Tre sentenze in tema di demansionamento : Trib. Treviso 13.10.2000,  Cass. n. 14443/2000, Cass. n. 9228/2001

I

Tribunale di Treviso, sez. lav., 13 ottobre 2000, (ud. 4 ottobre 2000) - Giudice Ferretti - Cendron (Avv.  Miazzi) c. Comune di Ponzano Veneto (Avv.  Brunello)

 

Rapporto di lavoro - Revoca di incarico direttivo - Illegittimità - Aggiramento, tramite soluzione non equivalente, dell'ordine giudiziale di riassegnazione allo stesso incarico o a funzione equivalente, ex articolo 2103 c.c. - Illegittimità - Conseguente diritto al risarcimento del danno alla personalità morale e alla professionalità, entrambi sussistenti in re ipsa - Spettanza, anche tramite liquidazione equitativa.

 

La revoca dall'incarico dirigenziale con assegnazione, nonostante l'ordine giudiziale, a mansioni di posizione professionale non equivalente, occasiona per il lavoratore rimosso sia il diritto al risarcimento del danno - per violazione degli articoli 2 e 41 Costituzione e 2087 c.c. - alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro, la cui lesione si verifica per il riflesso che la dequalificazione professionale ha, sia nell'ambiente di lavoro sia all'esterno, sulla dignità dell'uomo e del lavoratore, sulla aspettativa di carriera, sull'immagine e sulla vita di relazione con riferimento anche allo status sociale (cosiddetto danno alla personalità morale), sia il diritto al risarcimento del danno alla professionalità (tutelata dall'articolo 2103 c.c.) che consiste nel mancato incremento delle conoscenze professionali e nel mancato utilizzo delle conoscenze e capacità acquisite, nonché - quando sussistente - del danno biologico (per lesione anatomo-funzionale del soggetto cioè a dire dell'integrità dello stato di salute) e del danno morale (ove la condotta lesiva costituisca anche reato).

Entrambe le prime due voci di danno (alla personalità morale e alla professionalità) sono intrinseche e conseguenziali al demansionamento secondo "l'id quod plerumque accidit" ed hanno una dimensione patrimoniale che le rende suscettibili di risarcimento e di valutazione anche equitativa (cfr Cass. n. 11727/1999).

 

Svolgimento del processo - Il geometra Cendron, dipendente del Comune di Ponzano Veneto come responsabile del settore urbanistico inquadrato nel 7' livello e con incarico dirigenziale attribuitogli nel luglio dei 1998 ai sensi dell'articolo 51 comma 3 della legge n. 142/1990 e successive modifiche, lamentava che in data 12 gennaio 1999 il Sindaco di quel comune gli aveva revocato l'incarico dirigenziale di responsabile del settore urbanistica per due assorte inadempienze: il deducente era accusato di aver chiesto un parere legale sul piano regolatore non necessario e di non avere redatto il programma esecutivo dì intervento adducendo che lo stesso doveva essere redatto da un progettista.  A seguito della revoca dell'incarico il ricorrente veniva destinato al settore tributi con mansioni esecutive comportanti un palese declassamento mentre veniva nominato un nuovo responsabile dell'urbanistica nella persona di altro dipendente comunale di 6° livello.

L’esponente chiedeva in via di urgenza al Pretore del lavoro di essere reintegrato nelle mansioni precedenti allegando la illegittimità del provvedimento di revoca dell'incarico adottato in assenza dei requisiti previsti dall'articolo 51, comma 6, della legge n. 142/1990 e comunque per motivi pretestuoso.  In esito alla sommaria istruttoria cautelare, il Pretore di Treviso accertava la illegittimità della revoca dell'incarico e ordinava al Comune di Ponzano di reintegrare il ricorrente nelle mansioni precedentemente svolte o in altre equivalenti.

Con l'odierno ricorso di merito, il geom.  Cendron lamentava anche che il Comune non aveva ottemperato all'ordine del giudice in quanto lo aveva assegnato quale istruttore direttivo di 7° qualifica funzionale all'Ufficio ICI dell'area Tributi dopo aver disposto una variazione della dotazione organica di quel settore: allegava che anche quest'ultimo spostamento era pretestuoso e adottato al solo fine di trovargli una qualche collocazione oltre che illegittimo perché tradottosi in un declassamento.

Il Comune, nelle more della causa di merito, deliberava di spostare nuovamente il ricorrente al settore urbanistica - fingendo di adeguarsi all'ordine del giudice - ma contemporaneamente lo esautorava da ogni responsabilità nel settore dell'edilizia privata, e gli assegnava la responsabilità del settore (creato con delibera 18 maggio 1999) Urbanistica - Ecologia - Ambiente.  Anche tale assegnazione veniva contestata dall'esponente che chiedeva nuovamente al Giudice in via di urgenza di essere reintegrato nelle proprie mansioni. Con provvedimento del 16 marzo 2000 veniva reiterato l'ordine al Comune convenuto di reintegrare il Cendron nelle mansioni che svolgeva ante 21 gennaio 1999 o in altre equivalenti comportanti incarico dirigenziale.  Il Comune non ottemperava neppure a tale ordine.

Nel giudizio di merito il ricorrente chiedeva l'accertamento della illegittimità del provvedimento di revoca di incarico del 21 gennaio 1999, la conferma dei due provvedimenti cautelari di reintegra del 26 marzo 1999 e del 16 marzo 2000 ed inoltre la condanna del Comune convenuto al risarcimento del danno alla dignità e professionalità del ricorrente da valutarsi in via equitativa in lire 30.000.000. Con le note conclusive autorizzate il ricorrente chiedeva che il danno subito fosse liquidato nella misura di lire 98.075.682, previa autorizzazione alla integrazione delle conclusioni.

Si costituiva il Comune convenuto allegando la caducazione del provvedimento cautelare del 26 marzo 1999 perché il giudizio di merito venne proposto con atto depositato oltre i termini perentori disposti dal giudice ed eccependo la improcedibilità della domanda per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione.

Nel merito sosteneva che il ricorrente non è né è mai stato un dirigente ma solo incaricato dal Sindaco di svolgere funzioni dirigenziali.  Tale differenza comporta che la revoca delle funzioni è atto discrezionale del Sindaco e non è disciplinata dall'articolo 51 della legge n. 142/1990 sia perché il comma 6 dei citato articolo si riferisce esclusivamente alla attività dei dirigenti sia perché il conferimento della funzione dirigenziale a chi non è dirigente è connesso a un concetto di precarietà e temporaneità dell'incarico sia ancora perché con la modifica introdotta dal comma 3-bis della legge n. 191/1998 è stata sottolineata l'ampia libertà di scelta concessa agli Amministratori nel conferimento delle funzioni paradirigenziali per loro natura squisitamente fiduciarie.  Confermava che la revoca dell'incarico venne decisa in seguito alla valutazione del Sindaco in ordine alla mancanza in capo al Cendron delle caratteristiche necessarie a rivestire incarichi di responsabilità di uffici e precisava che tale valutazione negativa si basava sulle difficoltà palesate dal Cendron in relazione al piano di recupero urbano in occasione del quale il ricorrente aveva mostrato di non sapersi muovere con il necessario spirito di iniziativa e con la duttilità necessaria.

Chiedeva il rigetto della domanda osservando, in ordine alla domanda risarcitoria, che il danno non può essere liquidato in via di equità ma deve essere accertato in base alle prove fornite dal richiedente.

Escussi i testi introdotti dalle parti, la causa veniva discussa e decisa come da dispositivo letto alle parti alla udienza del 4 ottobre 2000.

Motivi della decisione - Vanno respinte le eccezioni preliminari di parte convenuta in ordine alla intervenuta caducazione del provvedimento cautelare del 26 marzo 1999 ed alla improcedibilità della domanda per mancato esperimento del tentativo di conciliazione.  In ordine alla prima eccezione si rileva che il provvedimento cautelare in oggetto assegnava al ricorrente termine per l'inizio della causa di merito di trenta giorni decorrenti dalla comunicazione del provvedimento medesimo avvenuta in data 23 aprile 1999; la presentazione del ricorso ordinario in data 18 maggio 1999 è dunque perfettamente tempestiva.

Quanto al mancato esperimento del tentativo di conciliazione il giudicante ritiene che tale obbligo non sussista nell'ipotesi di giudizio di merito instaurato dopo l'accoglimento del ricorso cautelare in quanto in tal caso il ricorrente ha l'obbligo di proporre il ricorso ordinario in un termine - che è perentorio per legge - molto più breve del termine necessario per l'esperimento della procedura di conciliazione (nella quale si prevede un'attesa fino a 60 giorni).

Passando al merito delle questioni qui controverse si deve richiamare, in ordine ai limiti della revoca degli incarichi dirigenziali attribuiti dal Sindaco ai sensi dell'articolo 51, comma 3-bis, della legge n. 142/1990 e successive modifiche  “ai responsabili degli uffici e dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale”, quanto già esposto nel provvedimento cautelare.

