiutato di
predisporre la documentazione necessaria attinente all'inserimento di costi e
computi metrici delle opere per le quali il Comune aveva intenzione di chiedere
un finanziamento pubblico alla Regione Veneto.
Già in sede cautelare è emerso che era prescritto che il PEI fosse
corredato di tali dati e che essi non esistevano alla data in cui il Cendron fu
rimosso dal suo incarico e neppure successivamente tanto che il suo sostituto
completò il Programma Esecutivo con dati solo presuntivi tratti dai progetti
preliminari (cfr. dichiarazione Bresolin) che, per loro natura, contengono
indicazioni solo approssimative sui costi, sulle caratteristiche volumetriche e
dimensionali delle opere da eseguire (cfr. legge n. 109/1994 come modificata
dalla legge n. 415/1998). Risulta
inoltre che il Cendron si attivò comunque per verificare la possibilità di
presentare il PEI anche privo dei dati richiesti concordando un incontro con
l'Ater al quale egli non potè partecipare perché sollevato dall'incarico
(dichiarazione Bresolin). D'altra parte
il Sindaco ha sostanzialmente riconosciuto in sede di interrogatorio che non
essendo un tecnico non era in grado di valutare la posizione del Cendron dato
che non sapeva di quali dati il ricorrente avesse bisogno e con quali dati sia
poi stato presentato il PEI sì che non si capisce su quali basi egli potesse
ritenere, (all'epoca) che il Cendron “avesse i mezzi e dovesse provvedere in
proprio alla predisposizione del PEI ”.
Tanto più che dalla documentazione allegata dal ricorrente risulta che i
progetti preliminari allegati dal Comune alla richiesta di finanziamento e i
documenti integrativi presentati successivamente contemplassero soluzioni
tecniche diverse per la palestra mentre per l'edilizia privata esistevano solo
progetti parziali e per le opere di urbanizzazione non esisteva alcun progetto.
Dopo avere
illegittimamente revocato l'incarico dirigenziale al geom. Cendron, il Comune di Ponzano lo ha
assegnato al settore Tributi dove non solo già vi era già un responsabile di 7°
qualifica funzionale ma la pianta organica contemplava, oltre alla unica
posizione apicale, due posizioni di 6° qualifica sì che non pareva esservi
spazio per il ricorrente in quanto in possesso della 7° qualifica; con abile mossa il Comune ha
modificato la dotazione della pianta organica del settore tributi aggiungendo
una posizione di 7° livello da assegnare al Cendron come addetto all'Ufficio
Accertamenti Ici (cfr. provvedimento del Segretario comunale del 6 febbraio
1999) prontamente ripristinando la precedente dotazione organica dell'Ufficio
Tributi dopo il nuovo spostamento del Cendron come responsabile del Settore
(anch'esso creato ad hoc) Urbanistica
- Ecologia - Ambiente ottenuto accorpando all'Urbanistica le competenze in
materia di Ecologia e Ambiente e scorporando dall'Urbanistica l'Edilizia
Privata assegnata al geometra Borsato che aveva sostituito il Cendron sin dalla
revoca dell'incarico a costui. Anche su
tale argomento gli elementi probatori sono quelli raccolti nella fase cautelare
in corso di causa e nulla di nuovo è emerso nella fase di merito sì che non
resta che confermare quanto già detto con ordinanza 16 marzo 2000 che, per
completezza del presente provvedimento, di seguito si riporta. Il teste Ferrari
ha riferito come attualmente il settore ecologia debba occuparsi di raccogliere
i dati necessari per la determinazione della tariffa rifiuti (estensione
immobile, nr. componenti nucleo che abita l'immobile) che viene fatta da altro
settore mentre l'altro compito di controllare gli scarichi relativi alle
concessioni edilizie sia praticamente esercitato dal settore edilizia che
rilascia la autorizzazione agli scarichi insieme alla concessione (cfr. anche
teste Baseggio che specifica come sia suo compito programmare l'uscita
dell'addetto al settore igiene). Il
teste Bresolin ha riferito che è compito del Cendron verificare il corretto
smaltimento dei rifiuti negli appositi cassonetti o nel deposito comunale, la
corretta collocazione dei cassonetti lungo il percorso dei mezzi di raccolta,
esaminare le domande di consegna di nuovi cestelli di raccolta rifiuti
presentate dagli utenti, occuparsi delle cave e dell'inquinamento (pur non
avendone la specifica professionalità) misurando la quantità degli scavi una
volta l'anno e con strumenti idonei solo a misurazioni di massima, della
pulizia dei fossi e dei bordi stradali, del taglio degli alberi malati (la cui
valutazione è operata dal corpo forestale).
Per quanto riguarda l'Urbanistica il Cendron segue le varianti al PRG
(disposte in numero di 6 dal 1990 ad oggi) e, attualmente la variante nr. 6 è
già stata trasmessa in Regione sì che il compito del ricorrente è solo di
attesa (cfr. teste Ferrari), rilascia i certificati di destinazione urbanistica
(precedentemente tale incarico era svolto da una impiegata di 60 livello
addetta al settore Urbanistica ed Edilizia (cfr. teste Baseggio) la quale ha
riferito come degli allacciamenti alla pubblica fognatura si occupi il
consorzio che gestisce la fognatura e che rilascia il nulla osta alla
autorizzazione mentre degli allacciamenti all'acquedotto si occupi il settore
lavori pubblici.
Il teste Bresolin
ancora riferisce che il Cendron oggi si occupa di seguire l'Urbanistica nel
senso che deve curare l'aggiornamento delle tavole grafiche relative al PRG (ma
poi il teste Furlanetto riferisce che di tale adeguamento delle piante grafiche
si occupa lui) e che dovrebbe trasferire i dati dal materiale cartaceo in dati
elettronici per la informatizzazione dei PRG: peccato che attualmente il Comune
non possiede i mezzi (programmi) per attuare la informatizzazione del PRG. Il Cendron dovrebbe poi, secondo il teste
Bresolin, occuparsi degli aggiornamenti normativi e regolamentari del PRG ma in
realtà lo stesso Bresolin è stato richiesto dall'assessore all'urbanistica
privata di formulare proposte o suggerimenti di aggiornamento del PRG e di
inviarle ad un professionista esterno, arch.
Furlanetto; questi si occupa anche del PPA che dovrebbe rientrare nelle
competenze dell'ufficio urbanistica.
Le risultanze
istruttorie fanno emergere come al Cendron sia stata assegnata la
responsabilità di una scatola vuota: le principali competenze in materia di
urbanistica sono svolte dal professionista esterno (PPA e varianti a PRG) o non
sono attuali mentre al ricorrente residuano competenze di minor conto quali il
rilascio di certificati di destinazione urbanistica. Per quanto riguarda il settore ecologia e ambiente - pur
concordandosi con il Comune che è un settore che merita espansione e
valorizzazione - tuttavia si deve rilevare come oggi il Comune non sia
evidentemente in grado di dargli quell'impulso che mostra di volergli imprimere
dato che l'organico effettivo dell'ufficio è oggi come ieri di una sola persona
(vedasi delibera 128 del 18 maggio 1999), lo stanziamento in bilancio di somme
destinate a tale settore (al settembre 1999) riguarda praticamente solo somme
già destinate al servizio di raccolta rifiuti.
Panche da segnalare come sia illogica - nell'ottica di espansione del
settore Ecologia e Ambiente - la decisione di assegnarvi come responsabile un
dipendente che non possiede la professionalità specifica necessaria e che lo
stesso regolamento comunale individua (addirittura per l'istruttore ecologo e
cioè per un livello inferiore a quello del responsabile del settore) nel
possesso del diploma di perito chimico, ecologo o industriale. Anche tale circostanza è indice della
strumentalità del provvedimento comunale qui impugnato.
