- Tribunale di Lecce –
sez. lav. (1° grado) - 20 settembre
2002 (dep. 25 luglio 2003) – Giud. Buffa – Bechis ed altri (avv. Renna), Attino ed altri (avv. D’Amati),
Mandese ed altri (avv. Giordano) c. Alfa editoriale s.r.l. (avv. Antonacci, Balducci, Caracuta, Colitta e De Francesco)
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- Licenziamenti
illegittimi – Ordinanza cautelare di reintegrazione in servizio - Inottemperanza datoriale all’ordine giudiziale e mantenimento dei lavoratori in stato di
inattività con pagamento della retribuzione – Lesione della dignità e della
professionalità, rifluente sotto l’aspetto del danno esistenziale non
patrimoniale.
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- L’art. 2103 c.c. pone non solo il divieto di dequalificazione e
cioè di assegnazione di mansioni inferiori rispetto a quelle proprie della
qualifica di assunzione ed il divieto di demansionamento e cioè di assegnazione
di mansioni inferiori a quelle ultime effettivamente svolte, ma impone al datore
di lavoro l’adibizione effettiva del dipendente al lavoro, ed è dunque
espressione del diritto del lavoratore a lavorare concretamente.
- La violazione dell’art.
2103 c.c. assume dimensioni
intollerabili ove il dipendente, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione,
sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di
compiti. L’ inattività forzata del lavoratore è la forma più grave di
dequalificazione e demansionamento e
dal demansionamento o dalla forzata inattività del lavoratore non deriva solo
un danno inerente il patrimonio del soggetto, ma anche un danno relativo alla
sua professionalità, intesa essa sia come lesione al “patrimonio” professionale
del dipendente sia come lesione alla qualità della vita dello stesso, e quindi un
danno propriamente esistenziale, che colpisce la persona in quanto tale (si
tratta di danni a beni immateriali, non suscettibile di valutazione
medico-legale ma liquidabili solo in via equitativa).
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- SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
- - omissis -
- La decisione
del tribunale in sede di reclamo.
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- Istruita la causa
innanzi a sé, all’esito della
discussione delle parti, in accoglimento del reclamo interposto dai ricorrenti,
il tribunale in composizione collegiale riteneva fondate le doglianze dei
ricorrenti, sia in ordine al fumus boni juris, che in relazione al periculum in
mora. In particolare, il tribunale ravvisava il trasferimento di azienda e la
violazione dei diritti dei lavoratori in ordine alla continuazione del rapporto
di lavoro con il cessionario. Giudicava altresì fondate le prospettazioni dei
ricorrenti in ordine all’attualità e all’irreparabilità del danno che dal
mancato riconoscimento dei diritti azionati loro poteva derivare nelle more del
giudizio di merito, ritenendo che il mancato esercizio, per un tempo
prolungato, dell’attività giornalistica poteva verosimilmente determinare una
significativa compromissione della professionalità degli interessati.
- Il tribunale, quindi,
dichiarava che il rapporto di lavoro tra i reclamanti era proseguito con la
s.r.l. Alfa Editoriale e ordinava, di conseguenza, a quest’ultima di provvedere
alla loro reintegrazione, con la qualifica posseduta alla data del 14/6/98, e
al pagamento delle relative retribuzioni, così riformando l’ordinanza impugnata;
rimetteva quindi alla decisione in sede di cognizione ordinaria anche ogni
provvedimento sulle spese della fase cautelare.
- - omissis -
- Il risarcimento dei
danni da inattività.
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- I ricorrenti Sinisi e Orlandini,
oltre a chiedere la conferma del provvedimento cautelare reso in loro favore, hanno dedotto peraltro
che il prolungato periodo di mancato esercizio della professione, trattandosi
di un'attività di natura intellettuale con sue peculiari caratteristiche, aveva
determinato e continuava ad arrecare loro una
significativa compromissione della professionalità; infatti,
l'inattività che si protraeva da vari mesi, e le stesse ingiuriose modalità con
le quali era avvenuto il loro allontanamento dalla redazione in data 6/7/98,
avevano arrecato un pregiudizio notevole alla loro immagine ed avevano
compromesso la continuità dei rapporti con le fonti dirette di informazione,
con gli investigatori, i politici, gli amministratori locali, i rappresentati
della associazioni sindacali, ordini professionali ecc., che consentiva loro di
redigere quotidianamente gli articoli della cronaca di Brindisi, ad un livello
professionale tale da arricchire e qualificare il giornale presso un vasto
numero di lettori. L’ulteriore danno professionale derivava dalla impossibilità
di utilizzare 1'archivio personale
(costituito da numerosissimi documenti contenenti articoli,
interviste, ricerche, dati cronologici di avvenimenti
significativi della cronaca locale e nazionale) immagazzinato nella memoria del
sistema informatico del giornale (ora cancellato, a cui era possibile accedere
con il rispettivo codice segreto). Tale compromissione del bagaglio
professionale acquisito in un lungo periodo di esercizio della professione giornalistica
aveva determinato in entrambi un danno patrimoniale che si chiedeva fosse
liquidato in via equitativa ai sensi dell'art. 1226 cc. e dell'art 432 c.p.c.
- Chiedevano quindi sul
punto dichiararsi e riconoscersi il loro diritto al risarcimento del danno
conseguente al pregiudizio della professionalità acquisita derivante dal lungo
periodo di inattività, da determinarsi in via equitativa anche ai sensi
dell'art.1226 cc. e dell'art. 432 c.p.c., e condannarsi per l'effetto l'Alfa
Editoriale s.r.l. al pagamento in loro favore delle somme ritenute eque e di
giustizia con gli interessi e la rivalutazione monetaria; riservavano invece
azione separata in ordine ai danni biologici ed alla salute causati dal trauma
derivante dalla forzata inattività e dalle modalità di allontanamento dalla redazione.
- Anche la ricorrente
Mandese, nel ricorso ordinario dalla stessa proposto, chiedeva il risarcimento del danno alla professionalità subito
per il periodo di inattività a decorrere dal febbraio 1999, danno da liquidarsi
equitativamente.
