Storno dei dipendenti e concorrenza sleale
Sommario:
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1.
Natura del c.d. "storno dei dipendenti"
Viene definito "storno di
dipendenti" l'iniziativa mediante la quale un imprenditore tende ad
assicurarsi le prestazioni lavorative (normalmente di natura professionale
qualificata) di uno o più dipendenti di una impresa concorrente.
L'iniziativa
viene considerata (1) "
espressione del principio della libera
circolazione del lavoro" e perfettamente lecita " quando non abbia lo specifico scopo di
danneggiare l'altrui azienda, oltre i limiti in cui un danno può quell'azienda
subire per il fatto stesso che un suo dipendente ha scelto di dimettersi per
andare a lavorare da un'altra parte".
Pertanto, quando il danno per l'azienda concorrente si
limita ad essere pari a quello conseguente alla privazione delle prestazioni
professionali di un dipendente che abbia assunto autonomamente ( o su stimolo
del mercato) la decisione di abbandonare la precedente azienda per prestare
attività a favore di un'altra concorrente, l'iniziativa dell'azienda
interessata o attivatasi per assumerlo non concretizza la fattispecie dell'atto di
"concorrenza sleale".
2.
Lo "storno dei dipendenti" quale atto di "concorrenza
sleale"nel pensiero della Cassazione e le critiche dottrinali
Peraltro lo "storno dei
dipendenti" raramente possiede caratteristiche così neutre o asettiche ma
sovente l'imprenditore che lo pone in essere mira a conseguire vantaggi propri (destinati a rifluire in
danni al concorrente), in ragione dell'appropriazione non già della mera
professionalità dell'ex dipendente ma delle conoscenze, delle tecniche delle
metodologie (più o meno riservate) da esso acquisite in ragione dello specifico
stato di dipendenza dalla precedente azienda, che il nuovo imprenditore
indirettamente (non solo riesce, ma) si è intenzionalmente ripromesso di ottenere per il tramite dell'ex
dipendente ed attraverso le quali giunge ad arrecare nocumento all'azienda
concorrente.
Quando
si verifica una tale situazione, lo "storno dei dipendenti"
costituisce atto di "concorrenza sleale", individuato - dall'art.
2598, n. 3) c.c. - in capo a "chi si vale, direttamente o indirettamente
di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza e idoneo a
danneggiare l'altrui azienda".
In una controversia intercorsa tra il 1970 ed il 1978 fra
due Compagnie di assicurazione, in cui una aveva assunto e nominato
amministratore delegato un ex agente dell'altra compagnia concorrente e si era
avvalsa delle notizie riservate da questi conosciute ( nominativi di clienti,
numero delle loro patenti di guida, tipo e numero di targa degli autoveicoli
assicurati, condizioni di contratto, ecc.) per tentare, con l'offerta di
condizioni più vantaggiose, di acquisirne la clientela, la Cassazione (2) ha
stabilito che : " configura atto di
concorrenza sleale, ai sensi dell'art. 2598, n. 3) c.c., per uso di mezzi non
conformi ai principi di correttezza professionale ed idonei a danneggiare
l'altrui azienda, l'utilizzazione di un ex dipendente, incaricato o associato
di un'impresa concorrente, che risulti diretta allo scopo di sviare la
clientela di quest'ultima, mediante il fraudolento impiego di informazioni o
documenti rimasti in possesso di detto soggetto".
La Cassazione veniva così a sottolineare - per il
riscontro della concorrenza sleale nel c.d."storno dei dipendenti" -
sia l'atto o la metodologia non conforme a correttezza professionale sia
la congiunta finalità di danneggiare
l'azienda concorrente.
Con successive decisioni del 1980 e del 1983 (3) -
in linea con il suo precedente, consolidato orientamento (4) -
la Cassazione stabiliva: " Perché lo storno dei dipendenti possa essere
qualificato come atto di concorrenza sleale da parte dell'impresa concorrente
non è sufficiente la mera consapevolezza, nell'agente, della idoneità dell'atto
a danneggiare l'altra impresa concorrente - quando il suo intento si diriga
esclusivamente a rafforzare la propria organizzazione - ma è necessaria l'intenzione
di conseguire il risultato della
disorganizzazione o disgregazione dell'azienda concorrente (c.d. animus
nocendi), intenzione che deve essere
ritenuta sussistente tutte le volte che lo storno dei dipendenti sia posto in
essere con modalità tali da non potersi giustificare alla luce dei principi di
correttezza professionale se non supponendo nell'autore l'intenzione di
danneggiare l'organizzazione e la struttura produttiva dell'imprenditore
concorrente".