Va infine
rilevato come le attuali mansioni assegnate al ricorrente non possano
considerarsi equivalenti a quelle che egli svolgeva fino al 21 gennaio 1999
anche sotto il profilo delle consistenza del personale gerarchicamente
dipendente dal Cendron: al vecchio Settore Urbanistica ed Edilizia erano e sono
assegnati quattro dipendenti sotto la responsabilità di un dipendente di 6'
livello mentre l'attuale Settore Urbanistica, Ecologia e Ambiente conta una
sola unità (il Cendron di 7° livello) e, in previsione, un altro dipendente part
time; anche questo dato di fatto
è indice della minor importanza dell'incarico assegnato al ricorrente; né può
tacersi il fatto che - contrariamente alle disposizioni del regolamento
comunale sia stata assegnata una esistente posizione apicale (di maggior
importanza di quella assegnata oggi al Cendron) a dipendente di 6' nonostante
la disponibilità di un dipendente in possesso del livello richiesto per la
direzione di un settore.
In conclusione va
accertata la dequalificazione professionale subita dal ricorrente in tutte le
posizioni di lavoro assegnategli dal giorno della revoca dell'incarico di
responsabile del settore Urbanistica ed Edilizia Privata del 21 gennaio 1999
con accoglimento della domanda in ordine alla declaratoria di illegittimità
della revoca dell'incarico dirigenziale del 21 gennaio 1999 e con conferma dei
provvedimenti cautelari del 26 marzo 1999 e 16 marzo 2000.
Resta ora da
esaminare la domanda di risarcimento del danno derivato alla dignità e
professionalità del ricorrente in seguito alla ben nota revoca di incarico del
gennaio 99 e alla successiva assegnazione a mansioni inferiori. Tale comportamento del Comune di Ponzano
Veneto è censurabile in quanto costituisce condotta in violazione dell'articolo
2103 e 2087 c.c. e, conseguentemente, ha natura di inadempimento contrattuale cui
è ricollegabile il diritto del lavoratore al risarcimento dei danni tutti
subiti.
Questi, poi, si
possono individuare in linea teorica nel danno patrimoniale in senso stretto -
ricollegabile al lucro cessante per la eventuale riduzione di retribuzione o il
mancato percepimento di indennità specificamente connesse alla mansione
illegittimamente sottratta dal datore di lavoro, nel danno patrimoniale
connesso alla lesione della personalità del lavoratore, nel danno patrimoniale
connesso alla lesione della professionalità, nel danno biologico inteso come
lesione anatomo-funzionale del soggetto - nel danno morale ove la condotta
costituisca anche reato.
Nella fattispecie
va escluso – per l'incarico dirigenziale del 21 gennaio 1999 o in altre
equivalenti comportanti il conferimento dell'incarico dirigenziale.
Condanna il
Comune convenuto al risarcimento del danno subito dal Cendron nella misura qui
liquidata di lire 50.000.000 oltre interessi legali dalla domanda al saldo.
Le spese di causa,
liquidate in lire 15.000.000 oltre accessori, sono a carico del convenuto.
Cass. sez. lav., 6 novembre 2000, n. 14443 (ud. 13 giugno 2000) - Pres. Trezza - Rel. Mammone
- Valtolina (Avv. Bellotti) c.
L. Manetti & H. Roberts, Società Italo Britannica P.A. (Avv.ti Amenta e
Fanfani)
Rapporto di lavoro - Demansionamento e forzata inattività
del lavoratore - Illegittimità - Immanenza al demansionamento del danno alla
dignità e personalità morale del lavoratore, ex articolo 41 Costituzione,
liquidabile in via equitativa - Pregiudizio di opportunità di progressione in carriera - Risarcibilità dietro
assolvimento di onere probatorio a carico del lavoratore - Risarcimento dei
danno morale da reato d'ingiuria compiuto
dall'azienda - Autonomia del giudice civile nel riscontro – Sussistenza in
linea di principio (non in fattispecie).
Il demansionamento professionale dà luogo ad una pluralità
di pregiudizi, solo in parte incidenti
sulla potenzialità economica del lavoratore.
Non solo viola lo specifico divieto di cui all'articolo 2103 c.c., ma
costituisce offesa alla dignità professionale del prestatore intesa come
esigenza umana di manifestare la
propria utilità nel contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del lavoratore, bene
immateriale per eccellenza) e quindi lesione del diritto fondamentale alla
libera esplicazione della personalità del
lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio conseguente incide sulla vita professionale
e di relazione dell'interessato, con
indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di
valutazione anche equitativa (Cass., 18 ottobre 1999, n. 11727). L'affermazione di un valore superiore della
professionalità, direttamente collegato
ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene
a carattere immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente
affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a
risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le
sentenze 11 agosto 1998, n. 7905; 4
febbraio 1997, n. 1026 e 13 agosto 1991, n. 8835). Va invece dimostrato il concreto pregiudizio qualora si adduca
addizionalmente una lesione della professionalità in senso obiettivo, sciolta
da ogni riferimento alla dignità del lavoratore ed intesa nel senso di perdita
di occasioni concrete di progressione lavorativa.
Ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale
(articolo 2059 c.c.), l'inesistenza di una pronuncia del giudice penale, nei
termini in cui ha efficacia di giudicato nel processo civile a norma degli
articoli 651 e 652 c.p.p., comporta che il
giudice civile possa accertare 'incidenter tantum' l'esistenza del reato - nel
caso di ingiuria, riscontrato insussistente in sede di merito (n.d.r.) - nei suoi elementi obiettivi e soggettivi,
individuando l'autore, procedendo al
relativo accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale (cfr ex multis
Cass.,14 febbraio 2000, n. 1643).
Svolgimento del
processo - Con ricorso al Pretore del lavoro di Firenze, Valtolina Davide
esponeva di essere stato dipendente della società Manetti & Roberts con
qualifica di massimo livello impiegatizio e poi di quadro e di essere stato licenziato
il 14 maggio 1984 e il 23 dicembre 1988 e di aver ottenuto in entrambi i casi
declaratoria di illegittimità del licenziamento con reintegra nel posto di
lavoro. Assumendo di non essere stato
restituito alle mansioni a lui spettanti ed, anzi, di essere stato escluso dal
lavoro per prolungati periodi, l'istante chiedeva la condanna del datore di
lavoro al risarcimento dei danni, di origine contrattuale ed extracontrattuale,
a lui derivati dal comportamento della controparte, con riferimento particolare
al danno morale, al danno professionale ed al danno biologico.
Il Pretore,
riteneva che il datore di lavoro con il suo comportamento avesse
consapevolmente violato il precetto costituzionale che impone all'iniziativa
economica privata di non recare danno alla dignità umana (articolo 41
Costituzione) e l'obbligo di predisporre un ambiente di lavoro idoneo a
tutelare, oltre l'integrità fisica, anche la personalità morale dei
dipendenti. Costituendo tale violazione
illecito contrattuale ed imponendosi il risarcimento del danno arrecato alla
dignità del dipendente, il Pretore liquidava in via equitativa per tale titolo
la somma di lire 37.219.560, rigettando la domanda quanto al danno alla vita
professionale, al danno biologico ed al danno morale.
Avverso questa
sentenza proponevano appello entrambe le parti. Il Valtolina, nella sostanza ribadendo la tesi già esposta in
primo grado, la società Manetti & Roberts sostenendo che in punto di
risarcimento si era formato il giudicato in occasione delle precedenti
pronunzie sui licenziamenti e che il primo giudice era incorso in
ultrapetizione, ravvisando un inadempimento non previsto nell'originaria
domanda.
Il Tribunale, con
sentenza in data 8 aprile 1998, rigettava entrambi i gravami. Rigettava l'appello incidentale, il cui
esame si prospettava logicamente prioritario, rilevando che nei giudizi
precedenti il dipendente aveva inteso chiedere il risarcimento dei soli danni
derivanti dagli indebiti licenziamenti e non quelli derivati successivamente. Il comportamento datoriale, inoltre, aveva
gravemente leso la dignità del dipendente, quale soggetto titolare di una
aspettativa a svolgere la sua prestazione, di modo che la pronunzia aveva
soddisfatto la struttura petitoria della domanda, che era diretta proprio ad
ottenere il risarcimento della lesione di questa aspettativa.