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- Con riferimento ai
ricorrenti Sinisi e Orlandini, va rilevato che è pacifico che gli stessi si
siano presentati al giornale dopo la reintegra cautelare e sono stati cacciati
via sul presupposto nella non costituzione del rapporto. In proposito, non si
ritiene che si tratti di recesso orale, come opinato dai ricorrenti, ma si
tratta solo dell’attuazione del rifiuto datoriale di riconoscimento della
prosecuzione del rapporto di lavoro e di esecuzione dell’ordine di riammissione
in servizio giudizialmente (ancorché cautelarmente e dunque in via provvisoria)
ottenuto dai ricorrenti.
- Non vi è dubbio
peraltro che da tale mancata riammissione al lavoro dei dipendenti sia derivato
loro un danno.
- Nell’ambito del
rapporto di lavoro, occorre così considerare che, se rilevano le lesioni dei
diritti soggettivi del lavoratore, non è invece in sé risarcibile qualunque
difficoltà o qualunque disagio che attiene all’espletamento del rapporto di
lavoro: non bisogna infatti dimenticare la natura del rapporto di lavoro
subordinato, un rapporto nel quale, come è noto, vi è una parte che
economicamente e giuridicamente in posizioni di debolezza e di inferiorità, e
un’altra parte, più forte, alla quale l’ordinamento attribuisce una serie di
poteri unilaterali di gestione del rapporto. I datori di lavoro hanno poteri
unilaterali di organizzazione dell’azienda e poteri di organizzazione del
lavoro: si tratta del potere, in generale, di conformare la prestazione
lavorativa. Il lavoratore non ha un potere di determinazione né di incidenza
sulle determinazioni dell’imprenditore: non può incidere sulle scelte
organizzative aziendali, né sulle scelte del datore di lavoro di organizzazione
del lavoro, ma subisce, passivamente, queste scelte: correlativamente, i danni
che al lavoratore possono derivare dalla attuazione di determinate scelte
aziendali sono danni che, nel nostro ordinamento, non sempre vengono
configurati come danni ingiusti e quindi idonei a legittimare una azione
risarcitoria.
- Il lavoratore, però, ha
una posizione soggettiva di fondamentale importanza che è l’interesse
–inquadrabile nella categoria degli interessi legittimi, ma di tipo
privatistico- ad un corretto esercizio da parte del datore di lavoro dei poteri
unilaterali di gestione; a questo interesse, che è alla base di una funzione di
controllo che può espletare il lavoratore sulla posizione del datore di lavoro,
corrisponde quello che è il generale obbligo di buona fede e di correttezza del
datore di lavoro: questo è certo un
ambito della responsabilità del datore di lavoro nella quale può trovare
applicazione il danno esistenziale.
Così, la violazione da parte del datore di lavoro di questi obblighi di
correttezza e di buona fede si ha, innanzitutto, quando il datore di lavoro
abusa dei propri poteri, cioè, giuridicamente, fa un uso dei propri poteri
dirigendoli a fini diversi da quelli previsti dalla norma che assegna il potere
unilaterale al datore di lavoro. Si pensi così al datore di lavoro che,
abusando dei suoi poteri unilaterali di organizzazione del lavoro, mantenga il
dipendente in uno stato di inattività forzata, preferendo magari pagargli la
retribuzione e tenerlo a casa piuttosto che farlo lavorare.
-
- Ora, l’assegnazione
delle mansioni ai dipendenti è disciplinata in modo rigoroso dall’art. 2103
c.c. (come modificato dall’art. 13 stat.lav.), che nello stabilire che il
prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato
assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia
successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime
effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione, pone non
solo il divieto di dequalificazione (ossia di assegnazione di mansioni
inferiori rispetto a quelle proprie della qualifica di assunzione) ed il
divieto di demansionamento (ossia di assegnazione di mansioni inferiori a
quelle ultime effettivamente svolte), ma impone al datore di lavoro
l’adibizione effettiva del dipendente al lavoro, ed è dunque espressione del
diritto del lavoratore a lavorare concretamente.
- In proposito, non
bisogna dimenticare che l’art. 2103 nel testo attuale è stato introdotto
dall’art. 13 stat.lav., e dunque si inserisce nella legge 20 maggio 1970, n.
300 diretta a garantire la libertà e dignità dei lavoratori, nei luoghi di
lavoro: ciò impone una lettura della norma come volta ad apprestare una
efficace e pregnante tutela del patrimonio professionale del lavoratore.
- In altri termini, la
norma è volta a tutelare il diritto del lavoratore alla utilizzazione, al
perfezionamento ed all'accrescimento
del proprio corredo di nozioni di esperienza e di perizia acquisita nella fase
pregressa del rapporto, da un lato mantenendo il grado di autonomia e
discrezionalità nell’esercizio delle mansioni e la posizione del dipendente nel
contesto dell'organizzazione aziendale del lavoro, dall’altro lato impedendo
una perdita delle potenzialità professionali acquisite o affinate sino a quel
momento o anche solo una sottoutilizzazione –qualitativa o anche solo
quantitativa- del patrimonio professionale del lavoratore (Cass., 4 ottobre
1995, n. 10405, in Foro it. 1995, I, 3133; Cass.13 novembre 1991, n. 12088, in
Not. giurisp. lav. 1991, 830; Cass., 10 febbraio 1988, n. 1437; Cass., 6 giugno
1985, n. 3372, in Not. giurisp. lav. 1985,648; Cass., 15 giugno 1983, n. 4106,
ibidem 1983, 451), ed (cfr. Cass., 4 ottobre 1995, n. 10405, cit.; Cass., 14
luglio 1993, n. 7789, in Not. giurisp. lav. 1993, 808).
- Come acutamente si è
detto in dottrina, in contrasto con irridenti opinioni correnti a connotazione
negativa fondate sull’esaltazione gratificante dell’ozio, la violazione
dell’art. 2103 c.c. assume dimensioni intollerabili ove il dipendente, ancorché
senza conseguenze sulla retribuzione, sia lasciato in condizioni di forzata
inattività e senza assegnazione di compiti: infatti, il lavoro non è solo un
mezzo di guadagno ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità dei
soggetto, tutelato come tale dalla Costituzione (art. 1, 2 e 4 Cost.,
soprattutto).