La revoca dell'incarico può avvenire esclusivamente per una delle ipotesi previste dal comma 6 del citato articolo 51 (inosservanza di direttive del sindaco, mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati ai dirigenti, responsabilità grave e reiterata, altri casi disciplinati dall'articolo 20 decreto legislativo n. 29/1993).  Né pare fondata la tesi del Comune convenuto secondo cui la disciplina dei motivi di revocabilità degli incarichi dirigenziali di cui al comma 6 sarebbe applicabile solo al personale con qualifica di dirigente e non anche al responsabile di ufficio incaricato di funzioni dirigenziali.  Per una tale interpretazione, infatti, non si rinvengono argomenti né letterali né logico-sistematici dato che il comma 6 dell'articolo 51 fa riferimento genericamente agli "incarichi dirigenziali" e non alla qualifica del dipendente che li ha ricevuti.  La circostanza il comma 3-bis dell'articolo 51 (affidamento di incarico dirigenziale a funzionario del comune) sia stato introdotto successivamente alla stesura del comma 6 (revoca degli incarichi) non fornisce un elemento interpretativo nel senso voluto dal convenuto in quanto la modifica va ad integrarsi e deve coordinarsi con le disposizioni preesistenti non toccate dalla modifica.  Né si condivide la tesi del Comune di Ponzano secondo cui l'attribuzione di funzioni dirigenziali a personale privo della relativa qualifica evocherebbe un concetto di precarietà e temporaneità cui si ricollega la più ampia discrezionalità di revoca.  P- senz'altro vero che l'attribuzione di incarico dirigenziale è temporanea (sia per il dirigente che per il funzionario cui sia attribuito l'incarico dirigenziale) perché lo dispone lo stesso comma 6 del citato articolo 51 mentre non è vero anche che tale incarico sia precario nel senso di revocabile con la più ampia discrezionalità perché non vi è alcuna traccia legislativa in tal senso ma, al contrario, la legge - nel disciplinare le ipotesi di revoca anticipata - mostra di perseguire l'obiettivo esattamente antitetico.

Si tratta a questo punto di stabilire se la revoca dell'incarico dirigenziale conferito al geom.  Cendron (di responsabile del settore Urbanistica) sia avvenuta per uno dei motivi consentiti.  Il Comune di Ponzano ha sostenuto di avere deciso la suddetta revoca per due inadempienze/imputazioni addebitate al ricorrente: l'aver indotto il Comune a richiedere un parere legale non necessario e il rifiuto del Cendron di redigere il PEI La istruttoria svolta nella procedura ordinaria nulla ha aggiunto o modificato rispetto agli elementi raccolti nella fase cautelare sì che - anche sotto questo aspetto - si devono riportare le valutazioni già operate nel provvedimento cautelare del 26 marzo 1999 in ordine alla assoluta infondatezza del primo addebito e alla inconsistenza del secondo: secondo il convenuto il Cendron avrebbe rifiutato di predisporre la documentazione necessaria attinente all'inserimento di costi e computi metrici delle opere per le quali il Comune aveva intenzione di chiedere un finanziamento pubblico alla Regione Veneto.  Già in sede cautelare è emerso che era prescritto che il PEI fosse corredato di tali dati e che essi non esistevano alla data in cui il Cendron fu rimosso dal suo incarico e neppure successivamente tanto che il suo sostituto completò il Programma Esecutivo con dati solo presuntivi tratti dai progetti preliminari (cfr. dichiarazione Bresolin) che, per loro natura, contengono indicazioni solo approssimative sui costi, sulle caratteristiche volumetriche e dimensionali delle opere da eseguire (cfr. legge n. 109/1994 come modificata dalla legge n. 415/1998).  Risulta inoltre che il Cendron si attivò comunque per verificare la possibilità di presentare il PEI anche privo dei dati richiesti concordando un incontro con l'Ater al quale egli non potè partecipare perché sollevato dall'incarico (dichiarazione Bresolin).  D'altra parte il Sindaco ha sostanzialmente riconosciuto in sede di interrogatorio che non essendo un tecnico non era in grado di valutare la posizione del Cendron dato che non sapeva di quali dati il ricorrente avesse bisogno e con quali dati sia poi stato presentato il PEI sì che non si capisce su quali basi egli potesse ritenere, (all'epoca) che il Cendron “avesse i mezzi e dovesse provvedere in proprio alla predisposizione del PEI ”.  Tanto più che dalla documentazione allegata dal ricorrente risulta che i progetti preliminari allegati dal Comune alla richiesta di finanziamento e i documenti integrativi presentati successivamente contemplassero soluzioni tecniche diverse per la palestra mentre per l'edilizia privata esistevano solo progetti parziali e per le opere di urbanizzazione non esisteva alcun progetto.

Dopo avere illegittimamente revocato l'incarico dirigenziale al geom.  Cendron, il Comune di Ponzano lo ha assegnato al settore Tributi dove non solo già vi era già un responsabile di 7° qualifica funzionale ma la pianta organica contemplava, oltre alla unica posizione apicale, due posizioni di 6° qualifica sì che non pareva esservi spazio per il ricorrente in quanto in possesso della 7° qualifica; con abile mossa il Comune ha modificato la dotazione della pianta organica del settore tributi aggiungendo una posizione di 7° livello da assegnare al Cendron come addetto all'Ufficio Accertamenti Ici (cfr. provvedimento del Segretario comunale del 6 febbraio 1999) prontamente ripristinando la precedente dotazione organica dell'Ufficio Tributi dopo il nuovo spostamento del Cendron come responsabile del Settore (anch'esso creato ad hoc) Urbanistica - Ecologia - Ambiente ottenuto accorpando all'Urbanistica le competenze in materia di Ecologia e Ambiente e scorporando dall'Urbanistica l'Edilizia Privata assegnata al geometra Borsato che aveva sostituito il Cendron sin dalla revoca dell'incarico a costui.  Anche su tale argomento gli elementi probatori sono quelli raccolti nella fase cautelare in corso di causa e nulla di nuovo è emerso nella fase di merito sì che non resta che confermare quanto già detto con ordinanza 16 marzo 2000 che, per completezza del presente provvedimento, di seguito si riporta. Il teste Ferrari ha riferito come attualmente il settore ecologia debba occuparsi di raccogliere i dati necessari per la determinazione della tariffa rifiuti (estensione immobile, nr. componenti nucleo che abita l'immobile) che viene fatta da altro settore mentre l'altro compito di controllare gli scarichi relativi alle concessioni edilizie sia praticamente esercitato dal settore edilizia che rilascia la autorizzazione agli scarichi insieme alla concessione (cfr. anche teste Baseggio che specifica come sia suo compito programmare l'uscita dell'addetto al settore igiene).  Il teste Bresolin ha riferito che è compito del Cendron verificare il corretto smaltimento dei rifiuti negli appositi cassonetti o nel deposito comunale, la corretta collocazione dei cassonetti lungo il percorso dei mezzi di raccolta, esaminare le domande di consegna di nuovi cestelli di raccolta rifiuti presentate dagli utenti, occuparsi delle cave e dell'inquinamento (pur non avendone la specifica professionalità) misurando la quantità degli scavi una volta l'anno e con strumenti idonei solo a misurazioni di massima, della pulizia dei fossi e dei bordi stradali, del taglio degli alberi malati (la cui valutazione è operata dal corpo forestale).  Per quanto riguarda l'Urbanistica il Cendron segue le varianti al PRG (disposte in numero di 6 dal 1990 ad oggi) e, attualmente la variante nr. 6 è già stata trasmessa in Regione sì che il compito del ricorrente è solo di attesa (cfr. teste Ferrari), rilascia i certificati di destinazione urbanistica (precedentemente tale incarico era svolto da una impiegata di 60 livello addetta al settore Urbanistica ed Edilizia (cfr. teste Baseggio) la quale ha riferito come degli allacciamenti alla pubblica fognatura si occupi il consorzio che gestisce la fognatura e che rilascia il nulla osta alla autorizzazione mentre degli allacciamenti all'acquedotto si occupi il settore lavori pubblici.

Il teste Bresolin ancora riferisce che il Cendron oggi si occupa di seguire l'Urbanistica nel senso che deve curare l'aggiornamento delle tavole grafiche relative al PRG (ma poi il teste Furlanetto riferisce che di tale adeguamento delle piante grafiche si occupa lui) e che dovrebbe trasferire i dati dal materiale cartaceo in dati elettronici per la informatizzazione dei PRG: peccato che attualmente il Comune non possiede i mezzi (programmi) per attuare la informatizzazione del PRG.  Il Cendron dovrebbe poi, secondo il teste Bresolin, occuparsi degli aggiornamenti normativi e regolamentari del PRG ma in realtà lo stesso Bresolin è stato richiesto dall'assessore all'urbanistica privata di formulare proposte o suggerimenti di aggiornamento del PRG e di inviarle ad un professionista esterno, arch.  Furlanetto; questi si occupa anche del PPA che dovrebbe rientrare nelle competenze dell'ufficio urbanistica.

