Risarcimento del danno alla professionalita' e del danno biologico
1. Premessa
2. Danno alla professionalità e sue componenti. Se sia
"in re ipsa" o necessiti di prove da parte del lavoratore
3.Tecniche e misure di quantificazione, su
base equitativa, del danno alla professionalità
4.L'insorgenza ed il risarcimento del danno
biologico
5. Nesso di causalità del danno biologico
6.Il danno biologico ed il danno morale da
"molestie sessuali"
7.Conclusioni
1. Premessa
Nella concreta vita
aziendale non è infrequente imbattersi in situazioni di assegnazione datoriale
del prestatore di lavoro a mansioni dequalificate (cioè riduttive del
patrimonio di conoscenze e di perizia acquisito ovvero non equivalenti, nel
senso di cui all'art. 2103 c.c., alle ultime disimpegnate) o addirittura di
confinamento nella mortificante condizione di vera e propria inattività (o
inoperosità), senza assegnazione di alcun compito cosicché il contributo del
lavoratore alla propria azienda si esaurisce in un atto di mera (e psicologicamente
defatigante) presenza sul posto di
lavoro. Tali trattamenti sono normalmente ed involontariamente conseguenti al
clima di esasperata flessibilità (o discrezionalità) nella gestione delle
risorse ovvero volontariamente riservati a dipendenti sgraditi (o non
clientelarmente supportati) ovvero a sindacalisti e sindacalizzati attivamente
impegnati.
2. Danno alla
professionalità e sue componenti – Se sia "in re ipsa" o necessiti di
prove da parte del lavoratore
Dequalificazione (o
demansionamento, come altri usano dire) e forzata inattività strutturano il
c.d. "danno alla professionalità" (1) – talvolta qualificato anche
come danno alla potenzialità o capacità
professionale (2), cui si coniuga una
lesione alla dignità, alla reputazione ed immagine professionale (3) in ambito endoaziendale e/o extraziendale, a
seconda del ruolo rivestito dal sottoposto al degrado ed all'emarginazione professionale - che una
consolidata giurisprudenza ha correttamente dichiarato risarcibile in quanto
configura la fattispecie dell'inadempimento contrattuale (in ragione appunto
della "contrattualità" delle mansioni) con le conseguenze
civilistiche di cui all'art. 1218 c.c. e 1174
c.c.
Per aversi demansionamento o
dequalificazione a carico del lavoratore,
è sufficiente che il datore di lavoro -
nell'esercizio del suo potere di modifica delle mansioni (ius variandi, come si usa dire) - non
rispetti il criterio, sancito dall'art. 2103 c.c, della "equivalenza" tra le ultime disimpegnate e quelle di nuova assegnazione,
ovvero sottoponga il lavoratore ad un
processo di erosione di competenze e/o responsabilità o sottragga al lavoratore
in toto le mansioni di ultima attribuzione per lasciarlo in stato di
inattività. La Cassazione ha consolidatamente stabilito che "l'art. 2103 c.c. non ha soppresso lo ius
variandi che trova la sua giustificazione
in insopprimibili esigenze organizzative e aziendali ma si limita a regolarne
l'esercizio senza alcuna deroga al potere del datore di lavoro di utilizzare o
meno il dipendente in nuove mansioni per esigenze organizzative dell'impresa,
sempre nel rispetto oltreché dell'equivalenza delle nuove mansioni, della
tutela del patrimonio professionale del lavoratore e della sua collocazione
nella struttura organizzativa aziendale, nonché dell'esigenza che la nuova
collocazione gli consenta di utilizzare e anche di arricchire il patrimonio
professionale precedentemente acquisito" (4). Ed in relazione
all'inattività che costituisce fattispecie più pregiudizievole della
sottrazione delle mansioni originarie
con assegnazione di altre deteriori e non equivalenti, la Cassazione ha
asserito che : "Una violazione della
lettera e della ratio dell'art. 2103
c.c. può ipotizzarsi anche quando il dipendente sia lasciato in condizioni di
forzata inattività e senza assegnazione di compiti, costituendo il lavoro non
solo un mezzo di guadagno ma anche un mezzo di estrinsecazione della
personalità del soggetto. Coerente è pertanto l'affermazione che detta norma
sia tesa a far salvo il diritto del lavoratore all'utilizzazione, al
perfezionamento ed all'accrescimento del proprio patrimonio professionale"
(5). Con la stessa pronuncia – innanzi citata - ha poi sancito, in tema di riduzione quantitativa dei compiti e
delle responsabilità del lavoratore, che "il potere del datore di lavoro di ridurre quantitativamente le mansioni
del lavoratore…trova limite nell'esigenza delle potenzialità professionali
acquisite o nel divieto di occasionare una sottoutilizzazione del patrimonio
professionale del lavoratore, avuto riguardo non solo alla natura intrinseca
delle attività esercitate ma anche al grado di autonomia e discrezionalità nel
loro esercizio nonché alla posizione del dipendente in azienda, sicché deve
ritenersi vietata una modifica delle mansioni assegnate al dipendente che, pur
se di carattere quantitativo, si traduca in un sostanziale declassamento del
dipendente stesso" (6).
Particolarmente negli ultimi
tempi la giurisprudenza di merito non si è limitata ad individuare il danno
alla professionalità nel solo "degrado o impoverimento" delle
conoscenze e delle attitudini professionali ovvero gestionali (di direzione,
supervisione, addestramento e formazione di collaboratori o sottordinati), ma ha sezionato il danno nelle
sue componenti, tra cui - come evidenziavamo in precedenza - si collocano le lesioni ai valori (o beni)
della dignità umana, della reputazione e dell'immagine professionale.
Focalizza l'attenzione –
oltreché "sull'impoverimento del
patrimonio professionale, quale insieme di specifiche conoscenze e capacità"
- sulla lesione "all'immagine professionale ed alle sue
proiezioni in tema di opportunità di lavoro sul mercato, non potendo il
demansionato spendere, quanto meno come attuale, la titolarità di un incarico
contraddistinto da ampie responsabilità…", Pret. Milano del 9 aprile 1998 (7), affermando che "l'assegnazione a mansioni che impoveriscano
il patrimonio professionale del lavoratore …e che causino un danno alla sua
immagine professionale, compromettendo le opportunità di lavoro, configura un'ipotesi
di dequalificazione e comporta il risarcimento del danno alla professionalità
così cagionato; per la determinazione in
in via equitativa di tale danno si deve tener conto della retribuzione
mensile (o di una sua quota
percentuale, solitamente il 50 o il 30%) e del protrarsi nel tempo della
dequalificazione, poiché il danno cresce secondo una linea di sviluppo
progressiva, correlata sostanzialmente al decorso del tempo, ma con
le eventuali correzioni e attenuazioni legate alle diverse caratteristiche di
ogni distinta fattispecie"(nel caso individuata nel 20% della media delle retribuzioni mensili
nette percepite nel biennio di demansionamento). La dequalificazione è vista
come arrecante "danno alla dignità e
personalità" del lavoratore anche
da Pret. Milano 9 dicembre 1997(8) secondo il quale:"l'assegnazione di nuove mansioni che
riducano le attribuzioni del lavoratore e ne svuotino qualitativamente la
posizione professionale complessiva, comporta un danno alla dignità e
personalità del dipendente, che sono beni protetti a livello costituzionale, e
un danno da perdita di chances nel
mercato del lavoro, in conseguenza del diminuito livello professionale. Per la
determinazione di tali danni da dequalificazione, da compiersi in via
equitativa, può farsi riferimento a una quota della retribuzione mensile,
crescente con il perdurare nel tempo della lesione della professionalità, fino
a raggiungere il 100% della retribuzione stessa"(nel caso di specie il
risarcimento è stato commisurato per i
primi 4 mesi ad ¼ della retribuzione mensile, per i secondi 5 mesi a 1/3, per i
successivi 6 mesi alla metà, per i successivi 3 mesi a 2/3 ed infine al 100%
dell'intera retribuzione dalla data della decisione alla reintegra nelle
mansioni sottratte).