- La forma più grave di
dequalificazione e demansionamento è senza dubbio l’inattività forzata del
lavoratore, come avviene nell’ipotesi in cui lo stesso sia di fatto privato
delle mansioni (c.d. svuotamento delle mansioni, che si verifica quando la
mansione è privata dei suoi aspetti principali e più significativi, come nel
caso della assegnazione del redattore a mera attività di cucina redazionale o
come nel c.d. calo di firma), sia lasciato effettivamente senza alcun compito
(inattività vera e propria: il lavoratore è privato di ogni mansione), non sia
accolto affatto nei locali aziendali (ipotesi questa che trova espressione
proprio nel caso di licenziamenti annullati giudizialmente intimati da datori
di lavoro insensibili all’ordine giudiziale, nonostante le sanzioni penali,
quantomeno ex art. 650 cod.pen.: sul tema, Cass. 18 agosto 1991, n. 8835, in
Riv.it.dir.lav., 1992, II, 954).
- Proprio con riferimento
alla inattività forzosa del lavoratore, trib. Milano 26 aprile 2000, in
Riv.critica dir.lav. 2000, 750, ha
ritenuto che costituisce illegittima dequalificazione la sottrazione di tutte
le mansioni attribuite al dipendente, tale da determinarne la totale
inoperosità e che tale demansionamento lede la professionalità del lavoratore,
intesa sia come insieme delle competenze professionali acquisite, sia come
identità professionale del lavoratore percepita all'esterno nella società
civile.
- Secondo Trib. Roma 11
gennaio 2001, in Lavoro giur. 2001, 773, è ammissibile la tutela d’urgenza
della posizione del lavoratore costretto all’inattività, in quanto la
prolungata inattività forzata, specie in presenza di una elevata
professionalità, comporta il fondato rischio di pregiudicare irreparabilmente,
durante il tempo occorrente per la conclusione del giudizio di merito, il
diritto del lavoratore a realizzare la propria personalità attraverso il
lavoro.
- In materia altresì,
sempre nell’ambito del rapporto di lavoro privato, Pret. Milano 7 aprile 1998, ibidem, 1998, 702, nonché Pret.
Milano 11 marzo 1996, ibidem, 1996, 677, che condannano il datore di lavoro alla
reintegrazione del lavoratore –lasciato totalmente inattivo, per scopo o
effetto punitivo- nelle mansioni corrispondenti alla qualifica rivestita.
- Particolarmente
rilevante, in materia, la recente Cass. 2 gennaio 2002, n. 10, attinente al
caso di inattività forzosa pluriennale di un dipendente della RAI, che ha
ritenuto che il comportamento del datore di lavoro, che demansiona o lascia in
condizione di inattività per lunghissimo tempo un dipendente, non solo viola la
norma di cui all’art. 2103 c.c., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale
diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della
personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità
del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle
prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza.
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- Del tutto diverso è il
problema della individuazione della precisa natura del danno in discorso:
infatti, dal demansionamento o dalla forzata inattività del lavoratore non
deriva solo un danno inerente il
patrimonio del soggetto, ma anche un danno relativo alla sua professionalità,
intesa essa sia come lesione al “patrimonio” professionale del dipendente sia
come lesione alla qualità della vita dello stesso, e quindi un danno propriamente
esistenziale, che colpisce la persona in quanto tale (per ciò che è non per ciò
che ha): si tratta di danni a beni immateriali, non suscettibile di valutazione
medico-legale ma liquidabili solo in via equitativa.
- Dopo la nota sentenza
n. 500/99 della Corte di Cassazione in tema di risarcimento di interessi
legittimi, è ormai acquisito che il termine danno nell’ambito della
responsabilità rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie di
illecito civile –contrattuale o aquiliano- correlato alla lesione di un
interesse giuridicamente tutelato, sicché dipende dalle scelte di valore
operate dall’ordinamento giuridico nella selezione degli interessi protetti e
delle conseguenze pregiudizievoli economicamente rilevanti.
- In tale ambito,
rilevano:
- il classico danno
patrimoniale, ossia le conseguenze che derivano dall’illecito al patrimonio di
un soggetto in termini di danno emergente –quantum abest- e lucro cessante
–quantum lucrari potuit- ;
- il danno morale, inteso
quale complesso di sofferenze fisiche o morali derivanti al danneggiato
dall’illecito ovvero il pretium doloris, disciplinato dall’art. 2059 cod civ.
che ne limita la risarcibilità nei soli casi previsti dalla legge (allo stato,
i casi di illecito cosituente reato: art. 185 cod.pen.; art. 2 della legge
117/88: risarcimento anche dei danni non patrimoniali derivanti dalla
privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni
giudiziarie; art. 29, comma 9, della legge 675/96: impiego di modalità illecite
nella raccolta di dati personali; art. 44, comma 7, del d.lgs. 286/98: adozione
di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; art. 2 della
legge 89/2001: mancato rispetto del termine ragionevole di durata del
processo);
- il danno biologico,
riconosciuto dalla sentenza Corte Costituzionale 14 luglio1986, n. 184, come
danno riguardante la salute in sé considerata, a prescindere dalle conseguenze
che dalla menomazione derivano sul piano patrimoniale.
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- La giurisprudenza di
legittimità ha più volte precisato che il demansionamento professionale dà
luogo ad un pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità
economica del lavoratore, violando non solo lo specifico divieto di cui
all'art. 2103 c.c., ma costituendo anche offesa alla dignità professionale del
prestatore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel
contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del lavoratore,
bene immateriale per eccellenza) e quindi di lesione del diritto fondamentale
alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro.
- Con particolare
riferimento al danno alla professionalità, Cass. sez. lav. 1 giugno 2002, n.
7967, ha ritenuto così che il danno da dequalificazione professionale puó
assumere aspetti diversi, in quanto può consistere sia nel danno patrimoniale
derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal
lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel
pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di
guadagno, sia in una lesione del diritto del lavoratore all'integrità fisica o,
più in generale, alla salute ovvero all'immagine o alla vita di relazione
(Cass.14.11.2001, n. 14199; Cass.6.11.2000, n. 14443; Cass. 18.10.1999, n.