La Cassazione - come è stato
notato in dottrina - si è fatta,
quindi, sostenitrice di una posizione finalistica, per cui rileva non tanto
l'intenzionalità quanto il conseguimento del risultato della disorganizzazione
dell'altrui azienda.
Questo orientamento ha ricevuto critiche da parte di
taluna dottrina (5)che
ha osservato come " la S. corte con
le sue decisioni dilata i confini dello storno dei dipendenti, sanzionandolo
anche quando l'attività di proselitismo sia incensurabile nei suoi singoli
aspetti, ma esiti complessivamente nella disgregazione dell'altrui operato, cui
non sembra possa far da contrappeso, in nessuna circostanza, il vantaggio
eventualmente derivato all'autore dello spoglio"; nonché da parte di
chi (6), sulla stessa linea ha
eccepito che: "sostenere la necessità dell'animus nocendi
per poi affermarne la sussistenza anche qualora le modalità che abbiano
contraddistinto lo storno dei dipendenti si rivelino non intrinsecamente scorrette, significa
svincolare il giudizio da qualsiasi
indagine sull'elemento soggettivo che abbia contraddistinto l'azione dello
storno, svuotarlo di qualsiasi contenuto, e , dunque, in definitiva negare
qualsiasi rilievo a quell'animus nocendi di cui si continua a sostenere la
necessità".
Tale dottrina evidenzia la parzialità dell'orientamento
"finalistico" delle decisioni della Cassazione, mostrando preferenza
per le posizioni dell'orientamento di merito che ha considerato lo
"storno" atto di concorrenza sleale quando ad esso si coniughino
modalità maliziose, scorrette, subdole e menzognere, quali esemplificativamente:
a) la denigrazione dell'attuale datore di lavoro, b) la diffusione di notizie
allarmistiche sulla situazione economica dell'impresa concorrente, e ,
indirettamente sulla stabilità del posto di lavoro, c) l'incitamento del
dipendente a porre bruscamente termine al proprio rapporto di lavoro, senza
rispettare i termini del preavviso, d) il proselitismo svolto da dipendente
infedele dell'impresa rivale all'interno di questa. In tutti gli altri casi - a
prescindere dalle risultanze disorganizzative dell'altrui azienda ( definite
consequenziali ma non intenzionali), lo storno dei dipendenti si rivelerebbe
lecito, poiché rientra nella libertà imprenditoriale offrire remunerazioni
superiori o prospettive di carriera più
allettanti ai dipendenti, anche dell'azienda concorrente, come rientra nella
c.d. libertà di lavoro dei prestatori d'opera scegliere soluzioni più
convenienti ed opportune.
La Cassazione - unitamente alla giurisprudenza di merito
conforme al suo orientamento - ha anche delineato taluni criteri indicativi
dell'animus nocendi, suscettibili
quindi di conferire connotazione di illiceità allo storno dei dipendenti. Tali
indici sono riassumibili:
a) nel numero dei dipendenti stornati, con le relative difficoltà
indotte all'azienda oggetto dello storno in termini di organizzazione del
personale, di rapporti con la clientela, di perdita del volume di affari e
simili;
b) nella collocazione in posizioni chiave nell'azienda oggetto dello
storno, cioè a dire nella loro essenzialità e nella loro non facile fungibilità
o sostituibilità con ricerca sul mercato. Ha infatti sostenuto la
Cassazione (7) che
: "l'idoneità dell'atto di
concorrenza sleale a danneggiare l'altra azienda, nell'ipotesi di storno di
personale, si concretizza con il passaggio dei dipendenti all'impresa
concorrente ed acquista rilievo in base all'importanza dei ruoli dagli stessi
occupati nell'azienda" ( di
provenienza , n.d.r.).
