Tutto sull'art. 18 *
La straordinaria manifestazione del 23 marzo ed il
preannunciato sciopero generale forse non saranno sufficienti a convincere il
governo a cambiare idea sulla questione dell’art. 18. La battaglia politica in
proposito è probabilmente destinata a continuare a lungo, accompagnerà il
cammino parlamentare del disegno di legge delega e successivamente, qualora il
governo procedesse davvero all’emanazione di un decreto delegato in materia di
licenziamenti, si protrarrà sino all’effettuazione di quel referendum
abrogativo di cui ormai si parla da più parti.
La questione del referendum merita di essere discussa a
parte: ci ritorneremo sopra più avanti. Preliminarmente vale la pena di
soffermarsi su ciò che è necessario per reggere il peso di una mobilitazione,
nei luoghi di lavoro e nella società tutta, di così ampia durata.
La consapevolezza che le modifiche che si vorrebbero
apportare all’art. 18 costituiscono soltanto un primo passo di un progetto di
più radicale deregolazione del mercato del lavoro è diffusa ed importante, ma
di per sé non sufficiente. Per sostenere una contrapposizione che si giocherà
largamente sul terreno della comunicazione, in un contesto mass-mediatico certo
non favorevole (per usare un eufemismo) alle ragioni sindacali, pare quanto mai
necessaria una capacità di argomentazione e di risposta al fittissimo
chiacchiericcio che sarà messo in campo, e diffuso a reti unificate, a supporto
delle pretese di governo e Confindustria.
Una discussione del genere si svolse già un paio d’anni fa,
all’epoca del referendum abrogativo promosso dai radicali nei confronti
dell’art. 18, restando peraltro circoscritta entro una cerchia alquanto
ristretta di addetti ai lavori. E’ opportuno riprenderla adesso, passando in
rassegna le obiezioni che tradizionalmente vengono proposte con riguardo
all’attuale regime di tutela dai licenziamenti illegittimi, per mettere a fuoco
come ciascuna di esse, scavata a fondo, risulti della stessa consistenza di una
scatola vuota.
L’art. 18 dello
Statuto dei lavoratori: un unicum
normativo?
Nei confronti dell’art. 18 sono state avanzate obiezioni di
vario genere sin dalla sua introduzione nell’ordinamento e con frequenza
vieppiù crescente nel decennio “liberista” che ci sta alle spalle (solo
cronologicamente: giacché l’ideologia che lo ha pervasivamente caratterizzato appare,
all’evidenza, ben lungi dall’aver esaurito la propria capacità d’influenza
sulle coscienze, così come su diffusi orientamenti politici e culturali, e,
quanto al nostro paese, torna anzi a riproporsi nelle attuali politiche
governative con un’organicità del tutto inedita.
Di tali contestazioni, la più comune e propagandata è quella
che tenderebbe ad accreditare l’idea del carattere assolutamente peculiare del
nostro sistema di tutela dai licenziamento illegittimi. Di un’obiezione del
genere ci si potrebbe sbarazzare, naturalmente, anche ragionando per paradossi.
A chi la propone, infatti, si potrebbe domandare quali conclusioni sarebbe
legittimo trarre nell’ipotesi in cui l’ordinamento penale del nostro paese
fosse l’unico a non prevedere la pena di morte. Si tratterebbe di una ragione
sufficiente per gridare allo scandalo ed invocarne l’introduzione anche da noi?
Ad ogni modo, dato che con i tempi che corrono non si può essere del tutto
certi della risposta che si darebbe a tale domanda (in fondo orientamenti
liberisti in campo economico-sociale e atteggiamenti forcaioli nell’area del
diritto penale tendono spesso ad andare a braccetto), vale la pena di misurarsi
con l’obiezione in quanto tale.
E’ vero o non è vero, in altre parole, che la reintegrazione
nel posto di lavoro rappresenta un’assoluta peculiarità, frutto dell’insana
inclinazione dirigistica del legislatore di casa nostra, tale da appesantire il
sistema di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo con una sanzione
che costituirebbe un unicum nel
panorama comparato? La critica in questione, come si diceva, è ricorrente,
costantemente avvalorata sulla grande stampa d’informazione e specializzata,
non di rado sostenuta da affermazioni prive di sfumature di esperti (o presunti
tali) di problemi del lavoro: i quali, tutt’al più, sono disposti a riconoscere
che in altri paesi la sanzione della reintegrazione sarebbe prevista solo a
fronte di un licenziamento di carattere discriminatorio (ad esempio perché
attuato per colpire la militanza sindacale di un lavoratore), essendo viceversa
ammesse, a fronte di qualsiasi altra ipotesi di licenziamento illegittimo
(perché privo di un giustificato motivo di tipo disciplinare o legato a ragioni
di carattere tecnico-produttivo), soltanto soluzioni di tipo risarcitorio, tali
comunque da mantenere ferma l’estromissione dell’interessato dal posto di
lavoro.