Le risultanze istruttorie fanno emergere come al Cendron sia stata assegnata la responsabilità di una scatola vuota: le principali competenze in materia di urbanistica sono svolte dal professionista esterno (PPA e varianti a PRG) o non sono attuali mentre al ricorrente residuano competenze di minor conto quali il rilascio di certificati di destinazione urbanistica.  Per quanto riguarda il settore ecologia e ambiente - pur concordandosi con il Comune che è un settore che merita espansione e valorizzazione - tuttavia si deve rilevare come oggi il Comune non sia evidentemente in grado di dargli quell'impulso che mostra di volergli imprimere dato che l'organico effettivo dell'ufficio è oggi come ieri di una sola persona (vedasi delibera 128 del 18 maggio 1999), lo stanziamento in bilancio di somme destinate a tale settore (al settembre 1999) riguarda praticamente solo somme già destinate al servizio di raccolta rifiuti.  Panche da segnalare come sia illogica - nell'ottica di espansione del settore Ecologia e Ambiente - la decisione di assegnarvi come responsabile un dipendente che non possiede la professionalità specifica necessaria e che lo stesso regolamento comunale individua (addirittura per l'istruttore ecologo e cioè per un livello inferiore a quello del responsabile del settore) nel possesso del diploma di perito chimico, ecologo o industriale.  Anche tale circostanza è indice della strumentalità del provvedimento comunale qui impugnato.

Va infine rilevato come le attuali mansioni assegnate al ricorrente non possano considerarsi equivalenti a quelle che egli svolgeva fino al 21 gennaio 1999 anche sotto il profilo delle consistenza del personale gerarchicamente dipendente dal Cendron: al vecchio Settore Urbanistica ed Edilizia erano e sono assegnati quattro dipendenti sotto la responsabilità di un dipendente di 6' livello mentre l'attuale Settore Urbanistica, Ecologia e Ambiente conta una sola unità (il Cendron di 7° livello) e, in previsione, un altro dipendente part time; anche questo dato di fatto è indice della minor importanza dell'incarico assegnato al ricorrente; né può tacersi il fatto che - contrariamente alle disposizioni del regolamento comunale sia stata assegnata una esistente posizione apicale (di maggior importanza di quella assegnata oggi al Cendron) a dipendente di 6' nonostante la disponibilità di un dipendente in possesso del livello richiesto per la direzione di un settore.

In conclusione va accertata la dequalificazione professionale subita dal ricorrente in tutte le posizioni di lavoro assegnategli dal giorno della revoca dell'incarico di responsabile del settore Urbanistica ed Edilizia Privata del 21 gennaio 1999 con accoglimento della domanda in ordine alla declaratoria di illegittimità della revoca dell'incarico dirigenziale del 21 gennaio 1999 e con conferma dei provvedimenti cautelari del 26 marzo 1999 e 16 marzo 2000.

Resta ora da esaminare la domanda di risarcimento del danno derivato alla dignità e professionalità del ricorrente in seguito alla ben nota revoca di incarico del gennaio 99 e alla successiva assegnazione a mansioni inferiori.  Tale comportamento del Comune di Ponzano Veneto è censurabile in quanto costituisce condotta in violazione dell'articolo 2103 e 2087 c.c. e, conseguentemente, ha natura di inadempimento contrattuale cui è ricollegabile il diritto del lavoratore al risarcimento dei danni tutti subiti.

Questi, poi, si possono individuare in linea teorica nel danno patrimoniale in senso stretto - ricollegabile al lucro cessante per la eventuale riduzione di retribuzione o il mancato percepimento di indennità specificamente connesse alla mansione illegittimamente sottratta dal datore di lavoro, nel danno patrimoniale connesso alla lesione della personalità del lavoratore, nel danno patrimoniale connesso alla lesione della professionalità, nel danno biologico inteso come lesione anatomo-funzionale del soggetto - nel danno morale ove la condotta costituisca anche reato.

Nella fattispecie va escluso – per l'incarico dirigenziale del 21 gennaio 1999 o in altre equivalenti comportanti il conferimento dell'incarico dirigenziale.

Condanna il Comune convenuto al risarcimento del danno subito dal Cendron nella misura qui liquidata di lire 50.000.000 oltre interessi legali dalla domanda al saldo.

Le spese di causa, liquidate in lire 15.000.000 oltre accessori, sono a carico del convenuto.

 

II

Cass. sez. lav., 6 novembre 2000, n. 14443 (ud. 13 giugno 2000) - Pres.  Trezza - Rel.  Mammone - Valtolina (Avv.  Bellotti) c. L. Manetti & H. Roberts, Società Italo Britannica P.A. (Avv.ti Amenta e Fanfani)

 

Rapporto di lavoro - Demansionamento e forzata inattività del lavoratore - Illegittimità - Immanenza al demansionamento del danno alla dignità e personalità morale del lavoratore, ex articolo 41 Costituzione, liquidabile in via equitativa - Pregiudizio di opportunità di progressione in carriera - Risarcibilità dietro assolvimento di onere probatorio a carico del lavoratore - Risarcimento dei danno morale da reato d'ingiuria compiuto dall'azienda - Autonomia del giudice civile nel riscontro – Sussistenza in linea di principio (non in fattispecie).

 

Il demansionamento professionale dà luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore.  Non solo viola lo specifico divieto di cui all'articolo 2103 c.c., ma costituisce offesa alla dignità professionale del prestatore intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del lavoratore, bene immateriale per eccellenza) e quindi lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio conseguente incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato, con indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa (Cass., 18 ottobre 1999, n. 11727). L'affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le sentenze 11 agosto 1998, n. 7905; 4 febbraio 1997, n. 1026 e 13 agosto 1991, n. 8835). Va invece dimostrato il concreto pregiudizio qualora si adduca addizionalmente una lesione della professionalità in senso obiettivo, sciolta da ogni riferimento alla dignità del lavoratore ed intesa nel senso di perdita di occasioni concrete di progressione lavorativa.

Ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale (articolo 2059 c.c.), l'inesistenza di una pronuncia del giudice penale, nei termini in cui ha efficacia di giudicato nel processo civile a norma degli articoli 651 e 652 c.p.p., comporta che il giudice civile possa accertare 'incidenter tantum' l'esistenza del reato - nel caso di ingiuria, riscontrato insussistente in sede di merito (n.d.r.) - nei suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuando l'autore, procedendo al relativo accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale (cfr ex multis Cass.,14 febbraio 2000, n. 1643).

 

Svolgimento del processo - Con ricorso al Pretore del lavoro di Firenze, Valtolina Davide esponeva di essere stato dipendente della società Manetti & Roberts con qualifica di massimo livello impiegatizio e poi di quadro e di essere stato licenziato il 14 maggio 1984 e il 23 dicembre 1988 e di aver ottenuto in entrambi i casi declaratoria di illegittimità del licenziamento con reintegra nel posto di lavoro.  Assumendo di non essere stato restituito alle mansioni a lui spettanti ed, anzi, di essere stato escluso dal lavoro per prolungati periodi, l'istante chiedeva la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni, di origine contrattuale ed extracontrattuale, a lui derivati dal comportamento della controparte, con riferimento particolare al danno morale, al danno professionale ed al danno biologico.

Il Pretore, riteneva che il datore di lavoro con il suo comportamento avesse consapevolmente violato il precetto costituzionale che impone all'iniziativa economica privata di non recare danno alla dignità umana (articolo 41 Costituzione) e l'obbligo di predisporre un ambiente di lavoro idoneo a tutelare, oltre l'integrità fisica, anche la personalità morale dei dipendenti.  Costituendo tale violazione illecito contrattuale ed imponendosi il risarcimento del danno arrecato alla dignità del dipendente, il Pretore liquidava in via equitativa per tale titolo la somma di lire 37.219.560, rigettando la domanda quanto al danno alla vita professionale, al danno biologico ed al danno morale.

Avverso questa sentenza proponevano appello entrambe le parti.  Il Valtolina, nella sostanza ribadendo la tesi già esposta in primo grado, la società Manetti & Roberts sostenendo che in punto di risarcimento si era formato il giudicato in occasione delle precedenti pronunzie sui licenziamenti e che il primo giudice era incorso in ultrapetizione, ravvisando un inadempimento non previsto nell'originaria domanda.

Il Tribunale, con sentenza in data 8 aprile 1998, rigettava entrambi i gravami.  Rigettava l'appello incidentale, il cui esame si prospettava logicamente prioritario, rilevando che nei giudizi precedenti il dipendente aveva inteso chiedere il risarcimento dei soli danni derivanti dagli indebiti licenziamenti e non quelli derivati successivamente.  Il comportamento datoriale, inoltre, aveva gravemente leso la dignità del dipendente, quale soggetto titolare di una aspettativa a svolgere la sua prestazione, di modo che la pronunzia aveva soddisfatto la struttura petitoria della domanda, che era diretta proprio ad ottenere il risarcimento della lesione di questa aspettativa.