Sulla stessa lunghezza d'onda
Pret. Milano 11 marzo 1996 (9) secondo cui "la completa inattività forzata del dipendente produce danni alla
personalità, concernenti la vita di relazione e la dignità del lavoratore,
nonché alla professionalità, intesa come sviluppo di carriera o possibilità di
ulteriori ricollocazioni".
Imputano alla dequalificazione
effetti pregiudizievoli della "reputazione
professionale" Trib. Milano 16.12.1995 (10) e alla "vita di relazione, alla professionalità
acquisita ed alla dignità" Pret. Nocera Inferiore 5 dicembre 1996
(11), mentre è considerata causa
(anche) di danno biologico e di perdita di chances,
ovvero di capacità di concorrenza sul mercato del lavoro e "comunque (e, nella minore delle ipotesi,
soltanto) lesiva della personalità, anche morale, del lavoratore" da
parte di Pret. Bologna 8 aprile 1997 (12), la quale esprime l'avviso che,
mentre le prime due componenti – afferenti al danno alla salute e alla perdita
di chances – debbono essere
assoggettate ad un rigido onere probatorio gravante sul lavoratore, la terza
componente – quella del c.d. "danno alla personalità morale" – non
necessita di prova alcuna, poiché è in "re ipsa", "consistendo nell'ipotetico valore che il
lavoratore, ove non vigesse il divieto di reformatio in peius di cui all'art. 2103 c.c., avrebbe potuto
lucrare sul mercato del lavoro in termini di maggiore retribuzione, accettando
una previsione contrattuale di incondizionato ius variandi da parte datoriale".
Come desumibile da quanto in
precedenza accennato, si è posto, in giurisprudenza ed in dottrina (13) il problema se
il danno alla professionalità sia immanente alla riscontrata pratica della
dequalificazione (o della forzata inattività), ovvero debba essere rigidamente
provato dal dipendente, ad esempio dimostrando che il trattamento emarginante
riservatogli lo ha privato di "chances"
(14)
cioè di probabilità di progressione in carriera nell'ambito aziendale (ove sono
progrediti colleghi di pari anzianità e qualifica, in quanto non colpiti dalla
dannosa pratica del demansionamento) ovvero di occasioni di proficuo lavoro
all'esterno, implicanti una professionalità ed una preparazione che il
trattamento emarginante ha, nel breve/medio periodo, deteriorato e/o fatto
scomparire.
Per l'immanenza del danno alla
professionalità – nelle sue componenti di pregiudizio alla capacità
professionale, alla dignità, reputazione ed immagine professionale all'interno
ed all'esterno dell'azienda - in conseguenza di un'accertata pratica
dequalificatoria o di forzata inattività, si è espressa una sufficientemente
consistente giurisprudenza di merito, la quale ha condivisibilmente osservato
che: "l'impossibilità di svolgere il
lavoro per il quale si è idonei, comporta un decremento o, quanto meno, un
mancato incremento della professionalità, intesa come l'insieme delle
conoscenze teoriche e delle capacità pratiche che si acquisiscono da parte del
lavoratore con il concreto esercizio della sua attività lavorativa. La tesi
(della convenuta società, n.d.r.)
circa l'inesistenza di un danno, nel caso specifico, poiché il ricorrente
avrebbe potuto aggiornarsi nelle materie legali anche in mancanza di attività
lavorativa, leggendo e studiando le pubblicazioni del settore...non può essere
condivisa. E infatti la professionalità di un lavoratore intellettuale dipende
ed è costituita non solo dalle nozioni
teoriche ma dalle capacità applicative delle stesse nella prassi lavorativa;
essa si forma nel rapporto con le esigenze tecniche poste dalla pratica
quotidiana e non certo ipotizzabili in termini astratti e teorici e viene
stimolata ed incrementata dall'attività di soluzione delle evenienze che di
volta in volta si pongono. Consegue a ciò che l'assenza del lavoro priva il
lavoratore della possibilità di utilizzare e valorizzare la sua professionalità,
determinandone l'impoverimento; ed, al tempo stesso, ne impedisce la crescita.
In tale prospettazione è evidente che la forzata inattività dal lavoro
determina per il lavoratore un pregiudizio al suo bagaglio professionale, che
si traduce in un danno patrimonialmente valutabile" (15). Alla
giurisprudenza di merito si affianca
recentissimamente la Cassazione nella decisione n. 11727 del 18 ottobre 1999
(Pres. Lanni, est. Mazzarella, in Lav. Prev.Oggi, 2000, 2342, con nota
di Meucci, Il carattere immanente del danno da dequalificazione) la
quale ha stabilito che la dequalificazione costituisce un danno di per se
(rigettando la tesi aziendale che pretendeva che il lavoratore, per ottenere il
risarcimento, provasse di essere stato pregiudicato nella vita di relazione e/o
nelle aspettative di carriera, ecc.) che il giudice, al riscontro della dequalificazione, deve comunque liquidare, eventualmente anche in
via equitativa. A sostegno della propria tesi la S. corte – per il caso di un
operaio di montatore esterno adibito a mansioni inferiori di pulizia dei
macchinari - ha condiviso e richiamato
il seguente passo della precedente decisione n. 13299 del 16 dicembre del 1992,
concernente la fattispecie di un demansionamento inferto ad un giornalista ove
la Cassazione aveva asserito: “Per quanto
concerne la fattispecie attuale è da aggiungere che fra tali modi di essere – specialmente in riferimento anche ai
valori democratici e lavoristici proclamati dall’art. 1 Cost. – assume
prioritario rilievo l’esigenza che sia risarcito il pregiudizio subito dal
lavoratore in conseguenza di una dequalificazione che oltre ad essere in
violazione del diritto alla qualifica di cui all’art. 2103 c.c., sia anche il
risultato di un fatto, per altro verso, già di per se ingiusto e lesivo di un
diritto fondamentale dello steso lavoratore, in quanto cittadino. Ne consegue
che un fatto come quello in esame, che si incentra (in sostanza) prima ancora
che sulla qualifica, sul ‘vulnus’ alla personalità ed alla libertà del
lavoratore-giornalista, contiene necessariamente, oltrechè la potenzialità del
danno, una inseparabile carica di effettività (senza che ciò significhi ricorso
a presunzioni) per la diminuzione del patrimonio professionale, anche ai fini
dell’ulteriore sviluppo di carriera, del lavoratore ingiustamente rimosso dalle
mansioni corrispondenti alla sua qualifica. Quindi il danno va risarcito:
questo è l’essenziale, che, cioè, un risarcimento (la cui misura va fissata dal
giudice del rinvio, che, ove ne concorrano le condizioni, potrà procedere anche
con il ricorso al criterio di cui all’art. 1226 c.c.) vi deve essere, perché
resti tutelata l’esigenza del libero svolgimento dell’attività lavorativa e
della salvaguardia della personalità e libertà del lavoratore”.