Il Tribunale
rigettava, invece, l'appello principale, ritenendo indimostrato il danno
professionale, insussistente il danno biologico (essendo le affezioni
denunziate - in base alla consulenza tecnica del giudizio di primo grado - non
correlabili al comportamento dell'azienda), giuridicamente non realizzato il
danno morale per la non configurabilità dei delitti astrattamente ravvisati dal
ricorrente nel comportamento del datore (articoli 388, 582 e 594 c.p.). Avverso
questa sentenza propone ricorso il Valtolina, cui risponde la soc. Manetti & Roberts con controri-
corso e ricorso
incidentale illustrati con memoria.
Motivi della
decisione - Preliminarmente i due ricorsi vanno riuniti, onde consentire che
la decisione avvenga in unico contesto.
Il Valtolina
deduce tre motivi di ricorso principale.
Con il primo motivo denunzia carenza di motivazione in punto di
esclusione del danno biologico. Il
Tribunale ricalcherebbe acriticamente le conclusioni del consulente di ufficio,
omettendo di prendere in esame i rilievi del consulente di parte e la complessa
vicenda sanitaria del ricorrente.
Con il secondo
motivo sono denunziate violazione dell'articolo 2103 c.c. e ulteriore carenza
di motivazione in punto di esclusione del danno professionale, non avendo il
giudice di merito individuato i corretti presupposti di questo tipo di
pregiudizio, riducendoli ad un generico diritto all'avanzamento di carriera,
ignorando le aspettative di accrescimento professionale del dipendente.
Con il terzo
motivo sono denunziate la violazione degli articoli 185 e 594 c.p. e
dell'articolo 2059 c.c., nonché carenza di motivazione a proposito
dell'esclusione del risarcimento del danno patrimoniale, deducendosi
l'assunzione di un non corretto concetto giuridico del reato di ingiuria e
l'esclusione del fatto penale legittimante tale tipo di danno.
La società
Manetti & Roberts propone due motivi di ricorso incidentale. Con il primo, denunziando violazione degli
articoli 24 Costituzione, 2697 c.c. e 99 c.p.c., ribadisce la sua tesi della
realizzazione del giudicato in punto di ristoro dei danni, atteso che il
dipendente, nel chiedere il risarcimento nei precedenti giudizi, non aveva
effettuato alcuna riserva di limitare la richiesta ai soli pregiudizi
conseguenti ai licenziamenti, di modo
che, per il carattere unitario
del diritto al risarcimento, dovrebbe ritenersi che egli avesse in quella sede
consumato l'azione relativa.
Con il secondo
motivo, denunziando violazione degli articoli 18 della legge 20 maggio 1970, n.
300 e 1219 c.c., la società Manetti & Roberts contesta la sentenza nella
parte in cui ha ravvisato l'esistenza di un danno alla dignità del lavoratore
ricavabile ex articolo 41 Costituzione, affermando che lo stesso non fosse
stato da controparte dedotto né quale domanda autonoma, né quale ipotesi di
minor gravità riconducibile al danno morale.
In particolare, il Valtolina non avrebbe proposto alcuna domanda per il
danno da inadempienza contrattuale, e, in ogni caso, ove anche la domanda
avesse voluto essere intesa in tal senso, comunque il Tribunale non avrebbe
potuto concedere il risarcimento, per la mancanza di specifica prova del danno
in questione.
In ogni caso un
generico danno da inadempimento avrebbe potuto essere concesso solo in caso di
costituzione in mora del
datore-creditore perché ricevesse la prestazione lavorativa.
Per motivi di
consequenzialità logica debbono essere esaminati preliminarmente i due motivi
di ricorso incidentale.
Come riferito
nella parte espositiva e come pacifico agli atti di causa, le sentenze che
dichiararono illegittimi i licenziamenti che avevano colpito il Valtolina
contenevano entrambe l'ordine di riassunzione e la condanna al risarcimento dei
danni. In particolare sottolinea la
ricorrente incidentale, in occasione della impugnazione del secondo
licenziamento il lavoratore avrebbe proposto una domanda risarcitoria
riferibile non solo al licenziamento in sé considerato, ma anche alle
dequalificazioni ed emarginazioni subite.
Pertanto, non essendosi verificato alcun evento sostanziale
successivamente alla pronunzia del risarcimento sul secondo licenziamento (era
il 1989), il danno oggi dedotto sarebbe stato già risarcito; dal che
deriverebbe che il lavoratore avrebbe integralmente consumato l'azione di
risarcimento danni. Tale tesi è
destituita di fondamento per un unico assorbente ordine di valutazioni. Il risarcimento che viene richiesto in
questa controversia è relativo a comportamenti ascritti al datore in relazione
al rapporto di lavoro nel suo complesso, per un ambito temporale in cui i
licenziamenti costituiscono solamente degli episodi a carattere
sintomatico. Del resto, il rapporto di
lavoro risulta concluso solo nel 1996, tanto che lo stesso datore ammette che i
comportamenti contestati solo "sostanzialmente" possono ritenersi
esauriti al 1989, data della seconda pronunzia di illegittimità del
licenziamento.
Correttamente,
pertanto, il Tribunale ha ritenuto che le richieste di risarcimento formulate
in occasione delle precedenti cause non fossero in grado di soddisfare il
risarcimento dei danni ora richiesto dal Valtolina, i quali si sono realizzati
successivamente alle precedenti sentenze.
Non esistendo,
dunque, il dedotto giudicato sul risarcimento, il primo motivo in esame deve
essere rigettato.
Quantunque la
questione non sia stata fatta oggetto di uno specifico motivo di ricorso
incidentale, a questo punto deve ribadirsi la correttezza della pronunzia del
giudice di merito a proposito dell'eccezione di prescrizione, formulata nelle
due fasi di merito dalla società Manetti & Roberts e reiterata nel presente
giudizio di legittimità limitatamente al risarcimento del danno biologico. Al riguardo il Tribunale, coerentemente con
la generale impostazione sopra riferita, ha ritenuto che la condotta lesiva del
datore si è protratta fino al momento della cessazione del rapporto (avvenuta
nel luglio 1996), di modo che essendo stata la controversia promossa
addirittura antecedentemente a tale cessazione (il ricorso introduttivo è del giugno
1995), ha ritenuto infondata l'eccezione.
Correttamente, quindi, risulta rigettata la richiamata eccezione di
prescrizione.
Parimenti è
infondato il secondo motivo di ricorso incidentale. Si sostiene al riguardo, con un articolato complesso di argomentazioni,
che la violazione della dignità del lavoratore ricavabile ex articolo 41
Costituzione, riscontrata dai giudici di merito, sarebbe un pregiudizio non
dedotto dal ricorrente, che avrebbe, invece, voluto limitare la sua richiesta
alle tre specifiche voci del danno professionale, biologico e morale. Al riguardo il secondo giudice ha ritenuto
che correttamente il primo avesse ravvisato l'esistenza di tale danno in quanto
le istanze proposte dall'attore facevano riferimento a tutti i tipi di
pregiudizio nascenti dal rapporto giuridico corrente tra le parti, nonché ai
vari tipi di illecito civile; nella sostanza ritenendo che la domanda di merito
contenesse anche la voce di danno sopra menzionata.
Tale motivo è in
qualche modo collegato al precedente, in quanto si reclama la violazione
dell'articolo 18, comma 5, dello Statuto, nel presupposto che nella specie
questa sia l'unica norma invocabile a fondamento del risarcimento dei danni
conseguenti al licenziamento. Fermo
restando quanto già esposto all'atto della trattazione del motivo che precede,
questo Collegio rileva che il giudice ha il potere di interpretare e
qualificare la domanda giudiziale.