11727).
- Da tale ambito di
responsabilità restano fuori però tutta una serie di danni alla persona che
sono danni di carattere non
patrimoniale e che attingono a beni ed interessi costituzionalmente tutelati,
inerenti l’esistenza dei singoli e la qualità della vita: la lesione di vari
beni immateriali (professionalità, vita di relazione, riservatezza, identità
personale, reputazione, immagine, autodeterminazione sessuale): infatti, mentre
i riflessi patrimoniali delle lesioni arrecate a tali beni sono senza dubbio risarcibili
secondo i tradizionali principi ex art.
2043 c.c., la lesione in sé considerata di tali beni configura un danno non
patrimoniale, in sé non rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 2059
cod. civ., tradizionalmente inteso, se non nei casi di legge.
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- La domanda dei
ricorrenti Orlandini, Sinisi e Mandese di risarcimento del danno alla
professionalità comprendono diversi aspetti (non esplicitati dai ricorrenti, ma
certo ricompresi nella loro unica generale domanda risarcitoria del danno da
inattività, che esclude solo danni morali e biologici espressamente): un
aspetto strettamente patrimoniale, uno relativo alla diminuita professionalità
derivante dall’inattività, uno relativo alla diversa qualità della vita
connessa con l’inattività forzata.
- I ricorrenti Guido,
Attino e Luperto, invece, hanno chiesto espressamente solo il risarcimento del
danno patrimoniale alla professionalità.
-
- Il danno alla
professionalità come danno patrimoniale può riguardare ogni caso di inattività
forzata del lavoratore, ma deve essere provato dal lavoratore, in relazione ad
esempio alla ridotta capacità professionale valutabili sul mercato del lavoro,
tenuto conto della specifica professionalità conseguita presso l’azienda
editoriale e delle altre attività eventualmente svolte ciò che nel caso nessun
ricorrente ha specificamente fatto, neppure fornendo presunzioni.
- Infatti, in tema di
onere della prova del danno, va rilevato in linea generale che la prova del
danno deve essere in genere data dal lavoratore (Cass. 11.8.1998, n. 7905;
Cass.19.4.1996 n. 3696), e può essere articolata in relazione al tipo di danno
preteso, e quindi data anche mediante la prova presuntiva (Cass. 2.11.2001 n.
13580), sufficiente di per sé sola a sorreggere la decisione (Cass. 18.1.2000 n.
491: Cass. 3.2.1999 n. 914). Così, se per il danno biologico è necessaria la
prova della lesione dell'integrità psico-fisica, nella quale si sostanzia il
danno (Corte cost. sent. 372/1994; Cass. 11.1.2001 n. 333), per la perdita
della capacità concorrenziale sul mercato del lavoro può essere sufficiente la
allegazione e la prova di circostanze di fatto gravi, precise e concordanti
(art. 2729 c.c.) dalle quali il giudice
del merito possa dedurre l'esistenza di tale danno patrimoniale.
- Nel caso in questione,
i ricorrenti suddetti hanno lamentato un danno alla professionalità considerata
nei suoi aspetti patrimoniali ed hanno pure allegato una serie di elementi in
grado -se provati- di confermare tale
danno patrimoniale; nessuna prova specifica, tuttavia, neppure per presunzioni
concrete, essi hanno poi fornito nel giudizio di merito in ordine a tali
componenti patrimoniali della danno alla professionalità, sicché le domande
risarcitorie del danno alla professionalità non possono trovare accoglimento
alcuno in questo giudizio per tali aspetti patrimoniali, effetto di lesione del
patrimonio professionale dei lavoratori.
- Diverso discorso invece
va fatto in ordine agli aspetti esistenziali del danno alla professionalità (il
cui risarcimento può ritenersi richiesto solo dai ricorrenti Orlandini, Sinfisi
e Mandese, che, nella domanda risarcitoria del danno da inattività
professionale, non hanno limitato la pretesa al danno patrimoniale): qui
infatti va rilevato che il regime probatorio è più agevole, essendo configurabili
–come si dirà meglio di seguito - automatismi (il danno è in re ipsa) in
relazione alla lesione di interessi costituzionalmente protetti.
- Sotto il profilo
dogmatico, si è contestata a lungo la risarcibilità del danno esistenziale,
accedendo da taluni ad una concezione di danno non patrimoniale, quale
enunciata dall’art. 2059 c.c., in cui vadano compresi soltanto i danni morali
subiettivi, quei danni arrecanti un dolore morale alla vittima ed in nessun
modo riguardanti il patrimonio, escludendosi così a priori la distinzione fra
danno morale e danno non patrimoniale.
- Oggi, peraltro, la
giurisprudenza, sia di merito che di legittimità che costituzionale, si è
orientata verso una nozione ampia, costituzionalmente orientata, del danno non
patrimoniale, esorbitante non solo da una visione penalistica (i casi di legge
ormai riguardano in via maggioritaria fattispecie extrapenali), ma anche da una
impostazione limitativa del risarcimento ai casi previsti dalla legge: nel
perdurante vigore dell’art. 2059 c.c., si è ritenuto che, allorquando vengano
in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi
che il risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2059 c.c.,
sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge (tanto più se correlata
all’art. 185 c.p.), e si è affermato che ciò che rileva, ai fini
dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’art. 2059 c.c., è l’ingiusta
lesione di un interesse alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non
suscettibili di valutazione economica, in quanto una lettura della norma
costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite, se
la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti.
- Se, così, si supera
l’equazione danno non patrimoniale-danno morale, sottolineandosi la maggiore
latitudine da attribuire al primo, si può propendere per una configurazione di
danno che sia comprensiva di qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una
valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di
risarcimento, bensì di riparazione.
- Come rilevato dalla
miglior dottrina, il danno esistenziale non ha nulla a che vedere con le
lacrime, le sofferenze, i dolori, i patemi d’animo: il danno morale è
essenzialmente un sentire, il danno esistenziale è piuttosto un non fare, cioè
un non poter più fare, un dover agire altrimenti, un relazionarsi diversamente.