Poiché l’argomento viene
riproposto con insistita e petulante ripetitività, è sicuramente opportuno
puntualizzare, una volta per tutte, che esso, nei termini in cui viene
solitamente presentato, va considerato privo di serio fondamento. Nessun unicum normativo, nessuna bizzarria del
legislatore italiano: l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, al contrario, si
inscrive in un alveo normativo che trova ampi riscontri nell’area dell’Unione
europea, soprattutto in quei paesi con i quali la comparazione può ritenersi
di particolare significatività. La
disciplina dei licenziamenti presenta ovunque, in effetti, aspetti tecnici di
estrema complessità, che non consentono di darne una rappresentazione
esauriente in poche battute: ciò, tuttavia, non impedisce di constatare che la
sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, sia pure con modalità
operative variabili da un paese all’altro, costituisce un rimedio alquanto
diffuso nell’Unione europea nei confronti di qualsiasi forma di licenziamento illegittimo e tende ad essere
riconosciuta anche in ordinamenti che pure, in linea di principio, restano
attestati su soluzioni di tipo risarcitorio (come Gran Bretagna e Danimarca).
Quanto ai sistemi che conoscono
meccanismi di tutela analoghi a quello previsto dal nostro art. 18, è
sicuramente significativo che la reintegrazione nel posto di lavoro a fronte di
un licenziamento illegittimo risulti praticata non soltanto in paesi “minori”
(Portogallo ed Austria), come sono disposti ad ammettere persino esponenti
governativi, ma anche in paesi di primario rilievo nell’area dell’Unione
europea e, per questo stesso, di particolare rilievo a fini di comparazione,
come Svezia e Germania Federale.
Non solo le legislazioni di questi paesi sono analoghe alla
nostra, ma talvolta prevedono qualche elemento di controllo in più. Si pensi
che in Germania l’imprenditore, prima d’intimare qualsiasi licenziamento, è
tenuto a consultare il consiglio d’azienda e che l’eventuale opposizione
dell’organismo rappresentativo dei lavoratori è fonte del diritto del
dipendente licenziato a mantenere il posto di lavoro in pendenza della relativa
controversa giudiziaria. D’altra parte, per giudicare del grado di rigidità (o
di protezione, a seconda dei punti vista) di un determinato sistema in materia
di licenziamenti, non bisognerebbe trascurare mai, come invece si tende
strumentalmente a fare (sulla falsariga delle analisi OCSE, cui certuni si industriano
immancabilmente a dare da noi un’acritica eco), che le regole applicabili in
proposito si dividono in due diversi corpi normativi, in dipendenza del fatto
che si tratti di licenziamenti individuali oppure di licenziamenti per
riduzione di personale (licenziamenti collettivi). Nel secondo caso esiste una
modalità di tutela di tipo esclusivamente procedurale, stabilita da una
direttiva comunitaria e perciò di applicazione generale in tutta l’area
dell’Unione europea; ma alcuni paesi prevedono forti tutele aggiuntive, come
quei “piani sociali” che le imprese tedesche e francesi (ma non quelle
italiane) sono obbligate a predisporre in favore dei lavoratori colpiti da un
licenziamento collettivo prima di potervi dare legittimamente corso: tanto che,
se si dovesse proporre alla Confindustria di scambiare le regole italiane
relative alla cosiddetta “flessibilità in uscita”, considerate nel loro
insieme, con quelle tedesche, ovviamente considerate anch’esse nel loro
insieme, vi sono ben pochi dubbi su quale sarebbe la risposta.