Nell'esercizio di tale potere deve essere ricercata l'effettiva volontà
delle parti, tenendo conto non solo della manifestazione di volontà
specificamente formulata ed espressa nelle conclusioni, ma anche di quella che
può essere indirettamente o implicitamente desunta dalle deduzioni e dalle
richieste di parte, nel rispetto del principio della corrispondenza tra il
chiesto ed il pronunziato (giurisprudenza costante, cfr. ex multis Cass., 20 aprile 1990, n. 3289 e 29 febbraio 1989, n.
1611).
Il Tribunale di
Firenze, e prima ancora il Pretore, hanno interpretato la domanda, utilizzando,
come canone ermeneutico, la particolare ampiezza delle richieste del Valtolina
(che chiedeva "il risarcimento dei danni, contrattuale e non contrattuale,
patrimoniali e non, causati dal comportamento della ... società", cfr. la
sentenza in data 23 aprile 1997 del Pretore), ritenendo, nella sostanza, che le
voci specificamente menzionate fossero solo delle esemplificazioni dei danni
ravvisabili. Tale risultato
interpretativo, che non solo è coerente con il principio di diritto sopra
enunciato ma è anche improntato da ragionevolezza e coerenza logica,
costituisce apprezzamento di merito, che, in quanto congruamente motivato, non
è censurabile in sede di legittimità.
Deve, pertanto, ritenersi che il risarcimento del danno riscontrato
costituisse richiesta proposta dall'attore e che i giudici di merito,
assegnando ad essa autonoma dimensione (non ricompresa, quindi, nella richiesta
di danno morale, come ritenuto - sia pure all'unico scopo dì contestare la
correttezza giuridica dell'affermazione - dal ricorrente incidentale) non siano
incorsi nel dedotto vizio di ultrapetizione.
Per completezza
vanno disattesi due ulteriori aspetti dedotti con il motivo in esame.
Innanzitutto è
destituita di fondamento la tesi che il danno da inadempimento avrebbe potuto essere
ravvisato solo ove il datore fosse stato costituito in mora con una esplicita
richiesta di consentire lo svolgimento della prestazione secondo precise
modalità. Nella ricostruzione
effettuata nel giudizio di merito l'illecito contrattuale è costituito
dall'inesatta ricostituzione del rapporto per la reiterata inottemperanza
all'ordine di reintegra: si verte, dunque, in una situazione in cui non è il
lavoratore che deve offrire la sua prestazione, ma è il datore che deve
procedere alla riattivazione del rapporto.
La responsabilità del datore nasce, pertanto, a seguito del suo non
corretto adempimento, che prescinde
totalmente dall'iniziativa della controparte.
Quanto alla
quantificazione economica del danno, la ricorrente incidentale contesta il quantum liquidato del giudice sostenendo
che non sarebbe stata fornita prova della dimensione patrimoniale del danno
patito. Tale censura, tuttavia, non
tiene conto dell'esatto tenore della pronunzia impugnata, ove si accerta
l'esistenza del danno e la sua valutabilità sul piano patrimoniale (per la sua
attinenza agli interessi personali del lavoratore) e si procede, in un momento
logicamente posteriore, alla sua liquidazione con criterio equitativo, basato
su un parametro di cui non si contesta la correttezza. Sussistono, dunque, gli elementi necessari
per procedere ad una quantificazione a carattere equitativo, in quanto del
danno sono state accertate l'esistenza e la rilevanza patrimoniale, ed il
ricorso al parametro equitativo è effettuato solo per la mancanza di un
riferimento immediatamente valutabile sul piano monetario.
Passando al
ricorso principale, con i tre motivi ivi proposti viene lamentato il rigetto
della domanda in relazione alle tre specifiche voci del danno biologico
(primo), del danno professionale (secondo) e del danno morale (terzo).
Tali motivi sono tutti e tre
infondati. Con il primo motivo si
censura la motivazione per una erronea valutazione delle condizioni
psicofisiche del Valtolina. Al riguardo
il Tribunale ha rilevato, sulla base della consulenza tecnica esperita in primo
grado, che non esiste nesso di causalità tra le affezioni accertate ed il
comportamento datoriale, procedendo ad un attento esame dell'incidenza dei dati
caratterizzanti la personalità dell'attore sulla complessiva situazione creata
dall'inadempienza datoriale. Nel
compiere tale esame, il giudice, pur non menzionando gli esiti delle consulenze
di parte, tiene nella dovuta considerazione la tesi prospettata in giudizio a
proposito dell'infermità denunziata, in particolare riferendosi alla tesi
dell'attore (nella motivazione si precisa che "... alcuni dei tratti
salienti della personalità dell'appellante sono stati adeguatamente ed
esaustivamente posti in luce proprio dall'indagine peritale contestata dal lavoratore").
Essendo tale
percorso della motivazione logicamente e congruamente motivato, il motivo di
ricorso in esame richiede, dunque, alla Corte di entrare nel merito
dell'accertamento e di formulare un giudizio di fatto, inammissibile in sede di
legittimità. Parimenti infondato è il
secondo motivo, inerente la pretesa erronea considerazione del cosiddetto danno
professionale. Il Tribunale, tenuto
conto del risarcimento già riconosciuto per la violazione del bene costituito
dalla dignità del lavoratore, ha enunciato un concetto di lesione della
professionalità di carattere obiettivo, ovvero "scevro da ogni riflesso
soggettivo sulla dignità del lavoratore", che si attagliasse alla
dimensione strettamente inerente la perdita economica causata dal comportamento
datoriale censurato. In altre parole,
il giudice, riscontrato l'avvenuto risarcimento del danno costituito dalla
offesa alla dignità professionale intesa come esigenza umana di manifestare la
propria utilità nel contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla
dignità del lavoratore), bene immateriale per eccellenza, ha inteso riscontrare
anche l'eventuale danno materiale derivatone in termini concreti, per la
perdita eventuale di migliori occasioni di collocazione lavorativa.
Tale statuizione è
conforme alla ricostruzione del danno alla professionalità data dalla
giurisprudenza di questa Corte nella sua più recente evoluzione. La Corte, infatti, ha rilevato che in
demansionamento professionale dà luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in
parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore. Infatti, il demansionamento non solo viola
lo specifico divieto di cui all'articolo 2103 c.c., ma costituisce lesione del
diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore
nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio conseguente incide
sulla vita professionale e di relazione dell'interessato con indubbia
dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di
valutazione anche equitativa (Cass., 18 ottobre 1999, n. 11727). L’affermazione di un valore superiore della
professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del
lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in
qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che la mortificazione
della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove
venisse fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale
(cfr. le sentenze 11 agosto 1998 n. 7905, 4 febbraio 1997, n. 1026, 18 aprile
1996, n. 3686 e 13 agosto 1991, n. 8835).
Il Tribunale ha
ritenuto che la lesione del diritto fondamentale cui dà luogo il pregiudizio
professionale, nella specie abbia trovato risarcimento nella riparazione in via
equitativa concessa con l'attribuzione di un importo pari alla metà del
trattamento di fine rapporto. Ha
ritenuto, invece, il giudice di merito che, per quanto riguarda la lesione
della professionalità in senso obiettivo, sciolta (come rilevato in precedenza)
da ogni riferimento al riflesso sulla dignità del lavoratore ed intesa nel
senso di perdita di occasioni concrete di progressione lavorativa, sia mancata
la dimostrazione di un concreto pregiudizio.
Non è, dunque,
corretta l'affermazione della ricorrente principale che il giudice del merito
avrebbe considerato il danno alla professionalità esclusivamente sotto il
profilo del generico diritto all'avanzamento di carriera, in quanto è stato
considerata la lesione alla dignità personale e ne è stato riscontrato l'avvenuto
risarcimento, mentre è stata rigettata per mancanza di prova la domanda in
punto di risarcimento dei pregiudizi intervenuti sul piano concreto. Ove si accedesse, dunque, alla tesi
sostenuta dal ricorrente principale con il motivo in esame, si violerebbe il
criterio distributivo adottato dal giudice di merito, secondo cui il danno al
diritto fondamentale (id est, danno
alla dignità secondo la ricostruzione del Tribunale) ha trovato già
risarcimento e si discute solo delle implicazioni afferenti il lucro cessante
(se non il danno emergente) conseguenti al demansionamento. Si perverrebbe, anzi, ad una inammissibile
duplicazione di risarcimento che, invece, il giudice di merito con la sua
pronunzia ha voluto evitare. E infine,
infondato anche l'ultimo motivo del ricorso principale attinente l'erroneità
del concetto di ingiuria posto a base del diniego del risarcimento del danno
morale.