A questa tesi che considera il
danno da dequalificazione " in re
ipsa", si contrappone un orientamento giurisprudenziale opposto che
richiede al lavoratore un onere probatorio specifico sul punto, sostenuto dalla
stessa Cassazione, sia pure in poche pronunce (ed eminentemente in relazione al
"danno biologico", piuttosto che nei confronti delle componenti del
danno alla professionalità, a quanto consta). Quest'ultima ha così statuito:
"la norma dell'art. 2103 c.c.,
concernente il diritto del lavoratore ad essere adibito a mansioni
corrispondenti alla propria qualifica, è applicabile anche ai dirigenti ed è
violata non solo quando il dipendente sia assegnato a mansioni inferiori ma
anche quando il medesimo (ancorché senza conseguenze sulla retribuzione) sia
lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti,
costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno ma anche un mezzo di
estrinsecazione della personalità del soggetto.
La potenziale dannosità della condotta del datore di lavoro che, in
violazione dell'art. 2103 c.c., abbia lasciato un proprio dirigente inattivo,
impedendogli l'esercizio delle mansioni proprie della qualifica, non esime il
lavoratore, che pretenda il risarcimento del danno, dall'onere di provare
l'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale, anche nella sua eventuale
componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico,
tale sussistenza (non ricavabile da presunzioni semplici) costituendo il
presupposto indispensabile anche per una liquidazione equitativa" (16).
Conclusivamente in tema di
onere probatorio per la liquidazione del danno alla professionalità, esprimiamo
l'avviso che l'onere probatorio non debba ricorrere – in quanto "in re ipsa" - per quelle componenti del danno alla
professionalità che si sostanziano nelle lesioni, di per se immanenti alla
dequalificazione, inferte alla dignità, personalità, reputazione ed immagine professionale del demansionato
nonché per il degrado alle cognizioni, perizia ed attitudini gestionali
correlate inscindibilmente ad una dequalificazione di congrua durata temporale
che, secondo il senso comune e
l'esperienza del magistrato, ne determina l'affievolimento o l'azzeramento con
connessa perdita di chances di
carriera all'interno dell'azienda e di nuova occupazione nel mercato del lavoro
all'esterno. Al limite il demansionato ricorrente in giudizio potrebbe
rafforzare il (facile e scontato)
convincimento del magistrato tramite l'evidenziazione e la dimostrazione dell'eventuale progressione di carriera di cui
hanno beneficiato, a differenza di lui, i colleghi non perseguitati di pari
anzianità, qualifica o grado al momento dello spiegamento del trattamento
emarginante e vessatorio sub specie
di demansionamento o forzata inattività, mentre il nocumento dal lato delle
minori (o nulle) opportunità di ricollocazione all'esterno può essere desunto
dal giudice, oltrechè dalla obsolescenza
cui è soggetta una certa professionalità o responsabilità non esercitata nel tempo, dal fatto dell'essere
il lavoratore rimasto alle dipendenze della stessa azienda, nonostante la
sofferenza e l'umiliazione che alla permanenza si accompagna (indice
indiscutibilmente presuntivo della difficoltà/impossibilità di sottrarsi con un
nuovo lavoro esterno al disagio e al degrado professionale, al quale nessuno desidera soggiacere e nel
quale nessuno desidera cullarsi).
Ad onere probatorio a carico
del lavoratore va, invece, soggetto l'asserito danno biologico (eventualmente
conseguente alla dequalificazione), onere implicante la dimostrazione (di norma
medico/peritale preventiva o tramite C.T.U, nel corso del giudizio) del nesso
di causalità tra le lesioni
all'integrità psico-fisica e gli illegittimi trattamenti dequalificanti del
datore di lavoro, ed esteso alla evidenziazione ed al riscontro della eventuale
percentuale di invalidità contratta di conseguenza.
3. Tecniche e misure di
quantificazione, su base equitativa, del danno alla professionalità.
La fluidità della materia,
ancora in via di assestamento, si riflette - in forma di incertezze - anche
sulle tecniche di liquidazione (o quantificazione) del danno alla
professionalità per dequalificazione o forzata inattività, atteso che, mentre è
consolidata la legittimazione al ricorso, da parte del giudice, alla
valutazione equitativa (ex art. 1226 e 2056 c.c. e 113 e 432 c.p.c.), il
parametro di base utilizzato oscilla da
una mensilità della retribuzione del ricorrente per ogni mese per il quale si è
protratta la dequalificazione, fino ad una quota percentuale compresa tra
il 70%
ed il 20% di una mensilità o ad una somma forfettaria una tantum, parametrata solo alla
lontana alla mensilità di retribuzione ordinaria del dipendente vessato.
Si è espressa per la prima
soluzione una congrua (quanto iniziale) giurisprudenza di merito che ha così
statuito: "Costituisce
dequalificazione l'affidamento ad un
dirigente di mansioni inadeguate alla qualifica ed oggettivamente riduttive
rispetto a quelle in precedenza svolte, con conseguente diritto del dirigente
al risarcimento del danno da dequalificazione professionale, liquidabile in via
equitativa in una mensilità di retribuzione per ogni mese in cui sono state
svolte le mansioni non equivalenti"(17).
La Pretura di Roma ha anche
fornito una sintetica motivazione della scelta equitativa del parametro della
"mensilità" ordinaria di retribuzione - in congiunzione con la
percezione dello stipendio corrente - asserendo che " sussiste il diritto al risarcimento del danno che è liquidabile in
misura pari ad una mensilità di retribuzione per ogni mese di assegnazione alle
nuove funzioni, dovendosi ritenere che la retribuzione percepita dal lavoratore
compensi la prestazione delle mansioni inferiori ma non la sottrazione delle
mansioni originarie" (18).
Altra giurisprudenza
(19)si è orientata
per una quantificazione, in via equitativa, sulla base di criteri non
corrispondenti all'integrale mensilità
ordinaria ma ad una quota percentuale della stessa, graduata a scalare dal 70% al 20% in relazione diretta alla
maggiore o minore protrazione temporale della dequalificazione (atteso che
tanto maggiore è il nocumento quanto più prolungato è il demansionamento),
giungendo anche - sulla base del periodo di dequalificazione o forzata
inattività, dell'entità della dequalificazione e della retribuzione percepita -
a liquidare una somma forfettaria di diversa consistenza e giustificando il
mancato ricorso al precitato parametro di base della mensilità ordinaria, con
le seguenti argomentazioni: " Il
danno alla professionalità, in sede di quantificazione equitativa, non può
essere meccanicamente equiparato alla retribuzione del lavoratore danneggiato,
che remunera oltre alla professionalità elementi diversi quali il tempo di
lavoro, la penosità fisica di esso, lo sforzo intellettuale, cioè a dire non
solo la "qualità" ma anche la "quantità" del lavoro e
dunque serve solo come parametro di riferimento. E' evidente, infatti, che nel
caso di forzata inattività non sono
implicati gli aspetti inerenti la "quantità" o, per meglio dire, la
parte fisica e materiale della prestazione, con innegabile vantaggio per il
lavoratore..." (20).