Se in alcuni fra i più rilevanti paesi dell’Unione europea
la materia dei licenziamenti risulta ispirata a criteri regolatori quali quelli
che sono stati, sia pur sommariamente, richiamati, ne consegue che l’argomento “europeo”, modulato sul
consueto ritornello “aboliamo la reintegrazione per allinearci all’Europa”, può
essere agevolmente respinto. Si può anzi aggiungere, per completare il quadro,
che proprio in tempi recenti la Confederazione europea dei sindacati si è fatta
promotrice di una proposta di regolamentazione dei licenziamenti individuali,
destinata nelle intenzioni a costituire la base di una futura direttiva UE in
proposito, che, pur non escludendo la possibilità di colpire un licenziamento
illegittimo con una misura di carattere economico, pone in primo piano il
valore della sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro [1]. La circostanza conferma che l’aspirazione al
ripristino del rapporto di lavoro travolto da un licenziamento ingiustificato
non soltanto è largamente diffusa nella coscienza dei movimenti sindacali dei
paesi più diversi, ma costituisce un tratto permanente della loro azione
rivendicativa. Ne risulta smentita, al tempo stesso, la tesi del carattere
anacronistico della reintegrazione. Essa, d’altro canto, potrebbe avere senso
se chi la propone, come è solita fare la Confindustria, avesse in qualche
momento giudicato adeguato ai tempi l’istituto in questione: quando invece è a
tutti noto che le contestazioni al riguardo
cominciarono prima ancora che lo Statuto dei lavoratori entrasse in
vigore. D’altronde, se con affermazioni del genere ci si volesse limitare a
sostenere che le regole dello Statuto sono invecchiate, e per questo stesso
meritevoli di superamento, sarebbe fin troppo facile replicare che il principio
americano dell’employment-at-will
(ovvero della libertà di licenziamento senza giusta causa) è sicuramente assai
più datato, risalendo addirittura ai primi del novecento.
Una seconda contestazione
comunemente rivolta alla nostra disciplina dei licenziamenti individuali si
fonda sul cosiddetto “effetto soglia”, che da essa sarebbe indotto, ed è
all’origine di una delle tre ipotesi di deroga all’applicazione dell’art. 18
proposte dal governo. Trattandosi di una normativa applicabile soltanto nelle
unità produttive con più di quindici dipendenti, in altre parole, ne
deriverebbe un disincentivo all’ampliamento dell’occupazione una volta
raggiunta la fatidica soglia: donde la tesi del rapporto di causa ed effetto
fra le regole in materia ed il fenomeno del “nanismo imprenditoriale”.
Quantunque si tratti di una critica periodicamente riproposta, essa non perde i
tratti tipici dell’affermazione di puro buon senso, non corroborata da
riscontri empirici in grado di offrirne almeno una parvenza di dimostrazione.
Non è il caso, naturalmente, di ripetere le critiche rivolte a questo specifico
profilo del disegno di legge delega sul fascicolo di gennaio della Rivista; vale la pena, piuttosto,
mettere a fuoco un paio di argomenti che appaiono assenti dalla discussione
corrente.
La questione del rapporto fra
soglie proprie della legislazione del lavoro e dimensioni dell’impresa, invero,
andrebbe affrontata con più precisa cognizione dei suoi contorni effettivi. Ragionando
in termini astratti, ad esempio, si può certamente sostenere che siano proprio
le regole in materia di licenziamento a scoraggiare la propensione delle
imprese ad assumere; muovendosi sullo stesso piano, d’altra parte, non vi
sarebbero difficoltà ad argomentare, almeno con pari dignità, una tesi del
tutto diversa: attribuendo il fenomeno del “nanismo imprenditoriale” a
caratteristiche intrinseche al tipo di produzione, che determinano la
dimensione dell’impresa, unitamente ad altri condizionamenti di carattere
tecnico-economico, in misura ben più decisiva. Se poi dall’astratto, dai
modelli teorici, si volesse passare al concreto, ovvero ai dati
normativo-istituzionali reali, ci si accorgerebbe che è proprio la seconda
ipotesi a risultare fondata, ed anzi incontestabile, quanto meno con riguardo
alle imprese artigiane: in questo caso, infatti, è la legge-quadro del 1985 (un
complesso di regole, si badi bene, di diritto commerciale e non di diritto del
lavoro) a fissare, ragionevolmente del resto, il limite massimo di dipendenti,
differenziato per tipologia di produzione, che ciascuna impresa è tenuta a non
superare per non perdere la qualifica di artigiana (ed i benefici connessi).