Al riguardo, la
giurisprudenza della Corte è consolidata nel ritenere che, ai fini del
risarcimento del danno non patrimoniale (articolo 2059), l'inesistenza di una
pronunzia del giudice penale, nei termini in cui ha efficacia di giudicato nel
processo civile a norma degli articoli 651 e 652 c.p.p., comporta che il
giudice civile possa accertare incidenter tantum l'esistenza del reato,
nel suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuandone l'autore, procedendo
al relativo accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale (cfr. ex multis Cass., 14 febbraio 2000, n.
1643). A questo compito, nel caso che
ci occupa, il giudice di merito non si è sottratto, evidenziando con estrema
chiarezza quali fossero i fatti rilevanti ai fini dell'accertamento della
responsabilità penale ed escludendo che nei fatti materialmente acclarati
potessero riscontrarsi le fattispecie degli articoli 388, 582 e 594 c.p. La
impugnata pronunzia, di quest'ultima fattispecie di reato (ingiuria, sulla cui
definizione si accentra il mezzo in esame), ha fornito una esaustiva nozione,
secondo cui "l'offesa all'onore sorge quando, con dolo generico, viene
leso o messo in pericolo mediante azioni (in casi particolarissimi e limitati,
con omissioni) il sentimento che l'individuo ha del proprio valore sociale,
ossia quell'insieme di qualità che gli consentono la piena rispettabilità ...
nell'ambiente sociale in cui vive".
A questa puntuale ricostruzione, pienamente condivisa dal Collegio,
parte ricorrente oppone solo generiche doglianze (attinenti ovvie
considerazioni in tema di dolo generico), senza individuare quale sia l'errore
di diritto per il quale si sarebbe integrato il denunziato vizio di
legittimità. In particolare, non
evidenzia in quale parte il concetto espresso dal giudice di merito non
concordi con la fattispecie incriminante descritta dal codice penale.
Pertanto, anche
il terzo motivo del ricorso principale deve essere rigettato. In conclusione, l'impugnata pronunzia
resiste ai mezzi di impugnazione proposti dalle parti, di modo che debbono
essere rigettati sia il ricorso principale che quello incidentale.
Le spese del
giudizio di legittimità vanno compensate tra le parti.
III
Cass. sez. lav., 7 luglio 2001, n. 9228 (udienza 6 marzo 2001) Pres. Annunziata –
Rel. Vigolo - RAI (Avv. D’Angelantonio)
c. Martorano E., Martorano Enrica, Martorano M. e Martorano L. (Avv. D’Amati) .
Dequalificazione
professionale di un giornalista - A
causa di inattività (per circa 10 anni) dopo trasferimento ad altra sede –
Automaticità dell’immiserimento della professionalità per mancato esercizio in
concreto della professione, desumibile da considerazioni di comune esperienza –
Diritto al risarcimento del danno da demansionamento - Addizionale danno da comportamento
ingiurioso datoriale per violazione dell’art. 2087 c.c. - Insussistenza e ricomprensione nel danno da
demansionamento in senso lato (inglobante la lesione all’immagine e alla
reputazione professionale).
Non è né arbitraria né illogica,
in quanto basata su dati di comune esperienza, l’opinione del Tribunale che ha
ritenuto sussistente il danno da demansionamento di un giornalista (lasciato
pressoché inattivo per 10 anni) sulla base della considerazione che la
professionalità si autoalimenta nell’esercizio costante della professione e
nell’aggiornamento insito nella stessa,
così implicitamente affermando che, nel caso di mancato esercizio, le capacità
professionali ineluttabilmente si immiseriscono, con un danno certo anche se
determinabile in via equitativa. Neppure appare privo di concretezza il ricorso
in via parametrica alla (metà della) retribuzione per la determinazione in
termini quantitativi del danno, posto che, indubbiamente, non può negarsi che
elemento di massimo rilievo nella determinazione della retribuzione è il
contenuto professionale delle mansioni sicché essa costituisce, in linea di
massima, espressione (per qualità e quantità, ai sensi dell’art. 36 della
Costituzione) anche del contenuto professionale della prestazione, nel caso in
esame, concretamente non accettata dall’azienda (e tuttavia egualmente
retribuita come se fosse stata eseguita). Se, dunque, il demansionamento non cagionò danno sul piano
retributivo, l’entità della retribuzione ben poteva essere assunta, nell’ambito
di una valutazione necessariamente equitativa, a parametro del danno da
impoverimento professionale derivato dall’annientamento delle prestazioni
proprie della qualifica.
Dalla violazione
dell’art. 2087 c.c. (ricorrente in fattispecie) – che impone al datore di
lavoro di tutelare la personalità morale del lavoratore – non deriva
necessariamente la configurabilità di un’ingiuria (in conseguenza di
emarginazione, perdita d’immagine, scadimento della reputazione, ecc.) e cioè
un danno diverso dalla lesione della professionalità che già ingloba il
pregiudizio all’immagine, risarcibile mediante riconoscimento del danno da
demansionamento in senso ampio.
Svolgimento del
Processo. – Con sentenza in data 10 febbraio / 9 marzo 1977, passata in
giudicato, il Pretore – giudice del lavoro di Potenza dichiarava il diritto del
sig. Rosario Martorano, giornalista dipendente della RAI-Radiotelevisione
Italiana s.p.a., a svolgere mansioni corrispondenti alla qualifica di capo
servizio e ordinava alla RAI di adibirlo in concreto in tali mansioni.
Con ulteriore
sentenza in data 20 marzo / 10 aprile 1987, pure passata in giudicato, lo
stesso Pretore condannava la RAI a risarcire alle eredi del lavoratore,
frattanto deceduto, il danno allo stesso derivato dalla sua illegittima
esclusione dall’attività lavorativa, in misura da determinarsi in separato
giudizio; veniva precisato in motivazione che i danni in questione coprivano
anche le conseguenze, in termini di mancata acquisizione di professionalità,
relative alla perdita della possibilità di progressione ulteriore nelle
qualifiche per promozione; peraltro, il Pretore ha disatteso la domanda volta
al riconoscimento della qualifica superiore ed alle connesse conseguenze
retributive e risarcitorie, avendo considerato che la promozione non sarebbe
stata automatica e non sarebbe dipesa dalla sola anzianità di servizio e dallo
svolgimento di mansioni di capo servizio per un periodo determinato, ma sarebbe
dipesa esclusivamente da una valutazione discrezionale del datore di lavoro,
corrispondente all’importanza delle mansioni. Pertanto, al di là di generiche
presunzioni, non poteva ritenersi provato che il Martorano, se avesse potuto
esercitare per un congruo periodo le mansioni di capo servizio, avrebbe
successivamente ottenuto la promozione alla qualifica superiore.
Con atto
depositato l’11 agosto 1988, le eredi del lavoratore, Emilia Martorano Livia Martorano, Enrica Martorano e Pia
Settimia Martorano ricorrevano al Pretore – giudice del lavoro di Roma
chiedendo la condanna della RAI al
risarcimento del danno, da liquidarsi equitativamente nell’importo di L.
119.138.000, sofferto dal loro dante causa per l’inattività e la dequalificazione
professionale, nonché l’ulteriore somma di L. 150.000.000 per le lesioni alla
personalità, per il pregiudizio alla salute e per la perdita di possibilità di
avanzamento in carriera.