A giustificazione di una
delimitazione "riduttiva" della misura del danno - per effetto anche
dell'applicazione dei principi di cui all'art. 1227 c.c.- una decisione della
Pretura di Roma (21) adduce l'eccessivo
"lasso di tempo" intercorso tra
la vessazione aziendale e la reazione giudiziale del danneggiato. Essa
delinea un "concorso di responsabilità" del danneggiato " per non essersi attivato per ottenere dal
datore di lavoro l'assegnazione di altre mansioni e per non aver partecipato a
corsi di aggiornamento professionale ed aver invocato solo a distanza di
diversi anni la tutela patrimoniale del proprio diritto" (22). Va
detto al riguardo, con tutta chiarezza, che, al lavoratore spostato a mansioni
non equivalenti e pregiudizievoli del pregresso bagaglio di professionalità
(ovvero lasciato in stato di inoperosita), oltre all'obbligo di far rilevare
all'azienda inadempiente l'illegittimità del proprio ostinato comportamento,
non si può far carico l'inerzia (23) ravvisata nella mancanza di suggerimenti
per soluzioni alternative ovvero il fatto di non essersi dato da fare (gli
compete, invero, addirittura il diritto, ex art. 1460 c.c., di rifiutare di
adempiere alle prescrizioni dequalificanti e di rimanere inattivo, con le
proprie energie a disposizione fino ad adempimento aziendale tramite
conferimento di mansioni professionalmente equivalenti!) per richiedere corsi
di riconversione e riqualificazione onde rendere legittima la richiesta
aziendale di disimpegno di una mansione implicante una professionalità
eterogenea, stravolgente e non gradita. Neppure gli si può addebitare una
presunta intempestività del ricorso giudiziale, considerato - per chi ha
dimestichezza della vita aziendale - che la scelta di convenire in giudizio il
proprio datore di lavoro è soluzione irreversibilmente traumatica e
massimamente sofferta e necessita di un'adeguata meditazione talché si
attualizza, di solito, nel momento in cui sono individualmente superate pesanti
condizioni psicologiche o nel momento in cui si è usciti da situazioni di
depressione e si intravedono segnali di recupero dello stato di salute
psico-fisica.
C'è poi da non dimenticare il
fatto che il datore di lavoro, nel rapporto di lavoro subordinato, detiene ex artt. 2094 e 2104 c.c., il potere
direttivo ed organizzativo con tutta pienezza e del suo cattivo uso deve essere
chiamato a rispondere con altrettanta pienezza, senza attenuanti (a danno del
lavoratore) e senza che si debba pretendere che il lavoratore si trasformi in
un "ausiliario" dell'imprenditore per l'assunzione delle decisioni
più corrette, tantomeno quando l'imprenditore dimostra concludentemente (per
trascuratezza delle lagnanze e delle richieste riparatorie) di non voler
prestare ascolto a chicchesia.
4. L'insorgenza ed il
risarcimento del danno biologico
Spesso dal demansionamento o
dalla forzata inattività - non dissimilmente che dalla condizione di
cassintegrato - conseguono causalmente pregiudizi allo stato di salute, sotto
forma affezioni ulcerose allo stomaco ed intestino, attacchi d'infarto,
sindromi psiconevrotiche, esaurimenti nervosi, depressioni, somatizzazioni
d'ansia e d'angoscia da destrutturazione della personalità e da senso di
inutilità sociale. Questi pregiudizi concretizzano il c.d. "danno
biologico", cioè a dire una nozione di danno extrapatrimoniale elaborata
nei primi anni '80 (ed oramai codificata in dottrina ed in giurisprudenza), che
consiste nella " menomazione
dell'integrità psico/fisica in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul
valore-uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella
sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni
naturali afferenti al soggetto nell'ambiente in cui la vita si esplica, ed
avente rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed
estetica" (24). Così definito, risulta evidente che tale danno
rappresenta la compromissione dell'efficienza somatopsichica dell'individuo,
utilizzabile per le esigenze della vita vegetativa e di relazione; vita di
relazione nella quale confluiscono le possibilità di estrinsecazione della
personalità individuale in ogni attività extralavorativa, l'aspetto estetico e
l'efficienza sessuale.
Da non confondere con il
"danno biologico" è il c.d. "danno morale" - costituito
dalla sommatoria delle sofferenze psichiche e morali (o patemi d'animo) - che,
invece, viene risarcito solo nell'ipotesi in cui l'evento che lo ha causato non
si limiti ad essere un inadempimento od un illecito datoriale ( ex art. 2043
c.c.) ma un vero e proprio reato ex art. 2059 c.c. e 185 c.p. (25)
5. Nesso di causalità e
quantificazione del danno biologico
Per la liquidazione del danno
biologico - addizionale a quello per lesione della professionalità - è
pressoché concorde opinione giurisprudenziale e dottrinaria che debba
essere assolto (dal lavoratore
ricorrente) un rigido onere probatorio circa la sussistenza di un nesso di
causalità (ovvero di concorrenza o concausa) dell'inadempimento o dell'illecito
datoriale (dequalificazione, forzata inattività, disconoscimento di diritti
legali e/o contrattuali, licenziamento ingiustificato, molestie sessuali ecc.)
ai fini della compromissione dello stato di salute o della serenità
psico/fisica. Una sentenza della Cassazione, già in precedenza citata, ha
stabilito che: "La potenziale
dannosità della condotta del datore di lavoro... non esime il lavoratore che
pretenda il risarcimento del danno dall'onere di provare l'effettiva
sussistenza di un danno patrimoniale, anche nella sua eventuale componente di
danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico, tale sussistenza
( non ricavabile da presunzioni semplici) costituendo il presupposto
indispensabile anche per una liquidazione equitativa"(26).
Non è mancato, nella giurisprudenza
di merito, chi ha sostenuto, peraltro, che " circa il nesso causale tra l'evento 'licenziamento-destituzione' e la
lesione del diritto alla salute, appare adeguato ad un criterio di normalità
sociale che l'esaurimento nervoso e lo stress indicato siano riconducibili alla
causa-licenziamento"(27),
senza pretendere una puntuale dimostrazione, dal lato medico, del nesso di
causalità del licenziamento ai fini dell'insorgenza e della determinazione
dell'esaurimento nervoso.
Nella pratica giudiziaria si
registrano, al momento, almeno 4 episodi di comprovata afflizione del sistema
nervoso, conseguenti a pratiche dequalificatorie, che hanno occasionato una
liquidazione del danno biologico - sempre su base equitativa ex artt. 1226 e
2056 c.c. e 113 e 432 c.p.c. - in misura direttamente proporzionale alla durata
della sindrome psiconevrotica, all'età o anzianità di servizio del danneggiato
ed alla sua retribuzione. Tra i casi più recenti si ricorda quello della
rimozione di un alto dirigente della Banca Nazionale del Lavoro dalla
responsabilità dell'area commerciale con conseguente messa a disposizione della
Direzione generale, quale "assistente" con incarichi di assoluta
inconsistenza contenutistica e qualitativa, caduto consequenzialmente in
depressione - con causalità comprovata da certificazione specialistica - al
quale il magistrato romano ha liquidato cumulativamente per il danno alla
professionalità e biologico, la somma di 500 milioni (28).