- Il danno non
patrimoniale consiste nella lesione di un bene inidoneo a costituire oggetto di
scambio e di quantificazione pecuniaria secondo le leggi di mercato ma che
costituisce pur sempre un interesse direttamente protetto dall’ordinamento ed
in quanto tale può affermarsi la sua natura di interesse rivestito di valore
economico, alla stregua degli altri interessi immateriali tutelati. Le
conseguenze sono da considerarsi nella loro valenza economica anche se
l’interesse leso, costituente il danno-evento, è di natura immateriale e non
patrimoniale, spostandosi il baricentro della tutela risarcitoria dal contenuto
del danno a quello della ingiustizia della lesione.
-
- Il danno esistenziale
risarcibile consiste, in altri termini, nella perdita o nella compromissione di
una o più attività realizzatrici della persona salvaguardate sempre dall’art. 2
Cost., nella “rinuncia del lavoratore alla quotidianità” e nella
“compromissione della propria sfera di esplicazione personale”, secondo le
espressioni giurisprudenziali.
- Anche nella
giurisprudenza, del resto, può dirsi ormai superata la tradizionale affermazione
secondo la quale il danno non patrimoniale riguardato dall’articolo 2059 c.c.
si identificherebbe con il cosiddetto danno morale soggettivo, essendo stata
prospettata, nel quadro di un sistema bipolare del danno patrimoniale e di
quello non patrimoniale, un’interpretazione costituzionalmente orientata
dell’art.2059 c.c., tesa a ricomprendere nell’astratta previsione della norma
ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti
alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte
turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso
stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito,
all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento
medico (art. 32 Cost.); sia infine il danno esistenziale derivante dalla
lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona.
- In proposito va
ricordato che nel caso sopra richiamato dell’inattività totale pluriennale del
dipendente RAI, Cass. 10 gennaio 2002, n. 10, ha ritenuto che il giudice di appello aveva enunciato un
concetto di lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità
professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria
utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, ed aveva ritenuto che
tale lesione avesse prodotto automaticamente un danno (non economico ma
comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi
personali del lavoratore), anche se determinabile necessariamente solo in via
equitativa. La Cassazione nel caso ha confermato la pronuncia impugnata,
sottolineando come il demansionamento non solo viola lo specifico divieto di
cui all’articolo 2103 cod.civ, ma ridonda in lesione del diritto fondamentale
alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro,
determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione
dell’interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende
suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa (Cass.
11727/99, 14443/00). L’affermazione di un valore superiore della
professionalità, direttamente collegato a un diritto fondamentale del
lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in
qualche modo supera e integra la precedente affermazione che la mortificazione
della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove
venisse fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un danno patrimoniale
(cfr. le sentenze 7905/98, 1026/97, 3686/96 e 8835/91). Prova, viceversa, che,
secondo le ricordate pronunce, rimane necessaria per quanto riguarda
l’eventuale danno materiale, il pregiudizio economico cioè subito dal
lavoratore anche in termini di guadagno non conseguito per effetto della
perdita di concreti vantaggi necessariamente legati allo svolgimento delle
mansioni negate.
-
- Non qualsiasi perdita
esistenziale potrà costituire un danno risarcibile: ed in questo caso
l’interprete avrà il compito – certo, non sempre agevole - di individuare il
“selettore”, cioè il criterio in base al quale discernere le perdite
esistenziali meritevoli di tutela risarcitoria da quelle non risarcibili. Nella
difficile opera di selezione degli interessi, si è detto in dottrina che un
punto di riferimento potrà essere dato dal quadro dei valori costituzionali,
più precisamente il progetto di vita che ogni individuo insegue dovrà essere
“filtrato” attraverso quei valori su cui si fonda la Costituzione: solo attraverso
questa strada si possono selezionare le attività realizzatrici della persona
che reclamano tutela, la natura del bene che la condotta del convenuto ha
violato, le ripercussioni sofferte dalla vittima.
-
- Una responsabilità
risarcitoria incentrata sull’alterazione della quotidianità del danneggiato
richiede, a ragione, una prova rigorosa a seconda della normalità o meno delle
conseguenze prospettate. Ove siano lesi diritti costituzionalmente tutelati, il
regime probatorio sarà più agevole, risultando in re ipsa il danno
esistenziale. Quanto più invece si apre la responsabilità risarcitoria del
danno esistenziale ad altre attività realizzatrici dell’uomo ritenute
meritevoli d’interesse, tanto più difficile sarà la prova richiesta al
danneggiato, dovendosi dimostrare la meritevolezza delle attività svolte ed
loro regolare svolgimento.
- In ordine all’onere
della prova, in dottrina si è così rilevato che particolari interessi
meritevoli di tutela, oggetto di diritti costituzionalmente tutelati –perché
trovano un riconoscimento espresso nella Carta Costituzionale (il diritto alla
salute o il diritto alla dignità della persona) oppure perché connessi a
posizioni di libertà (il diritto di manifestare il proprio pensiero) e così
via, se violati, indefettibilmente, comporteranno un danno esistenziale in capo
alla vittima, sicché la prova che deve offrire il danneggiante può anche
ridursi alla prova della sola lesione; diversamente, se più che la lesione in
quanto tale rilevano le conseguenti alterazioni della quotidianità, sarà
opportuno distinguere, fra le alterazioni normali –ossia quelle ipotesi in cui
il torto subito impedisce al danneggiato di esplicare tutte quelle attività
attraverso le quali, prima dell’evento lesivo, svolgeva la proprio personalità
e che realizzavano il suo benessere complessivo- le alterazioni specifiche
legate ad una lesione strettamente connessa alla particolare condizione di vita
della vittima (essendo già accertata in astratto la meritevolezza della
attività limitata); in questo caso quindi sarà il soggetto danneggiato a dover
dare una prova molto puntuale del danno subito, proprio perché quelle
conseguenze non si ricollegano da un punto di vista della valutazione sociale
normalmente a quel fatto lesivo.