Similmente si è espressa la posteriore decisione del 1983
(8), in armonia con altra del 1968 (9), che
hanno, anch'esse, posto in rilievo il carattere indiziario (e talora
costitutivo) della fattispecie della concorrenza sleale nello storno dei
dipendenti, affermando che, a tal fine, " si richiede che i dipendenti medesimi siano particolarmente qualificati
ed utili per la gestione dell'impresa concorrente" ( cioè per
quella oggetto dello storno),
conferendo così anch'esse rilievo al
ruolo rivestito nella precedente
azienda, e che " tale illecita
sottrazione venga effettuata intenzionalmente, e cioè col deliberato proposito di trarne vantaggio con danno
dell'azienda altrui";
c) nel fatto che, prima delle dimissioni, i dipendenti avessero stipulato
accordi finalizzati alla costituzione di una società concorrente;
d) nella brevità del lasso di tempo entro il quale si è realizzato lo
storno (v. Pret. Roma 10 marzo 1987, in Giur.
ann. dir. ind. 1987, n.2154);
e) nel fatto che le dimissioni di un alto numero di dipendenti siano state date senza preavviso e
attraverso lettere di dimissioni predisposte uniformemente (v. Trib. Milano
15 giugno 1989, in Giur. ann. dir. ind.
1989, n. 2423).
Secondo la precitata dottrina questo indirizzo
giurisprudenziale della Cassazione - di cui peraltro si deve necessariamente
tener conto - susciterebbe non poche perplessità.
Innanzitutto si eccepisce che " l'imprenditore stornante quando propone ad uno o più dipendenti di un
concorrente di trasferirsi presso di lui, ben difficilmente sarà mosso
dall'intenzione di danneggiare il concorrente, quanto piuttosto intenderà
avvantaggiare se stesso. Il danno che l'ex datore di lavoro può subire a
seguito del trasferimento di uno o più dipendenti non è sicuramente estraneo
alle previsioni dell'imprenditore "stornante", ma può ragionevolmente
supporsi che tale evento non sia il fine perseguito da quest'ultimo, bensì un
effetto indiretto che, sebbene previsto, viene considerato un'inevitabile
conseguenza delle leggi che governano il mercato del lavoro. E', infatti, arduo
pensare che un imprenditore possa decidere di eliminare scorrettamente dal
mercato un concorrente attraverso l'utilizzazione dello storno dei dipendenti.
Certo non è pensabile che l'imprenditore stornante rinunci ad acquisire
dipendenti di un suo concorrente ( rinunciando ad avvantaggiarsi delle loro prestazioni,
ragionevolmente considerate preziose) solo perché frenato dal pensiero che il
concorrente possa subire un danno (giusto)"(10);
solamente, infatti, " un velleitario
moralismo estraneo al piano del giudizio giuridico ed alla stessa ideologia del
sistema in atto potrebbe impedire di riconoscere che l'imprenditore mira
costantemente e fisiologicamente ad indebolire e possibilmente eliminare il
concorrente per impadronirsi del mercato"(11).
Queste considerazioni - prosegue la precitata dottrina -
" impongono una sorta di presunzione
di liceità ( e non di illiceità, come parrebbe desumersi dalla giurisprudenza
della S. corte) della condotta dell'imprenditore che offra migliori condizioni
ai dipendenti di un concorrente per indurli a trasferirsi presso di lui.
In assenza di
specifici indizi che rendano evidente
la scorrettezza dell'azione del soggetto "stornante" - come ad es. la
diffusione di notizie false e denigratorie nei riguardi del concorrente per
indurre i suoi dipendenti ad abbandonarlo; l'imporre ai dipendenti del
concorrente delle modalità di trasferimento (assenza di preavviso) che
aggravano il normale disagio che quest'ultimo dovrà sopportare; il compiere
attività di storno al dichiarato fine di carpire segreti industriali o
professionali di cui i dipendenti siano a conoscenza, o, ancora per sviare la
clientela del concorrente - non può essere considerato ingiusto il danno che
possa derivare ad un soggetto ( l'ex datore di lavoro) dall'esercizio (che non
possa dirsi contrario all'utilità sociale) di libertà che sono
costituzionalmente garantite.
Non si può quindi che
dissentire dal pensiero della giurisprudenza di legittimità e di parte di
quella di merito che impone di desumere l'illiceità della condotta del soggetto
"stornante" da indici del tutto "neutri" e, dunque,
inidonei a provare la contrarietà a norme o principi del nostro ordinamento"(12).