Ancora si registra il caso di
un dipendente della Compagnia Italiana Turismo, confinato per ben 11 anni
nell'inattività - riconosciuta dal Consulente tecnico d'ufficio quale concausa
preponderante della "angoscia
destrutturante e della psicosi ossessiva" che lo aveva colpito - a
favore del quale il magistrato ha liquidato, quale risarcimento del danno
biologico, la somma di 200 milioni, tenuto conto che l'infermità in questione
comportava una riduzione della capacità lavorativa specifica del ricorrente in
misura del 70%, considerate l'età ed il reddito all'epoca del verificarsi del
danno, avuto riguardo, sia pure a titolo di riferimento, alle tabelle di
capitalizzazione elaborate dalla dottrina in materia antinfortunistica ed approvate con R.D. 9/10/1922 n. 1043, nonché
ad una percentuale del 20% per lo scarto tra la vita fisica e la vita
lavorativa (29). Più remota, e non
condivisibile, una (negativa) sentenza della Cassazione (30) che ha, invece,
disconosciuto il risarcimento del danno biologico per "sindrome psiconevrotica a sfondo
irreversibilmente ipocondriaco" -
acclarata perizialmente come
indotta da un sistematico
disconoscimento datoriale del diritto ad inquadramenti contrattuali superiori
che aveva comportato un lungo periodo di amarezze, delusioni e frustrazione -
in quanto, a detta dell'estensore della decisione, il manifestarsi del disturbo
doveva essere considerato "eccezionale" ed " assolutamente
imprevedibile".
6. Il danno biologico ed il danno morale da
"molestie sessuali"
In tema di risarcimento del
danno biologico (per shock e turbamento della sfera emotiva) a seguito di
molestie sessuali sul posto di lavoro, induttive di dimissioni per giusta causa
della lavoratrice, si registra il caso di una lavoratrice dimessasi ex art.
2119 c.c. per indesiderato corteggiamento del proprio datore di lavoro, cui sono
stati liquidati 10 milioni per danno morale (strutturando il comportamento
datoriale il reato ex art. 610 c.p. o quello ex art. 56 e 521 c.p.), ed altri
10 milioni per danno biologico, consistente nella lesione – confliggente con
l'art. 2087 c.c. - della personalità
morale e della dignità della lavoratrice (31), nonché il caso di un'altra lavoratrice,
anch'essa dimessasi per giusta causa a seguito di molestie sessuali del
rappresentante legale della società (consistite in tentata violenza carnale),
alla quale il magistrato (32) ha riconosciuto, per risarcimento del danno
morale (riconducibile al turbamento
psicologico indotto dalla condotta delittuosa), la somma di 30 milioni ed altri 10 milioni, per il ristoro del danno biologico (concretantesi nell'alterazione
dell'integrità psico-fisica). Tale decisione è stata confermata dal Tribunale
di Milano (33)che ha condiviso in punto di diritto la sentenza di primo grado
asserendo che: "alla lavoratrice
che, in occasione di lavoro, abbia subito un'aggressione sessuale in azienda da
parte del preposto alla stessa, compete il risarcimento del relativo danno
biologico a carico dell'autore e
dell'azienda medesima – in via solidale ex art. 2087 c.c. – nonché del danno
morale, anche se la molestia ha agito nella determinazione del danno con ruolo
di concausa in ragione della particolare fragilità della personalità
dell'interessata che l'ha portata a risentire della violenza patita con una
sofferenza psichica ben maggiore di quanto accada ad altre persone, atteso che
la condotta – come insegna Cass. 20.12.1986 n. 7801 – è causa in senso
giuridico di un determinato effetto dannoso quando, sulla base di un giudizio
di probabilità ex ante, è
ragionevolmente idonea a provocare le conseguenze in realtà verificatesi"
.In ordine alla misura del risarcimento, tuttavia, il Collegio è giunto – in
via equitativa – a disporre una riduzione (di oltre il 50%) degli indennizzi
definiti, sia per danno biologico che per danno morale, dal primo giudice.
La Cassazione - occupandosi della competenza
giurisdizionale per il risarcimento del danno da "molestie sessuali"
– ha avuto occasione di puntualizzare
come la responsabilità del datore di lavoro rivesta natura contrattuale,
atteso che si fonda sulla violazione dei doveri su di esso gravanti ex art.
2087 c.c., a tal fine affermando che: "l'obbligo
previsto dall'art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di tutelare
l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, determina, in caso
di violazione di esso, una responsabilità contrattuale – rientrante nelle
competenze del giudice del lavoro – che concorre con quella extra contrattuale
originata dalla violazione di diritti soggettivi primari; tale obbligo non è
limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma (come si
evince da una interpretazione della norma in aderenza ai principi
costituzionali e comunitari) implica anche il divieto di comportamenti
commissivi lesivi dell'integrità psico-fisica del lavoratore, che in quanto
caratterizzati da colpa o da dolo (come le molestie sessuali o veri e propri
atti di libidine violenti) ed attuati durante l'orario dell'attività
lavorativa, sono perciò fonte di responsabilità contrattuale per inosservanza
della norma anzidetta, oltre ad integrare violazione dei doveri di buona fede e
correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c." (34). La natura
contrattuale della responsabilità datoriale e dell'azione risarcitoria del
vessato ha indubbie conseguenze sul piano dell'azione rivendicativa,
considerato che l'azione per il risarcimento di danno contrattuale si prescrive
in 10 anni, mentre si prescrive in 5 anni quella per il risarcimento del danno
extracontrattuale fondato sull'art. 2043 c.c. (afferente al risarcimento del
danno ingiusto da fatto illecito).
Tornando alla casistica
giudiziaria va segnalato come, più di recente, sia approdato a livello giudiziario il caso di una lavoratrice di una
boutique "molestata" per circa un biennio dal proprio superiore
gerarchico (sia per telefono sia con tentativi di palpeggiamenti a sfondo
sessuale sul posto di lavoro), cui il Tribunale di Milano (35) ha riconosciuto
congruo (anzi, forse peccante per difetto) il risarcimento, in ragione di 30
milioni c.a., liquidatole dal primo giudice per danno biologico e in ragione di
20 milioni per danno morale, in presenza del
reato di "molestie…alla
persona" ex art. 660 c.p. Da segnalare il fatto che il Collegio ha
ritenuto irrilevante – ai fini dell'esclusione, richiesta dal convenuto, del
nesso di causalità tra la condotta molesta ed il danno biologico indotto alla
ricorrente - la circostanza pacifica,
riscontrata dal CTU, dell'aver tale condotta insistito su "una preesistente struttura di personalità
della ricorrente, incapace di elaborare esperienze stressanti". Nel
merito e con specifico riguardo a tale circostanza, il Collegio ha asserito che "è proprio su soggetti psicologicamente meno attrezzati e più fragili
che possono prodursi gli effetti deleteri di comportamenti illeciti, gli altri
riuscendo a reagire non solo facendo scivolare sulla loro pelle gli effetti
della condotta, ma ancor prima, magari anche in forza di un'esperienza di vita
maggiore specie nel confronto con il 'potere' – si ripete che il convenuto era
il responsabile della boutique ed un
componente del Consiglio di amministrazione della società – e l'altro sesso,
ponendo il molestante nella condizione di lasciar perdere subito, ovvero
denunciandolo prontamente a chi di dovere. La preesistente struttura della
personalità, allora, non esclude affatto il nesso causale tra disturbo e
molestie…", soggiungendo poi
che "rientra nei limiti della
prevedibilità – ex art. 1225 – il fatto che dall'omesso intervento societario a
tutela della persona della ricorrente le potesse derivare un danno alla salute
cui consegue, pertanto, una correlativa
responsabilità contrattuale aziendale".