- Così, la mera
illegittimità di un licenziamento è prevista già dalla legge (che vi appronta
una tutela risarcitoria dei danni derivanti al lavoratore dal recesso datoriale
illegittimo) e può ritenersi situazione in sé insufficiente per richiedere un
intervento risarcitorio del danno esistenziale insito nell’inattività, in
quanto conseguenza in sé normale del recesso illegittimo. Ben diversa è invece
la situazione in cui al licenziamento si contrappone un ordine giudiziale di
reintegra o di riammissione al lavoro, sicché l’inattività forzata da un lato
assume caratteri di illiceità particolarmente pregnanti e, dall’altro lato,
riguarda un rapporto di lavoro del tutto in essere, sicché il lavoratore non è
in condizioni di trovare un altro impiego, facendo affidamento proprio
sull’esecuzione della decisione giudiziale. In tali casi, del resto, si ha non
solo la lesione dell’interesse – già giudizialmente riconosciuto (ancorché in
via cautelare)- del lavoratore a lavorare effettivamente, ma anche della
lesione della dignità del lavoratore (art. 2 Cost.) e dell’interesse – del pari
costituzionalmente protetto - alla effettività della tutela giurisdizionale dei
propri interessi riconosciuti dall’ordinamento (art. 24 Cost.): in tali casi,
infatti, il comportamento del datore che non esegue effettivamente l’ordine
giudiziale si rivela, a cagione dell’incoercibilità dell’ordine di reintegra in
relazione alle obbligazioni infungibili di facere del datore, particolarmente
lesivo degli interessi del lavoratore ed offensivo della sua dignità, e la
posizione di quest’ultimo risulta del tutto mortificante.
- Ciò è particolarmente
vero non già nei casi di licenziamenti dichiarati illegittimi in genere (ove si
potrebbe dire che il lavoratore che impugna il recesso datoriale mette in conto
l’inattività fino alla decisione giudiziale e questa, d’altra parte, risarcisce
i danni connessi in applicazione della tutela ordinaria legislativamente
prevista avverso i recessi datoriali illegittimi) ma in quello in cui al
licenziamento si contrappone un ordine giudiziale di reintegra o di
riammissione al lavoro, sicché l’inattività forzata da un lato assume caratteri
di illiceità particolarmente pregnanti e, dall’altro lato, riguarda un rapporto
di lavoro del tutto in essere, sicché il lavoratore non è in condizioni di
trovare un altro impiego, facendo affidamento proprio sull’esecuzione della
decisione giudiziale.
- In tale contesto,
l’ordine di reintegrazione o equivalenti può costituire il presupposto di
ulteriori conseguenze giuridiche, derivanti dall'inosservanza dell'ordine
contenuto nella sentenza, eventualmente anche di rilievo penale (Cass. 17
luglio 1992, n. 8721; Trib. Roma 3 gennaio 1996, in Riv. Critica dir.lav.,
1997, 117; Trib. Roma 6 febbraio 2001, inedita; afferma la pronunciabilità di
un ordine di reintegrazione nelle mansioni di provenienza, Trib. Milano 25
ottobre 1995, in Riv.critica dir.lav. 1996, 152; Pret. Genova 15 maggio 1998,
ibidem, 1998, 987): in particolare, l’inosservanza dell’ordine di
reintegrazione espone il datore di lavoro al risarcimento di tutti i danni
subiti dal lavoratore connessi all’inattività forzata. incluso il danno
esistenziale.
-
- La mancata ottemperanza
all’ordine di reintegrazione o analoghi importa un danno esistenziale al
lavoratore: in tal caso, infatti, il diritto all’effettivo espletamento della
prestazione lavorativa ha tutela
specifica in quanto avallata dall’intervento del giudice (sicché l’ordine
giudiziale consente certamente di superare le resistenze della dottrina e
giurisprudenza –tanto prevalenti quanto non condivisibili- nel ravvisare nella
carta costituzionale un diritto all’effettività del lavoro in sé considerato) e
va incluso nell'ambito dei diritti
inviolabili; correlativamente, la mancata adibizione del lavoratore al lavoro
nonostante ordine giudiziale risulta offensiva della dignità del lavoratore che
ha scelto di tutelare i propri interessi attraverso le vie giurisdizionali.
-
- In giurisprudenza, si è
così ritenuto che la mancata ottemperanza da parte datoriale alla sentenza di reintegrazione
del lavoratore licenziato, anche se risulti l’avvenuto pagamento delle
retribuzioni, costituisce comportamento illecito, che obbliga il datore di
lavoro all’ulteriore risarcimento del danno alla professionalità subito dal
lavoratore, a cagione della forzata inattività (pret. Milano 20.7.99, in
Riv.critica dir.lav., 1999, 885). L’abuso dell’iniziativa privata, esplicitata
attraverso l’inattuazione dell’obbligo di reintegra disposto con sentenza, è
idoneo ad offendere la dignità del lavoratore e la sua professionalità in senso
soggettivo, ed assumono anche valore patrimoniale (trib. Firenze 15.4.98, in
Lav. giur. 1998, 7, 580). In senso contrario, invece, la più risalente Cass.
24.3.98, n. 3131, che –prima del riconoscimento del giudice di legittimità
della categoria del danno esistenziale- ha affermato che nell’ipotesi in cui il
lavoratore illegittimamente licenziato chieda il risarcimento dei danni
derivanti dalla mancata esecuzione dell’ordine di reintegrazione e poi dalla
riammissione in servizio con mansioni inferiori a quelle spettanti, la
responsabilità risarcitoria -
collegata
ad una lesione della personalità morale del lavoratore e della sua immagine -
non può estendersi, in assenza del presupposto di cui all’art. 2059 c.c., al
danno non patrimoniale).