V’è di più: v’è da prendere in
considerazione l’esistenza, del massimo rilievo rispetto a questo specifico
profilo del dibattito in corso, dei cosiddetti lavoratori trasparenti, ovvero
di quei lavoratori (come gli apprendisti e gli interinali), che possono essere
liberamente impiegati senza incidere sul numero dei dipendenti, appunto la
“soglia”, al cui superamento è legata l’applicabilità di certe regole
lavoristiche, ivi comprese quelle in materia di licenziamenti. Ciò che occorre
sapere, in definitiva, è che già adesso
il sistema consente alle piccole imprese di superare la mitica soglia dei 15
addetti, evitando di restare sottoposte al regime dello Statuto dei lavoratori
in materia di licenziamenti. Certe imprese artigiane, in primo luogo,
attraverso l’assunzione di apprendisti possono arrivare a sfiorare
complessivamente i quaranta addetti continuando a restare soggette al regime di
tutela meramente risarcitorio, proprio della piccola impresa. La non
computabilità degli apprendisti e dei lavoratori interinali (per tacere di
altre figure particolari introdotte nella legislazione del lavoro degli ultimi
anni) costituisce, d’altra parte, una regola generale, di cui tutte le piccole
imprese possono avvalersi per superare senza “affanni normativi” la soglia dei
15 dipendenti. C’è davvero bisogno d’altro per dimostrare la vacuità della querelle sull’effetto soglia?
Anche l’argomento che si sente
spesso ripetere, del resto, basato sull’assunto che la soglia indurrebbe molti
imprenditori a frazionare artificiosamente l’organizzazione produttiva in
entità formalmente distinte, tutte al di sotto della soglia medesima, non solo
non è suffragato da dati precisi sulla rilevanza quantitativa del fenomeno, ma
non regge sul piano logico. Volendo fare un raffronto con la legislazione
fiscale, infatti, sarebbe come dire che, siccome esistono svariate tecniche
elusive per sottrarsi all’applicazione della stessa, se ne deve concludere che
le imposte vadano drasticamente ridotte: quando invece, con tutta evidenza, si
tratta semmai di introdurre gli opportuni correttivi, atti a rendere impraticabili
operazioni elusive, quando non apertamente fraudolente, nell’area del diritto
tributario come in quella del mercato del lavoro.
*****
Un’ulteriore critica nei confronti della disciplina dei
licenziamenti è stata formulata in base all’assunto che l’applicazione della
normativa in materia si presterebbe ad esiti arbitrariamente difformi, essendo
la sensibilità dei giudici variabile da una parte all’altra del paese ed, in
particolare, troppo attenta alle ragioni dei lavoratori nelle regioni a più
alto tasso di disoccupazione, in quelle del sud in primo luogo. Le affermazioni
in proposito si fondano su ricerche interdisciplinari, frutto della
collaborazione di economisti e giuslavoristi, i cui risultati sono stati
utilizzati come argomento a sostegno della proposta di cancellare qualsiasi
ruolo dell’autorità giudiziaria nella risoluzione delle controversie in materia
di licenziamento.
Non è questa la sede per discutere la correttezza
metodologica, veramente assai opinabile, delle ricerche in parola. Ci si può
limitare ad osservare che non si può naturalmente escludere, ed anzi è
altamente probabile, che i giudici, non
operando sotto una campana di vetro, risentano di stimoli provenienti
dall’ambiente circostante: pur se bisognerebbe preoccuparsi di aggiungere che
non v’è ragione di ritenere che simili condizionamenti riguardino soltanto la
materia dei licenziamenti, né, men che meno, che essi operino a senso unico (a
favore dei lavoratori). E d’altro canto si allungherebbe troppo il passo se da
una constatazione del genere, di per sé alquanto banale, si volessero trarre
implicazioni sull’opportunità di superare un cardine della civiltà giuridica,
quale è quello rappresentato dalla mediazione giudiziaria dei conflitti (anche
fra privati).
Gli occhiuti analisti cui si è accennato, peraltro, omettono
sempre di includere, nel novero delle variabili prese in considerazione, quella
legata ai comportamenti concreti delle imprese. Ammesso, ed assolutamente non
concesso, in altre parole, che sussista un dato statisticamente significativo,
dal quale possa desumersi che i giudici del lavoro, nelle controversie in
materie di licenziamenti, tendano maggiormente a privilegiare le ragioni dei
lavoratori nelle aree meridionali, occorrerebbe altresì preoccuparsi di
verificare che ciò non dipenda dalla minore propensione al rispetto delle
regole proprio di un ambiente a cultura industriale tuttora assai più fragile
di quella riscontrabile nelle zone del paese a più alto tasso di sviluppo (e di
sindacalizzazione: elemento, quest’ultimo, assolutamente rilevante per ottenere
un più diffuso rispetto preventivo della legislazione del lavoro e contenere il
ricorso, necessariamente ex post,
all’intervento dei giudici).