Traendo le conclusioni in tema di
responsabilità, va detto che la giurisprudenza di merito – in tema di
"molestie sessuali" – distingue quelle riconducibili al "danno
biologico" da quelle riconducibili al "danno morale", ricorrente
in presenza di fattispecie delittuosa, rilevante penalmente. Con la conseguenza
che per il ristoro del "danno biologico" derivante da "molestie
sessuali" arrecate alla lavoratrice, rispondono solidalmente (36) l'autore delle molestie ed
il datore di lavoro – quest'ultimo ex art. 2087 c.c., per non aver tutelato
l'integrità psico-fisica e la personalità morale della dipendente - , mentre
per il risarcimento del "danno morale" alla lavoratrice risponde il
solo autore dell'aggressione, con esonero di responsabilità dell'azienda al
riguardo.
7.
Conclusioni
Quello che sorprende dallo spoglio ed esame
delle fattispecie giudiziarie concernenti la lesione dei diritti della
personalità, oggetto di risarcimento – sia che essi attengano alle offese alla
dignità, immagine, reputazione professionale sia che afferiscano alla lesione
dell'integrità psico/fisica ed al ristoro del danno morale – è l'esiguità
dell'indennizzo, in senso assoluto, e massimamente in senso comparativo, se
come termini di raffronto si prendono similari fattispecie verificatesi nel
contesto anglosassone o americano (al cui cospetto i nostri indennizzi si
rivelano irrisori) ove più elevata è la
cultura del rispetto dei diritti della personalità e dell'integrità
psico-fisica degli individui.
Chiaramente indennizzi inconsistenti od
esigui sono privi di forza "deterrente" e non rispondono a
quell'appello che si è letto in una sentenza della Cassazione (37) che – giudicando una
fattispecie di dequalificazione attuata con tecnica di emarginazione per fini
di lottizzazione politica (praticata eminentemente in aziende del settore
pubblico allargato, ivi incluse quelle oggetto di privatizzazione) - ha asserito: "…un risarcimento vi deve essere, perché resti tutelata l'esigenza dello
svolgimento dell'attività lavorativa e della salvaguardia della personalità e
libertà del lavoratore".
Se, peraltro, insistiamo per una maggiore
incisività dell'indennizzo risarcitorio degli effetti e sanzionatorio della
condotta lesiva, nell'ottica di sollecitarne lo scoraggiamento della
reiterazione – in luogo della sostanziale indifferenza - , al sollecito si
coniuga l'amara constatazione per cui la "patrimonializzazione" dei
diritti della personalità costituisce la chiara spia dell'insufficienza del
nostro ordinamento a garantire l'effettività dei diritti medesimi, taluni dei
quali – in quanto costituzionalmente garantiti – non meritano un destino di
mercificazione.
In questa amara constatazione siamo stati
preceduti da un autore (38) che ha giustamente e condivisibilmente notato come
"il diritto alla salute e, più in
generale, i diritti della persona reclamano una protezione 'forte', proprio
perché la natura 'personale' della prestazione non può tollerare atti di
disposizione, anche indiretta, delle prerogative più gelose, massime se garantite dalla Costituzione".
"Tanto più estesa è l'effettività assicurata a tali diritti e l'efficienza
delle tecniche ripristinatorie, tanto minore è lo spazio, al limite residuale,
che dovrebbe riconoscersi alla risarcibilità sia del danno biologico sia dei
danni collegati alle lesioni inferte alle persone". Cosicché "l'estensione dell'area dei danni risarcibili – con una chiara propensione per
una lettura in chiave sanzionatoria, a guisa, cioè, di pena privata per una
tutela richiesta ma sostanzialmente negata – è il segno non tanto del
diffondersi di principi di civiltà giuridica, quanto della sostanziale
incapacità di rendere effettivi e coercibili diritti o pretese toccati
dall'esecuzione del contratto di lavoro…", "corrispondendo il tutto
alla logica per cui se una persona non può essere protetta, si paghi almeno un
prezzo…, che è poi la logica strisciante che tende a sostituire all'effettività
dei diritti della persona nell'ambito contrattuale prospettive risarcitorie che
condizionano ed orientano in concreto la stessa amministrazione del rapporto di
lavoro".
Mario
Meucci
Roma dicembre 1999
(pubblicato in Lav e
prev. Oggi 1999, n. 10, 1742 e ibidem 1999, n.12, 2347 ove trovasi
successiva integrazione – inclusa nel presente testo - dal titolo “Il
carattere immanente del danno da dequalificazione”- nota a Cass. n. 11127
del 18 ottobre 1999)
(1) Cfr. al riguardo Pret. Milano 28.3.1997, in Riv. crit. dir. lav. 1997, 791, secondo cui:"il danno alla professionalità è distinto dall'eventuale danno patrimoniale, biologico o morale che il fatto lesivo della dequalificazione può produrre, essendo il bene della professionalità una componente dell'identità professionale di ogni soggetto, protetto dall'art. 2 Cost. anche attraverso l'attribuzione di veri e propri diritti soggettivi, ed è pertanto risarcibile di per sé, indipendentemente dalla risarcibilità degli ulteriori effetti lesivi che l'inadempimento può provocare sul piano patrimoniale (perdita di chanches sul mercato del lavoro), biologico (danni all'integrità psico-fisica) o morale (dolore, umiliazione)".
(2) Così , nella giurisprudenza di merito, lo definisce anche Pret. Monza 14.11.1994, in Riv. crit. dir. lav. 1995, 375.
(3) Su questi aspetti o componenti del danno
si intrattiene Pret. Nocera Inferiore 20.1.1998, in Riv. crit. dir. lav. 1998, 718 che qualifica come "reiterato
comportamento illegittimo che ha assunto, di per sé, notevole rilevo nella
sfera personale e professionale del ricorrente, con conseguenti ripercussioni
negative sulla persona nei suoi vari aspetti: la dignità umana, la personalità
e la salute", il trasferimento accompagnato da demansionamento di un
dipendente della Telecom "che in
precedenza godeva di una posizione di
superiore gerarchico con conseguente direzione di personale a lui direttamente
sottordinato, ridotto, con le nuove mansioni, non solo un sottordinato ma un
sottordinato privo, a sua volta, di personale da dirigere". Conf.
nel porre l'attenzione sul "danno all'immagine e reputazione
professionale", Trib. Milano 16.12.1995, ibidem 1996, 458.
(4) Così Cass. ,
sez. lav., 28.3.1995, n. 3623; Cass., sez. lav., 11.1.1995, n. 276; Cass., sez.
lav., 22.4.1995, n. 4561; Cass.
13.11.1991, n. 12088; Cass. 10.2.1988, n. 1437; Cass. 6.6.1985, n. 3372, in Foro it. 1986, I, 142; Cass. 15.6.1985,
n. 4106, in Giust. civ. 1984, I, 233,
con nota di Ghinoy, Sulla equivalenza
delle mansioni del lavoratore.