- In altri termini,
l’esigenza di limitare il risarcimento del danno esistenziale alle situazioni
di antigiuridicità più evidenti importa il riconoscimento della tutela non a
tutti i casi di inattività conseguenti al licenziamento del lavoratore (essendo
peraltro tipizzate le conseguenze dell’annullamento del recesso e del
risarcimento dei danni) o addirittura in costanza di rapporto di lavoro (come
nel caso di sottrazione di tutte le mansioni o della parte principale di essa),
ma solo ai casi in cui l’inattività riguarda licenziamenti già dichiarati
illegittimi ed ai quali si è accompagnato un ordine giudiziale di
reintegrazione o di riammissione al lavoro: in tali casi, infatti, normalmente
il lavoratore fa affidamento sulla esecuzione dell’ordine giudiziale e non
ricerca altro lavoro, sicché l’inattività eventuale cui il lavoratore sia
costretto dal lavoratore risulta essere particolarmente frustrante e lesiva per
il lavoratore, configurando un vero e proprio comportamento ingiurioso del datore
di lavoro ed all’evidenza ritorsivo per la perdita del giudizio reintegratorio
(nel caso cautelare), e correlandosi ad un rapporto di lavoro giuridicamente in
essere.
- Nel caso di specie,
tale situazione ha riguardato i lavoratori Sinisi e Orlandini (già beneficiari di un ordine cautelare di
“reintegra” nel lavoro) e non invece Mandese, che si è trovata solo nella mera
situazione di una lavoratrice dipendente di un datore di lavoro inadempiente
alle proprie obbligazioni.
- In entrambi i casi di
inattività è ravvisabile un danno alla professionalità del lavoratore, ma solo
nel caso di Sinisi ed Orlandini il pregiudizio in discorso, inquadrabile nella
categoria del danno esistenziale, è automaticamente risarcibile.
- Infatti, con
riferimento al danno esistenziale, ove siano lesi diritti costituzionalmente
tutelati, il regime probatorio è più agevole, risultando in re ipsa il danno
esistenziale. Ciò è particolarmente evidente nel caso della mancata attuazione
della reintegra disposta, per la lesione dell’interesse del lavoratore
–giudizialmente riconosciuto- all’effettività del proprio lavoro (il lavoratore
non lavora e non può ricercare altro lavoro avendone uno già formalmente
pendente e soprattutto ha il diritto giudizialmente riconosciuto all’esecuzione
della prestazione lavorativa negata) sia per la lesione della sua dignità (il
quale avendo subito un torto, civilmente non si è fatto giustizia da sé, si è
rivolto al giudice che gli ha dato ragione, ma ha visto il datore di lavoro
rimanere –con protervia e noncuranza- insensibile all’ordine giudiziale).
- Nel caso invece della
mera inattività forzata del dipendente, come pure nel caso del mero
licenziamento illegittimo, non si ha una immediata lesione di un interesse non
patrimoniale costituzionalmente protetto, sicché il lavoratore deve dimostrare
che dall’inadempimento datoriale sia derivata l’impossibilità di svolgimento di
attività realizzatrici della persona o che comunque sia derivata, per le
modalità concrete del fatto o per la durata dell’inattività, una lesione della
sua dignità e personalità; in difetto
di ciò infatti, le conseguenze dell’illecito datoriale per così dire
“ordinario” sono tipizzate dal legislatore con il conferimento di tutele
diverse, che non prevedono il risarcimento del danno esistenziale, ma solo
altre misure risarcitorie o indennitarie.
- Ciò non importa che in
tali casi non possa ravvisarsi un danno esistenziale, ma richiede come si è
detto una prova specifica del lavoratore in ordine alla lesione della dignità
della persona o di altri suoi diritti della personalità costituzionalmente
tutelati e dunque alla particolare forza lesiva dell’illegittimo comportamento
datoriale che dia ragione del risarcimento anche del danno non patrimoniale
(contra, App. Roma 16.02, in MGL, 2003,
1,72, secondo la quale invece il bene della professionalità costituisce una
componente dell’identità personale ed è tutelato dall’art. 2103 c.c. e 2 Cost.,
sicché la sua lesione è risarcibile di per sé, indipendentemente dagli
ulteriori effetti lesivi eventualmente prodotti dall’inandempimento datoriale
sul piano patrimoniale o dell’integrità psicofisica). Nel caso della ricorrente
Mandese, tale prova non risulta essere stata fornita, neppure per presunzioni,
non risultando –oltre il mero inadempimento datoriale - alcun elemento che possa
dar conto di quel quid pluris in grado di recare il danno esistenziale
tutelabile.
-
- I criteri di
liquidazione del danno esistenziale saranno diversi da quelli ordinariamente
utilizzati per la liquidazione del danno biologico, anche se sempre affidati
alla ricostruzione equitativa del giudice (art. 1226 c.c.).
- Questo giudice è
consapevole del fatto che nel caso l’evento dannoso si produce su beni
immateriali (la professionalità, la dignità del lavoratore) e prescinde da
riferimenti economico patrimoniali, sicché la liquidazione del danno non deve
necessariamente limitarsi ad una quota della retribuzione destinata a
compensare la professionalità in senso stretto, ma può pervenire nella
liquidazione del danno cagionato a beni costituzionalmente protetti ad una
determinazione che si basi, come per il danno biologico, su parametri
egualitari diversi dalla retribuzione.
- Nel caso, tuttavia, in
difetto di qualsivoglia allegazione della parte in ordine a tali diversi
criteri non può che farsi riferimento
al solo dato retributivo, conformemente alle pronunce giurisprudenziali in tema
più diffuse.
-
- Nella giurisprudenza di
merito, il danno alla professionalità viene solitamente individuato in una
percentuale variabile della retribuzione mensile (Cass. 10/4/96 n. 3341 la
quale ha ritenuto la congruità di tale criterio di liquidazione del danno)
anche se vi è grande diversità di opinioni in ordine alla misura di quella
percentuale: e cosÌ v'è chi lo individua nel circa 100% della retribuzione
percepita (Pret. Milano 26 gennaio 1999, in Orient.giur.lav., 2000, 77, che ha
quantificato il risarcimento del danno equitativamente nella misura del 100%
della retribuzione percepita nel periodo di dequalificazione; così pure Pret.
Milano 7 gennaio 1997), nel 50% (Pret.
Milano 31/7/97 e 14/2/96), nel 40% (Pret. Milano 26 agosto 1996; pret. Milano 1
marzo 1999, ibidem, 88), nel 30% (cfr. Trib. Roma 12/10/98), nel 25% (Pret.