In contumacia
della RAI, il Pretore, con sentenza in data 28 marzo /22 agosto 1992,
attribuiva il risarcimento per il solo danno da privazione delle mansioni
determinandolo in L. 59.569.000, con riferimento alla retribuzione mensile
lorda e rigettava ogni altra domanda.
Hanno proposto
appello, in via principale, la RAI e, in via incidentale, le eredi Martorano;
il Tribunale di Roma, con sentenza in data 22 ottobre 1997/23 aprile 1998, ha
rigettato entrambe le impugnazioni ed ha compensato le spese.
Quanto al danno
da privazione illegittima delle mansioni, derivato cioè dal fatto, accertato
dal Pretore di Potenza, che il Martorano era stato lasciato in totale
inattività per dieci anni, dal 1972 al 1982, danno comprensivo secondo la
decisione di quel giudice del pregiudizio da mancata acquisizione di
professionalità e da perdita di possibilità di progressione in carriera, il
Tribunale ha ritenuto di non dover distinguere, come aveva fatto il Pretore, il
danno da illegittima privazione delle mansioni – in sé considerata come
menomazione di un bene suscettibile di valutazione autonoma, l’attività
lavorativa – e il danno alla professionalità vera e propria. La privazione
delle mansioni integra il comportamento illegittimo del datore di lavoro, non
suscettibile di autonoma risarcibilità, se non abbia prodotto la menomazione
della professionalità del dipendente, oltre eventualmente ad una serie di danni
ulteriori, alla carriera, alla salute etc. Tale danno risultava provato in
concreto dalla circostanza che il Martorano, già giornalista, era stato
inquadrato come caposervizio sin dal luglio 1972 con mansioni, oltre che di
giornalista, di coordinamento e controllo di altri giornalisti sottordinati. La
professionalità del giornalista necessita di attività e aggiornamento continui
talchè l’inattività comporta diminuzione del patrimonio e delle capacità
professionali.
Il danno da
dequalificazione era stato correttamente determinato dal primo dal primo
giudice in via equitativa secondo il parametro della retribuzione; peraltro,
considerato che il lavoratore aveva continuato a percepire lo stipendio
corrispondente alla qualifica, era conforme a giustizia ravvisare il danno in
misura pari alla sola metà del totale delle retribuzioni, così pervenendosi,
seppure su presupposti diversi, ad una liquidazione corrispondente a quella determinata
dal Pretore e, trattandosi di un criterio parametrico, erano ingiustificate le
censure della RAI in ordine ai conteggi e alle voci stipendiali considerate.
Le altre domande
risarcitorie erano sfornite di prova; comunque, le ricorrenti erano decadute
dalla possibilità di provarle non avendo insistito nelle relative istanze.
In ogni caso i
capitoli di prova erano inammissibili perché ininfluenti, particolarmente in
punto di comportamento ingiurioso della RAI, di danno biologico e alla salute
(sarebbero stati dedotti capitoli generici e comportanti giudizi da parte dei
testi o concernenti circostanze già documentalmente risultanti); la richiesta
consulenza medico-legale non poteva essere ammessa a fini probatori.
Quanto alle
eventuali possibilità di carriera, le prove dedotte attenevano soltanto allo
sviluppo della carriera conseguito da altri giornalisti.
Per la cassazione
di questa sentenza ha proposto ricorso principale la RAI con due motivi.
Hanno resistito
con controricorso Emilia, Enrica e Margherita Martorano, quali eredi di Rosario
e Livia Martorano (deceduta nel corso del processo); hanno preliminarmente
domandato che fosse odinata la cancellazione delle espressione contenute nella
parte in fatto del ricorso perché lesive della memoria di Rosaio Martorano e
del diritto alla riservatezza e perché non rilevanti; hanno proposto
contestualmente ricorso incidentale affidato a quattro motivi.
Per resistere a quest’ultima
impugnazione la RAI ha depositato controricorso contenente anche ricorso
incidentale condizionato contro le eredi Martorano, affidato a cinque motivi.
Tutte le parti
hanno depositato memorie illustrative.
Motivi della
decisione. – Deve essere, anzitutto, respinta la richiesta di cancellazione
di frasi o espressioni contenute nel ricorso principale, sia per la genericità
della loro indicazione da parte dell’istante, sia perché non è dato rinvenire
nell’atto espressioni o apprezzamenti sconvenienti od offensivi o che non
siano, comunque, funzionali al più ampio diritto di difesa della RAI (v. Cass.
4 agosto 1999, n. 8411; 9 febbraio 1998, n, 1326).
Va, poi,
dichiarato inammissibile il ricorso incidentale condizionato proposto dalla RAI
nei confronti delle ricorrenti incidentali, eredi Martorano. La società,
infatti, con la proposizione del ricorso principale aveva consumato il proprio
diritto di impugnazione e pertanto non avrebbe potuto muovere successivamente
ulteriori censure avverso la sentenza di appello (Cass. 23 settembre 1998, n.
9500; 11 ottobre 1999, n. 10153; 1° dicembre 1999, n. 13358; 2 dicembre 2000,
n. 15407).
Col primo motivo
del ricorso principale la RAI denuncia violazione e falsa applicazione
dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. – Omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della
controversia, in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c. per avere il Tribunale
ritenuto la sussistenza di un danno patrimoniale da privazione di ogni
mansione, indipendentemente da qualsiasi elemento di prova, e
(contraddicendosi) pur avendo ritenuto la necessità della prova medesima.
Aggiungeva che, essendo il Martorano deceduto prematuramente e senza che avesse
svolto attività al di fuori della RAI, il presunto impoverimento professionale
sarebbe stato improduttivo di danni in concreto.
Il motivo è infondato.
Come risulta
dall’esposizione che precede, il giudice di appello ha ravvisato in concreto la
sussistenza di conseguenze dannose, derivate dalla privazione delle mansioni,
nella circostanza che il Martorano, già giornalista, era stato inquadrato sin
dal luglio del 1972 nella qualifica di caposervizio la quale comprendeva, oltre
alle funzioni proprie del giornalista, anche quelle di coordinamento e
controllo di altri sottordinati e di tali mansioni era stato privato col
trasferimento a Potenza; il Tribunale ha posto altresì in rilievo come la
professionalità del giornalista si autoalimenti nell’esercizio costante della
professione e nell’aggiornamento insito nella stessa, così implicitamente
affermando che, nel caso di mancato esercizio, le capacità professionali del
giornalista ineluttabilmente si immiseriscono, con un danno certo anche se
determinabile necessariamente solo in via equitativa.
La Corte non
ritiene censurabile siffatto accertamento
di merito, basato su dati di comune esperienza e pertanto non arbitrario
né illogico, così come non appare privo di concretezza il ricorso in via
parametrica alla (metà della) retribuzione per la determinazione in termini
quantitativi del danno, posto che, indubbiamente, non può negarsi che elemento
di massimo rilievo nella determinazione della retribuzione è il contenuto
professionale delle mansioni sicchè essa costituisce, in linea di massima,
espressione (per qualità e quantità, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione)
anche del contenuto professionale della prestazione, nel caso in esame,
concretamente non accettata dalla RAI (e tuttavia egualmente retribuita come se
fosse stata eseguita). Se, dunque, il
demansionamento non cagionò danno sul piano retributivo, l’entità della
retribuzione ben poteva essere assunta, nell’ambito di una valutazione
necessariamente equitativa, a parametro del danno da impoverimento
professionale derivato dall’annientamento delle prestazioni proprie della
qualifica. Tale danno si era maturato (ed è stato determinato dal giudice di
merito in via equitativa-parametrica) per tutto il periodo successivo al
trasferimento a Potenza, onde non appare condivisibile la critica secondo cui,
essendo venuto a morte il lavoratore, non vi sarebbe stata una proiezione del
danno nel futuro.
Col secondo
motivo di impugnazione, la RAI lamenta, in via subordinata, violazione e falsa
applicazione degli articoli 2697 e 2909 c.c. e 278 c.p.c. in relazione all’art.