(5)
Così Cass.,
sez. lav., 4.10.1995, n. 10405, in Riv.
it. dir. lav. 1996; II, 578, con nota di Bano, Su mansioni e diritto a lavorare; in Foro it. 1995, I, 3133. Conf.: Trib. Milano 30.5.1997, cit.; Cass. 15.7.1995, n. 7708, in Riv. it. dir. lav. 1996,II,424, con nota
(dissenziente) di Vallebona; Trib. Ferrara 1.6.1993, in Lav. prev. oggi 1993, 2053 con nota di Meucci, Ius variandi e ordine giudiziale di consentire al lavoratore di
lavorare; Cass 13.11. 1991 n. 12088, in Dir
e giur. 1992, 587; Cass. 13.7.1991, n. 8835, in Riv. it. dir. lav. 1992, II, 954, con nota di Focareta (critica in
ordine all'onere probatorio addossato al lavoratore), Sottrazione di mansioni e risarcimento del danno; Cass. 16.3.1992,
n. 3213, in Dir. prat. lav. 1992,
1455; Cass. 17 .1.1987, n. 392, in Giust.
civ. 1988, 2368, con nota di Massart, Mutamento
(e riduzione) di mansioni; Trib. Roma 28.2.1990, in Lav. 80, 1990, 659 con nota di Muggia, Condotte datoriali illegittime e danni risarcibili; Pret. Milano
27.11.1989, in Lav. 80, 1990, 100,
con nota di Tagliagambe, Riflessioni in
tema di condanna in forma specifica e risarcimento del danno, in ipotesi di
violazione dell'art. 13 S.L.
(6) Così Cass. n. 10405/1995, cit; Conf. Cass. 14.7.1993, n. 7789.
(7) In Riv. crit. dir. lav. 1998, 704. Conf. nel sottolineare il "danno all'immagine e reputazione
professionale", Trib. Milano 16.12.1995, cit.; Pret. Milano 28.10.1994,
ibidem 1995, 374. Conf. nel richiamo
al "danno alla personalità del lavoratore" Cass. 16.12.1992, n.
13299, in Foro it. 1993, I, 2883
nonchè in Riv. crit. dir. lav. 1993,
315, cion nota di Muggia, Lottizzazione,
diritti della persona e danni risarcibili;
Pret. Roma 3.10.1991, ibidem 1992,
390, anch'essa con nota di Muggia.
(8) In Riv. crit. dir. lav. 1998, 421.
(9) In Riv. crit. dir. lav. 1996, 677.
(10) In Riv. crit. dir. lav. 1996,458.
(11) In Riv. crit. dir. lav. 1997, 348.
(12) In Lav. giur. 19998, 140 con ampio commento di Boscati.
(13) Per la quale
vedi, da ultimo, Montuschi, Problemi del
danno alla persona nel rapporto di lavoro, in Riv.it.dir.lav. 1994,I,317.
(14) Sul danno da
perdita di "chances", si
rinvia, tra i molti autori, a Raffi, Danni
alla professionalità e da perdita di "chance", in Danno biologico e oltre. La risarcibilità
dei pregiudizi alla persona del lavoratore (a cura di Pedrazzoli), Torino
1995, 61; a Musy, Sicilcasse e il danno da perdita di chance, in Giur. it. 1994, I,1, 234 ( nota a Cass. n. 5026/1993); a Nocella
M., Concorsi privati, perdita di chance e
risarcibilità del danno, in Dir. lav.
1994,II, 314; a Princigalli, Perdita di
chance e danni risarcibili, in Resp.
civ. e prev. 1985, 315 e ss.
(15) Così Pret.
Milano 21 gennaio 1992, in Riv. crit.
dir. lav 1992,417; conf. Trib. Roma
28 febbraio 1990, in Lav. 80 1990, 659; Pret. Milano 8 aprile 1993,
in Riv. crit. dir. lav. 1993,659;
Pret. Roma, 25 marzo 1988, in Riv. giur.
lav. 1989,II,160.
(16) Così Cass. 13 agosto 1991, n. 8835, in Riv. it. dir. lav. 1992,II,954, con nota
critica di Focareta in ordine all'onere probatorio. Conf. Cass. 4.2.1997 n. 1026, in Not.
giurisp. lav. 1997, 204; Pret. Roma 3 ottobre 1991, in Riv. crit. dir. lav. 1992,
390, con nota critica di Muggia
anch'esso sull'onere probatorio a carico del prestatore di lavoro. Ad
esse si conforma, in ordine all'onere probatorio a carico del lavoratore per la
liquidazione del danno biologico, Cass. 18.4.1996, n. 3686, in Riv. giur. lav. 1996, II, 33 e in Not. giurisp. lav. 1996, 456,n.21 (m);
Cass. 9.6.1997, n. 5149.
(17) Così, Trib. Roma 19 ottobre 1993, in Lav. giur. 1994,n.4.,382; conf. Pret.
Milano 17 giugno 1993, in Or.giur.lav.
1993,821; Pret. Milano 8 aprile 1993, in Riv.
crit. dir. lav. 1993, 659; Pret. Milano 28 dicembre 1990, in Riv. it. dir. lav. 1991, II, 388 con
nota adesiva di Pera; Pret. Milano 20
agosto 1990 , in Or.giur. lav.
1991,14; Trib. Milano 6 ottobre 1989, in Lav.
80 1990, 144; Pret. Milano 10 marzo 1989, ibidem 1989,411.
(18) Così Pret. Roma 25 marzo 1988, in Riv. giur. lav. 1989, II, 160, con nota di Bonavoglia.
(19) Cfr. Pret. Milano 9.4.1998, cit.; Pret.
Milano 9.12.1997, cit.; Trib. Milano 30.5.1997, in Riv. crit. dir. lav., 1997, 789; Trib. Milano 6.7.1996, ibidem 1997, 121; Cass. 16 dicembre
1992, n. 13299, in Foro it. 1993, I,
2883; Pret. Milano 13 ottobre 1992, in Or.
giur. lav. 1992, 863; Pret. Napoli 10 ottobre 1992, in Foro it. 1993,I,2883; Pret. Milano 21 gennaio 1992, in Or. giur. lav. 1992,831; Trib. Firenze 1
febbraio 1991 in Riv. it. dir. lav.
1991,II, 615; Trib. Roma 28 febbraio 1990, in Lav. 80 1990,659; Pret. Milano, 4 marzo 1987, ibidem 1987, 433; Pret. Roma 15 maggio 1986, in Riv. it. dir. lav. 1987,II, 541; Pret.
Legnano 6 maggio 1985, in Dir. prat.lav.
1986, n.1, 49.
(20) Così Pret. Milano 21 gennaio 1992, cit.
A se stante si colloca Cass. 26.2.1994, n. 1982, in Not. giurisp. lav. 1994, 603, la quale per la liquidazione del
danno alla professionalità conseguente ad una "parziale"
dequalificazione (e connesso inquadramento in categoria inferiore in occasione
di ristrutturazione aziendale) ha adottato, condividendo il giudizio equitativo
della magistratura di grado inferiore, il parametro di "1/3 della
differenza fra la retribuzione fruita e la
retribuzione prevista per la qualifica superiore" (in luogo
dell'integrale differenziale retributivo tra le due qualifiche) rispetto a
quella posseduta dai demansionati e sottoinquadrati, giacchè ha ritenuto
sussistente una dequalificazione relativamente circoscritta a quota parte delle
mansioni di pertinenza, rientranti nella qualifica superiore rivendicata.