Circa il riscontro dell'intento dannoso, la Cassazione ha
evidenziato che: "Premesso che il
dolo o la colpa non sono elementi costitutivi della fattispecie legale di cui
all'art. 2598 c.c.; precisato che connotato rilevante e qualificante dei
comportamenti considerati al n.3) del citato art. 2598 c.c. come atti di
concorrenza sleale è unicamente la loro difformità dai principi di correttezza
professionale, resta ribadito che alla
qualificazione di cui si tratta deve procedersi con criterio puramente
oggettivo, l'elemento soggettivo non essendo suscettibile di colorare
d'illiceità un atto che oggettivamente non sia ingiusto...; l'intento di nuocere non necessita di prova
diretta, ma può essere desunto dal modo in cui lo storno viene effettuato, che
deve essere tale da non potersi giustificare se non ritenendo l'animus nocendi
dell'autore, che può risultare da qualsiasi fatto o circostanza idonea a rivelarlo
ed è pertanto desumibile anche da semplici presunzioni e semplici perspicua
indicia, purché di tale concludenza da non lasciare adito su di esso a seri e
ragionevoli dubbi"(13). Le
aziende "stornanti", nelle decisioni del 1980 e del 1983, eccepirono
che limitare la mobilità del personale fra impresa ed impresa costituiva una
compressione della libertà di iniziativa economica ( ex art. 41 Cost.) e della
libertà di lavoro (ex art. 35 Cost.)
degli stessi prestatori d'opera, in attività dello stesso settore economico,
penalizzando - in tal modo - il sorgere di nuove organizzazioni aziendali, più
moderne e competitive, e favorendo una politica di autarchia e di protezionismo
che male si accordava con le esigenze concorrenziali del mercato (nazionale, europeo, mondiale).
I rilievi di incostituzionalità vennero tuttavia
dichiarati manifestamente infondati
dalla Cassazione, nelle due occasioni succitate, in base alla considerazione
che "la tutela costituzionale dei principi di libertà di iniziativa economica
e del diritto al lavoro è subordinata alla non lesione dell'utilità sociale e
di una corretta economia di mercato, a cui risponde l'esigenza che la
concorrenza tra imprenditori si svolga in modo leale" (Cass. n. 6928/1983 e Cass. n. 2996/1980).
3.
Cautele e condizioni di legittimità dello "storno dei
dipendenti"
Volendo trarre indicazioni riassuntive dall'orientamento della Cassazione va evidenziato che, ai fini di dar consistenza alla fattispecie della concorrenza sleale attraverso il c.d. "storno dei dipendenti", è irrilevante ( e legittimo) l'intento dell'imprenditore "stornante" di appropriarsi di una professionalità non posseduta, esperta e già formatasi presso l'azienda concorrente per la migliore realizzazione dei propri interessi ed affari, mentre è rilevante l'intenzione di nuocere, con tale appropriazione di personale, agli interessi concorrenti dell'altra azienda, in forma di sviamento di clientela, di subentro nell'assegnazione di commesse ( che, altrimenti, non gli sarebbero state attribuite dai fornitori, se avessero saputo che gli era carente quella determinata tipologia di personale specializzato), di ottenimento di incarichi professionali ad alta qualificazione (che, diversamente, sarebbero stati attribuiti all'azienda concorrente) e simili.
E' pertanto necessario - da parte di un imprenditore che
( in conseguenza dell'esigenza di assolvere ad un incarico commissionatogli)
voglia sottrarsi al rischio di strutturare la fattispecie dello "storno
dei dipendenti" tramite l'assunzione di personale da impresa concorrente -
poter inconfutabilmente dimostrare che l'incarico dal fornitore è antecedente temporalmente alla ricerca di personale presso l'azienda
concorrente e che l'appropriazione di un certo personale qualificato non è stato
affatto il presupposto o la condizione
per l'ottenimento dell'incarico, ma che lo storno è semplicemente derivato
dalla sollecitudine o autoesigenza di
dotarsi di una qualificazione non posseduta (o accrescitiva di quelle esistenti
in azienda) al fine di poter diligentemente ed efficacemente assolvere ad
un incarico o commissione da terzi. E
tale commissione deve essergli comunque stata conferita antecedentemente e a prescindere dalla struttura organizzativa e
professionale specifica dell'azienda in quel determinato settore. Insomma
l'appropriazione di personale è lecita se corrisponde ad una soluzione
organizzativa aziendale, compensativa di deficienze o accrescitiva delle
preesistenti competenze possedute; è atto di concorrenza sleale se costituisce
il marchingegno o la condizione per la sottrazione all'azienda concorrente
dello stesso incarico (in ballottaggio tra le due) che il terzo si è riservato
(o ripromesso) di assegnare in fase successiva, subordinatamente alla
valutazione della consistenza e della dotazione professionale dei collaboratori
e dei tecnici o specialisti di ciascuna delle due aziende.
4.