Il Tribunale rigettava, invece, l'appello principale, ritenendo indimostrato il danno professionale, insussistente il danno biologico (essendo le affezioni denunziate - in base alla consulenza tecnica del giudizio di primo grado - non correlabili al comportamento dell'azienda), giuridicamente non realizzato il danno morale per la non configurabilità dei delitti astrattamente ravvisati dal ricorrente nel comportamento del datore (articoli 388, 582 e 594 c.p.). Avverso questa sentenza propone ricorso il Valtolina, cui risponde la soc.  Manetti & Roberts con controri-

corso e ricorso incidentale illustrati con memoria.

Motivi della decisione - Preliminarmente i due ricorsi vanno riuniti, onde consentire che la decisione avvenga in unico contesto.

Il Valtolina deduce tre motivi di ricorso principale.  Con il primo motivo denunzia carenza di motivazione in punto di esclusione del danno biologico.  Il Tribunale ricalcherebbe acriticamente le conclusioni del consulente di ufficio, omettendo di prendere in esame i rilievi del consulente di parte e la complessa vicenda sanitaria del ricorrente.

Con il secondo motivo sono denunziate violazione dell'articolo 2103 c.c. e ulteriore carenza di motivazione in punto di esclusione del danno professionale, non avendo il giudice di merito individuato i corretti presupposti di questo tipo di pregiudizio, riducendoli ad un generico diritto all'avanzamento di carriera, ignorando le aspettative di accrescimento professionale del dipendente.

Con il terzo motivo sono denunziate la violazione degli articoli 185 e 594 c.p. e dell'articolo 2059 c.c., nonché carenza di motivazione a proposito dell'esclusione del risarcimento del danno patrimoniale, deducendosi l'assunzione di un non corretto concetto giuridico del reato di ingiuria e l'esclusione del fatto penale legittimante tale tipo di danno.

La società Manetti & Roberts propone due motivi di ricorso incidentale.  Con il primo, denunziando violazione degli articoli 24 Costituzione, 2697 c.c. e 99 c.p.c., ribadisce la sua tesi della realizzazione del giudicato in punto di ristoro dei danni, atteso che il dipendente, nel chiedere il risarcimento nei precedenti giudizi, non aveva effettuato alcuna riserva di limitare la richiesta ai soli pregiudizi conseguenti ai licenziamenti,  di modo che, per il carattere unitario del diritto al risarcimento, dovrebbe ritenersi che egli avesse in quella sede consumato l'azione relativa.

Con il secondo motivo, denunziando violazione degli articoli 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e 1219 c.c., la società Manetti & Roberts contesta la sentenza nella parte in cui ha ravvisato l'esistenza di un danno alla dignità del lavoratore ricavabile ex articolo 41 Costituzione, affermando che lo stesso non fosse stato da controparte dedotto né quale domanda autonoma, né quale ipotesi di minor gravità riconducibile al danno morale.  In particolare, il Valtolina non avrebbe proposto alcuna domanda per il danno da inadempienza contrattuale, e, in ogni caso, ove anche la domanda avesse voluto essere intesa in tal senso, comunque il Tribunale non avrebbe potuto concedere il risarcimento, per la mancanza di specifica prova del danno in questione.

In ogni caso un generico danno da inadempimento avrebbe potuto essere concesso solo in caso di costituzione in mora del datore-creditore perché ricevesse la prestazione lavorativa.

Per motivi di consequenzialità logica debbono essere esaminati preliminarmente i due motivi di ricorso incidentale.

Come riferito nella parte espositiva e come pacifico agli atti di causa, le sentenze che dichiararono illegittimi i licenziamenti che avevano colpito il Valtolina contenevano entrambe l'ordine di riassunzione e la condanna al risarcimento dei danni.  In particolare sottolinea la ricorrente incidentale, in occasione della impugnazione del secondo licenziamento il lavoratore avrebbe proposto una domanda risarcitoria riferibile non solo al licenziamento in sé considerato, ma anche alle dequalificazioni ed emarginazioni subite.  Pertanto, non essendosi verificato alcun evento sostanziale successivamente alla pronunzia del risarcimento sul secondo licenziamento (era il 1989), il danno oggi dedotto sarebbe stato già risarcito; dal che deriverebbe che il lavoratore avrebbe integralmente consumato l'azione di risarcimento danni.  Tale tesi è destituita di fondamento per un unico assorbente ordine di valutazioni.  Il risarcimento che viene richiesto in questa controversia è relativo a comportamenti ascritti al datore in relazione al rapporto di lavoro nel suo complesso, per un ambito temporale in cui i licenziamenti costituiscono solamente degli episodi a carattere sintomatico.  Del resto, il rapporto di lavoro risulta concluso solo nel 1996, tanto che lo stesso datore ammette che i comportamenti contestati solo "sostanzialmente" possono ritenersi esauriti al 1989, data della seconda pronunzia di illegittimità del licenziamento.

Correttamente, pertanto, il Tribunale ha ritenuto che le richieste di risarcimento formulate in occasione delle precedenti cause non fossero in grado di soddisfare il risarcimento dei danni ora richiesto dal Valtolina, i quali si sono realizzati successivamente alle precedenti sentenze.

Non esistendo, dunque, il dedotto giudicato sul risarcimento, il primo motivo in esame deve essere rigettato.

Quantunque la questione non sia stata fatta oggetto di uno specifico motivo di ricorso incidentale, a questo punto deve ribadirsi la correttezza della pronunzia del giudice di merito a proposito dell'eccezione di prescrizione, formulata nelle due fasi di merito dalla società Manetti & Roberts e reiterata nel presente giudizio di legittimità limitatamente al risarcimento del danno biologico.  Al riguardo il Tribunale, coerentemente con la generale impostazione sopra riferita, ha ritenuto che la condotta lesiva del datore si è protratta fino al momento della cessazione del rapporto (avvenuta nel luglio 1996), di modo che essendo stata la controversia promossa addirittura antecedentemente a tale cessazione (il ricorso introduttivo è del giugno 1995), ha ritenuto infondata l'eccezione.  Correttamente, quindi, risulta rigettata la richiamata eccezione di prescrizione.

Parimenti è infondato il secondo motivo di ricorso incidentale.  Si sostiene al riguardo, con un articolato complesso di argomentazioni, che la violazione della dignità del lavoratore ricavabile ex articolo 41 Costituzione, riscontrata dai giudici di merito, sarebbe un pregiudizio non dedotto dal ricorrente, che avrebbe, invece, voluto limitare la sua richiesta alle tre specifiche voci del danno professionale, biologico e morale.  Al riguardo il secondo giudice ha ritenuto che correttamente il primo avesse ravvisato l'esistenza di tale danno in quanto le istanze proposte dall'attore facevano riferimento a tutti i tipi di pregiudizio nascenti dal rapporto giuridico corrente tra le parti, nonché ai vari tipi di illecito civile; nella sostanza ritenendo che la domanda di merito contenesse anche la voce di danno sopra menzionata.

Tale motivo è in qualche modo collegato al precedente, in quanto si reclama la violazione dell'articolo 18, comma 5, dello Statuto, nel presupposto che nella specie questa sia l'unica norma invocabile a fondamento del risarcimento dei danni conseguenti al licenziamento.  Fermo restando quanto già esposto all'atto della trattazione del motivo che precede, questo Collegio rileva che il giudice ha il potere di interpretare e qualificare la domanda giudiziale.  Nell'esercizio di tale potere deve essere ricercata l'effettiva volontà delle parti, tenendo conto non solo della manifestazione di volontà specificamente formulata ed espressa nelle conclusioni, ma anche di quella che può essere indirettamente o implicitamente desunta dalle deduzioni e dalle richieste di parte, nel rispetto del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato (giurisprudenza costante, cfr. ex multis Cass., 20 aprile 1990, n. 3289 e 29 febbraio 1989, n. 1611).

Il Tribunale di Firenze, e prima ancora il Pretore, hanno interpretato la domanda, utilizzando, come canone ermeneutico, la particolare ampiezza delle richieste del Valtolina (che chiedeva "il risarcimento dei danni, contrattuale e non contrattuale, patrimoniali e non, causati dal comportamento della ... società", cfr. la sentenza in data 23 aprile 1997 del Pretore), ritenendo, nella sostanza, che le voci specificamente menzionate fossero solo delle esemplificazioni dei danni ravvisabili.  Tale risultato interpretativo, che non solo è coerente con il principio di diritto sopra enunciato ma è anche improntato da ragionevolezza e coerenza logica, costituisce apprezzamento di merito, che, in quanto congruamente motivato, non è censurabile in sede di legittimità.  Deve, pertanto, ritenersi che il risarcimento del danno riscontrato costituisse richiesta proposta dall'attore e che i giudici di merito, assegnando ad essa autonoma dimensione (non ricompresa, quindi, nella richiesta di danno morale, come ritenuto - sia pure all'unico scopo dì contestare la correttezza giuridica dell'affermazione - dal ricorrente incidentale) non siano incorsi nel dedotto vizio di ultrapetizione.