(21) Pret. Roma 20.2.1995, in Lav. prev. oggi 1996, 1375, con nota di Meucci, Replica ad una annotazione in tema di equivalenza professionale
(di Pollera, titolata La questione
dell'equivalenza delle mansioni nell'area della professionalità intellettuale
più elevata, in Riv. it. dir. lav.
1996, II, 65).
(22) Così espressamente Pret. Roma 20.2.1995, cit.
(23) Nel nostro stesso senso Trib. Milano 30. 5.1997,
cit., secondo cui: " Non si può tenere conto per la liquidazione del danno ai sensi dell'art. 1227 c.c. del
fatto che il lavoratore dopo la dequalificazione, si sia, per così dire
'rassegnato' a non lavorare perché si tratta di una reazione giustificabile e
congrua rispetto al comportamento tenuto dall'azienda dopo l'impegno assunto in
sede di conciliazione;il lavoratore avrebbe potuto, a norma dell'art. 1460
c.c., rifiutare la prestazione ritenuta dequalificante e rendersi disponibile
rimanendo al suo domicilio (v. Cass. 12121/95, in Riv. it. dir. lav. 1996, II,
796)".
(24) Così, tra le molte, Cass. 26 novembre
1984, n. 6134, in Riv. giur. lav.
1985,II,689. conf. Corte cost. 14.7.1986, n. 184, in Foro it. 1986, I, 2053; Corte cost. 26.7.1979, n. 88, ibidem 1979, I, 2542. In dottrina vedi,
tra i molti autori, Poletti, Danno alla salute e diritto del lavoro,
in Bargagna-Busnelli (a cura di), La
valutazione del danno alla salute, Padova 1988, 269 e ss. Pedrazzoli (a
cura di), Danno biologico ed oltre,
cit.; Pajardi, Il "danno
psicologico", in materia di lavoro, ecc., in Dir. lav. 1991, I, 346.
(25) Sulla legittimità della riserva da parte degli
art. 185 e 2059 c.p. del risarcimento
del danno morale solo al ricorrere del
reato – che può essere riscontrato dal giudice anche in via incidentale – vedi
Corte cost. 22.7.1996, n. 293, in Foro
it. 1996, I, 2963, la quale ha giudicato non fondata la questione di
costituzionalità dell'art. 2059 c.p., sollevata dal Tribunale di Bologna in riferimento agli art. 24 e 32 Cost., "nella parte in cui esclude la
risarcibilità del danno morale al di fuori di accertate ipotesi di reato".
Tuttavia tale rigidità (limite o collegamento del danno morale al reato) è in
via di rimozione – tramite sganciamento del risarcimento del danno morale dalla
ricorrenza dell'ipotesi delittuosa - ad
opera del d.d.l. n. 4093 del 1999 sulla
nuova disciplina del danno alla persona (biologico e morale) presentato al
Senato l’11 giugno 1999 dal Ministro di
Grazia e Giustizia Diliberto ed altri.
(26) Così Cass. 13 agosto 1991, n. 8835,cit.; conf. Cass. 18.4.1996, n. 3686, cit.; Trib. Roma
19 ottobre 1993, cit.; in dottrina, sul danno biologico, v., esaurientemente,
Lanotte, Danno biologico: natura
giuridica e sua risarcibilità, in Mass.
giur. lav. 1995, 259 e bibliografia ivi citata.
(27) Così Pret. de L'Aquila 10 maggio 1991, in Foro it. 1993,I,317.
(28) Così Pret. Roma 17 aprile 1992, in Lav.
prev. oggi 1992, 1172 con nota adesiva di Meucci : Risarcimento per dequalificazione e per danno biologico; conf. Cass. 24 gennaio 1990 n. 411 ibidem 1990, 2387, con nota di Meucci: Condotta illegittima datoriale e danno
psichico al lavoratore.
(29) Così Pret. Roma 3 ottobre 1991, in Riv. crit. dir. lav. 1992,390.
(30) Cass.n. 7801 del 20 dicembre 1986, in Riv. it. dir. lav. 1987,II, 578, con
nota decisamente critica di Meucci titolata,
Sistematico disconoscimento datoriale di meriti e diritti e danno alla salute
psichica del lavoratore, cui adde,
Danno alla salute psichica del lavoratore
per illegittimo comportamento datoriale, nel volume di Meucci, Il rapporto di lavoro nell'impresa, ESI,
Napoli 1991, 132 e ss.
(31) Pret. Trento 22 febbraio
1993, in Giust. civ. 1994,I, 555 con
nota di Raffi; in Riv. it. dir. lav.
1994, II, 172, con nota di Poso, Dimissioni
per giusta causa della lavoratrice che abbia subito molestie sessuali e
risarcimento del danno. Detta decisione ha esteso – con una certa arditezza
- alle dimissioni "indotte"
(e non volontarie) anche il trattamento indennitario previsto per il
licenziamento ingiustificato dall'art. 2 L. n. 108/'90.
Conf. Pret. Milano 14.8.1991, in Or. giur. lav. 1991, 888 che ha
riconosciuto alla lavoratrice molestata e dimessasi per giusta causa il
risarcimento del danno biologico e del danno morale, asserendo che:"sono ravvisabili gli estremi della giusta
causa di dimissioni nelle molestie sessuali perpetrate dal datore di lavoro nei
confronti di una dipendente, approfittando oltre che della sua condizione di
donna, della sua condizione di lavoratrice subordinata, esposta, come tale, non
solo alla superiorità fisica dell'aggressore, ma anche al ricatto morale e
psicologico, giocato dal datore di lavoro in ragione della posizione di
supremazia e di forza che gli deriva dall'essere non solo l'arbitro di gran
parte del tempo e delle energie della lavoratrice, ma anche del futuro
andamento del rapporto di lavoro e della sua stessa possibilità di
sopravvivenza".
(32) Pret. Milano
14 agosto 1991, in Riv. it. dir. lav.
1992,II,403 con nota di Poso.
(33) Trib. Milano 19.6.1993, in Riv. crit. dir. lav. 1994, 130.
(34) Così Cass.
17.7.1995, n. 7768, in Not. giurisp. lav.
1995,740. Cfr. anche Cass. 1.2.1995, n. 1168, ibidem 1995, 421; Cass 6. 3. 1995, n. 2577 e Cass. 5. 10.1994, n.
8090 (inedite per quanto consta).
(35) Trib Milano 21.4.1998,
in Riv. crit. dir. lav. 1998, 957.
(36) Così Trib. Milano
19.6.1993, cit.
(37) Trattasi
di Cass. 16.12. 1992, n. 13299, cit., condivisa e richiamata – in senso adesivo - recentissimamente da Cass. 18
ottobre 1999, n. 11727 , in Lav. prev. Oggi 1999, 2342, con nostra nota
dal titolo “Il carattere immanente del danno da dequalificazione”.
(38)
Montuschi, Problemi del danno alla
persona nel rapporto di lavoro, cit., 335-336.
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