360, n. 3 c.p.c. – Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa
punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c.
dolendosi della liquidazione del danno senza che il Tribunale avesse
considerato che alla sua determinazione anche il lavoratore aveva contribuito
in quanto la destinazione all’attività di relazioni pubbliche era stata da lui
sollecitata e comunque consentita, come risulta dalla sentenza 10 febbraio 1977
del Pretore di Potenza e dai documenti prodotti: la circostanza non gli aveva
impedito di impugnare il provvedimento, ma non gli avrebbe consentito di
chiedere il risarcimento dei danni, quanto meno sino all’impugnativa del
provvedimento medesimo (1996): risarcimento che, in ogni caso, avrebbe dovuto
essere adeguatamente ridotto. Trattandosi di questione attinente al quantum
debeatur essa non era preclusa dalla sentenza del Pretore di condanna
generica e ben poteva essere dedotta nel giudizio di liquidazione.
La censura è
infondata.
Con la sentenza
10 febbraio 1977, passata in giudicato, il Pretore di Potenza ha, infatti,
accertato che il Martorano avrebbe potuto essere adibito all’attività di
caposervizio anche nella redazione di quella città, tanto che lo stesso giudice
ebbe a dichiarare il diritto del lavoratore a svolgere dette mansioni; pertanto,
la prospettazione della RAI, secondo cui la mancata adibizione ad esse del
Martorano sarebbe dipesa da una sua richiesta o quanto meno dal suo consenso,
attiene a fatti che per essere determinanti ai fini del concorso nella
produzione dell’evento dannoso e della riduzione del risarcimento, avrebbero
dovuto essere pienamente spontanei; mentre la spontaneità della
accettazione di un demansionamento non
necessitato in concreto (al di là di eventuali prospettazioni della RAI al
dipendente) non trova alcun decisivo riscontro nei fatti accertati nei giudizi
di merito, fatti dei quali il Tribunale, secondo le critiche della ricorrente,
avrebbe dovuto tenere conto.
Con ulteriore
doglianza, la RAI deduce che il Tribunale non aveva tenuto conto, omettendo del
tutto di motivare, dei periodi nei quali il lavoratore, non presente per varie
ragioni in servizio (settimana corte, ferie, festività, permessi etc.) non
avrebbe potuto risentire danni..
La censura non
può essere condivisa in quanto il danno, che si concretava nella perdita di
professionalità determinata protrarsi dell’inattività nelle mansioni proprie
del lavoratore per tutto il periodo successivo al trasferimento a Potenza,
nella valutazione equitativa complessivamente adottata dal giudice di merito in
ragione della retribuzione, sfuggiva ad una determinazione in base ai giorni di
effettiva prestazione dell’attività lavorativa, sì che dovessero sottrarsi i
giorni nei quali non vi era stata prestazione (e vi era stata, tuttavia, la
retribuzione presa a parametro del danno).
Inoltre, secondo
la ricorrente, il Tribunale avrebbe errato (e comunque non aveva motivato) nel
prendere a riferimento per la determinazione del danno in via equitativa le
retribuzioni e cioè un dato del tutto scollegato dal pregiudizio.
L’infondatezza di
questa censura risulta da quanto già argomentato circa la parametrazione del
danno trattando del primo motivo del ricorso principale.
Infine, secondo
la RAI, lo stesso giudice sarebbe incorso in errore e si sarebbe contraddetto
nel prendere a riferimento la metà della retribuzione e nel determinare tale
metà in L. 59.569.000, quando da conteggio analitico prodotto risultava che la
somma sarebbe stata minore. Né sarebbe valsa a sanare l’incongruenza la
precisazione che si trattava di un riferimento meramente parametrico.
La censura è
inammissibile per la sua assoluta genericità e in particolare per il
riferimento ad un conteggio analitico non riprodotto nel ricorso, di talchè al
giudice di legittimità non è consentito di risalire all’errore (se logico o di
calcolo non è precisato) denunciato dalla ricorrente principale.
Passando
all’esame del ricorso incidentale, col primo motivo, le eredi Martorano,
deducendo violazione e falsa applicazione di norme di legge : artt: 2697, 2087,
1218 c.c. , art. 61, 424, 414, 420, 421, c.p.c.. Omessa, insufficiente,
contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia (art.
360, nn. 3 e 5 c.p.c.) si dolgono della reiezione della domanda relativa al
danno biologico da emarginazione, quando da una visita medica presso l’ENPI,
sollecitata dalla stessa RAI nel settembre 1981, era risultato che il Martorano
soffriva di uno stato d’ansia con spunti protestati da disadattamento
ambientale. Illegittimamente, inoltre, il Tribunale non aveva ammesso le prove
ritualmente a tale riguardo proposte con l’atto introduttivo (senza che vi
fosse necessità di riproporle all’udienza di discussione e comunque erano state
di nuovo richieste con note autorizzate del 29 gennaio 1991); esse erano,
inoltre, pertinenti siccome tendenti a ricollegare la malattia alle vicende
lavorative e il sanitario che aveva redatto l’accertamento ENPI avrebbe dovuto
limitarsi a riferire un fatto storico sia pure con le necessarie
puntualizzazioni che il giudice avrebbe potuto richiedere in relazione alla
certificazione già acquisita agli atti. In ogni caso lo stesso certificato
costituiva prova del nesso causale tra la situazione ambientale lavorativa e lo
stato ansioso depressivo indotto nel giornalista.
La consulenza
tecnica, in quanto verifica, mirava appunto alla determinazione di un fatto e
comunque, secondo giurisprudenza costante, essa ben avrebbe potuto assolvere
anche a finalità probatorie.
Il motivo è
infondato.
Il certificato
del sanitario dell’ENPI, per la parte trascritta nel ricorso, non avrebbe
potuto, sotto il profilo logico e giuridico, essere considerato prova di uno
stato d’ansia riconducibile alle vicissitudini lavorative: se lo stesso medico
avvertì la necessità di precisare che lo stato ansioso era stato riferito (protestato)
dal lavoratore a disadattamento ambientale, era logico ritenere che nulla di
più di quanto riferito dal Martorano il sanitario avrebbe potuto affermare
sull’origine causale della patologia; pertanto, quel certificato non avrebbe
potuto rappresentare neppure un significativo spunto che imponesse (siccome
potenzialmente fruttuose) ulteriori indagini di ufficio del giudice di merito,
né un punto di partenza per indagini peritali (oltretutto dopo il decesso del
preteso danneggiato).
La Corte ritiene,
inoltre, del tutto corretto il giudizio di inammissibilità della prova dedotta
dalle eredi Martorano sul capitolo secondo il quale lo stato di emarginazione
ed esclusione all’attività lavorativa, la mancata considerazione da parte della
RAI delle sue istanze, la preclusione di qualsiasi prospettiva di un normale
sviluppo di carriera, causavano al dott. Martorano uno stato di grave stress,
ansia e depressione.
E’ del tutto
evidente, infatti, che con siffatto capitolo si sarebbe teso a fare esprimere
ai testi giudizi circa le condizioni ambientali di lavoro del giornalista e
soprattutto giudizi di carattere diagnostico ed eziologico su una condizione
patologica non altrimenti accertata, e cioè apprezzamenti che in nessun modo
avrebbero potuto essere demandati a testimoni. Si tratta di rilievo assorbente
rispetto ad ogni altra indagine circa l’eventuale decadenza dalla prova da
parte della RAI.