Per completezza vanno disattesi due ulteriori aspetti dedotti con il motivo in esame.

Innanzitutto è destituita di fondamento la tesi che il danno da inadempimento avrebbe potuto essere ravvisato solo ove il datore fosse stato costituito in mora con una esplicita richiesta di consentire lo svolgimento della prestazione secondo precise modalità.  Nella ricostruzione effettuata nel giudizio di merito l'illecito contrattuale è costituito dall'inesatta ricostituzione del rapporto per la reiterata inottemperanza all'ordine di reintegra: si verte, dunque, in una situazione in cui non è il lavoratore che deve offrire la sua prestazione, ma è il datore che deve procedere alla riattivazione del rapporto.  La responsabilità del datore nasce, pertanto, a seguito del suo non corretto adempimento, che  prescinde totalmente dall'iniziativa della controparte.

Quanto alla quantificazione economica del danno, la ricorrente incidentale contesta il quantum liquidato del giudice sostenendo che non sarebbe stata fornita prova della dimensione patrimoniale del danno patito.  Tale censura, tuttavia, non tiene conto dell'esatto tenore della pronunzia impugnata, ove si accerta l'esistenza del danno e la sua valutabilità sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore) e si procede, in un momento logicamente posteriore, alla sua liquidazione con criterio equitativo, basato su un parametro di cui non si contesta la correttezza.  Sussistono, dunque, gli elementi necessari per procedere ad una quantificazione a carattere equitativo, in quanto del danno sono state accertate l'esistenza e la rilevanza patrimoniale, ed il ricorso al parametro equitativo è effettuato solo per la mancanza di un riferimento immediatamente valutabile sul piano monetario.

Passando al ricorso principale, con i tre motivi ivi proposti viene lamentato il rigetto della domanda in relazione alle tre specifiche voci del danno biologico (primo), del danno professionale (secondo) e del danno morale (terzo).

Tali motivi sono tutti e tre infondati.  Con il primo motivo si censura la motivazione per una erronea valutazione delle condizioni psicofisiche del Valtolina.  Al riguardo il Tribunale ha rilevato, sulla base della consulenza tecnica esperita in primo grado, che non esiste nesso di causalità tra le affezioni accertate ed il comportamento datoriale, procedendo ad un attento esame dell'incidenza dei dati caratterizzanti la personalità dell'attore sulla complessiva situazione creata dall'inadempienza datoriale.  Nel compiere tale esame, il giudice, pur non menzionando gli esiti delle consulenze di parte, tiene nella dovuta considerazione la tesi prospettata in giudizio a proposito dell'infermità denunziata, in particolare riferendosi alla tesi dell'attore (nella motivazione si precisa che "... alcuni dei tratti salienti della personalità dell'appellante sono stati adeguatamente ed esaustivamente posti in luce proprio dall'indagine peritale contestata dal lavoratore").

Essendo tale percorso della motivazione logicamente e congruamente motivato, il motivo di ricorso in esame richiede, dunque, alla Corte di entrare nel merito dell'accertamento e di formulare un giudizio di fatto, inammissibile in sede di legittimità.  Parimenti infondato è il secondo motivo, inerente la pretesa erronea considerazione del cosiddetto danno professionale.  Il Tribunale, tenuto conto del risarcimento già riconosciuto per la violazione del bene costituito dalla dignità del lavoratore, ha enunciato un concetto di lesione della professionalità di carattere obiettivo, ovvero "scevro da ogni riflesso soggettivo sulla dignità del lavoratore", che si attagliasse alla dimensione strettamente inerente la perdita economica causata dal comportamento datoriale censurato.  In altre parole, il giudice, riscontrato l'avvenuto risarcimento del danno costituito dalla offesa alla dignità professionale intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del lavoratore), bene immateriale per eccellenza, ha inteso riscontrare anche l'eventuale danno materiale derivatone in termini concreti, per la perdita eventuale di migliori occasioni di collocazione lavorativa.

Tale statuizione è conforme alla ricostruzione del danno alla professionalità data dalla giurisprudenza di questa Corte nella sua più recente evoluzione.  La Corte, infatti, ha rilevato che in demansionamento professionale dà luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore.  Infatti, il demansionamento non solo viola lo specifico divieto di cui all'articolo 2103 c.c., ma costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio conseguente incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato con indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa (Cass., 18 ottobre 1999, n. 11727).  L’affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le sentenze 11 agosto 1998 n. 7905, 4 febbraio 1997, n. 1026, 18 aprile 1996, n. 3686 e 13 agosto 1991, n. 8835).

Il Tribunale ha ritenuto che la lesione del diritto fondamentale cui dà luogo il pregiudizio professionale, nella specie abbia trovato risarcimento nella riparazione in via equitativa concessa con l'attribuzione di un importo pari alla metà del trattamento di fine rapporto.  Ha ritenuto, invece, il giudice di merito che, per quanto riguarda la lesione della professionalità in senso obiettivo, sciolta (come rilevato in precedenza) da ogni riferimento al riflesso sulla dignità del lavoratore ed intesa nel senso di perdita di occasioni concrete di progressione lavorativa, sia mancata la dimostrazione di un concreto pregiudizio.

Non è, dunque, corretta l'affermazione della ricorrente principale che il giudice del merito avrebbe considerato il danno alla professionalità esclusivamente sotto il profilo del generico diritto all'avanzamento di carriera, in quanto è stato considerata la lesione alla dignità personale e ne è stato riscontrato l'avvenuto risarcimento, mentre è stata rigettata per mancanza di prova la domanda in punto di risarcimento dei pregiudizi intervenuti sul piano concreto.  Ove si accedesse, dunque, alla tesi sostenuta dal ricorrente principale con il motivo in esame, si violerebbe il criterio distributivo adottato dal giudice di merito, secondo cui il danno al diritto fondamentale (id est, danno alla dignità secondo la ricostruzione del Tribunale) ha trovato già risarcimento e si discute solo delle implicazioni afferenti il lucro cessante (se non il danno emergente) conseguenti al demansionamento.  Si perverrebbe, anzi, ad una inammissibile duplicazione di risarcimento che, invece, il giudice di merito con la sua pronunzia ha voluto evitare.  E infine, infondato anche l'ultimo motivo del ricorso principale attinente l'erroneità del concetto di ingiuria posto a base del diniego del risarcimento del danno morale.

Al riguardo, la giurisprudenza della Corte è consolidata nel ritenere che, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale (articolo 2059), l'inesistenza di una pronunzia del giudice penale, nei termini in cui ha efficacia di giudicato nel processo civile a norma degli articoli 651 e 652 c.p.p., comporta che il giudice civile possa accertare incidenter tantum l'esistenza del reato, nel suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuandone l'autore, procedendo al relativo accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale (cfr. ex multis Cass., 14 febbraio 2000, n. 1643).  A questo compito, nel caso che ci occupa, il giudice di merito non si è sottratto, evidenziando con estrema chiarezza quali fossero i fatti rilevanti ai fini dell'accertamento della responsabilità penale ed escludendo che nei fatti materialmente acclarati potessero riscontrarsi le fattispecie degli articoli 388, 582 e 594 c.p. La impugnata pronunzia, di quest'ultima fattispecie di reato (ingiuria, sulla cui definizione si accentra il mezzo in esame), ha fornito una esaustiva nozione, secondo cui "l'offesa all'onore sorge quando, con dolo generico, viene leso o messo in pericolo mediante azioni (in casi particolarissimi e limitati, con omissioni) il sentimento che l'individuo ha del proprio valore sociale, ossia quell'insieme di qualità che gli consentono la piena rispettabilità ... nell'ambiente sociale in cui vive".  A questa puntuale ricostruzione, pienamente condivisa dal Collegio, parte ricorrente oppone solo generiche doglianze (attinenti ovvie considerazioni in tema di dolo generico), senza individuare quale sia l'errore di diritto per il quale si sarebbe integrato il denunziato vizio di legittimità.  In particolare, non evidenzia in quale parte il concetto espresso dal giudice di merito non concordi con la fattispecie incriminante descritta dal codice penale.

Pertanto, anche il terzo motivo del ricorso principale deve essere rigettato.  In conclusione, l'impugnata pronunzia resiste ai mezzi di impugnazione proposti dalle parti, di modo che debbono essere rigettati sia il ricorso principale che quello incidentale.

Le spese del giudizio di legittimità vanno compensate tra le parti.

 

III

Cass. sez. lav., 7 luglio 2001, n. 9228 (udienza 6 marzo 2001) Pres. Annunziata – Rel. Vigolo  - RAI (Avv. D’Angelantonio) c. Martorano E., Martorano Enrica, Martorano M. e Martorano L. (Avv. D’Amati) .