A fronte di affermazioni così generiche ed approssimative,
in definitiva, è difficile respingere la sensazione che la tesi, che si voleva
sostenere, abbia preceduto l’analisi empirica, conferendole i caratteri di
un’indagine fin troppo (pre-)orientata.
*****
Resta da prendere in
considerazione l’assunto relativo al preteso carattere discriminatorio della
disciplina della reintegrazione nel posto di lavoro. Sotto un’angolazione
diversa ritorna in discussione la questione della “soglia” dei 15 dipendenti,
criticandosi in questo caso la circostanza che, a fronte del criterio dimensionale
prescelto dal legislatore, i lavoratori delle piccole imprese risulterebbero
ingiustamente penalizzati. A queste preoccupazioni “egualitarie”, curiosamente
riprese ad ogni piè sospinto proprio da coloro che delle protezioni in materia
di licenziamenti vorrebbero sbarazzarsi nella misura più ampia possibile, si
può replicare in primo luogo che, nelle economie di mercato, qualsiasi
normativa in proposito è inevitabilmente il risultato di un compromesso fra
esigenze dell’impresa e del lavoro (fra efficienza ed equità, per esprimersi
col linguaggio tanto in voga fra certi studiosi di scienze sociali):
compromesso storicamente variabile ed assai comunemente espresso, in termini
normativi, proprio attraverso la fissazione di una soglia dimensionale, al di
sotto della quale operano regole più elastiche [2]. Si
potrebbe aggiungere, in secondo luogo, che l’argomento, di per sé, prova
troppo. Sul piano strettamente logico la questione dei diversi livelli di
tutela garantiti dalle regole attuali non necessariamente si presta ad essere
affrontata ridimensionando le protezioni più intense di cui godono i lavoratori
addetti ad unità produttive di dimensioni maggiori; è del tutto evidente,
invero, che, se ci si pone nell’ottica del superamento di regole diseguali, si
potrebbe egualmente realizzare l’obiettivo estendendo le regole più protettive
(almeno in parte) a coloro cui oggi esse non risultano applicabili. A
prescindere da schermaglie dialettiche del genere, la critica in questione si
presta comunque ad essere contestata alla radice, negando che l’attuale
disciplina dei licenziamenti giovi soltanto ai lavoratori delle imprese
maggiori. La verità è che, come l’esperienza comparata ha messo ampiamente in
luce, esiste un nesso inscindibile fra tutela “forte” in materia di
licenziamenti, tasso di sindacalizzazione ed incisività dell’azione sindacale [3]; e che la prima costituisce la base materiale
dell’azione rivendicativa del sindacato, i cui effetti, peraltro, non
riguardano soltanto i lavoratori più “stabili”, ma si riflettono anche sulla
condizione di quelli operanti nelle piccole imprese. Al di là di qualsiasi
pretestuosa argomentazione, in definitiva, anche da questo punto di vista resta
confermato che ciò di cui si sta discutendo non riguarda tanto un problema
immediato di costi o di efficienza del sistema delle imprese, quanto una
questione di potere nei luoghi di lavoro e nella società.
Gli argomenti che abbiamo cercato
di allineare potrebbero essere di qualche utilità nel confronto, lungo ed
aspro, che probabilmente occuperà i prossimi mesi. Al momento in cui scriviamo,
infatti, non sembra prevedibile un ripensamento del governo sulla questione dei
licenziamenti: l’iter della controriforma andrà verosimilmente avanti e ad essa
si potrebbe essere costretti a rispondere con una raccolta di firme per la
richiesta di un referendum popolare abrogativo.