L'utilizzabilità delle prestazioni del lavoratore stornato e la
possibile inibitoria giudiziale
Connessa al tema dello storno dei dipendenti è la questione relativa alla possibilità di impedire giuridicamente, attraverso una pronuncia di inibitoria, che l'imprenditore - che abbia indotto a trasferirsi presso di sé i prestatori di lavoro di un concorrente - possa utilizzare le prestazioni del o dei lavoratori stornati.
In generale non sembra possibile che il rapporto di
lavoro già instauratosi tra il datore di lavoro ed il prestatore stornato possa
essere risolto per ordine del giudice. Ciò è stato efficacemente sottolineato
da Pret. Firenze 16 settembre 1980 (14),
secondo cui nell'ipotesi di storno dei dipendenti " si può dar luogo ad inibizione quanto alle ulteriori sottrazioni,
mentre per quelle già avvenute, non
si può certo riportare il lavoratore sottratto al primo datore o inibirgli la
prosecuzione della sua attività lavorativa".
Posto, dunque, che il rapporto di lavoro tra il
dipendente dimessosi e l'imprenditore che lo abbia convinto a farlo, poi
assumendolo, non possa essere annullato o risolto dal giudice, è necessario
verificare se il giudice possa vietare al nuovo datore di lavoro di utilizzare
le prestazioni del dipendente stornato.
Anche in questo caso la giurisprudenza appare orientata
in senso negativo; secondo quanto emerge dalle più recenti pronunce in materia,
non parrebbe possibile impedire giuridicamente al nuovo datore di lavoro di
continuare ad utilizzare le risorse umane già acquisite, e cioè di poter
continuare a trarre vantaggio dalle prestazioni dei dipendenti che si sono
trasferiti presso di lui. Nei rari casi in cui l'inibitoria ha interessato
l'utilizzazione delle prestazioni del dipendente stornato, il divieto ha
riguardato attività molto specifiche e
circoscritte che si rivelavano potenzialmente dannose ( o meglio
concorrenzialmente scorrette) nei riguardi dell'ex datore di lavoro.
E' particolarmente significativa, a questo proposito, la
decisione di Pret. S. Donà di Piave 9 novembre 1981 (15), con
la quale , pur riconoscendosi che l'inibitoria allo storno poteva solo
riguardare un'ulteriore attività di tal genere, è stato fatto divieto al nuovo
datore di lavoro di utilizzare le prestazioni dei dipendenti stornati con
riferimento specifico alle tecnologie
altamente qualificate (proprie della impresa presso la quale avevano
lavorato) di cui questi erano a conoscenza e per l'attività di contrattazione con clienti e fornitori
dell'imprenditore vittima dello storno ( limitatamente al caso in cui tale
attività fosse svolta direttamente dagli ex dipendenti stornati).
Il divieto di utilizzare le prestazioni del dipendente
trasferitosi da un imprenditore ad un'altro, dunque, può riguardare solo quelle
attività la cui esecuzione si riveli illecita, e cioè quelle prestazioni che si
risolverebbero in un atto di concorrenza sleale.
Quest'ultima osservazione introduce un'ulteriore importante questione ovvero sia quella del limite di utilizzabilità delle cognizioni tecniche ( e commerciali) che il lavoratore stornato abbia acquisito nel periodo in cui si trovava alle dipendenze dell'altro datore di lavoro. Dobbiamo far presente che la giurisprudenza sembra abbastanza incline a consentire lo sfruttamento delle conoscenze tecniche e commerciali acquisite dal lavoratore in costanza di rapporto di lavoro, salvo che si tratti di dati segreti o riservati propri dell'ex datore di lavoro.
Anzitutto non vi sono dubbi sulla possibilità di
utilizzare quelle generiche conoscenze tecniche e commerciali che ciascun
dipendente, nel trasferirsi presso un altro imprenditore, porta con sé,
trattandosi di conoscenze "attinenti al modo generico ed inseparabile
alla formazione culturale e professionale delle persone, ovviamente non
deponibili sulla soglia dell'azienda lasciata"(16).