 

Dequalificazione professionale di un giornalista -  A causa di inattività (per circa 10 anni) dopo trasferimento ad altra sede – Automaticità dell’immiserimento della professionalità per mancato esercizio in concreto della professione, desumibile da considerazioni di comune esperienza – Diritto al risarcimento del danno da demansionamento -  Addizionale danno da comportamento ingiurioso datoriale per violazione dell’art. 2087 c.c. -  Insussistenza e ricomprensione nel danno da demansionamento in senso lato (inglobante la lesione all’immagine e alla reputazione professionale).

 

Non è  né arbitraria né illogica, in quanto basata su dati di comune esperienza, l’opinione del Tribunale che ha ritenuto sussistente il danno da demansionamento di un giornalista (lasciato pressoché inattivo per 10 anni) sulla base della considerazione che la professionalità si autoalimenta nell’esercizio costante della professione e nell’aggiornamento insito nella  stessa, così implicitamente affermando che, nel caso di mancato esercizio, le capacità professionali ineluttabilmente si immiseriscono, con un danno certo anche se determinabile in via equitativa. Neppure appare privo di concretezza il ricorso in via parametrica alla (metà della) retribuzione per la determinazione in termini quantitativi del danno, posto che, indubbiamente, non può negarsi che elemento di massimo rilievo nella determinazione della retribuzione è il contenuto professionale delle mansioni sicché essa costituisce, in linea di massima, espressione (per qualità e quantità, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione) anche del contenuto professionale della prestazione, nel caso in esame, concretamente non accettata dall’azienda (e tuttavia egualmente retribuita come se fosse stata eseguita). Se, dunque, il  demansionamento non cagionò danno sul piano retributivo, l’entità della retribuzione ben poteva essere assunta, nell’ambito di una valutazione necessariamente equitativa, a parametro del danno da impoverimento professionale derivato dall’annientamento delle prestazioni proprie della qualifica.

Dalla violazione dell’art. 2087 c.c. (ricorrente in fattispecie) – che impone al datore di lavoro di tutelare la personalità morale del lavoratore – non deriva necessariamente la configurabilità di un’ingiuria (in conseguenza di emarginazione, perdita d’immagine, scadimento della reputazione, ecc.) e cioè un danno diverso dalla lesione della professionalità che già ingloba il pregiudizio all’immagine, risarcibile mediante riconoscimento del danno da demansionamento in senso ampio.

 

Svolgimento del Processo. – Con sentenza in data 10 febbraio / 9 marzo 1977, passata in giudicato, il Pretore – giudice del lavoro di Potenza dichiarava il diritto del sig. Rosario Martorano, giornalista dipendente della RAI-Radiotelevisione Italiana s.p.a., a svolgere mansioni corrispondenti alla qualifica di capo servizio e ordinava alla RAI di adibirlo in concreto in tali mansioni.

Con ulteriore sentenza in data 20 marzo / 10 aprile 1987, pure passata in giudicato, lo stesso Pretore condannava la RAI a risarcire alle eredi del lavoratore, frattanto deceduto, il danno allo stesso derivato dalla sua illegittima esclusione dall’attività lavorativa, in misura da determinarsi in separato giudizio; veniva precisato in motivazione che i danni in questione coprivano anche le conseguenze, in termini di mancata acquisizione di professionalità, relative alla perdita della possibilità di progressione ulteriore nelle qualifiche per promozione; peraltro, il Pretore ha disatteso la domanda volta al riconoscimento della qualifica superiore ed alle connesse conseguenze retributive e risarcitorie, avendo considerato che la promozione non sarebbe stata automatica e non sarebbe dipesa dalla sola anzianità di servizio e dallo svolgimento di mansioni di capo servizio per un periodo determinato, ma sarebbe dipesa esclusivamente da una valutazione discrezionale del datore di lavoro, corrispondente all’importanza delle mansioni. Pertanto, al di là di generiche presunzioni, non poteva ritenersi provato che il Martorano, se avesse potuto esercitare per un congruo periodo le mansioni di capo servizio, avrebbe successivamente ottenuto la promozione alla qualifica superiore.

Con atto depositato l’11 agosto 1988, le eredi del lavoratore, Emilia Martorano  Livia Martorano, Enrica Martorano e Pia Settimia Martorano ricorrevano al Pretore – giudice del lavoro di Roma chiedendo  la condanna della RAI al risarcimento del danno, da liquidarsi equitativamente nell’importo di L. 119.138.000, sofferto dal loro dante causa per l’inattività e la dequalificazione professionale, nonché l’ulteriore somma di L. 150.000.000 per le lesioni alla personalità, per il pregiudizio alla salute e per la perdita di possibilità di avanzamento in carriera.

In contumacia della RAI, il Pretore, con sentenza in data 28 marzo /22 agosto 1992, attribuiva il risarcimento per il solo danno da privazione delle mansioni determinandolo in L. 59.569.000, con riferimento alla retribuzione mensile lorda e rigettava ogni altra domanda.

Hanno proposto appello, in via principale, la RAI e, in via incidentale, le eredi Martorano; il Tribunale di Roma, con sentenza in data 22 ottobre 1997/23 aprile 1998, ha rigettato entrambe le impugnazioni ed ha compensato le spese.

Quanto al danno da privazione illegittima delle mansioni, derivato cioè dal fatto, accertato dal Pretore di Potenza, che il Martorano era stato lasciato in totale inattività per dieci anni, dal 1972 al 1982, danno comprensivo secondo la decisione di quel giudice del pregiudizio da mancata acquisizione di professionalità e da perdita di possibilità di progressione in carriera, il Tribunale ha ritenuto di non dover distinguere, come aveva fatto il Pretore, il danno da illegittima privazione delle mansioni – in sé considerata come menomazione di un bene suscettibile di valutazione autonoma, l’attività lavorativa – e il danno alla professionalità vera e propria. La privazione delle mansioni integra il comportamento illegittimo del datore di lavoro, non suscettibile di autonoma risarcibilità, se non abbia prodotto la menomazione della professionalità del dipendente, oltre eventualmente ad una serie di danni ulteriori, alla carriera, alla salute etc. Tale danno risultava provato in concreto dalla circostanza che il Martorano, già giornalista, era stato inquadrato come caposervizio sin dal luglio 1972 con mansioni, oltre che di giornalista, di coordinamento e controllo di altri giornalisti sottordinati. La professionalità del giornalista necessita di attività e aggiornamento continui talchè l’inattività comporta diminuzione del patrimonio e delle capacità professionali.

Il danno da dequalificazione era stato correttamente determinato dal primo dal primo giudice in via equitativa secondo il parametro della retribuzione; peraltro, considerato che il lavoratore aveva continuato a percepire lo stipendio corrispondente alla qualifica, era conforme a giustizia ravvisare il danno in misura pari alla sola metà del totale delle retribuzioni, così pervenendosi, seppure su presupposti diversi, ad una liquidazione corrispondente a quella determinata dal Pretore e, trattandosi di un criterio parametrico, erano ingiustificate le censure della RAI in ordine ai conteggi e alle voci stipendiali considerate.

Le altre domande risarcitorie erano sfornite di prova; comunque, le ricorrenti erano decadute dalla possibilità di provarle non avendo insistito nelle relative istanze.

In ogni caso i capitoli di prova erano inammissibili perché ininfluenti, particolarmente in punto di comportamento ingiurioso della RAI, di danno biologico e alla salute (sarebbero stati dedotti capitoli generici e comportanti giudizi da parte dei testi o concernenti circostanze già documentalmente risultanti); la richiesta consulenza medico-legale non poteva essere ammessa a fini probatori.

Quanto alle eventuali possibilità di carriera, le prove dedotte attenevano soltanto allo sviluppo della carriera conseguito da altri giornalisti.

Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso principale la RAI con due motivi.

Hanno resistito con controricorso Emilia, Enrica e Margherita Martorano, quali eredi di Rosario e Livia Martorano (deceduta nel corso del processo); hanno preliminarmente domandato che fosse odinata la cancellazione delle espressione contenute nella parte in fatto del ricorso perché lesive della memoria di Rosaio Martorano e del diritto alla riservatezza e perché non rilevanti; hanno proposto contestualmente ricorso incidentale affidato a quattro motivi.

Per resistere a quest’ultima impugnazione la RAI ha depositato controricorso contenente anche ricorso incidentale condizionato contro le eredi Martorano, affidato a cinque motivi.

Tutte le parti hanno depositato memorie illustrative.

Motivi della decisione. – Deve essere, anzitutto, respinta la richiesta di cancellazione di frasi o espressioni contenute nel ricorso principale, sia per la genericità della loro indicazione da parte dell’istante, sia perché non è dato rinvenire nell’atto espressioni o apprezzamenti sconvenienti od offensivi o che non siano, comunque, funzionali al più ampio diritto di difesa della RAI (v. Cass. 4 agosto 1999, n. 8411; 9 febbraio 1998, n, 1326).

Va, poi, dichiarato inammissibile il ricorso incidentale condizionato proposto dalla RAI nei confronti delle ricorrenti incidentali, eredi Martorano. La società, infatti, con la proposizione del ricorso principale aveva consumato il proprio diritto di impugnazione e pertanto non avrebbe potuto muovere successivamente ulteriori censure avverso la sentenza di appello (Cass. 23 settembre 1998, n. 9500; 11 ottobre 1999, n. 10153; 1° dicembre 1999, n. 13358; 2 dicembre 2000, n. 15407).