La strada del referendum, certo, è sempre stata scivolosa per lavoratori e sindacati: i precedenti in materia non incoraggiano. In questo caso, peraltro, potrebbe essere percorsa con significative probabilità di successo, purché si tengano ferme alcune condizioni preliminari. La prima di esse attiene al carattere dell’iniziativa referendaria, che dovrebbe essere impostata solo ed esclusivamente attorno ad una grande emergenza sociale, com’è quella dei licenziamenti, senza pretendere che essa faccia da traino ad altre questioni (rogatorie, falso in bilancio, conflitto d’interessi). Non perché le tematiche evocate non siano rilevanti; ma perché la loro miscela potrebbe impedire di mettere ben a fuoco il problema principale; rischierebbe di offrire al governo (che, va ribadito, dispone ormai di un controllo quasi totalitario sui mezzi di comunicazione) argomenti pretestuosi sull’obiettivo “politico” della consultazione; ne comprometterebbe, forse, l’esito finale: giacché non va dimenticato che un referendum può fallire non soltanto perché la maggioranza dei votanti si pronuncia contro l’abrogazione, ma anche per mancato raggiungimento del quorum necessario per assicurarne la validità (evenienza tanto più probabile quando i quesiti sono molteplici e vertono su materie disparate fra loro).
La seconda condizione riguarda
l’unicità dell’iniziativa referendaria in materia di licenziamenti. Si sente
parlare, invero, di un progetto di referendum da indire con l’obiettivo di
cancellare le regole attuali, incentrate sulla soglia relativa al numero degli
addetti, per conferire carattere di generalità
alla disciplina della reintegrazione nel posto di lavoro. Poggiando
inevitabilmente sulla drastica alternativa sì/no che è propria dello strumento
referendario e ne segnala la schematicità, tanto più in materia di lavoro, ove
le soluzioni normative vanno sempre calibrate tenendo conto dei loro effetti e,
quindi, con tutta la ponderazione che è necessaria, questo secondo referendum
non soltanto avrebbe verosimilmente scarsissime possibilità di successo, ma
rischierebbe anche di compromettere quelle, invece assai solide, del referendum
sulla controriforma governativa.
Ciò non vuol dire, naturalmente, che l’attuale disciplina
dei licenziamenti debba essere considerata intoccabile: non foss’altro perché,
come si è ricordato, essa è il risultato di un compromesso e la linea che ne
segna i termini non può non essere considerata mobile e suscettibile di
adeguamento. La normativa vigente in materia, del resto, non è quella
originaria dello Statuto dei lavoratori, ma la versione di essa riformulata
dalla legge 108 del 1990. Il cammino riformatore può riprendere da lì, magari
sforzandosi di individuare criteri più sofisticati di quello imperniato sulla
soglia occupazionale per estendere, in qualche misura, le regole dello Statuto
anche nell’area della piccola impresa: purché si abbia consapevolezza che
interventi di impatto socialmente così rilevante possono realizzarsi solo se
attorno ad essi si è costruito previamente il grado di consenso necessario e
senza la pretesa di sostituire scorciatoie referendarie agli strumenti, certo
più faticosi e complessi, ma non surrogabili, della politica.
(*) Questo articolo è tratto da "La rivista del
manifesto", n. 27 di aprile 2002. Si ringrazia la
direzione della rivista e la casa editrice per aver consentito la riproduzione.
[1] La proposta della CES ha dovuto
necessariamente essere formulata in termini aperti, per tener conto della
pluralità delle situazioni normative esistenti nei diversi paesi dell’Unione
europea. Ciò non sminuisce l’importanza della centralità assegnata alla
sanzione della reintegrazione, considerato oltre tutto che le regole
prefigurate sarebbero destinate ad un’applicazione generalizzata, a prescindere
dalla dimensione dell’impresa.
[2] La relatività
del criterio dimensionale è confermata dall’esperienza tedesca. In Germania la
soglia dei 5 addetti, stabilita dalla legge per delimitare il campo applicativo
della normativa sui licenziamenti, era stata elevata a 10 dal governo Kohl, col
risultato di privare alcuni milioni di lavoratori, peraltro senza alcuna
ricaduta positiva di simile misura sul piano occupazionale. Più recentemente,
con un provvedimento legislativo entrato in vigore il 1° gennaio 199, il
Governo Schroder ha ripristinato la soglia più bassa dei 5 addetti.
[3] Basti pensare ai livelli elevati di sindacalizzazione che permangono in paesi come l’Italia, la Svezia e la Germania, non a caso caratterizzati da un modello di protezione nei confronti del licenziamento illegittimo incentrato sulla reintegrazione nel posto di lavoro; e confrontarli con quelli, bassissimi, riscontrabili negli Stati Uniti od anche in paesi, come la Spagna, ove il regime dei licenziamenti conosce solo sanzioni di tipo risarcitorio.
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