Per quanto attiene alla conoscenze acquisite in relazione
alla clientela dell'ex datore di lavoro, anche queste sembrano poter essere
utilizzate per entrare in un leale rapporto di concorrenza con l'ex datore di
lavoro, e cioè purché non si verifichi un'ipotesi di concorrenza sleale per
storno di clientela. Ha, al riguardo, stabilito Trib. Milano 3 febbraio 1983 (17)
che " in assenza di un valido patto di non concorrenza, cessato il rapporto
di lavoro e, con esso, l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., il
lavoratore può, nello svolgimento della propria attività, sia in via autonoma
che alle dipendenze di altri, non solo utilizzare le esperienze e le cognizioni
tecniche acquisite a causa del lavoro svolto, ma anche le cognizioni relative
al mercato ed alla clientela acquisite nella passata attività come
dipendente".
(pubblicato in Lavoro
e previdenza Oggi 1996, n. 2, p. 212)
(1)
Da Cass. 3 agosto 1987, n. 6682, in Not. giurisp. lav. 1988, 166 e ss.
(2) Cass. 1° sez. civ., 5
aprile 1978, n. 1548, in Mass.giur. lav.
1979, 447.
(3) Cass. 1° sez. civ., 6 maggio 1980, n. 2996, in Giur. it. 1980, I, 1408 e Cass. 1° sez.
civ., 21 novembre 1983, n. 6928, in Not.
giurisp. lav. 1984, 160.
(4) Costituito dalle statuizioni di Cass. 17 gennaio
1974, n. 125, in Giur.it. 1974,I, 1,
1688 (e in Giust.civ. 1974,I,389);
Cass. 19 novembre 1968, n. 3763, in Giur.
it. 1969,I, 1, 1725 (e in Foro it. 1969,I,316) ; Cass. 18 luglio 1967, n.
1824, in Mass. giur. lav. 1969, 488 ;
Cass. 17 giugno 1966, n. 1561, in Giur.
it. 1967,I,1, 222. In dottrina, per le varie opinioni (anche se piuttosto
datate), si rinvia a Teofilatto, Lo
storno dei dipendenti come atto di concorrenza sleale, in Mass. giur. lav. 1965,176; Brunetti, Appunti di giurisprudenza e dottrina sullo
storno dei dipendenti come atto di concorrenza sleale, ibidem, 1968,333; Salafia, Liceità
ed illiceità dello storno dei dipendenti, in Mon. trib. 1970,173; Vercellone, Precisazioni sul c.d. storno dei dipendenti, in Notiz. giur. 1968, 1013; Ghidini, Slealtà della concorrenza e costituzione
economica, Padova, 1978, 189; Balsamo, Liceità
ed illiceità dello storno dei dipendenti come atto di concorrenza sleale,
in Riv. dir. comm. 1979,II,160;
Brancadoro, Limiti di liceità dello
storno di dipendenti e di ausiliari autonomi dell'imprenditore, in Giust. civ. 1980, I, 2324; Auteri, La concorrenza sleale, nel Trattato Rescigno, 18, Utet 1983,404 e
ss. Più recentemente, Meli, Lo storno dei
dipendenti come atto di concorrenza sleale: un uso giurisprudenziale della
clausola di correttezza professionale, in Contr. e impr. 1990,165 e ss.; Lucchini, Storno dei dipendenti e principio del neminem ledere, in Nuov. giur. civ. comm. 1993,384.
(5) Pardolesi, Nota a Cass. 6 maggio 1980, n. 2996, in
Foro it. 1980, I,1886.
(6) Lucchini, Storno
dei dipendenti e principio del neminem ledere, in Nuov. giur. civ. comm.
1993,II, 384 e ss.
(7) Cass. n. 6928/1983, cit. e precedenti conformi riferite
in nota 4.
(8) Cass. 16 maggio 1983, n.
3365, in Giur. it. 1984, I, 1, 382;
conf. Cass. n. 2296/1980,cit.
(9) Cass. 19 novembre 1968, n.
3763, in Giur. it. 1969, I, 1, 1725;
conf. Cass. n. 1824/1967, cit.
(10) Così Lucchini, op. cit., 394.
(11) Così Trib. Milano 20 novembre 1969, in Foro it.
1970, I,1510.
(12) Così Lucchini, op.cit., 395.
(13) Così da Cass. n. 2296/1980, cit.; conf. Cass. n.
3763/1968, cit. e Cass. n. 125/1974 (inedita).
(14) In Giur.
ann. dir. ind. 1980, n. 1334. Conf. Pret. Montebelluna, 6 maggio 1987, ibidem 1987, n.2170.
(15) In Giur.
ann. dir. ind. 1981, n. 1443.
(16) Così Trib. Milano 20 novembre 1969, cit.
(17) In Giur. ann. dir. ind. 1983, n. 1650.
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Motivi della decisione
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