Col primo motivo del ricorso principale la RAI denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. – Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c. per avere il Tribunale ritenuto la sussistenza di un danno patrimoniale da privazione di ogni mansione, indipendentemente da qualsiasi elemento di prova, e (contraddicendosi) pur avendo ritenuto la necessità della prova medesima. Aggiungeva che, essendo il Martorano deceduto prematuramente e senza che avesse svolto attività al di fuori della RAI, il presunto impoverimento professionale sarebbe stato improduttivo di danni in concreto.

Il motivo è infondato.

Come risulta dall’esposizione che precede, il giudice di appello ha ravvisato in concreto la sussistenza di conseguenze dannose, derivate dalla privazione delle mansioni, nella circostanza che il Martorano, già giornalista, era stato inquadrato sin dal luglio del 1972 nella qualifica di caposervizio la quale comprendeva, oltre alle funzioni proprie del giornalista, anche quelle di coordinamento e controllo di altri sottordinati e di tali mansioni era stato privato col trasferimento a Potenza; il Tribunale ha posto altresì in rilievo come la professionalità del giornalista si autoalimenti nell’esercizio costante della professione e nell’aggiornamento insito nella stessa, così implicitamente affermando che, nel caso di mancato esercizio, le capacità professionali del giornalista ineluttabilmente si immiseriscono, con un danno certo anche se determinabile necessariamente solo in via equitativa.

La Corte non ritiene censurabile siffatto accertamento  di merito, basato su dati di comune esperienza e pertanto non arbitrario né illogico, così come non appare privo di concretezza il ricorso in via parametrica alla (metà della) retribuzione per la determinazione in termini quantitativi del danno, posto che, indubbiamente, non può negarsi che elemento di massimo rilievo nella determinazione della retribuzione è il contenuto professionale delle mansioni sicchè essa costituisce, in linea di massima, espressione (per qualità e quantità, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione) anche del contenuto professionale della prestazione, nel caso in esame, concretamente non accettata dalla RAI (e tuttavia egualmente retribuita come se fosse stata eseguita). Se, dunque, il  demansionamento non cagionò danno sul piano retributivo, l’entità della retribuzione ben poteva essere assunta, nell’ambito di una valutazione necessariamente equitativa, a parametro del danno da impoverimento professionale derivato dall’annientamento delle prestazioni proprie della qualifica. Tale danno si era maturato (ed è stato determinato dal giudice di merito in via equitativa-parametrica) per tutto il periodo successivo al trasferimento a Potenza, onde non appare condivisibile la critica secondo cui, essendo venuto a morte il lavoratore, non vi sarebbe stata una proiezione del danno nel futuro.

Col secondo motivo di impugnazione, la RAI lamenta, in via subordinata, violazione e falsa applicazione degli articoli 2697 e 2909 c.c. e 278 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. – Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c. dolendosi della liquidazione del danno senza che il Tribunale avesse considerato che alla sua determinazione anche il lavoratore aveva contribuito in quanto la destinazione all’attività di relazioni pubbliche era stata da lui sollecitata e comunque consentita, come risulta dalla sentenza 10 febbraio 1977 del Pretore di Potenza e dai documenti prodotti: la circostanza non gli aveva impedito di impugnare il provvedimento, ma non gli avrebbe consentito di chiedere il risarcimento dei danni, quanto meno sino all’impugnativa del provvedimento medesimo (1996): risarcimento che, in ogni caso, avrebbe dovuto essere adeguatamente ridotto. Trattandosi di questione attinente al quantum debeatur essa non era preclusa dalla sentenza del Pretore di condanna generica e ben poteva essere dedotta nel giudizio di liquidazione.

La censura è infondata.

Con la sentenza 10 febbraio 1977, passata in giudicato, il Pretore di Potenza ha, infatti, accertato che il Martorano avrebbe potuto essere adibito all’attività di caposervizio anche nella redazione di quella città, tanto che lo stesso giudice ebbe a dichiarare il diritto del lavoratore a svolgere dette mansioni; pertanto, la prospettazione della RAI, secondo cui la mancata adibizione ad esse del Martorano sarebbe dipesa da una sua richiesta o quanto meno dal suo consenso, attiene a fatti che per essere determinanti ai fini del concorso nella produzione dell’evento dannoso e della riduzione del risarcimento, avrebbero dovuto essere pienamente spontanei; mentre la spontaneità della accettazione  di un demansionamento non necessitato in concreto (al di là di eventuali prospettazioni della RAI al dipendente) non trova alcun decisivo riscontro nei fatti accertati nei giudizi di merito, fatti dei quali il Tribunale, secondo le critiche della ricorrente, avrebbe dovuto tenere conto.

Con ulteriore doglianza, la RAI deduce che il Tribunale non aveva tenuto conto, omettendo del tutto di motivare, dei periodi nei quali il lavoratore, non presente per varie ragioni in servizio (settimana corte, ferie, festività, permessi etc.) non avrebbe potuto risentire danni..

La censura non può essere condivisa in quanto il danno, che si concretava nella perdita di professionalità determinata protrarsi dell’inattività nelle mansioni proprie del lavoratore per tutto il periodo successivo al trasferimento a Potenza, nella valutazione equitativa complessivamente adottata dal giudice di merito in ragione della retribuzione, sfuggiva ad una determinazione in base ai giorni di effettiva prestazione dell’attività lavorativa, sì che dovessero sottrarsi i giorni nei quali non vi era stata prestazione (e vi era stata, tuttavia, la retribuzione presa a parametro del danno).

Inoltre, secondo la ricorrente, il Tribunale avrebbe errato (e comunque non aveva motivato) nel prendere a riferimento per la determinazione del danno in via equitativa le retribuzioni e cioè un dato del tutto scollegato dal pregiudizio.

L’infondatezza di questa censura risulta da quanto già argomentato circa la parametrazione del danno trattando del primo motivo del ricorso principale.

Infine, secondo la RAI, lo stesso giudice sarebbe incorso in errore e si sarebbe contraddetto nel prendere a riferimento la metà della retribuzione e nel determinare tale metà in L. 59.569.000, quando da conteggio analitico prodotto risultava che la somma sarebbe stata minore. Né sarebbe valsa a sanare l’incongruenza la precisazione che si trattava di un riferimento meramente parametrico.

La censura è inammissibile per la sua assoluta genericità e in particolare per il riferimento ad un conteggio analitico non riprodotto nel ricorso, di talchè al giudice di legittimità non è consentito di risalire all’errore (se logico o di calcolo non è precisato) denunciato dalla ricorrente principale.

Passando all’esame del ricorso incidentale, col primo motivo, le eredi Martorano, deducendo violazione e falsa applicazione di norme di legge : artt: 2697, 2087, 1218 c.c. , art. 61, 424, 414, 420, 421, c.p.c.. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.) si dolgono della reiezione della domanda relativa al danno biologico da emarginazione, quando da una visita medica presso l’ENPI, sollecitata dalla stessa RAI nel settembre 1981, era risultato che il Martorano soffriva di uno stato d’ansia con spunti protestati da disadattamento ambientale. Illegittimamente, inoltre, il Tribunale non aveva ammesso le prove ritualmente a tale riguardo proposte con l’atto introduttivo (senza che vi fosse necessità di riproporle all’udienza di discussione e comunque erano state di nuovo richieste con note autorizzate del 29 gennaio 1991); esse erano, inoltre, pertinenti siccome tendenti a ricollegare la malattia alle vicende lavorative e il sanitario che aveva redatto l’accertamento ENPI avrebbe dovuto limitarsi a riferire un fatto storico sia pure con le necessarie puntualizzazioni che il giudice avrebbe potuto richiedere in relazione alla certificazione già acquisita agli atti. In ogni caso lo stesso certificato costituiva prova del nesso causale tra la situazione ambientale lavorativa e lo stato ansioso depressivo indotto nel giornalista.

La consulenza tecnica, in quanto verifica, mirava appunto alla determinazione di un fatto e comunque, secondo giurisprudenza costante, essa ben avrebbe potuto assolvere anche a finalità probatorie.

Il motivo è infondato.

Il certificato del sanitario dell’ENPI, per la parte trascritta nel ricorso, non avrebbe potuto, sotto il profilo logico e giuridico, essere considerato prova di uno stato d’ansia riconducibile alle vicissitudini lavorative: se lo stesso medico avvertì la necessità di precisare che lo stato ansioso era stato riferito (protestato) dal lavoratore a disadattamento ambientale, era logico ritenere che nulla di più di quanto riferito dal Martorano il sanitario avrebbe potuto affermare sull’origine causale della patologia; pertanto, quel certificato non avrebbe potuto rappresentare neppure un significativo spunto che imponesse (siccome potenzialmente fruttuose) ulteriori indagini di ufficio del giudice di merito, né un punto di partenza per indagini peritali (oltretutto dopo il decesso del preteso danneggiato).