Milano 26 giungo 1999, ibidem 352), nel 15% (Trib. Milano 9/11/96), in un terzo
della retribuzione (Trib. Milano 30/11/96).
- In particolare, Pret.
Milano 26 agosto 1996, in Orient. giur.lav., 1996, 825, ha ritenuto che la determinazione del danno, in mancanza
di specifiche allegazioni da parte del lavoratore, deve essere effettuata in via
equitativa con riferimento alla retribuzione globale netta, dalla quale va
sottratta la quota destinata compensare
gli altri elementi della prestazione lavorativa, quali il tempo di lavoro, la
penosità fisica di esso, lo sforzo intellettuale, potendosi in tal modo
terminare lo specifico danno alla professionalità nella misura del 40% della
retribuzione globale netta, moltiplicata per il tempo per il quale è perdurata
la dequalificazione.
- Altro orientamento
ancora applica una percentuale non fissa ma variabile delle retribuzione per liquidare il danno alla professionalità,
in relazione alle circostanze concrete che possono mutare nel corso del tempo:
così, in un caso in cui al demansionamento era seguito un vero e proprio
trasferimento, con correlativa mobbizzazione del lavoratore, Trib. Forlì 15
marzo 2001, in Orient.giur.lav. , 2001, 411. In proposito, Cass. 835/01 ha
ritenuto non automatico il parametro della retribuzione mensile, potendo tener
conto di diversi livelli di qualificazione; ha pure ritenuto che la perdita del
valore della professionalità aumenti col passare del tempo di esposizione al
demansionamento Pret. Milano 9 dicembre 1997, in Riv. critica dir. lav., 1998,
421 che ha fissato in 1/4 della retribuzione per i primi 4 mesi, in 1/3 per i
successivi 5 mesi, nel 50% per i successivi 6, in 2/3 nei successivi 3 e infine
nel 100% da quella data in poi). Cassazione 5 marzo 2002 n. 3 ha poi ritenuto
che l’entità del danno alla professionalità sia quantificabile in misura
percentuale della retribuzione mensile (40% e poi 70%), variabile nel corso del
tempo in relazione all’aggravarsi della lesione.
- In applicazione di
questi criteri, nel caso, in difetto di allegazione e prova di specifici
concreti elementi che consentano di ravvisare un danno crescente nel tempo
ovvero di ancorare il danno a parametri di riferimento non patrimoniali, si
ritiene congrua la liquidazione del danno esistenziale subiti dai ricorrenti
Sinisi ed Orlandini nella misura di ¼ della retribuzione globale di fatto per
ciascun mese di inattività, a decorrere dalla data di comunicazione o notifica
dell’ordinanza cautelare collegiale fino alla data della riammissione in
servizio.
- Spese dei giudizi.
- Le spese di lite
seguono la soccombenza, con distrazione in favore del procuratore dei
ricorrenti (come indicato in dispositivo) solo ove questi abbia reso la
dichiarazione di rito circa l’anticipazione delle spese e la non riscossione
delle competenze di lite.
- Nella liquidazione si è
tenuto conto del numero di cause proposte e delle opposizioni a decreto
ingiuntivo riunite: in particolare, oltre al giudizio principale (comprensivo
peraltro di merito e di fasi del giudizio cautelare, e relativo a tutti i
ricorrenti), 3 giudizi ciascuno riguardano i lavoratori Orlandini, Sinisi, e
Melillo, 4 opposizioni riguardano i lavoratori Guido, Attino e Luperto, 1
opposizione i lavoratori Tarricone, Bechis e De Pascalis. Per Mandese, non
risulatano procedure monitorie opposte e riunite in questa sede.
-
- p.q.m.
- In nome del popolo italiano
- Il giudice del lavoro
-
- definitivamente
pronunciando nella causa r.g. 326/99 ed altre riunite, promosse da Melillo ed
altri contro Alfa editoriale s.r.l., così provvede:
- respinta ogni altra
richiesta, accoglie le domande dei ricorrenti come limitate negli atti di
riassunzione e, per l’effetto, accerta che i rapporti di lavoro dei ricorrenti
con la Edisalento sono proseguiti con Alfa editoriale dal giorno della cessione
della testata Quotidiano e, per l’effetto, ordina l’immediata riammissione dei
ricorrenti nel posto di lavoro (con la retribuzione già in godimento, e diritto
ai successivi scatti di anzianità, con la qualifica, le mansioni e la sede di
lavoro già assegnate) e condanna la resistente al pagamento in favore dei
ricorrenti della retribuzione globale di fatto in godimento prima della
sospensione del rapporto di lavoro in essere con Edisalento -oltre scatti di anzianità maturati dopo
tale momento- con decorrenza dalla data di tale sospensione fino al soddisfo (detratto quanto già corrisposto
allo stesso titolo), oltre rivalutazione ed interessi sulle somme via via
rivalutate con decorrenza dalla data di maturazione di ciascun diritto al
soddisfo;
- condanna la resistente
al pagamento in favore dei ricorrenti Sinisi ed Orlandini di ¼ della suddetta retribuzione per ciascun mese
di inattività a decorrere dalla data di comunicazione o notifica dell’ordinanza
cautelare collegiale fino alla data della riammissione in servizio;
- condanna la resistente
al pagamento (con distrazione in favore dell’avv. Giordano per i ricorrenti
dallo stesso patrocinati) delle spese e competenze di lite, che si liquidano in
favore di ciascun ricorrente -per la cautela nei due gradi di giudizio e per il
merito- in complessivi € 2.500,00 (di
cui € 1.670,00 per onorari –comprensivo dell’onorario unico dalla riunione già
ripartito tra i ricorrenti- € 600,00
per diritti ed € 230,00 per spese) e
-per ciascun giudizio di opposizione- in €. 440,00 (di cui € 300,00 per
onorari, € 100,00 per diritti ed € 40,00 per spese).
-
- Lecce, 20.9.2002 (dep.
25 luglio 2003)
- Il Giudice: FRANCESCO BUFFA