Col secondo
motivo l’annullamento è chiesto dalle ricorrenti incidentali per violazione e
falsa applicazione di norme di legge: art. 2697, 2087, 1218 c.c., artt. 61, 424, 414, 420, 421 c.p.c.. Omessa,
insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della
controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.) non essendo stata accolta la domanda
per il risarcimento del danno da perdita di chances. A tale riguardo,
sarebbe stata rilevante la prova sugli sviluppi di carriera di giornalisti con
anzianità di servizio o professionale minore o equivalente a quella del
Martorano, oltre che l’acquisizione di varie scritture aziendali specificamente
indicate; tali circostanze, in sé e in relazione alle vicende professionali del
Martorano, sarebbero state certamente rilevanti ai fini della decisione, mentre
il giudizio di non pertinenza da parte del Tribunale non era adeguatamente
motivato, così come la RAI non aveva spiegato come in un contesto di frequenti
e ripetute promozioni di giornalisti con anzianità o qualifiche pari o
inferiori a quelle del Martorano, dovesse negarsi, anche in termini probabilistici, qualsiasi nesso causale tra
l’emarginazione dello stesso dall’attività lavorativa e l’esclusione dalle
promozioni.
Il motivo è
infondato.
Il danno da
perdita da parte di un lavoratore di chance è stato configurato dalla
giurisprudenza in relazione a particolari opportunità di assunzione o di
progressione in carriera in ordine alle quali il lavoratore avrebbe avuto
verosimili e apprezzabili possibilità di successo, rimaste inattuate per cause
attribuibili a comportamento inadempiente di parte datoriale.
Sotto tale
specifico profilo, la pretesa del Martorano venne già rigettata dal Pretore di
Potenza con la sentenza 10 febbraio /9 marzo 1977 passata in giudicato e
prodotta in atti, sicchè una domanda del genere sarebbe stata, anzitutto,
preclusa ai sensi dell’art. 2909 c.civ..
Né ritiene la
Corte che la stessa domanda possa essere riproposta in modo del tutto generico
sotto il diverso profilo di un danno alle astratte possibilità di carriera
nell’arco di tempo in cui il lavoratore fu impiegato a Potenza e fino al
decesso, perché, seppure il Tribunale ha ipotizzato tale tipo di danno come
risarcibile in aggiunta alla lesione della professionalità per il quale già ha
attribuito il risarcimento, ha anche correttamente escluso che le prove
testimoniali e le richieste esibizioni documentali da ordinare alla RAI fossero
prove pertinenti ed ammissibili.
Infatti, appare
logico il ragionamento del giudice di appello secondo cui dallo sviluppo di
carriera di altri giornalisti di pari o inferiore anzianità di servizio non
sarebbe stato inferibile che analogo sviluppo avrebbe avuto la carriera del
Martorano; risponde infatti a nozioni di comune esperienza che la carriera
dipende da molteplici e sovente anche aleatori elementi di fatto, sovente
indipendenti dall’anzianità di servizio e comunque dalle originarie condizioni
di partenza dei lavoratori presi in esame (il Martorano, ad esempio, non ha
dedotto di essersi mai lamentato del fatto in sé del trasferimento a Potenza ed anche il luogo in cui si è
svolta l’attività lavorativa costituisce astrattamente un dato rilevante e
comunque incidente su altri fattori difficilmente ponderabili); d’altro lato,
mentre le astratte possibilità di carriera attengono piuttosto all’eventuale
danno alla vita di relazione, la cui risarcibilità è riconoscibile solo alle
condizioni di cui all’art. 2059 c.civ., in particolare all’accertamento di un
fatto reato, la puntualizzazione da parte del giudice di merito della perdita
di una specifica chance (puntualizzazione cui avrebbe inevitabilmente condotto
il preteso raffronto tra diverse posizioni lavorative in relazione a specifiche
occasioni di promozione) avrebbe condotto alla violazione del giudicato di cui
si è detto.
Le argomentazioni
appena svolte in punto di genericità e comunque di inammissibilità delle prove
testimoniali sono, inoltre, assorbenti rispetto alla questione dell’eventuale
decadenza (ritenuta dal Tribunale) dal potere della parte di far assumere le
prove stesse.
Col terzo motivo,
le eredi Martorano deducono violazione e falsa applicazione di norme di legge:
artt. 2697, 2087, 1218 c.c., 41, secondo comma Cost. Rep., e 595 c.p., artt. 414, 420, 421 c.p.c.. Omessa,
insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della
controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.) e si dolgono della reiezione della
domanda di risarcimento del danno da comportamento ingiurioso e lesione della
dignità e personalità morale del giornalista. L’ingiuria poteva essere
ravvisata anche in fatti concludenti rappresentati dall’emarginazione e
dall’attribuzione di un incarico fittizio di cui ai motivi precedenti e alle
sentenze del Pretore di Potenza passate in giudicato, quando la stima e la
immagine era elemento essenziale per una libera esplicazione dell’attività
giornalistica. Tale comportamento della RAI era stato consapevole, volontario e
lesivo della personalità morale e della dignità professionale del dipendente
che la società era tenuta a tutelare ai sensi dell’art. 2087 c. civ.; il danno
conseguente avrebbe dovuto essere valutato in via equitativa tenuto conto delle
condizioni ambientali, dell’età del lavoratore e di ogni altro elemento.
Il motivo è
infondato.
La Corte ritiene,
infatti, che correttamente il Tribunale ha escluso che dalla violazione della
norma (art. 2087 c.civ.), che impone al datore di lavoro di tutelare la
personalità morale del lavoratore, derivi la configurabilità di una ingiuria
(oltretutto non ne è posto in evidenza, sotto un profilo penalistico,
l’elemento psico-logico; con maggiore approssimazione, peraltro, e tuttavia
sempre inesattamente, le ricorrenti incidentali richiamano anziché l’art. 594,
l’art. 595 c.p. attinente ai riflessi esterni della reputazione del soggetto,
ancora prescindendo da qualsiasi deduzione in ordine all’elemento soggettivo
del reato) e cioè un danno in sé diverso dalla lesione della professionalità
del giornalista che già fa parte della sua immagine (la personalità morale è
tutelata dall’art. 2087 anzitutto in quanto propria del lavoratore, in
considerazione, cioè, in primo luogo, della qualificazione soggettiva che
maggiormente legittima la specifica tutela) e delle connesse possibilità di
attuazione e di più pieno sviluppo della professionalità.
In concreto,
ritiene la Corte che le ricorrenti incidentali non abbiano adeguatamente
prospettato con le loro doglianze la sussistenza e la quantificabilità di un
danno ulteriore, per il titolo ora reclamato (e comunque per un titolo diverso
dal danno morale al quale altrimenti il diritto del lavoratore avrebbe potuto
essere ricondotto, ma con i limiti di risarcibilità di cui all’art. 2059 c,
civ,), rispetto a quello già risarcito con il riconoscimento del danno alla
professionalità.
Col quarto motivo
le ricorrenti incidentali chiedono l’annullamento della sentenza per violazione
e falsa applicazione di norme di legge: art. 1, 2,4,35,41 Cost. Rep. ; art.
2087, 2103, 1226 c.c. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione in
ordine a punti decisivi della controversia (art. 360, n. 3 e 5 c.p.c.) e si
dolgono della lesione, sempre a causa della privazione delle mansioni, di beni
primari (danno alla vita di relazione, al patrimonio professionale, alla
capacità di concorrenza) potetti della Costituzione, configuranti un danno in
sé, il cui risarcimento avrebbe dovuto essere determinato in via equitativa.
Il motivo è infondato.
Si tratta di
doglianze che la Corte giudica debbano essere disattese, in quanto attinenti ad
una pretesa lesione della personalità complessiva del giornalista, per le
stesse ragioni illustrate trattando dei due motivi che precedono, a proposito di
beni particolari, rientranti nella complessiva tutela di detta personalità
professionale e a proposito dell’avvenuto riconoscimento del danno da
demansionamento in senso ampio.
Conclusivamente,
assorbito ogni altro profilo di censura, il ricorso principale e l’incidentale
delle eredi Martorano debbono essere entrambi rigettati.
Ricorrono giusti
motivi per l’integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.T.M.
La Corte riunisce
i ricorsi; rigetta il ricorso principale e l’incidentale delle eredi Martorano;
dichiara inammissibile il ricorso incidentale della RAI; compensa interamente
tra le parti le spese del giudizio di legittimità.