La Corte ritiene, inoltre, del tutto corretto il giudizio di inammissibilità della prova dedotta dalle eredi Martorano sul capitolo secondo il quale lo stato di emarginazione ed esclusione all’attività lavorativa, la mancata considerazione da parte della RAI delle sue istanze, la preclusione di qualsiasi prospettiva di un normale sviluppo di carriera, causavano al dott. Martorano uno stato di grave stress, ansia e depressione.

E’ del tutto evidente, infatti, che con siffatto capitolo si sarebbe teso a fare esprimere ai testi giudizi circa le condizioni ambientali di lavoro del giornalista e soprattutto giudizi di carattere diagnostico ed eziologico su una condizione patologica non altrimenti accertata, e cioè apprezzamenti che in nessun modo avrebbero potuto essere demandati a testimoni. Si tratta di rilievo assorbente rispetto ad ogni altra indagine circa l’eventuale decadenza dalla prova da parte della RAI.

Col secondo motivo l’annullamento è chiesto dalle ricorrenti incidentali per violazione e falsa applicazione di norme di legge: art. 2697, 2087, 1218 c.c., artt. 61, 424, 414, 420, 421 c.p.c.. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.) non essendo stata accolta la domanda per il risarcimento del danno da perdita di chances. A tale riguardo, sarebbe stata rilevante la prova sugli sviluppi di carriera di giornalisti con anzianità di servizio o professionale minore o equivalente a quella del Martorano, oltre che l’acquisizione di varie scritture aziendali specificamente indicate; tali circostanze, in sé e in relazione alle vicende professionali del Martorano, sarebbero state certamente rilevanti ai fini della decisione, mentre il giudizio di non pertinenza da parte del Tribunale non era adeguatamente motivato, così come la RAI non aveva spiegato come in un contesto di frequenti e ripetute promozioni di giornalisti con anzianità o qualifiche pari o inferiori a quelle del Martorano, dovesse negarsi,   anche in termini probabilistici, qualsiasi nesso causale tra l’emarginazione dello stesso dall’attività lavorativa e l’esclusione dalle promozioni.

Il motivo è infondato.

Il danno da perdita da parte di un lavoratore di chance è stato configurato dalla giurisprudenza in relazione a particolari opportunità di assunzione o di progressione in carriera in ordine alle quali il lavoratore avrebbe avuto verosimili e apprezzabili possibilità di successo, rimaste inattuate per cause attribuibili a comportamento inadempiente di parte datoriale.

Sotto tale specifico profilo, la pretesa del Martorano venne già rigettata dal Pretore di Potenza con la sentenza 10 febbraio /9 marzo 1977 passata in giudicato e prodotta in atti, sicchè una domanda del genere sarebbe stata, anzitutto, preclusa ai sensi dell’art. 2909 c.civ..

Né ritiene la Corte che la stessa domanda possa essere riproposta in modo del tutto generico sotto il diverso profilo di un danno alle astratte possibilità di carriera nell’arco di tempo in cui il lavoratore fu impiegato a Potenza e fino al decesso, perché, seppure il Tribunale ha ipotizzato tale tipo di danno come risarcibile in aggiunta alla lesione della professionalità per il quale già ha attribuito il risarcimento, ha anche correttamente escluso che le prove testimoniali e le richieste esibizioni documentali da ordinare alla RAI fossero prove pertinenti ed ammissibili.

Infatti, appare logico il ragionamento del giudice di appello secondo cui dallo sviluppo di carriera di altri giornalisti di pari o inferiore anzianità di servizio non sarebbe stato inferibile che analogo sviluppo avrebbe avuto la carriera del Martorano; risponde infatti a nozioni di comune esperienza che la carriera dipende da molteplici e sovente anche aleatori elementi di fatto, sovente indipendenti dall’anzianità di servizio e comunque dalle originarie condizioni di partenza dei lavoratori presi in esame (il Martorano, ad esempio, non ha dedotto di essersi mai lamentato del fatto in sé del trasferimento  a Potenza ed anche il luogo in cui si è svolta l’attività lavorativa costituisce astrattamente un dato rilevante e comunque incidente su altri fattori difficilmente ponderabili); d’altro lato, mentre le astratte possibilità di carriera attengono piuttosto all’eventuale danno alla vita di relazione, la cui risarcibilità è riconoscibile solo alle condizioni di cui all’art. 2059 c.civ., in particolare all’accertamento di un fatto reato, la puntualizzazione da parte del giudice di merito della perdita di una specifica chance (puntualizzazione cui avrebbe inevitabilmente condotto il preteso raffronto tra diverse posizioni lavorative in relazione a specifiche occasioni di promozione) avrebbe condotto alla violazione del giudicato di cui si è detto.

Le argomentazioni appena svolte in punto di genericità e comunque di inammissibilità delle prove testimoniali sono, inoltre, assorbenti rispetto alla questione dell’eventuale decadenza (ritenuta dal Tribunale) dal potere della parte di far assumere le prove stesse.

Col terzo motivo, le eredi Martorano deducono violazione e falsa applicazione di norme di legge: artt. 2697, 2087, 1218 c.c., 41, secondo comma Cost. Rep., e 595 c.p., artt. 414, 420, 421 c.p.c.. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.) e si dolgono della reiezione della domanda di risarcimento del danno da comportamento ingiurioso e lesione della dignità e personalità morale del giornalista. L’ingiuria poteva essere ravvisata anche in fatti concludenti rappresentati dall’emarginazione e dall’attribuzione di un incarico fittizio di cui ai motivi precedenti e alle sentenze del Pretore di Potenza passate in giudicato, quando la stima e la immagine era elemento essenziale per una libera esplicazione dell’attività giornalistica. Tale comportamento della RAI era stato consapevole, volontario e lesivo della personalità morale e della dignità professionale del dipendente che la società era tenuta a tutelare ai sensi dell’art. 2087 c. civ.; il danno conseguente avrebbe dovuto essere valutato in via equitativa tenuto conto delle condizioni ambientali, dell’età del lavoratore e di ogni altro elemento.

Il motivo è infondato.

La Corte ritiene, infatti, che correttamente il Tribunale ha escluso che dalla violazione della norma (art. 2087 c.civ.), che impone al datore di lavoro di tutelare la personalità morale del lavoratore, derivi la configurabilità di una ingiuria (oltretutto non ne è posto in evidenza, sotto un profilo penalistico, l’elemento psico-logico; con maggiore approssimazione, peraltro, e tuttavia sempre inesattamente, le ricorrenti incidentali richiamano anziché l’art. 594, l’art. 595 c.p. attinente ai riflessi esterni della reputazione del soggetto, ancora prescindendo da qualsiasi deduzione in ordine all’elemento soggettivo del reato) e cioè un danno in sé diverso dalla lesione della professionalità del giornalista che già fa parte della sua immagine (la personalità morale è tutelata dall’art. 2087 anzitutto in quanto propria del lavoratore, in considerazione, cioè, in primo luogo, della qualificazione soggettiva che maggiormente legittima la specifica tutela) e delle connesse possibilità di attuazione e di più pieno sviluppo della professionalità.

In concreto, ritiene la Corte che le ricorrenti incidentali non abbiano adeguatamente prospettato con le loro doglianze la sussistenza e la quantificabilità di un danno ulteriore, per il titolo ora reclamato (e comunque per un titolo diverso dal danno morale al quale altrimenti il diritto del lavoratore avrebbe potuto essere ricondotto, ma con i limiti di risarcibilità di cui all’art. 2059 c, civ,), rispetto a quello già risarcito con il riconoscimento del danno alla professionalità.

Col quarto motivo le ricorrenti incidentali chiedono l’annullamento della sentenza per violazione e falsa applicazione di norme di legge: art. 1, 2,4,35,41 Cost. Rep. ; art. 2087, 2103, 1226 c.c. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia (art. 360, n. 3 e 5 c.p.c.) e si dolgono della lesione, sempre a causa della privazione delle mansioni, di beni primari (danno alla vita di relazione, al patrimonio professionale, alla capacità di concorrenza) potetti della Costituzione, configuranti un danno in sé, il cui risarcimento avrebbe dovuto essere determinato in via equitativa.

Il motivo è infondato.

Si tratta di doglianze che la Corte giudica debbano essere disattese, in quanto attinenti ad una pretesa lesione della personalità complessiva del giornalista, per le stesse ragioni illustrate trattando dei due motivi che precedono, a proposito di beni particolari, rientranti nella complessiva tutela di detta personalità professionale e a proposito dell’avvenuto riconoscimento del danno da demansionamento in senso ampio.

Conclusivamente, assorbito ogni altro profilo di censura, il ricorso principale e l’incidentale delle eredi Martorano debbono essere entrambi rigettati.

Ricorrono giusti motivi per l’integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.T.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e l’incidentale delle eredi Martorano; dichiara inammissibile il ricorso incidentale della RAI; compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

 

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